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Maternità, quel concetto univoco che la società inculca ma è davvero così?

La maternità è oggi esibita, celebrata, pretesa e ampliata a ogni ambito dell’esistenza umana. Un canone quasi dovuto per una donna agli occhi dell’opinione pubblica raggiunta un’età, che somiglia molto ad un campanello che ricorda l’orologio biologico. Poco importano i desideri, le aspirazioni di una donna, il senso materno che una donna può o non può avvertire, i tempi e i modi diversi da una donna all’altra nell’avvertire il desiderio materno, che è intimo e personale. E’ più che una condizione fisiologica naturale: essere mamma oggi è per alcune, una sorta di affermazione sociale e personale senza eguali. Siamo reduci da un’estate di dolore materno, ribattezzata da alcune testate come “mostruosità materna”, la cronaca ha scosso l’opinione pubblica, lascandola incredula e sgomenta con l’omicidio della piccola Elena e della piccola Diana, vittime della follia criminale delle loro madri. Storie che hanno mostrato una maternità non materna, la piccola Diana è stata nascosta e negata ancor prima di nascere. Figli che diventano un ostacolo alla vita che si è sempre desiderato di vivere. Segno che l’esistenza dell’istinto materno non è scientificamente provata, ma non si può neppure prescindere anche da un’altra inconfutabile consapevolezza. Mettere al mondo un bambino crea sicuramente un legame indissolubile per chi lo ha sempre desiderato. Ma può turbare irrimediabilmente chi non vuole un figlio, ma si ritrova ad averlo. La mamma della piccola Diana, si è cucita addosso anche la professione di psicologa infantile, come a voler assumere un’etichetta sociale finalizzata ad attribuire credibilità al ruolo di madre, che in cuor suo sapeva di non essere in grado di adempiere. Dietro questi infanticidi, madri definite “strambe” dall’opinione pubblica, che nella vita di tutti i giorni si è girata dall’altra parte, divenute madri all’improvviso ed hanno anche un po’ improvvisato, e non si tratta solo di essere impacciate e impaurite per un essere piccolo che dipende totalmente dall’adulto, ma è dover accantonare i propri desideri per dare priorità ad una vita umana che a ritmi diversi da un adulto e che da solo non è in grado di fare nulla. Alla base degli infanticidi ci sono anche presunte patologie psichiatriche, ma portano ad una riflessione ampia sulla maternità oggi. L’opinione pubblica vuole che una donna sia pronta alla maternità, poco importano le aspirazioni di una donna ed i suoi desideri, sembra che sia un vestito che una donna debba indossare e farselo piacere, presentandosi pronta ad indossarla, pronta a rispecchiare le aspettative di tutti. Non siamo pronti e aperti a sentirci dire da una donna che non vuole figli, perché c’è sempre chi è pronto a tacciare di egoismo e di colpevole disamore per il futuro. Senza chiedersi, se dietro la reticenza a fare figli ci fosse un forte senso di responsabilità o di intime riflessioni. C’è anche da ammettere che la maternità non è sempre felice e che intorno alle donne serve una rete. In Italia è ancora un tabù dire che la maternità non sempre è un momento felice, e questo fa sì che non si attivino reti e servizi a sostegno delle donne che ne hanno bisogno. Ogni donna vive la maternità in modo differente, convivono una componente fisiologica e una psicologica. Spesso sono sottovalutati i campanelli d’allarme, per questo il ruolo dell’ostetrica, della ginecologa e del consultorio con le sue figure professionali, sono fondamentali per sostenere la donna. Lì dove però il consultorio è una realtà esistente e funzionante, perché c’è da ammetterlo che nonostante la legge abbia riconosciuto i consultori familiari in Italia, il flop è davvero palese. A questo si aggiunge l’immaginario comune che vuole le mamme perfette e pronte, ma la realtà è dura e difficile, ci si aspetta troppo da loro. I servizi sull’infanzia in Italia scarseggiano, mancano servizi adeguati che permettano di lavorare e conciliare la vita familiare in maniera serena e fluida. Manca ancora una cultura della maternità che sia vicina alle donne: bisogna potenziare i servizi materno-infantili, di prossimità e la rete di consultori. Sono i consultori che devono andare nelle scuole, e parlare di prevenzione, di gravidanze a rischio. Devono andare sui posti di lavoro. Bisogna creare negli ospedali un database dove viene comunicato il momento del parto di una donna al servizio sanitario. Infine, bisogna ripartire e lavorare con le nuove generazioni sul desiderio. E’ evidente che c’è la necessità di un cambiamento di prospettiva, che parta dall’infanzia. Il desiderio di maternità nelle ragazze è un’aspirazione generica, un desiderio vago. Si è perso il racconto della maternità. Non c’è più quel filo di continuità tra le generazioni, il racconto di mamme e nonne si è spero. I ragazzi di oggi spesso non hanno mai preso in braccio un neonato.

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Donna, la femminilità è un bene in estinzione?

Donna, stai perdendo la femminilità! Una frase, a volte pronunciata in tono d’accusa, risulta essere più grave di quanto si possa credere. L’ho sentita un po’ di tempo fa, ho pensato potesse essere una provocazione, invece, col tempo ne ho fatto una riflessione, che vorrei condividere con voi, lanciandovi la domanda titolo di questo articolo: la femminilità è un bene in estinzione?

