Archivi tag: #mafia

La nuova vita sociale dei beni confiscati alla mafia

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messCase, ville, ricchezza ostentata, nei sotterranei o in stanze nascoste: i luoghi dove i boss convocavano gli imprenditori che tenevano sotto scacco. Beni finiti dopo gli arresti nelle mani dello Stato. Un passaggio di proprietà da “cosa loro” a “cosa nostra” . Sono quasi 18 mila in Italia, spesso si confondono in abitazioni comuni, i beni confiscati alla criminalità organizzata, oggi divenuti avamposti di legalità, grazie alla legge 109 del 1996, sul riutilizzo sociale dei beni confiscati alle organizzazioni criminali. Una svolta epocale nel contrasto alle mafie nel nostro Paese. Un sogno divenuto realtà, grazie all’impegno pagato con la vita dall’allora segretario regionale del Pci Pio La Torre, e dell’organizzazione fondata da don Luigi Ciotti, di Libera. Oggi, fa sapere Libera, sono oltre cinquecento le realtà che l’organizzazione gestisce in quelle terre e in quegli immobili, con l’onere non indifferente di trasformarli in luoghi di lavoro, di formazione, di cultura, di accoglienza e servizio alle persone deboli. La nuova vita dei beni confiscati alla mafia passa attraverso il terzo settore, infatti, l’accordo siglato tra il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, l’Agenzia Nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, l’Agenzia del Demanio e l’Associazione Nazionale Comuni Italiani per destinare agli enti del Terzo settore i beni immobiliari pubblici inutilizzati e quelli confiscati alla criminalità organizzata. L’accordo firmato negli ultimi mesi del 2017, prevede che gli enti destinatari devono predisporre progetti destinati alla riqualificazione di aree degradate, al miglioramento del contesto urbano e sociale, all’incentivazione di iniziative di legalità e all’inclusione sociale dei soggetti svantaggiati. L’immobile potrà essere restaurato e utilizzato per un’attività di interesse generale. Le donazioni e le erogazioni liberali raccolte per coprire i costi di tali operazioni godono, inoltre, di un incentivo fiscale del 65% per le persone fisiche e del 50% per le persone giuridiche. Così i beni dello Stato, inutilizzati, circa un migliaio di immobili per una superficie di oltre 600 mila quadrati a cui si aggiunge in alcuni casi tutto il patrimonio di beni pubblici di proprietà degli enti locali e degli altri soggetti pubblici, diventa avamposto di legalità e ritorna a vivere nel riutilizzo sociale. Da nord a sud gli esempi sono tanti e belli. A Pagani, nel salernitano, quel bene confiscato al boss Mario Pepe, oggi rivive diventando luogo di aggregazione per le persone con autismo, grazie all’associazione “Autismo fuori dal Silenzio”. Confiscato alla criminalità organizzata e assegnato nel 2016 per sette anni, tramite bando comunale, all’associazione che di quell’immobile ne ha fatto la sua sede, creando un centro di servizi e segretariato rivolto a bambini e giovani con autismo e alle loro famiglie, che si caratterizzerà anche come presidio per consulenze specialistiche e attività di supporto psicologico ai genitori. E nella città di Pagani, sembra soffiare il vento della legalità e del riutilizzo, infatti, un altro appartamento confiscato allo stesso boss Mario Pepe, è stato destinato con gara pubblica ad un’altra associazione cittadina, che in queste settimane ha iniziato i lavori di ristrutturazione per dare nuova vita al bene. Dall’illegalità alla solidarietà così i beni sottratti al potere criminale diventano avamposti di legalità tramite bandi pubblici e idee che vengono messe in pratica, ridando vita a case, palazzi, appartamenti che hanno nascosto segreti per troppi anni e che sanno di puzzo di compromesso e di illegalità ma che oggi diventano speranza e riscatto, unendo il sociale e la solidarietà. Palestre di democrazia, occasioni di lavoro pulito, vero, di accoglienza per le persone fragili e in difficoltà, di formazione e di impegno per molti giovani e professionisti del settore sociale. Segni di speranza in territori dove il crimine e gli affari criminali hanno fatto da padrona, dimostrazioni di ribellione alle mafie da comuni cittadini che partecipano all’assegnazione del bene per darne nuova vita. Segno di una politica, di un mondo cattolico ma anche laico, che insieme ad istituzioni, associazioni, amministratori si assume la responsabilità del bene comune, perché quei beni sono di tutti noi “sono cosa nostra” ed è bene che i cittadini, le scuole, i più giovani lo sappiano, che i beni aprano le porte per accogliere e raccontare i risultati raggiunti ma anche evidenziare i nodi e le contraddizioni che ci sono e vanno risolte, ma anche l’infinita bellezza che assume il bene che rivive nel fresco profumo della legalità nel suo secondo tempo di vita.

