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Infanzia, il luogo e le condizioni di vita ipotecano il futuro

L’Italia, un Paese non “a misura di bambino”, dove nascono sempre meno bambini e dove la povertà intrappola il loro futuro nelle aree più svantaggiate, nelle periferie educative, privandoli delle opportunità di coltivare passioni, talenti e aspirazioni. Una finestra sull’infanzia, che troppo spesso non viene aperta, eppure il Paese restituisce una fotografia fatta di povertà minorile e disuguaglianze educative, da nord a sud, con un futuro per loro sempre più a rischio. Un Paese che già prima della pandemia aveva dimostrato di aver messo l’infanzia agli ultimi posti tra le proprie priorità e che nonostante la sfida sanitaria e socioeconomica affrontata durante la pandemia da covid-19, stenta a cambiare strada, mettendo al centro delle politiche di rilancio l’infanzia. L’Italia è tra i paesi europei più “ingiusti” nei confronti delle nuove generazioni, come si evince anche dal rapporto di Save the Children, dove emerge che la povertà assoluta colpisce il 14,2% della popolazione sotto i 17 anni, ed è una forbice tra le più ampie tra i paesi europei. Le condizioni dei bambini, risorsa preziosa ma anche più trascurata dalle priorità degli adulti. In Italia, ogni bambino ha il triplo delle possibilità di trovarsi in condizioni di povertà assoluta rispetto agli over 65. Nello stesso rapporto, emerge l’incapacità di un ragazzino di quindici anni di comprendere il significato di un testo scritto, è al 51%. Un dato allarmante, non solo per il sistema di istruzione e per lo sviluppo economico, ma anche per la tenuta democratica di un paese. Un 1 milione e 384 mila bambini vivono in povertà assoluta in Italia. Incidono le condizioni economiche, nell’attuale società sei genitori su dieci hanno fatto i conti con la riduzione temporanea dello stipendio, e quasi un genitore su sette è tra i nuclei familiari più fragili, che ha perso il lavoro a causa dell’emergenza sanitaria. Paradossalmente, se uno dei due genitori ha perso il lavoro, con esso ha anche perso il diritto alle forme di sostegno in base al reddito che consentirebbero ai bambini di svolgere attività formative e ricreative importanti in questo periodo, cosa non da poco se si considerano le profonde differenze in termini di costi. Ma non sono solo le condizioni economiche del nucleo familiare a pesare sul loro futuro. L’ambiente in cui vivono ha un enorme impatto nel condizionare le loro opportunità di crescita e di futuro. Zone e periferie, possono significare impossibilità di uscire dal circolo vizioso della povertà, mentre a poca distanza vi sono zone di riscatto sociale. Pochi chilometri di distanza, tra una zona e l’altra, segnano la segregazione educativa che allarga sempre di più la forbice delle disuguaglianze, iniziando proprio dalle competenze scolastiche che segnano un divario sconcertante. A Napoli, secondo alcuni dati, i 15-32 enni senza diploma sono il 2% al Vomero, sfiorano il 20% a Scampia. Mentre, nei quartieri benestanti a nord di Roma i laureati sono più del 42%, quattro volte quelli delle periferie esterne, nelle aree orientali della città sono meno del 10%. Differenze sostanziali tra una zona e l’altra anche per quanto riguarda i NEET, i ragazzi tra i 15 ed i 29 anni che non studiano e non lavorano, né sono inseriti in corsi di formazione. Dati che sanno dell’assurdo se si prendono due bambini che vivono a un solo isolato di distanza e che possono trovarsi a crescere in due universi paralleli. Rimettere al centro delle politiche economiche e sociali i bambini significa riqualificare i territori, investendo sulle ricchezze e sulle diversità, combattendo gli squilibri sociali e le disuguaglianze, creando opportunità lì dove sono assenti. Basti pensare come la scuola ormai finita, dopo mesi di pandemia e di difficoltà oggettive, che hanno inciso sulla vita e sulla psiche di tanti bambini, come molti di questi siano esclusi dall’estate. In molte realtà non ci saranno momenti di aggregazione e di svago, attività ludico-ricreative, iniziando dai campi estivi, dai centri polifunzionali che si rimodulano, col risultato che questa estate non sarà uguale per molti bambini, tanti, troppi, gli esclusi dalle ricche opportunità educative e all’insegna della socialità. Sembra che l’isolamento sociale, ricreativo e formativo per molti di loro è destinato a continuare, almeno sino a quando non si interverrà con politiche coraggiose e risorse adeguate.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Relazioni difettose: la fine di un amore e la solitudine delle amicizie latitanti. La realtà quando si è adulti