Qualche settimana fa, ho ascoltato i discorsi di un uomo, che nonostante la sua posizione stimata all’interno della società e gli adagi della vita, parlava delle donne come di accendini che dimentichi chissà dove, come di un pacchetto di sigarette che finito smetti di fumare, come di un capriccio, ritenendo di poter avere ogni sera una donna diversa, che al suo “fischio” accorrevano, con la possibilità per lui di avere una donna diversa ogni sera. Certo, un discorso a senso unico, un discorso se vogliamo anche maschilista, superficiale, irrispettoso, lontano dal sentimento, dall’emozione della frequentazione, dello scoprirsi. Ma, il punto non è tanto lui, quanto la donna. Il problema non è solo degli uomini che con discorsi simili e con tali comportamenti, sminuiscono la donna, la offendono; con una concezione femminile un po’ irrispettosa, spesso, alcuni uomini dopo una frequentazione assumono atteggiamenti inspiegabili ed incomprensibili, con indifferenza e silenzio, che mortificano una donna. Ma non un discorso su un solo binario, ma a doppia velocità. La donna, con la sua caparbietà e determinazione, ha dimostrato di poter essere tutto ciò che vuole, di poter dispensare saggezza ma anche amore, di poter essere al vertice di un’azienda ma di poter essere anche madre, amante e complice del proprio partner. Lode a lei. Ma c’è anche un’altra immagine che troppo spesso emerge, dai social, dalle campagne pubblicitarie e dalle donne singole: il consenso, il cedere, qualche volta troppo presto, senza l’arte del corteggiamento, o per amore del consumismo. Scorro spesso le bacheche dei social, imbattendomi in donne che sfoggiano cene costose, regali, week end, elogiando uomini che spesso cambiano, come se il materialismo abbia preso il sopravvento sul rispetto di sé e sulle emozioni. Non una critica, ognuno è libero di scegliere, ma è mortificante quando l’immagine della femminilità viene sminuita e troppo spesso. La femminilità, è un dono, un privilegio, raro, come tutte le cose di valore. E non c’è niente di peggio che scambiarla per erotismo o nudità, per il solo fine del corpo. Che sono cose attraenti e naturali, ma distanti dall’originale come un sorriso rispetto ad una risata, un sussurro da un grido. Femmina si nasce. La femminilità è un’attitudine mentale, un modus di vita. Non si impara a scuola. Non ha a che fare con la seduttività, con la prosperità o con un fisico prorompente, non è civetteria. E’ fascino, eleganza ed intelligenza anche emotiva, è dolcezza. O forse è tutte queste cose insieme ed altro. La femminilità è uno status persistente, non si perde mai. E di femminilità, certo, ne parlava anche  Kant, nell’ “Antropologia”, quando ci disse che la donna ha la missione d’ingentilire l’umanità. Il fascino femminile, è ancora Kant a dirlo, determina una dinamica tra uomo e donna in cui il bel sesso esercita un potere reale sull’altro. Un fascino che poco ha a che vedere con la bellezza, visto che la donna leggiadra attrae, mentre una interiormente bella commuove. Un gusto fine che ha ancora un rapporto profondo col pudore, con un certo nascondersi e svelarsi poco a poco. Perché le bellezze spirituali avvincono di più se si manifestano man mano, lasciandone supporre altre. E altre ancora. Questa è la femminilità, una forza naturale così ricca da provocare continuamente la prospettiva di bellezze inesplorate e l’interesse vivo di chi ne gode.

E oggi, la femminilità è nascosta o è temuta? Forse, più per sembrare audaci e per amore di modernità. A voi, la parola.

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“Il questionario shock” sui caregiver indigna e scomoda con le sue risposte


