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“La paranza dei bimbi”, baby boss alla conquista delle piazze criminali. Come aiutarli?

untitled 2Spietati. Sfacciati. Arroganti. Parlano di soldi, di prostituzione, di armi e si impongono sulle piazze di spaccio e della criminalità organizzata. Sono i baby boss, la paranza dei bimbi, che hanno preso in ostaggio il cuore storico della città di Napoli, ma è un fenomeno che ormai coinvolge molte città d’Italia. Sono poco più che adolescenti, ventenni e controllano i quartieri della città. Vivono senza freni, pronti a tutto. Vivono di Gomorra e Scarface. Di droga e serate in discoteca fino all’alba. Guadagnano e spendono. In foto e sui social si mostrano armati e spavaldi, con una notevole fede, si tatuano santi e calciatori. Per loro, il potere si esaurisce in questi gesti ostentati. Si contrappongo alla vecchia guardia che creava imperi da proteggere da polizia e magistratura. Le nuove generazioni della criminalità non si fanno scrupoli a farsi notare. Si susseguono indagini ed inchieste che hanno l’obiettivo di puntare ad azzerare i fermenti criminali. Effervescenza che ha portato a parecchi omicidi e numerose “stese”: colpi di pistola in aria e minacciosi cortei di moto per le strade dei quartieri. Spesso impongono il loro “potere” ai commercianti della zona, arrivando a controllare i traffici di stupefacenti attraverso il sistematico rifornimento delle numerose piazze di spaccio presenti nei quartieri. Veri e propri clan di ragazzini o poco più che si occupano di agguati, violenze, le progettano, le eseguono, sino a gestire le attività di acquisto, preparazione, confezionamento e distribuzione di stupefacenti del nuovo cartello di camorra. Nei clan ognuno ha un ruolo definito, c’è il promotore e l’organizzatore dei ruoli di comando, ci sono i partecipanti, comuni affiliati, con compiti di appoggio logistico, poi i ragazzi che preparano e smistano la droga. Il guadagno è a cifre di tre zero, un vero e proprio business che li allontana sempre di più dal lavoro onesto, da una società fatta di istituzioni, diritti, doveri ed obblighi. Il guadagno facile, la sete di potere, l’essere osannati e temuti, li spinge a rifiutare una società fatta di controlli e regole, di istituzioni da rispettare, che per loro diventano solo da sfidare. Tra loro si creano patti e giuramenti. Una sorta di rito ufficiale li introduce all’interno del clan. Tra chi ha giurato fedeltà eterna ci sono le donne dei baby boss. Diventando le ragazze della paranza ed assistono l’organizzazione. C’è chi spedisce i messaggi, chi maneggia droga, chi si occupa del rifornimento delle piazze. In ogni caso condividono in pieno le scelte criminali dei compagni. Li assecondano. C’è chi cala il “paniere” dal balcone di casa per consegnare le dosi richieste, l’uomo raccomanda solo. Quando ci sono indagini che li investono si affidano all’omertà e all’indifferenza. Gravità e continuità di questi fenomeni connota una gravità sociale e culturale. Si tratta di ragazzi che crescono nel vuoto. Un vuoto sociale, culturale e morale. Al posto della cultura del valore c’è la cultura della strada, c’è la legge del branco. Una battaglia da combattere come tutte le altre. A Napoli, il cardinale Sepe, ha chiamato a raccolta un tavolo permanente, cercando di individuare percorsi e proposte. A rispondere per primo è stato il prefetto, che si è già attivato, ma al tavolo dovranno sedersi magistrati, il mondo della cultura, dell’università, forze dell’ordine, Regione, Comune e associazioni di genitori. L’origine è proprio nella famiglia, nel vuoto di valori, nella mancanza di senso del bene comune. Dall’ambiente giuridico viene proposta l’idea di una legge che sottragga la responsabilità genitoriale ai camorristi, seppur si tratterebbe di una soluzione estrema. Il fenomeno spesso si amplifica perché è accompagnato dalla povertà, che fa nascere l’incuria e l’abbandono a se stessi dei figli, l’evasione e la dispersione scolastica. Ma, oggi, si coniuga una povertà materiale con una povertà morale. Oltre però alle preoccupazioni e alle proposte, c’è un lavoro che è su strada, fatto di cooperative e associazioni che lavoro in campo educativo, volto ad allontanare dal potere e dalla violenza le giovani leve, per inserirli in una società che è fatta di attività, di gestione dell’immenso patrimonio artistico, o prendendosi cura dei territori agricoli oggi abbandonati, coltivandoli. E’ un popolo sociale che batte ed esiste, fatto di volontari, maestri e preti di strada che vanno a cercare i giovanissimi in difficoltà. Una vita che inizia nel solco del crimine e della violenza, ma se viene agganciata da chi ogni giorno mostra il buono che è in loro, il finale da scrivere può essere tutt’altro e gli esempi ci sono: vite salvate dalla camorra. Il carcere che si coniuga con il reinserimento sociale. La privazione della libertà come punizione per i loro reati, ma anche recupero, grazie all’attività di educatori, assistenti sociali e psicologi, che operano per creare un ponte tra il giovane ed il mondo esterno, che sia lontano dal crimine, dal senso di onnipotenza. Si lavora in primis sul minore, sulle condizioni di vulnerabilità, sulle motivazioni che lo hanno spinto a compiere il reato, per poi provare ad inserirlo nel circuito sociale attraverso il lavoro, attraverso l’aggregazione giovanile, perché solo con l’impegno, facendo leva sulle loro attitudini, sulla loro curiosità è possibile ottenere il meglio della personalità di un giovane. In molti casi, si può arrivare persino a sperimentare la mediazione penale, mettendo di fronte l’agente al soggetto che ha subito il reato, per una maggiore consapevolezza del reato commesso, ma anche per vederlo nell’ottica di un punto di ripartenza di una vita fatta di opportunità ed occasioni che la società onestamente ogni giorno mostra anche nei quartieri dove il destino dei più giovani sembra scritto già alla nascita. Insomma, come si direbbe in alcune zone del sud “da una rosa nasce una spina, da una spina nasce una rosa”.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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“La stanza dell’ascolto” per donne e bambini vittime di violenza