Ero in dubbio se affrontare un argomento così attuale, ma anche silenzioso, nascosto nei meandri di vite che all’apparenza sembrano perfette, un argomento intimo, che però credo vada condiviso, il senso di un blog è anche questo, almeno credo. Amori strani, amori imperfetti, relazioni tossiche, relazioni difettose, storie d’amore ad un passo da progetti importanti, che naufragano quando meno te l’aspetti. Un pugno dritto in faccia. Il cuore è stordito, l’animo vaga tra i ricordi, le bugie, le cose che non hai visto, il dolore, la sofferenza di chi pensavi di conoscere bene, le lacrime che sembrano infinite. Resta una vita da ri-orientare, da riassettare. A chi nella vita da adulto non è capitato? Ti ritrovi spesso su un divano a volte senza fare la doccia, in una vita che sembra vuota e spenta, fuori ed intorno c’è il mondo, chi ti vuole bene ti ripete che gli amori vanno e vengono, che le storie possono finire, che c’è chi sta peggio di te, qualcuno prova a raccontarti la storia di un altro a cui è andata peggio, ma serve a poco, ogni dolore fa male. Ma la realtà è anche la solitudine di vita, a volte per una storia si tralasciano e si perdono gli amici, ma è anche vero che quando si è adulti, gli amici hanno la loro vita: c’è chi si è sposato, chi è in attesa di un figlio, chi vive ormai fuori, e la solitudine di braccia amiche, di un aperitivo in amicizia, l’avverti e fa male ancora di più. E’ uno strappo incredibile, si resta soli col proprio dolore, senza avere la possibilità di condividerlo, senza avere la possibilità di svagarsi. Ci provi a volte a ristabilire rapporti umani e sociali, ma quanto fatica! C’è chi è latitante, chi preferisce allontanarsi per non schierarsi, chi osserva a distanza le storie instagram che posti senza avere neppure la delicatezza di chiederti “come stai?”, a volte basta un solo secondo in un’era digitale dove scriviamo fiumi di commenti e di sciocchezze, senza renderci conto che quel “come stai?”, che ruba un solo secondo della propria vita, può far bene all’altra persona, che suona come una pacca sulla spalla, come un segno di vicinanza. Perché è inutile nasconderci dietro alla scorza dura, quando stai male, vorresti che qualcuno si renda conto di te, che si interessi anche solo minimamente a te. Invece, sembra che soffrire e per amore tocchi solo a te, che nessuno mai ci sia passato, che nessuno possa comprendere come un aperitivo, una telefonata, possa davvero allungare la vita – come recitava uno spot pubblicitario di un po’ di tempo fa-. Il problema è che ognuno è concentrato su sé stesso, dimenticando il senso dell’amicizia, del bene che una parola possa fare, di quanto la vicinanza possa essere terapia, condivisione. Siamo diventati acidi e cinici, pensando che magari se quella persona “si lamenta”, quel lamentio spenga i neuroni positivi che abbiamo. Leggevo durante i mesi di lockdown e di pandemia, che saremmo state persone diverse, migliori, più sagge e più consapevoli, perché avevamo toccato con mano la paura, la solitudine, l’incertezza, il dolore, è bastato un solo momento di “normalità” che tutto è diventato anche peggio di prima. E no, non prendetelo come un piagnisteo e non venitemi a dire che la solitudine è uno spazio creativo da riempire, che bisogna imparare a stare da soli per poi ritrovarsi bene con gli altri, è risaputo che ci sono momenti in cui la solitudine è benessere, è ritrovarsi, ma è una consapevolezza in cui si arriva per gradi. Ma, vi assicuro che quando avresti voglia di un aperitivo e semplicemente di sorridere, quando avresti voglia che il telefono suoni ma non per lavoro, o per chi ti chiede un piacere – tutti bravi lì a conoscerti- quella solitudine è tortura. E’ risaputo che quando finisce una storia distrarsi, tornare a vivere, è un toccasana, ma quando sei adulto e le amicizie sono latitanti, è un doppio baratro. Perché puoi avere un’esistenza di cui non puoi lamentarti: una famiglia alle spalle che ti ama, un buon impiego, una carriera, la possibilità di acquistare qualche capriccio, qualche viaggio, una vita che agli occhi degli altri può sembrare perfetta e quasi da invidiare, ma a volte manca il meglio. E no, non confondetelo col principe azzurro o con la storia perfetta, con l’amore da trovare a tutti i costi, per dimenticare il dolore passato, ma i rapporti umani e sociali, perché quelli ci rendono persone vive.