Imbarazza. Indigna. Il questionario della vergogna, con domande oscene, risposte scomode, e punteggi da assegnare al carico assistenziale, emotivo, e alla disabilità vissuta dal proprio familiare che si assiste, che però dall’altro lato fa riflettere anche con le sue risposte scomode, è stato inviato ai caregiver che assistono un disabile gravissimo al fine di poter accedere ai fondi di assistenza della Regione Lazio, che dopo il manifestato disagio di molti e le polemiche sollevate, ha ritirato il questionario. L’obiettivo era quello di misurare il livello di stress e individuare misure di sostegno adeguate per le famiglie interessate, ma il questionario si è rivelato piuttosto uno schiaffo indelicato a quanti ogni giorno accudiscono e assistono un disabile. Le domande imbarazzano ed invadono la privacy. “Mi vergogno di lui?”, “Provo del risentimento nei suoi confronti?”, “Non mi sento a mio agio quando ho amici in casa?” Le risposte permettevano di oscillare tra il parecchio ed il molto. Il punteggio tre corrispondeva a parecchio e quattro a molto. Poca sensibilità in un argomento delicato che non può essere incasellato nel nome della solita burocrazia. La brutalità è nelle domande dirette, crude e nude, che suonano come un pugno in piena faccia, ma che nascondono realtà. La brutalità sta più di tutte nella pretesa di ridurre ormai tutto a un numero, ancor di più i sentimenti e lo stato d’animo. Il caregiver, di recente riconosciuto come tale, è il familiare o la persona più vicina che accudisce e assiste un disabile anche gravissimo, talvolta, rinunciando a gran parte della propria vita, o stravolgendola il più possibile per rispondere al bisogno umano e non solo dell’altra persona a cui tiene. E’ pensabile, quanto carico emotivo e quanta frustrazione possa provare, quanta solitudine istituzionale e assistenziale. E’ inutile barricarci dietro la solita retorica umana, ma i servizi assistenziali scarseggiano, i fondi sono pochi, e molti disabili restano eterni esclusi da cure e assistenza, che si ripercuote con un notevole carico sul caregiver, spesso provato e d’età avanzato. A dimostrazione di ciò è proprio il questionario, smistato alle famiglie da alcuni comuni laziali dalla Regione Lazio per accedere a fondi d’assistenza. Il questionario aveva bisogno forse di più tatto, più delicatezza, seppur per dovere di cronaca va ricordato che fu ideato nel 1989 ribattezzato “caregiver burden inventory”, quale strumento scientifico, utilizzato come modalità di autovalutazione dello stress dei caregiver. Uno strumento che forse andrebbe adattato all’oggi, alla sensibilità, senza dover base le risposte su numeri, che finiscono per renderci degli algoritmi che camminano. Lo stress non è dovuto alla vergogna dell’essere caregiver ma alla mancanza d’ascolto delle istituzioni e dello Stato, che discrimina, taglia fondi all’assistenza ai disabili. Provate solo ad immaginare un caregiver alla ricerca di ore di assistenza, di servizi o ausili per il proprio familiare, quanti uffici, dipendenti deve incontrare, spesso senza una reale risposta, trovandosi ribalzato da un ufficio all’altro, da un modulo ad un altro da compilare, con tempi d’attesa infiniti e spesso con il rigetto della richiesta non per la mancanza di requisiti piuttosto per mancanza di fondi. Il caregiver non chiede nulla fuori dal comune, un po’ di co-assistenza, che darebbe anche un po’ di sollievo a se stesso, chiede dei diritti, che spesso non sono riconosciuti per mancanza di fondi, proprio per quelli così risicati si è pensati a questo questionario shock, senza un minimo di sensibilità. E’ pur vero che ha indignato, ha sollevato polemiche, ma ha anche smosso le risposte, che per qualcuno sono state scomode, ancor di più per le istituzioni. Qualche familiare, nonostante l’invasione della privacy e le domande dirette, ha ammesso anche sui social di provare dei pensieri del questionario ma di non aver avuto mai il coraggio di esprimerli, a causa della pressione sociale che vuole il caregiver non solo performanti, ma anche capaci di amore devoto ed eroico senza cedimenti. Infondo, c’è da ammetterlo, si è avuti la concezione che il caregiver fosse immortale, fino a quando non si è pensati anche al “dopo di noi”. Un tempo, un passo nel riconoscimento del ruolo del caregiver e del fardello che porta sulle spalle fu compiuto, bisognerebbe solo essere più delicati, ma anche trarne da quelle risposte l’essenza, il bisogno di supporto, il grido d’aiuto, potenziare l’assistenza, incrementare i fondi, creare servizi reali per i disabili. C’è poi una visione della società comune da cambiare, perché se queste domande con le loro risposte hanno suscitano scomodità, qualcosa significa. Ovvero, voler far passare l’assistenza come missione, sacrificio appagante, assistere quotidianamente una persona, vederla soffrire, logora, taglia il proprio tempo, talvolta incattivisce, crea frizione tra i familiari, fa sentire inadeguati, onnipotenti o impotenti, tra amore e risentimento. Per il caregiver non esiste benessere o il lusso di ammalarsi, specie per i genitori di bambini disabili, eppure se non sta bene il caregiver non ci sarà neppure benessere per il disabile. Non esiste la favola felice del disabile pio e tranquillo e del caregiver sereno e soddisfatto, esiste il tormento, il nervoso, esistono stati d’animo che vanno compresi, ben venga un questionario forse un po’ rivisto, ma che apra anche le menti di molti censori.

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Infanzia, il luogo e le condizioni di vita ipotecano il futuro