(Articolo pubblicato per il mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

Contrassegnato da tag , , , , , , ,

Piccoli mafiosi, il destino scampato dei figli della camorra

img_0217Mani piccole e veloci che confezionano dosi di droga, le mani dei bambini usati come pusher. A 8 anni confezionano le dosi. A 12 già spacciano. Sono i bambini usati dalla camorra per gestire il mercato della droga. Accade a Napoli, dove qualche settimana fa i carabinieri hanno arrestato 45 persone affiliate al clan Elia. Figli della criminalità organizzata, bambini a cui l’infanzia viene negata: sparano, maneggiano la droga, interpretano il ruolo di piccoli boss. Per questo i giudici del tribunale per i minorenni spesso decidono di allontanarli dalle famiglie criminali. Togliendoli ai padri – padrini per offrirgli un’alternativa alla vita che gli adulti hanno scelto per loro. Allontanare un figlio dai suoi genitori, anche peggiori, non è mai una soluzione indolore. Lasciarlo, però, in balia di una famiglia che di mestiere confeziona pacchi di eroina, significa arrendersi alle leggi della malavita, compreso testimone alla successione nell’attività criminale. E’ in questo stretto corridoio tra due limiti opposti che i giudici decidono per l’allontanamento dei figli ancora minorenni dalle famiglie criminali. “Contesto pregiudizievole”, via i figli ai bossi della camorra di Napoli. A distanza di un mese dall’arresto dei 45 affiliati al clan Elia, i giudici hanno sottratto i figli alla responsabilità genitoriale. Il Tribunale dei minorenni di Napoli, ha disposto per loro l’accompagnamento in case famiglie in diverse regioni d’Italia, comunque fuori dai confini della regione Campania. I bambini erano impiegati totalmente nella piazza di spaccio, alcuni di loro non andavano a scuola ed erano già stati segnalati ai servizi sociali. I giudici dei minorenni hanno deciso che quello non era l’ambiente giusto per crescere e hanno allontanato i ragazzini. Restare nelle loro abitazioni, hanno scritto i giudici “affidati alla cure delle rispettive famiglie, significherebbe farli restare in un contesto che è stato per loro gravemente pregiudizievole”. Non solo: i bambini prendevano parte al confezionamento e allo spaccio delle dosi delle sostanze stupefacenti, per loro scatta anche il divieto assoluto di intrattenere rapporti con la propria famiglia, perché – scrivono i giudici- è necessario recidere i deleteri legami ambientali che hanno già potenzialmente compromesso l’equilibrio sviluppo dei minori”. Un provvedimento storico quello adottato dal tribunale per i minorenni di Napoli. Un provvedimento simile si era verificato già lo scorso anno a Reggio Calabria, dove i giudici hanno iniziato a sperimentare questo nuovo strumento per la lotta alla criminalità. I dati dicono che sarebbero già ottanta i bambini sottratti alla ‘ndrangheta, sempre rispettando il diritto e applicando la legge, senza forzature o scorciatoie. In effetti, gli strumenti offerti dalle norme sono diversi. Consultando il codice penale, questo consente di allontanare un minore dalla propria famiglia in caso di abusi sessuali, con una piccola riforma, l’articolo è stato esteso anche ai maltrattamenti. Ecco che in Calabria ne hanno fatto tesoro: il minore, figlio di un boss, a cui gli viene insegnato a sparare, può essere considerato un bambino “maltrattato” e allontanato dalla sua famiglia, fino alla decadenza della responsabilità genitoriale (ex patria potestà). Un secondo strumento legislativo che risale addirittura all’Italia monarchica, colpisce i “comportamenti irregolari”, anche se non costituiscono un vero e proprio reato specifico. Ai minori al disotto dei 14 anni non gli può essere imputato nulla, ma è prevista l’applicazione di particolari misure di sicurezza. In tutti i casi, una volta sottratti ai boss, con mogli loro complici, i figli dei criminali vanno in una comunità, in una casa famiglia, in un servizio sociale sul territorio, gestito dal comune, o in un servizio sociale che fa capo al ministero della Giustizia. Un primo passo che li allontana dal crimine, dal destino segnato che da adulti inevitabilmente li porta al carcere e al regime del 41 bis. Il distacco dalla famiglia è una strategia iniziale che và però seguita passo dopo passo, si tratta di bambini che si ritrovano lontano dal loro solito contesto, dai loro genitori, di bambini che si sentiranno forti o spaesati, che andranno supportati dagli psicologi, ma anche educatori, sarà compito dell’assistente sociale trovare per loro una soluzione a lungo termine e duratura, che abbia senso di famiglia, di accudimento, di indirizzo educativo. L’obiettivo primario dovrebbe essere ancor prima di drastiche misure: sconfiggere e contrastare la cultura della prepotenza e della sopraffazione, che dilaga non solo nelle case dei camorristi. La partita della prevenzione si gioca non nelle aule dei tribunali ma sul territorio, dove si è fragilissimi. I territori fanno i conti con la carenza di assistenti sociali nei comuni, che ricevono segnalazioni, ma non hanno le forze, gli strumenti, il tempo, per cercare di approfondirle, seguirle e speso non riescono ad impedire la crescita criminale di un minorenne. Una crescita che prevede una sorta di percorso fatto di tappe: prima la consegna a domicilio di una busta con la richiesta del pizzo o con una dose di eroina, poi l’attentato incendiario o l’avvertimento dimostrativo, e infine la lezione, armi in mano, per diventare uno spietato killer. Tutto in famiglia. 