Pensiamoci.

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Assistente sociale e vita privata, quanto il lavoro influenza le relazioni sentimentali e familiari?

E’ un mattino come tanti, io e la mia collega d’ufficio ci ritagliamo qualche minuto di breefing mattutino, è il giorno dopo una riunione tra colleghi, ci guardiamo un po’ arrabbiate ed interdette e ci chiediamo come possano non capire il nostro lavoro, che vive sempre di pregiudizi e difficoltà, di sentimenti ambivalenti. Ci fermiamo e pensiamo come sia difficile farlo comprendere ai colleghi e quanto possa essere difficile farlo comprendere ad un ipotetico compagno sentimentale. E’ stato l’input che mi ha portata a chiedermi che effetto ha il nostro lavoro nelle relazioni familiari e sentimentali, che condivido con voi. La società in cui viviamo è in continua trasformazione sociale: le famiglie si sgretolano, la crisi sentimentale ed economica invade l’individuo, il mondo cambia e vive di paure e timori, la stessa in cui non solo vivono i nostri utenti ma la stessa in cui viviamo anche noi assistenti sociali. Lo sfondo è tappezzato di sentimenti precari e coppie che vacillano, di uomini e donne ormai cambiate, raro trovare una persona onesta nei sentimenti e legata ai valori. Il sogno dell’incastro perfetto svanisce. E la realtà che ci presentano quotidianamente i nostri utenti è la stessa che potrebbe toccare anche a noi assistenti sociali, e quando capita ti senti un po’ stupido, se non altro presuntuoso, perché pensi sempre che a te non possa accadere, invece siamo tutti figli di questa società, tutti esseri umani. A volte dinanzi all’amore ci manca il coraggio. Siamo bravissimi ad acquistare online schivando le truffe, a gestire molte situazioni, a prenderci cura del nostro corpo, ma tentenniamo di fronte all’altra persona, a quella che ti si approccia con serietà e con interesse, a quella che potrebbe essere l’incastro di due anime, perché abbiamo paura ogni giorno che la fregatura sia dietro l’angolo. Il fatto di trattare per lavoro ogni giorno “aspetti malati” della vita di coppia ci può ostacolare, sia nella ricerca del compagno, sia nel quotidiano: rischiamo di dare uno stereotipo a tutti, usando gli stessi schemi mentali del lavoro pure con l’altra “nostra” persona. Il mea culpa lo faccio io per prima. Pochi giorni fa, scorrendo le foto e le chat di una donna che ha trovato il coraggio di venire fuori da una relazione tossica, ho esclamato alla mia collega “vatti a fidare degli uomini”, oggi che vi scrivo, mi rendo conto che io per prima ho puntato il dito contro gli uomini tacciandoli alla stessa maniera. E’ che il nostro lavoro e qualche delusione che già ci portiamo sulle spalle ci ha fatti diventare apatici e diffidenti. Abbiamo dimenticato attenzione e passione, spontaneità e rilassatezza nel viversi un momento e la magia di un incontro o di un amore, lasciando il posto alla razionalità e a quel “freno a mano” sempre tirato con la quale camminiamo in questa vita così maledettamente imprevedibile. Come professionisti sappiamo bene che quando si interagisce con l’altro sesso nel tentativo di nascere come coppia, occorre evitare la ripetizione di “copioni familiari” compresi gli errori già commessi. Ogni persona è qualcosa di nuovo, che merita di essere vissuta, senza pregiudizi o schemi passati. Del tipo: le colpe degli altri non devono ricadere sulla persona di oggi. Insomma, che iniziare una frequentazione non sia semplice, vivere un nuovo battito di cuore non sia una passeggiata, noi assistenti sociali lo sappiamo bene, eppure dovremmo avere nella mente e nel cuore lo zerbino sul quale sbattere le scarpe delle storie altrui e personali che senza dubbio ci hanno scosso. Perché se le cose sono destinate a funzionare lo rivela il tempo ed il destino, ma anche noi siamo artefici del nostro destino, e questo può avvenire solo con la messa in discussione di ognuno nel gioco relazionale. Amare è l’esperienza più bella per un essere umano che può però incontrare anche sentimenti opposti: violenza, odio, rifiuto. Quindi l’alt è a stare attenti ed in guardia, per non farsi male, ciò vale per gli utenti ma anche per noi. E per dirla alla Troisi: “pensavo fosse amore invece era un calesse!”, mal che vada.