L’Italia, un Paese non “a misura di bambino”, dove nascono sempre meno bambini e dove la povertà intrappola il loro futuro nelle aree più svantaggiate, nelle periferie educative, privandoli delle opportunità di coltivare passioni, talenti e aspirazioni. Una finestra sull’infanzia, che troppo spesso non viene aperta, eppure il Paese restituisce una fotografia fatta di povertà minorile e disuguaglianze educative, da nord a sud, con un futuro per loro sempre più a rischio. Un Paese che già prima della pandemia aveva dimostrato di aver messo l’infanzia agli ultimi posti tra le proprie priorità e che nonostante la sfida sanitaria e socioeconomica affrontata durante la pandemia da covid-19, stenta a cambiare strada, mettendo al centro delle politiche di rilancio l’infanzia. L’Italia è tra i paesi europei più “ingiusti” nei confronti delle nuove generazioni, come si evince anche dal rapporto di Save the Children, dove emerge che la povertà assoluta colpisce il 14,2% della popolazione sotto i 17 anni, ed è una forbice tra le più ampie tra i paesi europei. Le condizioni dei bambini, risorsa preziosa ma anche più trascurata dalle priorità degli adulti. In Italia, ogni bambino ha il triplo delle possibilità di trovarsi in condizioni di povertà assoluta rispetto agli over 65. Nello stesso rapporto, emerge l’incapacità di un ragazzino di quindici anni di comprendere il significato di un testo scritto, è al 51%. Un dato allarmante, non solo per il sistema di istruzione e per lo sviluppo economico, ma anche per la tenuta democratica di un paese. Un 1 milione e 384 mila bambini vivono in povertà assoluta in Italia. Incidono le condizioni economiche, nell’attuale società sei genitori su dieci hanno fatto i conti con la riduzione temporanea dello stipendio, e quasi un genitore su sette è tra i nuclei familiari più fragili, che ha perso il lavoro a causa dell’emergenza sanitaria. Paradossalmente, se uno dei due genitori ha perso il lavoro, con esso ha anche perso il diritto alle forme di sostegno in base al reddito che consentirebbero ai bambini di svolgere attività formative e ricreative importanti in questo periodo, cosa non da poco se si considerano le profonde differenze in termini di costi. Ma non sono solo le condizioni economiche del nucleo familiare a pesare sul loro futuro. L’ambiente in cui vivono ha un enorme impatto nel condizionare le loro opportunità di crescita e di futuro. Zone e periferie, possono significare impossibilità di uscire dal circolo vizioso della povertà, mentre a poca distanza vi sono zone di riscatto sociale. Pochi chilometri di distanza, tra una zona e l’altra, segnano la segregazione educativa che allarga sempre di più la forbice delle disuguaglianze, iniziando proprio dalle competenze scolastiche che segnano un divario sconcertante. A Napoli, secondo alcuni dati, i 15-32 enni senza diploma sono il 2% al Vomero, sfiorano il 20% a Scampia. Mentre, nei quartieri benestanti a nord di Roma i laureati sono più del 42%, quattro volte quelli delle periferie esterne, nelle aree orientali della città sono meno del 10%. Differenze sostanziali tra una zona e l’altra anche per quanto riguarda i NEET, i ragazzi tra i 15 ed i 29 anni che non studiano e non lavorano, né sono inseriti in corsi di formazione. Dati che sanno dell’assurdo se si prendono due bambini che vivono a un solo isolato di distanza e che possono trovarsi a crescere in due universi paralleli. Rimettere al centro delle politiche economiche e sociali i bambini significa riqualificare i territori, investendo sulle ricchezze e sulle diversità, combattendo gli squilibri sociali e le disuguaglianze, creando opportunità lì dove sono assenti. Basti pensare come la scuola ormai finita, dopo mesi di pandemia e di difficoltà oggettive, che hanno inciso sulla vita e sulla psiche di tanti bambini, come molti di questi siano esclusi dall’estate. In molte realtà non ci saranno momenti di aggregazione e di svago, attività ludico-ricreative, iniziando dai campi estivi, dai centri polifunzionali che si rimodulano, col risultato che questa estate non sarà uguale per molti bambini, tanti, troppi, gli esclusi dalle ricche opportunità educative e all’insegna della socialità. Sembra che l’isolamento sociale, ricreativo e formativo per molti di loro è destinato a continuare, almeno sino a quando non si interverrà con politiche coraggiose e risorse adeguate.

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Genitori separati e figli “bottino”, la Cassazione boccia l’Alienazione Parentale (Pas)

La Corte di Cassazione “spegne il sole” sulla sindrome di alienazione parentale (Pas), definendo “pseudoscientifica” la controversa teoria che descrive l’allontanamento di un figlio da un genitore ad opera dell’altro. La Cassazione, con ordinanza 286/2022, ha emesso un’importante ordinanza sulla sindrome Pas, una teoria molto controversa che descriverebbe la condizione psicologica di minori che hanno rifiutato uno dei due genitori a causa dell’incitamento intenzionale portato avanti dall’altro. La Corte ha stabilito che il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale “e ad ogni suo, più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario, non può dirsi legittimo.”La sentenza, accoglie il ricorso di una madre, che ha atteso nove anni, tra scioperi della fame, sit-in, e la paura che le portassero via il bambino: le forze dell’ordine e gli assistenti sociali erano già intervenuti tre volte, senza riuscirci. Finché lo scorso marzo, la Cassazione ha annullato la decisione del Tribunale per i Minorenni di decaderle dalla responsabilità genitoriale. Non solo: in modo definitivo la Suprema Corte ha ribadito che il concetto di “alienazione parentale”, suggerita anche attraverso altri sinonimi come “madre malevola, ostativa, simbiotica”, dovrà essere bandito, per sempre, dai tribunali italiani. Una decisione storica, che per altro non è la prima volta, già nel maggio dello scorso anno, con ordinanza n. 13217/21, la Corte di Cassazione aveva riconosciuto l’infondatezza della Pas, ma quest’ultima ordinanza ha aggiunto un punto fondamentale: d’ora in poi nelle cause per l’affidamento, i minori dovranno essere ascoltati dai giudici, non dai periti. I giudici hanno stabilito che non può essere garantita la bigenitorialità a tutti i costi, ma va tenuto conto innanzitutto dell’interesse del bambino. Infine, si sono espressi anche sull’uso della forza fisica usata per allontanare dal luogo di residenza i bambini, dichiarando che ogni forma di coercizione sui minori è fuori dallo Stato di diritto. La sindrome di alienazione genitoriale o parentale (Pas, dalla forma inglese) è un concetto che venne introdotto per la prima volta negli anni Ottanta dallo psichiatra forense statunitense Richard Gardner, e descritto come una dinamica psicologica disfunzionale che si attiva nei figli minori coinvolti nelle separazioni conflittuali dei genitori. La sindrome indica un disagio psichico vissuto dai figli in contesti di separazioni conflittuali a causa del plagio di uno dei due genitori. E’ una teoria molto controversa che divide il mondo giuridico e scientifico, tanto è vero che non è stata mai riconosciuta come sindrome dai manuali internazionali ma molto diffusa nelle aule di giustizia italiane e nei procedimenti sull’affidamento dei figli minori. Utilizzata dalla psicologia forense nelle Consulenze tecniche d’ufficio (ctu), consulenti di cui si avvale il giudice per valutare la capacità di un genitore di prendersi cura della prole. Un giudizio spesso senza appello.  Sono ben 150.000 i bambini coinvolti ogni anno nelle procedure di separazione o divorzio che possono essere colpiti dalla Pas. Succede quando un genitore a seguito della separazione coniugale instilla nel figlio rancore, astio, disprezzo verso l’altro genitore. I figli in sostanza diventano un bottino di guerra, spesso un’arma di vendetta contro l’altro genitore. Una forma di violenza psicologica che comporta vere e proprie patologie. I bambini, le prime vittime, che assistono da protagonisti muti a queste vicende, spesso già testimoni di soprusi e maltrattamenti in ambito familiare, sulla cui pelle si aggiunge dolore. Una realtà molto diffusa, difatti, si stima che sono all’incirca 1400 i fascicoli sui quali ha indagato la Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, per individuare la portata del fenomeno di vittimizzazione secondaria in danno di donne e minori vittime di violenza. La sentenza della Corte di Cassazione ora segna la parola decisiva ad una ferita troppo spessa aperta in molti bambini “bottino” e genitori rancorosi con l’ex coniuge.