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messSe si ha un segreto ingombrante e pesante in cui ogni giorno fare i conti è difficile raccontarlo. Soprattutto se si tratta di un bambino o di una donna in fuga dalla violenza. Ma se ci sono dei luoghi protetti, accoglienti, con personale preparato a fronteggiare le situazioni, possono dare più coraggio, creando un ambiente sicuro e protetto. Un ufficio pubblico. Una stanza della polizia municipale di Napoli. Ma una stanza speciale, ribattezzata “la stanza dell’ascolto”. Un luogo protetto e accogliente negli uffici dell’Unità operativa Tutela minori ed emergenze sociali della polizia municipale del Comune di Napoli. Un nuovo e ri-funzionalizzato spazio protetto deputato ad accogliere donne e minori vittime di violenza e abusi, che prima venivano ascoltate nelle in stanze fredde e fatiscenti, in cui i bambini e le vittime di violenza confessavano tra i denti e le lacrime i loro terribili segreti, la paura, il dolore, gli operatori erano costretti a far ripetere tutto, perché dovevano registrare con i loro cellulari la “prova” da fornire al magistrato. E così, in piazza Garibaldi, a pochi passi dalla stazione è nata “la stanza dell’ascolto”, una stanza protetta, con colori chiari, i fogli da disegno e i giochi, una stanza accogliente dove potersi fermare, dove trovare il coraggio di chiedere aiuto. La stanza ha anche un pannello di controllo dietro uno specchio per registrare con discrezione i colloqui. Due gli spazi attrezzati: la stanza in cui si effettua il colloquio senza essere visto. La control room, inoltre, è dotata di avanzate tecnologie che permettono la registrazione video e audio del colloquio tra la vittima ed il personale dell’Unità operativa. Prima dell’inizio di ogni colloqui, la vittima di violenze, come prevede anche la normativa, viene informata che l’incontro sarà registrato. Non uno sportello, ma un luogo attrezzato all’ascolto delle vittime di violenze intercettate dai servizi. La cura del luogo è un elemento fondamentale perché consente alle donne di aprirsi e raccontarsi dove ci sono strumenti di cura che incitano ad aprirsi più facilmente. Il progetto nasce dall’assessore alla sicurezza urbana, Alessandra Clemente, la giovane assessore del comune, dopo aver ascoltato dai vigili urbani della città in che modo venivano ascoltate le donne, ha sentito il bisogno di fare qualcosa, di creare un luogo in cui si sentissero protette. Nella stanza dell’ascolto si mettono insieme accoglienza, professionalità, umanità e la risposta ad un’esigenza di giustizia: perché la stanza raccoglie testimonianze che potrebbero diventare decisive per i processi. Dinanzi l’ingresso degli uffici, sul marciapiede è stata posta una panchina rossa, simbolo della lotta contro la violenza sulle donne.

La violenza contro le donne ed i bambini è un’ignobile guerra maschile che ogni giorno si consuma in Italia, tra paure, incertezze, tutele quasi inesistenti per le donne, ma esiste un cuore sociale grande: fatto di professionisti del settore, di operatori sociali, che quotidianamente sostengono le donne ed i più piccoli, scontrandosi con la mancanza di fondi, di centri antiviolenza che rischiano di chiudere o di non aprire mai perché da soli non ce la farebbero, ma in un tempo di incertezza sociale, da Napoli e dal rifunzionalizzato spazio protetto di accoglienza delle vittime di violenze ed abusi impariamo che a volte non servono grandi fondi o soluzioni eccezionali, basta fermarsi ad ascoltare la realtà per cambiare un po’ le cose e renderle più umane e protette.