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Assistente sociale, oltre una fiction

Un blog è anche uno spazio libero che poi si apre al confronto mediante i commenti in rete, ancor di più sui social network. In questo spazio di parole e riflessione, voglio affrontare una tematica legata ad una delle professioni più umane e profondamente empatiche, bistrattata il più delle volte, talvolta umiliata, sconfinata dai più: l’assistente sociale.  Professione che ricopro ogni giorno con scienze e coscienza, con trasporto ma anche con fatica qualche volta. La fiction Rai- “Mina Settembre”, nata dalla penna dello scrittore napoletano Maurizio De Giovanni, che ha dedicato al personaggio e al ruolo il libro da cui è tratta la fiction “dodici rose a Settembre”, ha portato alla ribalta del grande pubblico la professione di assistente sociale, occasione più unica che rara. I film e le fiction del piccolo e grande schermo hanno preso spunto dalle più disparate professioni, mai però quella dell’assistente sociale, quasi come a non voler toccare un tasto che talvolta rischia di essere dolente. Mina Settembre, è dinamica, gioiosa, solare, “fatina” in diverse situazioni, alle volte sorvolando alcune procedure, d’altra parte è pur sempre una fiction ed il romanzo è giusto che ci sia, eppure non tutti lo comprendono, perché a me è già capitato di sentirmi dire “ma nel film fa così perché “tu” non fai così?” E come glielo spieghi che è pur sempre un film e che non può entrare nel merito delle norme, delle procedure, delle tutele per sé, per l’Ente, e ancor prima della persona, che è al centro di tutto? L’assistente sociale Mina Settembre è un po’ casinista nella vita privata, e forse rispecchia molte noi assistenti sociali, che con la vocazione di aiutare gli altri, con spirito di altruismo e abnegazione, siamo perfetti costruttori dei puzzle di vita altrui ma non delle nostre, dove siamo casiniste, caotiche, confusionarie e anche impacciate, e spesso pecchiamo di presunzione: ciò che accade alle altre persone in carico pensiamo che non possa mai accadere a noi e alle nostre famiglie. Fare l’assistente sociale è un lavoro umanamente gratificante ma anche molto impegnativo, a volte estremamente stancante, le giornate sono scandite di incontri, di problemi che aspettano una risposta, di responsabilità da assumersi e che ti portano a mediare e pensare quale sia la cosa giusta nel momento sbagliato nella vita dell’altro. E’ un difficile ma strano mestiere. Intreccia ansie, preoccupazioni, decisioni, scienza e coscienza, vite che ti passano davanti e ti entrano dentro, che talvolta si affidano a te. E’ un viaggio continuo e spesso difficoltoso, dove ti porti dentro e a casa gioie ma anche tanti pensieri. E’ però un mestiere di empatia e di amore. Che se lo fai è perché lo ami e perché ci credi. Consumi il cervello, il cuore e le suole delle scarpe, poni l’orecchio a terra, corri, ti affanni, c’è chi ti segue, chi si perde, chi ti critica, chi ti giudica, chi racconterà la sua versione