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Lavoro, i disabili ancora i grandi esclusi. A che punto siamo?

Tre milioni e centomila, le persone con disabilità in Italia, questi i dati dell’Istat, che descrivono nel dettaglio la popolazione di persone con disabilità che vive nel paese. Le politiche sulla disabilità non devono puntare solo sull’assistenza, importante, ma il sostegno e l’intervento per garantire ai disabili le opportunità e la personale realizzazione è vitale, non soltanto per loro. A pochi giorni dalla giornata nazionale che celebra nel nostro paese il lavoro, non si può non guardare al tasso di occupazione delle persone con disabilità ancora più basso nel nostro paese della media europea. L’inclusione lavorativa è uno dei temi fondamentali delle persone con disabilità, ancora troppo spesso escluse o in attesa da anni di un’occasione lavorativa. Un’opportunità a cui avrebbero diritto per legge. Lavoro che non è solo reddito ma anche dignità ed il sentirsi parte attiva di una comunità, confrontandosi con la società. Avere un’occupazione per una persona con disabilità significa aiutare la propria autonomia, con una visione di vita indipendente. La situazione occupazionale dei disabili in Italia però è maglia nera: su cento persone di 15-64 anni che, presentano limitazioni delle funzioni motorie e/o sensoriali essenziali nella vita quotidiana o con disturbi intellettivi o del comportamento, abili comunque al lavoro, solo il 35.8 sono occupati. I dati estratti dall’Agenzia nazionale disabilità e lavoro (Andel), riportano che il tasso medio Ue di occupazione delle persone disabili invece è superiore al 50%, quasi venti punti in più. In Italia ci sono all’incirca un milione di persone disabili disoccupate o in cerca di un primo impiego, e la pandemia non ha aiutato di certo, dilatando ancora di più i tempi. Le più svantaggiate, le donne, rispetto agli uomini; se si osserva l’area geografica, il divario è ancora più grande: la Lombardia da sola occupa tante persone con disabilità quanto l’intera area del Sud. Infine, se si guarda al livello di invalidità, la maggior parte di coloro che sono riusciti a trovare un impiego presenta livelli ridotti di invalidità. L’esempio che viene riportato da Andel, è quello di una giovane donna del Sud con invalidità elevata che con scarse speranze tende ad iscriversi alle liste della legge 68/99, le cosiddette categorie protette. Il collocamento mirato nato proprio dalla legge 68/99 dimostra come non funziona, tanto che nelle scorse settimane, sono stati approvati e apportati modifiche. Ad oggi, ci sono persone che a distanza di dieci anni non sono state ancora contattate per un’offerta di lavoro. Secondo la normativa, in primo luogo, verrà fatta una valutazione della capacità lavorativa della persona disabile, partendo dai suoi punti di forza e non soffermandosi soltanto sulle limitazioni. Poi, verrà redatto un profilo di occupabilità dove saranno precisati i titoli di studio, le capacità lavorative, il tipo di patologia. Una volta raccolte tutte le informazioni è prevista la creazione di una banca dati nell’ufficio di collocamento che i datori di lavoro potranno consultare in modo da proporre alle persone il lavoro più adatto e per il quale si è più portati. Inoltre, se la propria patologia non consente di recarsi sul luogo di lavoro, è obbligatorio garantire il lavoro a distanza. In sostanza, si prevede di fare dei piani di lavoro più personalizzati e ciò dovrebbe favorire l’inclusione nell’ambito lavorativo. Previste, inoltre, sanzioni per le aziende che non assumono lavoratori disabili. Per le persone con disabilità il lavoro è ancora più centrale perché permette di vivere la società e le relazioni. Il passo per la correzione e la sensibilizzazione è stato compiuto con i correttivi alla 68/99, ma bisogna ora metterle in pratica, altrimenti il rischio è di un sistema poco funzionante e poco utile, che continua a lasciare a casa chi ha delle limitazioni ma capacità e competenze. La strada però è ancora lunga, se la legge c’è ed i correttivi anche, è importante sviluppare una cultura più corretta sulle persone disabili che non devono essere viste come un soprammobile ma lavoratori come tutti gli altri. Ricordiamoci, che includere significa che la persona disabile abbia le stesse opportunità degli altri, in qualsiasi ambito. E speriamo che questo nobile passo, non resti incompiuto.