 

“Stanza dell’ascolto” presso l’Unità Operativa Tutela Minori e Emergenze Sociali, Via Alessandro Poerio, 21 Napoli.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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Le baby gang e il modello Gomorra: così la fiction si confonde con la realtà

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messL’ultima vittima ha sedici anni, si chiama Ciro, è uno studente liceale, domenica sera una baby gang, gli ha rotto il naso davanti ad una fermata della metropolitana di Napoli. Insulti e poi pesanti aggressioni ai danni del sedicenne. La polizia cerca gli aggressori di Ciro nei filmati delle telecamere della stazione. Il nome di Ciro si aggiunge a quello di tanti altri ragazzini napoletani: sei quelli aggrediti soltanto negli ultimi cinquanta giorni, feriti nel fisico e nell’animo dalla rabbia ceca di altri coetanei, molti di questi girano armati con coltelli in tasca e catene, mentre l’aspirale della violenza giovanile in città cresce e preoccupa. Questa mattina un vertice in Prefettura a Napoli ha riunito attorno ad un tavolo il ministro dell’Interno, Marco Minniti e le forze dell’ordine, per cercare insieme misure per contrastare l’escalation di episodi di violenza giovanile ad opera di babygang che da settimane terrorizzano gli adolescenti napoletani. Un’emergenza. Di “baby” hanno solo l’appellativo. Le gang di minori, che paralizzano la città, sono infatti, fenomeni criminali che hanno assunto proporzioni inquietanti tanto da lanciare un allarme sociale al pari della camorra. Facce ribelli, atteggiamenti da adulti, forti del branco ma bambini alla stregua delle vittime, odio e rabbia che si riversano in persecuzioni e violenze: sono gli orde di giovanissimi, cresciuti nel mito di “Gomorra”, hanno ambizioni di malavita uguali a quelli degli adulti. Lo scrivono sui social e lo dimostrano coi fatti. I profili di molti giovanissimi sono pieni di foto in cui impugnano coltelli, tirapugni appuntiti, pistole. Mentre si muovono in branco, come i lupi o le iene. Hanno un loro slang, si vestono tutti allo stesso modo. La guerra ai baby criminali a Napoli è appena all’inizio, caratterizzata da babygang che ormai si mostrano apertamente con rappresaglie e con l’auto celebrazione tramite l’uso dei social network. Gruppi composti da decine di giovanissimi, tra i 10 e i 12 anni, che entrano nel vortice della violenza con scorribande e dimostrazioni di potenza sia contro i loro coetanei sia nei confronti delle bande rivali che continuano a spuntare in giro per i quartieri popolari della città. Spinelli tra le labbra e pistole, i giovani emulatori di “Gomorra” imitano i grandi e lanciano messaggi ai nemici. In alcuni profili si possono notare le esaltazioni dei seguaci che commentano le esternazioni “da grandi” della futura generazione di camorristi. Dopo “Gomorra” le stese a Napoli sono aumentate. Violenza delle babygang, dei criminali di nuova generazione, contro tutto e tutti, randomiche, senza un senso preciso. Un prodotto di finzione che nasceva con l’idea di smantellare un sistema: quello della camorra, radicato come un cancro nel sistema napoletano, che si è trasformato per molti giovanissimi in idoli da ammirare ed emulare: affascinati dall’odio e dalla rabbia, dal brivido del gruppo, scaricando la violenza sui loro coetanei che ricevono del male senza una ragione apparente, facendo i conti col dolore fisico e quello dell’anima, che solo con un lento e lungo percorso di riabilitazione potrà essere accantonato. “Gomorra” è stata la ricchezza di Napoli, comparse, società di catering, un indotto economico per il territorio, le migliorie, dirette o indirette, nella vita di centinai di professionisti, ma il dubbio sorge. Se Gomorra, la serie, ha influenzato così negativamente i giovani, portandoli al crimine, perché Gomorra, nella persona della produzione, non riesce a influenzare chi governa e fa politica, e a investire su cose che servono effettivamente alla comunità, come ad esempio centri di aggregazione giovanile? Sarà forse che una è finzione e l’altra è realtà? E perché una è una società privata e l’altra, ben più costosa e lenta, è un’amministrazione pubblica? Domande che forse non trovano una risposta in una città che oggi si confronta con una violenza inaudita che rischia di generare potenti criminali del domani. Il successo ha trasformato Gomorra in una pseudo griffe culturale per le nuovissime generazioni, complice anche l’incapacità istituzionale, proponendo il solo modello culturale sbagliato senza esempi positivi, senza alternative ai giovani, abbandonati alla loro rabbia, alla strada e ai suoi richiami. Portare in tv Gomorra, assume effetti devastanti sui “figli di nessuno” che vedono nei clan e nella violenza l’unica “impresa” pronta ad “investire” su di loro. Questi giovanissimi hanno bisogno di seminare ed investire nel bene e nella cultura non sulla violenza, ma se non hanno esempi, indirizzi, spazi per loro si apriranno solo le porte del carcere minorile oggi e quello che ospita gli adulti domani, ritrovandoci adulti dediti al crimine e alla violenza, rischiando la morte, proprio come alcuni protagonisti di Gomorra nelle loro guerre di bande.