dei fatti perché sa che sei vincolata al segreto professionale e alla privacy ma torni a casa distrutta ma felice. Il sorriso di una persona che hai avuto in carico. Il sorriso ritrovato di bambini provenienti da contesti disfunzionali, ripaga e ricompensa. Eppure è un lavoro a rischio, non sono nuovi i casi di minaccia, ritorsione, aggressione ai danni degli assistenti sociali, privi di ogni tutela, che ogni giorno lavorano col rischio di essere minacciati o di subire aggressioni. Un lavoro in perenne precariato, inutile innamorarsi dell’assistente sociale che vedete seduta dietro una scrivania di un comune, sono la maggior parte a tempo determinato, appoggiati su fondi che servono a contrastare la povertà, alcuni di essi lavorano in regime di co.co.co. attraverso cooperative, spesso sottopagati o malpagati, molti diritti sono annullati o non del tutto riconosciuti. Bizzarro ma vero: gli assistenti sociali tutelano e si battono per i diritti altrui ma di fatto svolgono un lavoro dove i propri diritti, iniziando da un lavoro stabile ed in tutela, non esistono quasi. Ho incontrato in molti concorsi a cui ho partecipato colleghi di quaranta e oltre anni, eterni precari, con anni in cui hanno lavorato e anni in cui si sono ritrovati a casa, mettersi in gioco ancora e ancora, credendoci sempre. Questo imbarazza in un paese civile, scoraggia quanti pensano che ci siano realmente occasioni di lavoro in un settore fragile e bisognoso di professionalità.  Ci viene chiesto di aiutare gli altri quando invece gli eterni incerti del lavoro sono proprio gli assistenti sociali. Eppure ogni giorno c’è carenza d’organico, quelli che sono in servizio si affannano, faticano, ma non riescono a star dietro a tutto e a tutti; i bisogni cambiano, le famiglie necessitano oggi più che mai del sostegno e dell’operato sociale, impossibile riuscirci per tutti, manca il tempo e lo spazio mentale, il confine è labile, il rischio di burn out è dietro l’angolo e questo rischia di essere un boomerang con ripercussioni su tutto e su tutti. Eppure si arranca e  si va avanti. E allora cosa si aspetta? Dei bei proclami, delle speranze di leggi di bilancio, di assunzioni e concorsi ne abbiamo sentito e ne sentiamo, eppure sembra che ci sia sempre qualcosa che ostacoli, oggi forse si dirà “a causa dell’incertezza di governo”, e ieri cos’era? Ricordo ai più che sono passati vent’anni e quest’anno ventuno dall’entrata in vigore della 328/2000 la legge quadro sul sistema integrato di interventi e servizi sociali e oggi più che mai ci sono nuove esigenze spinte dalla crisi economica degli anni passati e oggi da una pandemia che ha cambiato il volto delle persone e delle famiglie. Ma si resta fermi ancora al palo dove ci sono assistenti sociali che aspettano risposte, certezze, sicurezze, aspettano anche sostegno. Le risposte ed i fatti concreti chissà a quando.  Nel frattempo c’è Mina Settembre in tv!

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Adolescenti: perché mettono in gioco la loro vita?