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Genitori irrisolti, gli effetti dell’eredità emotiva genitoriale sui figli

I valori di una genitorialità tipica ci tramandano l’immagine e la convinzione, che poi dovrebbe essere realtà, che i genitori sono fonte di protezione, rassicurazione, accoglienza e amore incondizionato che agiscono per il bene dei figli e favoriscono la loro crescita, soddisfano i loro bisogni e favoriscono l’acquisizione dell’autonomia. Ma, chi fa il mio lavoro di assistente sociale, incontra una pluralità di modelli genitoriali, talvolta adulti nelle vesti di genitori, che nei fatti indossano solo l’abito del genitore senza sentirsi emotivamente e amorevolmente tale. E proprio nel mio lavoro quotidiano, incontro spesso genitori irrisolti. Il loro passato, il loro disagio emotivo, affetti da nodi esistenziali irrisolti, o affetti da dipendenze o da patologie psichiatriche, situazione moto diffusa più di quanto si possa immaginare, manifestando ogni giorno nella relazione con i figli il loro disagio sotto forma di manipolazione affettiva. Essere genitori non implica una capacità innata di amare consapevolmente i propri figli, un genitore genera fisicamente, la singola persona attribuisce un significato autentico a questo ruolo. Coloro che pur essendo genitori, vivono nella relazione con i figli le loro ferite infantili, si caratterizzano per un alto grado di immaturità creando un clima familiare tossico. I genitori che soffrono di problemi infantili irrisolti tendono a proiettare sui propri figli i traumi che loro stessi hanno subito e che non hanno superato. Questa difficoltà di separazione tra il proprio io passato del genitore e i bisogni attuali dei loro figli può essere motivo di manipolazione affettiva e psicologica da parte del genitore verso il bambino in maniera più o meno inconscia. Quando una persona si accinge a diventare genitore senza aver guarito le proprie ferite, è possibile che infligga a sua volta ferite nei figli attivando una reazione a catena generazionale. Tutti i malesseri mentali e a loro volta, le disfunzioni comportamentali, hanno una cosa in comune: l’assenza di confini ben definiti. Nel linguaggio comune, un confine definisce e separa due aree. Sconfinare equivale a invadere. Da un punto di vista psicologico, violare un confine è sinonimo di abuso. Un genitore irrisolto non sempre riesce a trasmettere ai figli dei sani confini. Quando sono piccoli, i bambini dovrebbero essere protetti dall’abuso che può assumere anche forme emotive oltre che fisico e sessuale. Un genitore irrisolto potrebbe non fornire al figlio la giusta sicurezza e la giusta dose di protezione. Il legame affettivo tra un genitore e un figlio è il primo amore, è l’amore primario. E’ il modello dal quale si impara o meno ad amare. Il genitore, che è stato a sua volta figlio felice o infelice, tende a riproporre immodificato lo stesso modello educativo ed affettivo. Il genitore, mette in scena ciò che ha imparato o interiorizzato quando è stato figlio. In alcuni casi le dinamiche irrisolte o le patologie di cui è affetto, si uniscono all’educazione ricevuta, copioni funzionali o disfunzionali, che si aggiungono alla personalità del bambino – solitamente poco considerata- e alle dinamiche della coppia-famiglia. La manipolazione affettiva presenta vari esempi, tutti gravissimi e dannosi. Le manipolazioni possono travestirsi in vario modo ma nuocere alla salute allo stesso modo: un eccesso di cure o di mancanza di cure, un’assenza di contatto fisico o un eccesso di contatto fisico con vicinanza asfittica, parole mancate e parole abusate, ricatti emotivi, denaro al posto dell’amore, baratti del cuore “ti voglio bene se ….” proiettando l’aspettativa genitoriale. Le manipolazioni non sono solo silenti e psicologiche ma anche violente, come violenza fisica. Botte e punizioni corporali, che si alternano a violenze psicologiche che lasciano ferite profonde. Alcuni genitori ammalati di angosce abbandoniche manipolano con le più efferate e mistificate forme di ricatto: elargiscono laute forme di denaro per avere amore in cambio, cucinano, accudiscono i figli anche quando sono adulti, quando il figlio non ricambia lo maltrattano facendolo sentire in colpa per le sue manchevolezze. Il genitore che fa la vittima è un copione molto frequente. Un figlio che nasce e cresce dentro le manette della manipolazione affettiva può reagire in tanti modi. Soffrire e somatizzare. Esprimere il suo disagio con sintomi nel rapporto di coppia o nel rapporto con i figli, senza rendersi conto che l’aria che respira e l’amore di cui si nutre è patologico e disfunzionale. Talvolta è una catena generazionale di un affetto sbagliato, che rischia di ripetersi in ogni legame che si istaura e di tramandarsi da padre in figlio, candidandosi e candidando ad un’infelicità cronica. E’ per questo motivo che quando si incontrano genitori irrisolti si tende ad invitarli ad una strada, talvolta poco trafficata, dove bisogna affidarsi anche con motivazione e volontà, la psicoterapia. Il luogo dell’ascolto non giudicante, che ripara e che restituisce vita e qualità della vita. Successivamente poi accompagnare un buon sostegno alla genitorialità, per incontrare la dimensione genitoriale individuale.