(Articolo pubblicato sul mio blog “Pagine sociali” per ildenaro.it)

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L’arte del dono: dal caffè al pane sospeso, quando il cuore si apre agli altri

Lasciare un caffè pagato per chi non può permetterselo. E’ la tradizione del cosiddetto caffè sospeso, nata a Napoli ma ora diventata pratica solidale in molti Paesi del mondo. Un’usanza nata durante la guerra, quando il caffè era oro, padre dell’idea Napoli, per ricordare agli avventori di lasciare un caffè pagato: la moka messa sul bancone. La moka è sempre quella, gli aneddoti si accumulano negli anni: da Aurelio De Laurentiis, presidente del Napoli, che molto spesso lascia una decina di caffè sospesi, ai professionisti che ogni giorno decidono di lasciare un caffè pagato. La crisi ha fatto il resto e la tazzina solidale esce da Napoli, sale lungo lo stivale e arriva fino a Pordenone contagiando persino Lampedusa. Nascono siti internet e diventa “la rete del caffè sospeso”, viaggia sui social network con oltre duecentosessantamila followers. La tazzulella cambia volto a Roma e diventa forno sociale, dove la gente inforna pane, lasagne, biscotti: tutto ciò che portano da casa ed è gratuito, mentre, l’aroma del caffè solidale si sparge in tutto il mondo: Spagna, Francia, Belgio, Svezia, e a Parigi il caffè sospeso diventa la baguette sospesa, in Tailandia è un pasto completo che resta sospeso per chi ne ha bisogno. A Torino si pensa al pane sospeso, un’idea al vaglio della commissione Servizi Sociali del Comune che potrebbe raccogliere e pubblicare sul sito dell’amministrazione le adesioni dei panificatori, tramite l’AssoPanificatori, disposti a partecipare e a consegnare il pane sospeso a chi ne ha bisogno. Pane acquistato dai clienti che desiderano donarne una parte. I destinatari sarebbero le famiglie in difficoltà con priorità verso le persone anziane, le famiglie in stato di disagio sociale, inoccupati. E se a Torino è solo un’idea al vaglio, a Salerno, da tre anni un panificio collabora al “pane sospeso”, ogni giorno, infatti, il panificio garantisce 15Kg di pane alle famiglie salernitane indigenti. A Messina, da anni i panifici espongono un salvadanaio destinato a piccole offerte che potranno aiutare famiglie in difficoltà, si potrà lasciare il resto o fare una donazione spontanea, anche di pochi centesimi. Le donazioni verranno poi convertite in “buoni acquisto” che verranno consegnati alle famiglie che fanno parte della “Rete Cibo Condiviso”, da spendere presso i panifici aderenti. Modi semplici per aiutare tante famiglie in difficoltà. Passi e prassi che mostrano lo specchio di un paese solidale e generoso. Ed il gesto semplice quanto umano e solidale di lasciare “sospeso” qualcosa è volato oltre oceano, dove Corby Kummer, uno dei più famosi food writer degli Stati Uniti, ha ripreso il concetto ed ha addirittura lanciato una sfida alle grandi catene americane: le aziende, secondo lui, dovrebbero aggiungere una nuova voce ai registratori di cassa, per permettere ai clienti di pagare una certa somma per gli altri. Magari in prossimità del Natale, potremmo imparare ad usare parole nuove, che non avremmo mai pensato di usare, il cui significato però ci piace, come per esempio: “pago anche un caffè sospeso”.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per il denaro.it)