Pubblicato su “il denaro.it”

Contrassegnato da tag , , , , , ,

L’Italia, il paese dei comuni sciolti per mafia. La metà si trova in Campania

IMG_0217Poche righe: tre per l’esattezza nel comunicato stampa di resoconto della seduta venerdì mattina (27/01/2017) del Consiglio dei Ministri. Poche parole che sanciscono l’epilogo della lunga vicenda giudiziaria e dell’esperienza politica di Pasquale Aliberti, sindaco di Scafati. Il Consiglio dei Ministri ha deciso di sciogliere per infiltrazioni mafiose il consiglio comunale di Scafati. Il provvedimento che da Roma approda nella cittadina salernitana è solo l’ennesimo che sancisce un’Italia sciolta per mafia. Un paese dai Comuni sciolti per collusione con la criminalità organizzata. Dal 1991 anno in cui fu approvata dal Parlamento italiano la legge 221, sono 258 i comuni sciolti per mafia, per una media di uno ogni mese. Da circa un quarto di secolo ogni mese un municipio viene commissariato per infiltrazioni della criminalità organizzata, è questa la fotografia dei comuni italiani dal 1991, anno in cui è stata introdotta la speciale legge che prevede il commissariamento per i comuni in cui viene accertata l’infiltrazione della criminalità. Spulciando l’elenco dei comuni sciolti per mafia, si passa dai piccoli municipi ai comuni come Reggio Calabria, che detiene il triste record. La legge sullo scioglimento delle amministrazioni “a rischio infiltrazioni mafiose” non ha fatto sconti, e dal 1991 al 2014, nella sola Calabria, tra giunte e consigli mandati a casa su richiesta delle prefetture calabresi sono state 79. La Calabria si pone al secondo posto tre le regioni italiane nella quale la legge è stata applicata, con una situazione leggermente migliore in Campania e leggermente peggiore della Sicilia. L’ultimo caso in ordine di tempo è quello di Platì, comunità dell’entroterra della locride, dove nessuno vuole fare più il sindaco convinto che il comune sarebbe comunque sciolto per mafia a causa della nomea dovuta all’elevata densità mafiosa o delle parentele scomode. Di fatti, a Platì, tranne qualche piccola parentesi, dal 2003 non c’è un’amministrazione, a poco sono servite le elezioni della scorsa primavera. Nessuna lista si è presentata alla competizione elettorale. Con dati alla mano, si nota, come dall’entrata in vigore della legge sono oltre 4 mila gli scioglimenti “ordinari” , municipi che per vari motivi hanno interrotto la loro attività in via ordinaria, per dimissioni dei consiglieri, mozioni di sfiducia, o tutto ciò che prevede l’articolo 141 del testo unico sugli enti locali. Ma tornando alla legge, il risultato della sua applicazione è impressionante: 175 enti sciolti ogni anno, vale a dire un comune commissariato ogni due giorni. Ma nella lista dei comuni sciolti per infiltrazioni, la metà si trova nella sola Campania. Gli ultimi in ordine di tempo sono Boscoreale e Brusciano, per sospette infiltrazioni e condizionamenti della criminalità organizzata. Dal 1991 anno dopo anno, decreto dopo decreto, la Campania ha iniziato a collezionare il triste primato del maggior numero di amministrazioni colpite da questa nuova arma nella lotta alla criminalità organizzata. Dal 1991 circa la metà, 44,3% dei provvedimenti di scioglimento adottati in Italia, hanno interessato enti campani, cinquantanove in tutto, dodici dei quali nel corso degli anni sono stati sciolti ben due volte. Località essenzialmente concentrate sono tra la provincia di Napoli e Caserta. Quasi mezzo milione di abitanti, risiede nel territorio di comuni campani attualmente commissariati.