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#reel e medici sui social che dispensano consigli. Parliamone.

#reel e medici sui social che dispensato consigli. Parliamone.

Da giorni, scorrendo la bacheca di Instagram e dei reel in particolare, mi imbatto in medici, psicologi, consulenti sentimentali che dispensano in pochi secondi e con le giuste parole ad effetto, consigli di ogni tipo. Siamo di fronte ad una strategia di marketing, di pubblicità, di auto sponsorizzazione, senza rendersi conto che a vederli e ad ascoltarli ci sono delle persone che inevitabilmente vengono influenzati.
L’impatto emotivo e psicologico è incredibile. Poco importa se tu sia una persona acculturata e magari anche un professionista, l’impatto c’è. Ti influenzano.
Nel mio caso poco mi è importato del cartomante che compare col gioco di carte per l’amore. Perché non ci credo ai cartomanti, ma quanti non sono come me, mi sono chiesta?
La gravità però è il medico, lo psicologo.
Ci sono ginecologi che consigliano l’aspirale per vivere un’estate tranquilla.
E gli psicologi o i consulenti sentimentali che in tre consigli ti dicono come comportarti, di lasciar perdere se l’altra persona si comporta in un certo modo.
E quindi, oggi, col senno di poi mi sono fermata a riflettere:

a. Una di quelle tre cose almeno una volta in un rapporto, relazione, frequentazione, c’è, magari è tipica. Quindi, vanno a colpo sicuro nel colpire la massa.
b. Come si può consigliare alla massa quando ogni persona è diversa? Ogni rapporto è diverso? Ogni situazione è a sé?
c. Dove eventualmente è finito il rapporto medico/paziente, il dialogo, l’affrontare la singola persona e situazione?

Abbiamo dimenticato come i social arrivino a tanti, a chiunque, di qualsiasi età, di come abbiamo una forte influenza, e come possano manipolare una persona magari dubbiosa, magari fragile, magari insicura di sé, o persone che attraversano momenti di vita particolari. E quindi, un professionista per la popolarità social, per il like in più, per le visualizzazioni di massa, per la notorietà social, espone la massa a dubbi e generalizza ogni cosa?
Rendiamoci conto del potere che hanno le parole, i consigli ed i social, e di come proprio l’utilizzo dei social sia finito fuori controllo.

#pensateci

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Love addiction o amore tossico,  quando un amore diventa dipendenza affettiva e come uscirne

Il confine è sottile tra un amore infelice e la dipendenza affettiva, tema sempre più attuale, e chi fa il mio lavoro di assistente sociale, spesso si ritrova dinanzi a storie di relazioni tossiche, e dunque di persone, che come una spirale e al pari delle sostanze stupefacenti persistono nel continuare ad alimentare un legame disfunzionale nella convinzione di non poter più sopravvivere senza di esso. Al pari di una dipendenza da sostanza, la persona colpita da questo disagio dedica tutte le proprie energie all’oggetto d’amore e manifesta sintomi paragonabili all’astinenza qualora compie il tentativo di chiudere il legame con il partner. Una condizione molto frequente anche nelle donne vittime di violenza, che dapprima trovano il coraggio di ribellarsi, talvolta di denunciare, di allontanarsi, e poi avvertono la dipendenza affettiva, annientandosi in una storia che risucchia sentimenti ed energie, spegnando entusiasmo e sentimenti positivi. La dipendenza affettiva si traduce nell’ansia perenne di essere lasciati, di essere fuori luogo, il timore di sbagliare ogni cosa, vivendo in funzione dell’altro, restando aggrappati accontentandosi di una relazione che alimenta il proprio sé solo di briciole affettive. Quando una storia d’amore finisce si soffre. E’ nella natura delle cose. Diverso è, però, se la relazione fa male quando la si vive. Una ferita quotidiana dal quale però non si riesce a guarire. In questo caso la relazione diventa patologica e fa male. Gli alti e bassi in una relazione sono normali, ma la linea di confine si supera sfociando in amore tossico, quando c’è un equilibrio tra l’investimento sul legame affettivo e l’investimento su sé stessi. In altre parole, la persona equilibrata riesce a mantenere un suo spazio individuale e allo stesso tempo ad investire nel legame di coppia. Negli amori tossici, invece, si tende ad investire troppo sul legame di coppia che spesso è idealizzato. In questo modo il legame di coppia invece di diventare un ambito nel quale poter fiorire, svilupparsi ed evolversi insieme, diventa ambito nel quale la persona inizia a soffrire, regredire, diventare più fragile fino allo sviluppo di sintomi psichici e spesso fisici. Eppure, nonostante si sta male, nonostante la sofferenza che provoca, non la si abbandona. Quasi come se si fosse in trappola. Ciò accade quando si costruiscono dei legami partendo da un profondo vuoto emotivo probabilmente presente fin dall’infanzia, quella che in psicologia si tende a chiamare come “malnutrizione emotiva”, persone che per svariate ragioni nella loro infanzia non hanno ricevuto amore, che hanno imparato a non “disturbare” con le proprie necessità emotive, assicurandosi il legame con l’altro attraverso l’adesione alle sue aspettative. Questi bambini interiorizzano una concezione inadeguata dell’amore, ovvero che l’amore “va conquistato” compiendo azioni che gratificano l’altro anziché concepirlo come qualcosa di incondizionato che ogni bambino ha diritto di ricevere senza dover fare nulla di particolare se non esprimere sé stesso. La mancanza affettiva da bambino genera un profondo vuoto d’amore, una fame vorace che mal lo guiderà nelle sue scelte affettive. Questi adulti sperano che il partner riesca a colmare la loro profonda mancanza affettiva e quindi investono la relazione affettiva di un ruolo salvifico. Ma proprio perché pensano che la relazione li possa salvare dalla loro fame d’amore, concentrandosi attorno al partner indebolendosi come individui fino al punto che non riescono più a concepire una vita senza il partner, preferendo di soffrire all’interno di quel legame piuttosto che immaginare la propria vita senza di esso ormai considerato come indispensabile per il proprio benessere soprattutto per la propria sopravvivenza psicologica. Diventare consapevoli che la propria relazione fa star male anziché bene è sicuramente una tappa fondamentale, ma non sempre basta per uscirne perché proprio come accade con una dipendenza da sostanza anche in quella affettiva si innescano delle dinamiche da cui è difficile uscire con la sola forza di volontà. L’astinenza è difficile da superare, spesso chi soffre di dipendenza affettiva, quando cerca di chiudere la storia viene colpito da attacchi di ansia o di panico causati dall’astinenza dall’altro, spingendoli a ricercare la persona pur riconoscendo che è sbagliato. Un aiuto proviene dalla psicoterapia che aiuta ad affrontare le crisi di astinenza e di angoscia da abbandono. Il sostegno di uno psicoterapeuta è fondamentale anche per evitare di ricadere nella stessa trappola. Un percorso nel quale capire come nutrire la propria autostima senza aggrapparsi all’altro. Insomma, è importante non trascurare mai i propri bisogni e la capacità di darsi benessere anche in autonomia.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Social freezing, Bianca Balti e non solo: molte donne decidono di congelare gli ovuli per essere madri