Spaesati, disorientati, con uno stop forzato alle loro passioni, il futuro una grande incognita, questa la vita degli adolescenti di oggi, che tra covid, precarietà e socialità virtuale, vivono i loro anni. I social i loro fedeli amici, oggi più che ieri, in questo tempo sospeso e distanziato, i social e le amicizie virtuali sono diventati la loro realtà di vita, il pericolo è però dietro l’angolo, li attira e talvolta li affascina. Due ragazzini che si tagliano la faccia per assomigliare a Joker. Bande di teenager che si azzuffano in piazza, da Gallarate a Roma, senza neppure un motivo. E poi la droga che torna ad essere un tema e un pericolo dopo la serie “SanPa” su Netflix. Sono circa venti i bambini – come ha riportato anche di recente “il mattino” di Napoli- che dal mese di ottobre ad oggi in concomitanza con la seconda ondata di pandemia sono giunti al Santobono di Napoli in preda a gravi disturbi psichiatrici. Stesso allarme lanciato anche dall’Ospedale Bambin Gesù di Roma che registra un’impennata di psicopatologie collegate, drammaticamente, anche ad alcuni tentativi di suicidio. Poi il fenomeno “TikTok”, un social in cui vengono lanciate “challenge”, balletti, giochi e cose del genere: un influencer di spicco o un utente molto seguita lancia una sfida e tanti suoi follower (seguaci) parteciperanno. Ma dilagano sfide molto più pericolose, come la black out challenge, che è una sorta di gara di apnea fino a svenire: in periodo pandemico, per la noia, i più giovani possono essere ancora più vulnerabili. La rete un mondo vasto, affascinante, trainante, iperstimolante ed ipereccitante. Un territorio senza specifiche difese che diventa rischio e può davvero fare molto male. Appare preoccupante nonché diffuso il fenomeno tra i giovanissimi di mettersi in mostra con azioni audaci, che a volte hanno esiti tragici. L’assunzione di comportamenti a rischio in adolescenza è un fenomeno sempre esistito, oggi alla ribalta per i pericoli connessi all’uso delle tecnologie e per i recenti casi di cronaca nera. Un tempo vi erano le corse in motorino o film dell’orrore, per “regalarsi” il brivido della paura. Questa ricerca della paura è un tentativo anche inconsapevole di avere un controllo attivo sulla morte. Non si tratta di trasgressione ma di tollerare le delusioni. Le nuove generazioni crescono con l’ideale incurcatogli di avere tanti amici, di essere popolari e di essere sempre primi, e quando diventano adolescenti non si sentono mai abbastanza popolari e belli. I figli vanno educati all’autorevolezza dei genitori ma non a 13 anni, troppo tardi! Bisogna crescerli da bambini nelle regole, nei confini, limitare il loro uso alla tecnologia che va controllato sempre da un adulto. E con l’adolescenza bisogna vedere una nuova nascita del proprio figlio. Il cervello dell’adolescente è come se scaricasse nuovi programmi. Fondamentale è l’ascolto dei genitori, senza mai confrontarsi con il loro tempo d’adolescenza. Non essere mai giudicanti. Ascoltare talvolta la loro musica anche se non si condividono i loro gusti musicali. Bisogna avere il coraggio di non chiudere un occhio quando si ha il sentore o la certezza che il proprio figlio abbia una dipendenza da sostanze stupefacenti. Se la situazione è fuori dal controllo dell’adolescente, bisogna intervenire, accettando anche il conflitto. Tossicodipendenza, alcool, atti di autolesionismo, sono tante le forme di dipendenza ai nostri giorni, una guerra per alcuni genitori, ma si può vincerla. I genitori devono tornare ad avere il controllo della vita dei loro figli, porre dei paletti, anche se questo costa fatica e conflitto generazionale, affidarsi ai professionisti quando la situazione peggiora e necessita di aiuto esterno, che aiuterà i genitori a partecipare alla cura dei figli. I ragazzi non devono pensare di essere soli nella crescita ma seguiti con attenzione e amore. Genitori e figli dovrebbero dedicarsi tempo, tempo vero fatto di cose da fare insieme, da vivere insieme, cenando anche insieme, abitudini e tempo che ormai sembra lontano alle famiglie di ieri e che forse andrebbe ritrovato e vissuto.  

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E se fosse davvero Natale?