 

Contrassegnato da tag , , , , , ,

Lady mafia, donne d’onore e di disonore

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messDonne potenti, donne di mafia, che spesso si trovano a gestire un potere immenso, in contesti sociali in cui paradossalmente la donna ha sempre dovuto faticare più del dovuto per imporsi. Ma la criminalità organizzata, con i suoi legami di sangue e le sue mille contraddizioni, offre uno spaccato inedito, dove emergono donne protagoniste di vicende incredibili, connotate da una dose massiccia di potere e ferocia.
Lady mafia, le chiamano. Sono il collante tra la perfetta compagna di un uomo d’onore ed una delicata posizione nell’ambiente domestico: quella di essere una sorta di culla della mafiosità, ad esse è deputata la trasmissione di valori tipicamente mafiosi, come il culto del rispetto nella sua accezione più negativa del termine e dell’onore che caratterizza e differenzia la posizione dell’uomo d’onore rispetto all’uomo comune, a questo ruolo non vengono chiamate donne qualunque ma coloro che provengono già da un ambiente mafioso.
Donne di mafia, che reggono le fila di rapporti intrecciati, gestiscono cosche e portano avanti affari quando i “loro uomini” sono in carcere, impartiscono ordine e guidano i rapporti. Sono donne d’onore ma anche del disonore. Sono “infami”, commettono “sgarri” imperdonabili, sono determinate e forti ma anche profondamente fragili quando si devono difendere. E la legge di mafia non perdona. Chi sbaglia paga. L’errore viene punito anche dalla stessa famiglia. Ci sono donne che si sono ribellate alla ‘ndrangheta e hanno pagato un prezzo altissimo e ci sono donne di ‘ndrangheta che, oggi, sono ancora fedeli alle regole che i mafiosi si sono dati sin dalla nascita delle organizzazioni criminali.
L’acido muriatico è un simbolo mafioso. Serve per pulire i bagni e tradotto nel loro linguaggio, vuol dire che chi tradisce e parla, si pente, deve essere ripulito nello stesso modo in cui si puliscono i “gabinetti”. A cui vengono paragonate: sudici ed indegni. Cancella ogni traccia. L’acido. Deturpa. Prova una lunga agonia e dolori fra i più insopportabili. Morte nell’acido è questa la fine che attende mogli e fidanzate di boss che si pentono ed iniziano a collaborare con la giustizia. Neanche loro sfuggono alla barbara esecuzione che nei codici mafiosi tocca agli “indegni”.
Ex donne di mafia che decidono di collaborare con la giustizia, per riassaporare il fresco profumo della legalità e della legge. Le donne che hanno spezzato un sistema, come la donna e mamma, Maria Concetta Cacciola, la giovane testimone di giustizia morta nella sua casa di Rosarno dopo aver ingerito acido muriatico. Dalle indagini emersero particolari inquietanti che coinvolgevano direttamente la sua famiglia. Perché l’unica famiglia alla quale hanno risposto i genitori di Cetta Cacciola era quella della ‘ndragheta.
Meglio la morte che il disonore, questo il concetto delle famiglie mafiose. Anche Lea Garofalo è morta per mano mafiosa. Denise, la figlia di Lea, anche lei collaboratrice di giustizia, perché l’assassino di sua mamma è stato il padre, che lei ha avuto il coraggio di denunciare.
Se una lady di mafia si ribella tutte le altre si accorgono che allora è vero che un’altra vita, contraria alla distruzione, sia possibile. E se sempre più donne come avviene anche in Calabria stanno diventando complici di dolore, prendendo le redini di cosche e amministrando beni e rapporti con i fornitori, sono anche molte le donne che, senza fare lo stesso clamore, decidono di collaborare. E sempre più donne stanno piegando il “sistema” delle cosche. Non tanto per le rivelazioni che forniscono, ma per il solo fatto di avere consapevolezza di sé, del proprio destino e di avere una loro forza individuale. E questo, le organizzazioni mafiose non possono permetterlo. Sono loro, le nuove donne, che fanno paura. Più di quelle ai vertici dei clan.
Giovanni Falcone auspicava che le donne mafiose si schierassero con la cultura della vita per sfidare e battere le mafie. Se questo avverrà, il sacrificio di Maria Concetta Cacciola, di Lea Garofalo e di tante altre, avranno avuto il merito con la loro morte di aver indicato la strada alle proprie figlie, quelle che un giorno dovranno decidere da che parte stare, in quale clima far crescere i loro figli, quella giusta per guarire dal male. O quella sbagliata, rischiando di finire come loro. Resta però un sacrificio che è insito di speranza, nel segno della legalità, della lotta all’indifferenza e all’omertà. Libertà dalla mafia che soffoca, indebolisce e intimidisce, uccide e vendica in nome di quell’onore che donne vere come queste non riconoscono.