L’input mediatico e direi anche informativo alle donne lo ha lanciato la bellissima modella Bianca Balti, che in una sua ultima newsletter ha deciso di raccontare il suo percorso di caduta e rinascita: la fine di una relazione tossica che l’aveva privata dell’amore per se stessa e la decisione di riprendere in mano la sua vita, cominciando dalla scelta di congelare gli ovuli per rimandare un’eventuale maternità. “Ho deciso di non limitare la mia possibilità di diventare ancora madre alla presenza di quell’uomo e in generale di una relazione”, ha scritto. Il racconto della Balti arriva dritto a molte donne che si ritrovano nel vortice di una relazione tossica che spegne e annienta la femminilità e l’autostima di molte. Le sue affermazioni sanciscono il coraggio di affermare la propria indipendenza anche nel dire che non bisogna avere una relazione a tutti i costi. Informazione anzitutto per le donne affinché siano libere di scegliere oltre che essere padrone sempre del proprio corpo ma anche padrone della propria emotività, della loro psiche e del loro tempo nell’avere una relazione. Un pensiero quello della Balti che ci fa vedere la maternità sotto occhi nuovi e possibili, che con coraggio –direi- finalmente scardina un argomento tabù e che impone quasi sempre un solo e unico punto di vista animato spesso da stereotipi. Le affermazioni della Balti finalmente aprono le porte al social freezing, congelamento degli ovociti, tecnica per preservare la fertilità, garantendo alla donna la possibilità di avere figli anche quando, col passare degli anni, i suoi ovociti cominciano a diminuire. Una pratica medica ancora poco conosciuta e possibile, che in Italia è a pagamento, ad oggi il Sistema Sanitario Nazionale copre i costi solo in caso di crioconservazione per ragioni mediche. Secondo quanto spiegano i ginecologi,  gli ovuli nelle donne dopo i 35 anni non solo iniziano a diminuire ma cominciano anche a perdere di qualità. Per questo, prima di quell’età, le donne possono decidere di scegliere la crioconservazione degli ovociti, regalandosi la possibilità di non perdere il proprio potenziale riproduttivo e “fermando” il processo di invecchiamento degli ovuli. Una tecnica quella del social freezing scelta da molte donne in Italia, soprattutto giovani, che magari non hanno trovato il partner giusto oppure hanno per il momento altre priorità, ma non vogliono per questo precludersi la maternità. E’ senza dubbio una possibilità futura per le donne di vivere la maternità, che in molte donne scatta col tempo e con gli anni, forse anche quando non si ha un lavoro o un partner, e a malincuore si accantona un desiderio naturale e se vogliamo biologico. Perché mai se esiste una tecnica medica? Certo, bisogna informare, bisogna che arrivi alle donne e bisogna parlarne anche per sensibilizzare il sistema scientifico sui costi, che non essendo coperti dal sistema pubblico, rischiano di non essere alla portata di tutte. Ma, forse un piccolo passo grazie anche alla testimonianza della Balti è stato compiuto. Certo è, che non sono mancati i punti di vista differenti e le critiche, di chi vede in questo modo una maternità posticipata secondo i desideri ed i tempi della donna, o chi vede il social freezing come l’ennesima tappa dell’emancipazione femminile che vuole tagliare fuori dall’immaginario la figura maschile, senza comprendere che la maternità non è un ritmo serrato e obbligato, dove la donna deve piegarsi ad una relazione sbagliata o tossica, al momento e all’età giusta per diventare madre, quando è possibile farlo quando si è pronti anche se l’età biologica non lo consente, ma lo consentono gli ovuli congelati preventivamente. Pensateci.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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