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Piccoli mafiosi, il destino scampato dei figli della camorra

img_0217Mani piccole e veloci che confezionano dosi di droga, le mani dei bambini usati come pusher. A 8 anni confezionano le dosi. A 12 già spacciano. Sono i bambini usati dalla camorra per gestire il mercato della droga. Accade a Napoli, dove qualche settimana fa i carabinieri hanno arrestato 45 persone affiliate al clan Elia. Figli della criminalità organizzata, bambini a cui l’infanzia viene negata: sparano, maneggiano la droga, interpretano il ruolo di piccoli boss. Per questo i giudici del tribunale per i minorenni spesso decidono di allontanarli dalle famiglie criminali. Togliendoli ai padri – padrini per offrirgli un’alternativa alla vita che gli adulti hanno scelto per loro. Allontanare un figlio dai suoi genitori, anche peggiori, non è mai una soluzione indolore. Lasciarlo, però, in balia di una famiglia che di mestiere confeziona pacchi di eroina, significa arrendersi alle leggi della malavita, compreso testimone alla successione nell’attività criminale. E’ in questo stretto corridoio tra due limiti opposti che i giudici decidono per l’allontanamento dei figli ancora minorenni dalle famiglie criminali. “Contesto pregiudizievole”, via i figli ai bossi della camorra di Napoli. A distanza di un mese dall’arresto dei 45 affiliati al clan Elia, i giudici hanno sottratto i figli alla responsabilità genitoriale. Il Tribunale dei minorenni di Napoli, ha disposto per loro l’accompagnamento in case famiglie in diverse regioni d’Italia, comunque fuori dai confini della regione Campania. I bambini erano impiegati totalmente nella piazza di spaccio, alcuni di loro non andavano a scuola ed erano già stati segnalati ai servizi sociali. I giudici dei minorenni hanno deciso che quello non era l’ambiente giusto per crescere e hanno allontanato i ragazzini. Restare nelle loro abitazioni, hanno scritto i giudici “affidati alla cure delle rispettive famiglie, significherebbe farli restare in un contesto che è stato per loro gravemente pregiudizievole”. Non solo: i bambini prendevano parte al confezionamento e allo spaccio delle dosi delle sostanze stupefacenti, per loro scatta anche il divieto assoluto di intrattenere rapporti con la propria famiglia, perché – scrivono i giudici- è necessario recidere i deleteri legami ambientali che hanno già potenzialmente compromesso l’equilibrio sviluppo dei minori”. Un provvedimento storico quello adottato dal tribunale per i minorenni di Napoli. Un provvedimento simile si era verificato già lo scorso anno a Reggio Calabria, dove i giudici hanno iniziato a sperimentare questo nuovo strumento per la lotta alla criminalità. I dati dicono che sarebbero già ottanta i bambini sottratti alla ‘ndrangheta, sempre rispettando il diritto e applicando la legge, senza forzature o scorciatoie. In effetti, gli strumenti offerti dalle norme sono diversi. Consultando il codice penale, questo consente di allontanare un minore dalla propria famiglia in caso di abusi sessuali, con una piccola riforma, l’articolo è stato esteso anche ai maltrattamenti. Ecco che in Calabria ne hanno fatto tesoro: il minore, figlio di un boss, a cui gli viene insegnato a sparare, può essere considerato un bambino “maltrattato” e allontanato dalla sua famiglia, fino alla decadenza della responsabilità genitoriale (ex patria potestà). Un secondo strumento legislativo che risale addirittura all’Italia monarchica, colpisce i “comportamenti irregolari”, anche se non costituiscono un vero e proprio reato specifico. Ai minori al disotto dei 14 anni non gli può essere imputato nulla, ma è prevista l’applicazione di particolari misure di sicurezza. In tutti i casi, una volta sottratti ai boss, con mogli loro complici, i figli dei criminali vanno in una comunità, in una casa famiglia, in un servizio sociale sul territorio, gestito dal comune, o in un servizio sociale che fa capo al ministero della Giustizia. Un primo passo che li allontana dal crimine, dal destino segnato che da adulti inevitabilmente li porta al carcere e al regime del 41 bis. Il distacco dalla famiglia è una strategia iniziale che và però seguita passo dopo passo, si tratta di bambini che si ritrovano lontano dal loro solito contesto, dai loro genitori, di bambini che si sentiranno forti o spaesati, che andranno supportati dagli psicologi, ma anche educatori, sarà compito dell’assistente sociale trovare per loro una soluzione a lungo termine e duratura, che abbia senso di famiglia, di accudimento, di indirizzo educativo. L’obiettivo primario dovrebbe essere ancor prima di drastiche misure: sconfiggere e contrastare la cultura della prepotenza e della sopraffazione, che dilaga non solo nelle case dei camorristi. La partita della prevenzione si gioca non nelle aule dei tribunali ma sul territorio, dove si è fragilissimi. I territori fanno i conti con la carenza di assistenti sociali nei comuni, che ricevono segnalazioni, ma non hanno le forze, gli strumenti, il tempo, per cercare di approfondirle, seguirle e speso non riescono ad impedire la crescita criminale di un minorenne. Una crescita che prevede una sorta di percorso fatto di tappe: prima la consegna a domicilio di una busta con la richiesta del pizzo o con una dose di eroina, poi l’attentato incendiario o l’avvertimento dimostrativo, e infine la lezione, armi in mano, per diventare uno spietato killer. Tutto in famiglia. 