Contrassegnato da tag , , , , ,

Il boato di via d’Amelio

index19 luglio 1992,l’orologio non punta ancora le 17.00, quando la furia della guerra dichiarata dalla mafia allo Stato deflagra l’auto di scorta del giudice Borsellino, in via D’Amelio. Un’auto, una vecchia Fiat 126 imbottita di esplosivo, innescata a distanza, cancellava la vita del giudice palermitano e la sua scorta. Cosa Nostra, governata dai Corleonesi, a suon di tritolo, lanciava nuovamente un gravissimo monito alle Istituzioni, con l’eliminazione fisica dell’altro giudice, dopo Falcone, simbolo dell’antimafia. Non un giorno qualunque, non un sacrificio qualunque. Ma uomini che hanno scritto pagine degne di un Paese che cercava il fresco profumo della libertà. La mafia andava combattuta, ieri come anche oggi. Le celebrazioni di via d’Amelio , quest’anno avvengono in giorni di burrasca per la regione Sicilia e per il suo governatore Crocetta. Se, davvero la telefonata, così come riportato da “L’Espresso”, è avvenuta è giusto chiedersi perché un presidente di una regione come la Sicilia, torturata per mano mafiosa, sia rimasto in silenzio di fronte ad una frase così orrenda. Così in contraddizione rispetto alla lotta alla mafia. Voglio credere e sperare che sia in buona fede, che davvero in quella telefonata ci sia stata una zona d’ombra o un calo di linea, che non ha permesso al presidente Crocetta di poter udire quella frase. Fa bene parlarne per risvegliare tante coscienze, specie di quelle che governano in Sicilia come in Italia. Non si tratta di un dibattito sulle intercettazioni, farle o non farle, pubblicarle o meno, si tratta soprattutto di assumersi le proprie responsabilità, specie in territori difficili e martoriati. Non bisogna restare in silenzio davanti alla mafia, davanti alle minacce dirette o indirette che siano. E’ tempo che il sacrificio di molti uomini e donne non resti solo un bel proclama un po’ retorico.

Contrassegnato da tag , , , , ,