Un Natale anomalo. Unico. Distanziato. Limitato negli spostamenti. Il colore rosso, simbolo di festa colora le regioni e impone un lockdown in tempo di festa. Le città vivono il Natale con l’immaginazione e affidandosi al potere rievocativo di ognuno di noi. Le luminarie restano in strade vuote dal passaggio e dalla scambio d’auguri. Il Presepe è immaginario, come ad Assisi dove sull’intera facciata della Basilica Superiore di San Francesco viene proiettata la Natività di Gesù: statue a grandezza naturale e immagini video dell’affresco della navata inferiore della Basilica. Un Natale per molte famiglie senza ricongiungimenti, altre invece, fanno i conti con le ristrettezze economiche, che improvvisamente sono piombate in famiglie che oggi vivono l’incertezza del domani. Un Natale del silenzio, privo di abbracci o di incontri e cenoni. Nessuno lo avrebbe mai immaginato. Un mastodontico cambiamento. Perché nessuno è davvero mai preparato ai cambiamenti. E’ una delle grandi paure che accompagna l’essere umano: l’imprevedibile. In questo strano e sospeso anno abbiamo imparato il suono del silenzio: le città senza i rumori di sottofondo, il silenzio che ci spingeva a riflettere e capire, il silenzio della paura e dell’incertezza del domani, il silenzio delle saracinesche abbassate, il silenzio di uffici vuoti e spenti, dei ristoranti e bar chiusi, degli stadi vuoti. Oggi ci viene chiesto di mantenere in silenzio un momento che solitamente è accompagnato da musica, fantasia, immaginazione e magia, nonché chiasso: Natale e Capodanno. Questo sarà il Natale del cambiamento. Del ricordo freddo e distaccato. Il Natale del silenzio. Il Natale in cui tante famiglie accuseranno il vuoto e la mancanza. Anche questo è un valore. E se invece cogliessimo questo momento sospeso questo “strano Natale” come occasione, l’ennesima che questo anno doloroso ci sta ponendo? Per riflettere sulle mancanze e sul loro valore, sul senso delle cose e delle persone, sul tempo e lo spazio che avevamo e che non abbiamo più, sulla Vita che seppur un fantastico viaggio è imprevedibile e lo ha dimostrato. Su quanto le nostre vite fossero frenetiche, piene, incasinate, e povere: avevamo smesso di vedere la bellezza delle persone, dei luoghi, del tempo, della noia, delle possibilità che avevamo. Certo, questo Natale così ridimensionato e diverso è un imprevisto. E’ risaputo che gli imprevisti facciano molta paura. Abbiamo spesso l’illusione di avere la “cassetta degli attrezzi” con gli strumenti giusti per controllare il nostro destino; se possiamo controllare il nostro destino possiamo mettere in atto delle scelte. I cambiamenti radicali sono le scelte più difficili da compiere, tanto difficile che a volte rimandiamo la stessa scelta. E a volte la vita sceglie per noi. E siamo costretti ad adeguarci o a subire. Tutti noi con diversi gradi di difficoltà e adattamento, oggi siamo chiamati ad adeguare le nostre abitudini, anche il nostro modo di vivere le festività. La vera sfida sta nel cogliere il cambiamento, perché forse un cambiamento radicale è proprio quello di cui abbiamo bisogno per ristabilire il peso dei sentimenti e dell’animo umano. Anche attraverso il silenzio che dominerà le festività. E questo 2020 lo ricorderemo come di delimitazioni, sicurezza, misure estreme, cambiamenti e modifiche. Ma nulla ci vieta di riflettere e cambiare qualcosa di noi e del nostro essere, sognando e sperando che il 2021 ci regali umanità e serenità, e perché no cambiamento personale.

Buon Natale e buon anno ai lettori di Pagine Sociali de il denaro.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Parole in circolo. Racconto di una quarantena, la mia

Diario post quarantena. Da ieri si è conclusa la mia quarantena fiduciaria, terminata non prima di ricevere l’esito del tampone che sanciva la mia negatività. Seppur ancora non sono uscita di casa: la propria tana è fonte di protezione, e fatico a non capire come non lo sia per molti. Tiro un sospiro di sollievo e mi lascio alle spalle il rigoroso isolamento. Distanti sotto lo stesso tetto. Ho vissuto nella mia stanza, non ho mangiato coi miei familiari, ho usato un altro bagno, li ho visti raramente in casa a distanza e con le mascherine. Una prova di vita. Questo virus già solo nelle sue esposizioni ti incute timore e ti pone di fronte a momenti di vita inimmaginabili. Appena ho saputo di essere entrata in contatto, come del resto altri miei colleghi, con una persona positiva mi sono auto isolata. Inizialmente è prevalso in me una sensazione di smarrimento.