Pubblicato su “il denaro.it”

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Napoli, un mare di design al Nauticsud 2017

20170219_165139.jpgIn uno dei luoghi più suggestivi della Campania, Napoli, la città più grande d’Italia, nonché una delle più famose del Mediterraneo. Sede di un grande e prestigioso porto commerciale, conosciuta per le scogliere e le spiagge della riviera di Chiaia e Mergellina, per gli storici lidi di Posillipo, per la grande spiaggia di Coroglio- Bagnoli, Napoli, rilancia il salone Nauticsud. Dopo una sospensione durata quattro anni, la fiera storica dell’ente partenopeo riparte e con grande successo di pubblico: nel primo week end, oltre 14 mila persone hanno fatto tappa alla Mostra d’Oltremare di Napoli. La nautica si lascia alle spalle la tempesta ed il Nauticsud rilancia il settore. Dall’acquascooter agli yatch, passando per i nuovi gommoni ad alta tecnologia, sposando design ed eleganza.

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C’è tutto il meglio della nautica italiana alla quarantaquattresima edizione del Nauticsud 2017, che alla Mostra d’Oltremare partenopea è pronta ad accogliere tra professionalità e brand di successo appassionati ed esperti del settore fino al 26 febbraio: 400 le imbarcazioni in esposizione in un’area di circa 300 mila metri quadrati, in cui c’è tutto l’indotto, dagli accessori agli arrendi, per un settore che certo non è di nicchia, perché i dati confermano una ripresa del comparto del circa 1,7% del Pil nazionale e registra circa 3 miliardi di euro di fatturato, di cui il 67% ottenuto sui mercati esteri. Cresce la cantieristica, migliora il mercato interno, tirano un sospiro di sollievo gli armatori: per la prima volta aumentano i contratti di leasing. Napoli, dunque, si conferma madrina del mare e della nautica, diventando capitale europea del settore nautico, trovando nello storico marchio della Mostra d’Oltremare la sua migliore vetrina. In pochi giorni di esposizione il Nauticsud ha riconquistato una dimensione nazionale di primo piano. Molte le novità in esposizione per l’edizione 2017. Il cantiere “Salpa” che presenta la doppia versione del 23 piedi fuoribordo ed entro bordo per il campeggio nautico, mentre, “Gagliotta” , presenta il gioiello di casa: la nuova linea Lobster, dal 35 ai 42 e 48 già in fase di realizzazione. Presente anche il brand “Fiart” con gli ultimi modelli di ritorno dalle fiere estere, mente, “Italiamarine” presenta in anteprima nazionale Sanremo24, presentato già a Parigi con grande successo. Per i gommonauti c’è la partecipazione in grande stile, di MV Marine, che presenta gommoni tecnologicamente innovatici, più veloci e con meno consumi. Al Nauticsud presenta una gamma evolutiva di battelli pneumatici: Mito 31, Vesevus 35 e Mito 45. Le unità pesano il 30% in meno della media, riducendo consumi ed emissioni a vantaggio del costo di esercizio e dell’ambiente. Sobrio ed elegante il design, i materiali impiegati sono di alta qualità, le carene sono apprezzate per la navigazione sempre morbida ed asciutta. Studio e sperimentazione in collaborazione con la facoltà di ingegneria navale dell’università Federico II di Napoli, hanno permesso in sintonia ai raid estremi, alla leggerezza dei manufatti, di garantire dei gommoni tra i migliori in termini di consumi. MV Marine si conferma anche per gli ottimi materiali, per la qualità costruttiva e per l’uso degli accessori utilizzati di risparmiare nel tempo sui costi di manutenzione. Caratteristiche che hanno permesso a MV Marine di conquistare il mercato europeo ed americano. Il Centro Nautico Marinelli  esporrà in anteprima assoluta il nuovo modello di gommoni Luxury 5,80, Performance Mare i marchi Yamaha con tutta la gamma, tra cui i nuovi F100F e F25G Aquabat. Non manca l’indotto tra cui la “Soft Marine”, leader nelle tappezzerie, oggi leader del settore dei superyatch. Per gli amanti degli yatch c’è “Rio Yacht” che torna nella città di Napoli con i suoi tre gioielli Espera, Paranà e Colorado. Tornato nella fascia alta del mercato, Rio, si è specializzato nella produzione di barche di lunghezza compresa tra i 10 ed i 20 metri, creando scafi contemporanei, innovativi nel design e nei contenuti. Uno dei gioielli da sogno è “Colorado 44”, 14 metri, un soffitto scorrevole in cristallo, con una motorizzazione in linea d’asse con motori Cummins QSB 6.7 che permettono velocità brillanti e consumi moderati. Eccellenze, brand di successo, professionalità, competenza, ampia scelta tra barche, gommoni, yatch, il Nauticsud sposa la tecnologia moderna, nuovi sistemi per la gestione delle fonti energetiche di bordo, comprese quelle rinnovabili, con progetti che abbinano l’elettronica e la potenza. Insomma, una risalita del settore nautico che fa ben sperare per il futuro, con una sensazione di rinascita per la nautica.

