19 luglio 1992,l’orologio non punta ancora le 17.00, quando la furia della guerra dichiarata dalla mafia allo Stato deflagra l’auto di scorta del giudice Borsellino, in via D’Amelio. Un’auto, una vecchia Fiat 126 imbottita di esplosivo, innescata a distanza, cancellava la vita del giudice palermitano e la sua scorta. Cosa Nostra, governata dai Corleonesi, a suon di tritolo, lanciava nuovamente un gravissimo monito alle Istituzioni, con l’eliminazione fisica dell’altro giudice, dopo Falcone, simbolo dell’antimafia. Non un giorno qualunque, non un sacrificio qualunque. Ma uomini che hanno scritto pagine degne di un Paese che cercava il fresco profumo della libertà. La mafia andava combattuta, ieri come anche oggi. Le celebrazioni di via d’Amelio , quest’anno avvengono in giorni di burrasca per la regione Sicilia e per il suo governatore Crocetta. Se, davvero la telefonata, così come riportato da “L’Espresso”, è avvenuta è giusto chiedersi perché un presidente di una regione come la Sicilia, torturata per mano mafiosa, sia rimasto in silenzio di fronte ad una frase così orrenda. Così in contraddizione rispetto alla lotta alla mafia. Voglio credere e sperare che sia in buona fede, che davvero in quella telefonata ci sia stata una zona d’ombra o un calo di linea, che non ha permesso al presidente Crocetta di poter udire quella frase. Fa bene parlarne per risvegliare tante coscienze, specie di quelle che governano in Sicilia come in Italia. Non si tratta di un dibattito sulle intercettazioni, farle o non farle, pubblicarle o meno, si tratta soprattutto di assumersi le proprie responsabilità, specie in territori difficili e martoriati. Non bisogna restare in silenzio davanti alla mafia, davanti alle minacce dirette o indirette che siano. E’ tempo che il sacrificio di molti uomini e donne non resti solo un bel proclama un po’ retorico.