Articolo pubblicato su “il denaro” versione in Pdf. 16997790_1864340503855142_8679133938714517936_n20170219_195706.jpg

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Giancarlo Siani, il giornalista che amava la libertà. 30 anni dopo cosa resta del Giornalismo?

SianiEra il 23 Settembre del 1985, quando i killer della camorra trucidavano Giancarlo Siani, un giornalista “abusivo” de “Il Mattino”, mentre tornava a casa a bordo della sua Mehari. Siani, amava raccontare i fatti. Ancor di più indagare. Il giovane cronista, in attesa di contratto, investigava e raccontava i segreti delle cosche di Torre Annunziata e non solo. Siani aveva un solo obiettivo: raccontare la verità. Giancarlo Siani ficcava il naso negli affari di cosa nostra, occupandosi principalmente di cronaca nera, lavorando e scrivendo delle famiglie che controllavano il paese, ed in particolar modo dei rapporti con i politici locali per l’assegnazione degli appalti pubblici per la ricostruzione delle aree coinvolte dal terremoto dell’Irpinia del 1980. Indagò e scrisse sulla famiglia Gionta, sul clan Nuvoletta, alleato dei corleonesi di Riina, sul clan Bardellino e sulle loro faide interne, pubblicandone un articolo. Quell’articolo gli costò la vita. Tre mesi dopo la sua pubblicazione, che permise a Siani di essere trasferito alla sede centrale di Napoli, fu ucciso da due uomini con dieci colpi di pistola alla testa. Dall’inchiesta sull’omicidio di Siani nacquero diverse altre indagini sui rapporti tra politica e camorra che portarono agli arresti di imprenditori, amministratori locali, funzionari comunali e dell’ex sindaco socialista di Torre Annunziata. Negli anni successivi il comune di Torre Annunziata è stato sciolto per infiltrazioni mafiose.

La terra che raccontava Siani, Torre Annunziata degli anni Ottanta – scrive Roberto Saviano – quartieri di Napoli oggi non è molto diversa da certi . Le stesse immagini che Siani descriveva si vedono adesso nelle favelas del Brasile, nelle banlieues parigine, nei bronx delle metropoli statunitensi, nelle città di frontiera del Messico”. Così, anche fare il giornalista, denunciando malaffare e connivenze, continua a essere pericoloso: “Si muore a Napoli come a Rio, muore chi racconta a Nuevo Laredo come chi racconta in Guatemala. Si viene uccisi per un articolo, per una foto, per un semplice tweet, che magari non svelano i segreti più nascosti delle organizzazioni criminali, ma fanno sentire loro il fiato sul collo”.

A 30 anni dalla sua morte, resta a tutti noi cronisti, giornalisti e non una grande lezione di professionismo e di coraggio. Resta la grande lezione di giornalismo, quello vero, fatto di racconti scomodi e di sola Informazione, senza compromessi, paure, perplessità, influenze di ogni tipo. Siani era pulito, vero, sincero, genuino nel suo lavoro e nel suo indagare, ciò che ogni giornalista dovrebbe essere, ma troppo spesso ce ne dimentichiamo e navighiamo nel mare dei compromessi, di notizie distorte.

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Napoli chiede aiuto!

Davide Bifulco, avrebbe compiuto 17 anni tra poche settimane. Una notte beffarda e la sua vita si è accasciata al suolo, sotto un colpo di pistola sparatogli nel silenzio della notte al rione Traiano di Napoli da un Carabiniere. Davide guidava uno scooter non suo, con lui altre due persone, tra cui uno-secondo gli inquirenti era un latitante-. Uno scooter privo di assicurazione e i tre ragazzi era sprovvisti di patentino. All’alt intimatogli dai Carabinieri il giovane non si è fermato. Poi ha desistito. Fino alla tragedia-con un colpo sparato accidentalmente,secondo la versione del militare.

Il quartiere Traiano è arrabbiato, avvolto nella disperazione e chiede “giustizia”. Giustizia che confido ci sarà. Se emergeranno delle incongruenze, degli errori è giusto che chi ha spagliato paghi. Anche perché le forze dell’ordine sono l’emblema della legalità e questa deve rimanere sempre un valore da difendere.

Ma Davide Bifulco è solo l’ennesima vittima. Come molti altri-Mariano Bottari,75 anni, il pensionato ucciso da due malviventi in un tentativo di rapina a Ponticelli, qualche settimana fa,- pagano un prezzo altissimo:essere nati e cresciuti in una terra apparentemente “normale”,dove pizza,mandolino e spaghetti,Posillipo e le sue terrazze la fanno da padrona, ma continuamente in guerra.
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Napoli, non è Iraq, Siria o Ucraina, definiti in gergo giornalistico “teatri di guerra”, ma la differenza è sottile, minima. Napoli è solo una città italiana, un paese occidentale che fa parte dell’Europa. Eppure a Napoli tra normalità, indifferenza, si combatte ogni giorno una guerra,una maledetta guerra tra faide,tra piazze di spaccio che ha abituato i suoi giovani alla “normalità”, alla vita di strada, a scorazzare tutto il giorno senza una meta, un sogno, un lavoro, un’ideale, un futuro.

A Roma c’è il “Governo del fare”, affronta emergenze su emergenze,blocca i contratti, porta avanti l’etica del fare ma nessuno rivolge lo sguardo al Sud, quel Sud che ansima, chiede progetti, progresso, alternative, non un classico film che si ripete dimenticato da tutti. Occorre aprire gli occhi guardare alle periferie del Sud tutto. Bisogna cambiare e da queste parti è davvero un’esigenza che si richiede a gran voce.

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La mala terra

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Un lungo stradone, la spina dorsale del diavolo, un budello di asfalto e cemento ostinatamente definito strada, che collega i comuni dell’hinterland a nord di Napoli con le rotte dell’ecomafia. La chiamano “la terra dei fuochi”. Una striscia di terra nel cuore di Gomorra. Una linea di fuoco che separa Napoli da Caserta. Immense distese di terre, su cui si coltiva, si pascola, ma nel sottosuolo giacciono ecoballe di rifiuti talvolta speciali ed altamente pericolosi. Sversati da parte della Camorra, e in particolare dal clan dei Casalesi.

Nel “triangolo della monnezza” si trovano cavoli sopra i rifiuti tossici. E’ l’ultima,terribile scoperta della Guardia di Finanza a Caivano, zona della Terra dei Fuochi. Rifiuti altamente pericolosi a tal punto che i guanti degli operatori della Guardia forestale si sono sciolti al contatto. Il tutto sotto ad un campo coltivato a broccoli, cavolfiori e finocchi.

Questa zona rappresenta la frontiera del male, dello sporco affare. Qui ogni giorno si bruciano tonnellate di rifiuti di ogni tipo. Il tutto sotto la regia della camorra. E i danni non si contano.In molti casi, i cumuli di rifiuti, illegalmente riversati nelle campagne, o ai margini delle strade, vengono incendiati dando luogo a roghi i cui fumi diffondono sostanze tossiche, tra cui diossina, nell’atmosfera e nelle terre circostanti.

Un’area fortemente urbanizzata, dove risiedono circa 150 mila persone, e ben 39 discariche di cui 27 probabilmente con presenza di rifiuti pericolosi. Negli ultimi cinque anni le discariche illegali sono aumentate del 30%. Come i tumori tra la popolazione. Con gli anni i criminali hanno cambiato tipologia di smaltimento: dalle discariche ai roghi di copertoni usati spesso come base comburente per bruciare anche altre sostanze tossiche.

E’ la triste realtà che accade nel triangolo della morte, nella terra dei fuochi, dei roghi tossici, in quella terra avvelenata a nord della provincia di Napoli e a Sud della Provincia di Caserta in cui si muore di tumore tre volte più che nel resto d’Italia. E’ qui che sono aumentate le malattie della tiroide e le malformazioni fetali oltre che un notevole numero di interruzioni di gravidanza spontanee. E’ da qui che si viene quando ci si incontra nei reparti di oncologia e dove nei cimiteri non esistono spazi vuoti:troppi morti. Tanti bambini.

Nella terra dei fuochi, dal colore del fumo si capisce cosa si brucia: fumo nero significa copertoni, color grigio fitto è la plastica delle serre, ma quando il colore è strano nuovi rifiuti stanno arrivando nelle zone.

E’ la vera emergenza rifiuti ancora in corso in Campania. Il più grande avvelenamento di tutto i tempi. Un avvelenamento di massa in un paese occidentale. Una catastrofe ambientale. Un effetto domino sulla salute umana. Un problema enorme che chiede di essere affrontato. I danni ogni giorno sono respirabili tra le polveri sottili con gravi conseguenze sulla salute dell’uomo.

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