Le informazioni si susseguivano, ognuno diceva qualcosa, è raro trovare indicazioni univoche, seppur da qualche ora in rete ho notato che qualche ASL pone degli schemi con indicazioni utili su come comportarsi dal momento che si è entrati a contatto con una persona positiva. Io mi sono affidata al mio medico di base, il dottor Enrico Cascone, che ringrazio pubblicamente, perché da subito mi ha indicato cosa fare, come pormi anche coi miei familiari e mi ha anche spiegato quanti giorni devono passare per fare un tampone in quanto il virus potrebbe essere in incubazione. Sapere cosa fare e come comportarmi, mi ha rasserenata.

Cosa fare? Porsi in quarantena e quindi in isolamento dalla società per almeno dieci giorni, al termine del quale sottoporsi ad un tampone che se risulterà negativo torneremo ad essere liberi. In famiglia è bene porsi a distanza, evitare contatti, in quanto i propri familiari possono continuare a condurre la loro vita, rapportandosi anche alla società, pertanto è bene non avere contatti con loro durante la quarantena e che loro non frequentino luoghi affollati ed evitino situazioni di possibili assembramenti. I propri familiari si sottopongono a tampone solo se il proprio tampone risulterà positivo.

È bene fare un chiarimento sulla definizione tra quarantena fiduciaria ed isolamento. Nel primo caso, si pongono lontano dalla società e con dovute precauzioni dai propri familiari coloro che sono venuti a contatto con un caso positivo accertato. In isolamento si pongono coloro che risultano positivi o avvertono i sintomi.

Quarantena ed isolamento hanno la medesima finalità quella di evitare che ci sia trasmissione del virus o presunto tale. La differenza sta che chi si pone in quarantena potrebbe sviluppare nell’arco dei giorni, ecco perché il tampone si può fare solo dal decimo giorno; chi è in isolamento è perché ha sviluppato i sintomi del covid o è risultato positivo al tampone, pur non avendo sintomi. Chi è in quarantena deve mantenere distanze dai propri familiari, usare la mascherina in casa, se ha possibilità come nel mio caso usare un altro bagno, mangiare in momenti diversi dagli altri membri.

È una prova dura. Sarei un’ipocrita a dire diversamente. Anzitutto, ho pensato a chi non ha la fortuna di avere una casa grande e di porsi in quarantena allontanandosi fisicamente in modo da tutelare gli altri familiari. Ma è importante provare ad organizzarsi: orari diversi per mangiare, usare la mascherina anche in casa e distanziamento, pensiamo che potremmo sviluppare la malattia e contagiarli.

Psicologicamente ho pensato a chi non ha la stessa forza. Parliamoci chiaro un’assistente sociale è temprato alle

emozioni e ai cambiamenti a cui adattarsi, per cui ti adatti per automatismo, ma il peso degli affetti ed il timore di essere un vettore e di poterli contagiare lo porti dentro con te. È paradossale pensare che li hai a pochi metri da te ma siete separati.

È naturale avere il dubbio che si possa sviluppare in te il virus, io ahimè non riesco a pensare di essere invincibile o un super eroe lontano dal virus. Il virus c’è, esiste, è vicino a noi, gomito a gomito. Sta a noi con i nostri comportamenti, le nostre precauzioni tenerlo alla larga.

Nella mia stanza in quarantena le giornate sono state scandite anche dalla fortuna di lavorare (fortuna che non tutti hanno) in Smart working. Questo permette anche di tenere a bada le emozioni e continuare ad avere un ritmo di vita, facendo ciò che da sempre è nel nostro quotidiano.

Ho pensato a chi in isolamento lo è non in via preventiva ma perché asintomatico o sintomatico, alla dura prova psicologica e fisica. A quanto questo virus sia subdolo e maligno. Pensate a quanto ci sta cambiando negli affetti, nel rapporto con gli altri. A quanto vertiginosamente sta cambiando la sanità, l’aspetto economico e sociale.

Eppure c’è chi ancora crede che non esiste, che è una montatura, chi in quarantena non riesce a starci. E non so fino a quando riusciremo un giorno, quando tutto questo sarà finito, ad essere persone migliori, se proprio ora non capiamo il pericolo e quanto ognuno di noi possa realmente fare.

Questa per me è stata una lezione di vita. L’assenza fa riflettere e fa pensare. Perché da paure e smarrimento iniziale ho provato a trarne vantaggio personale. Mi direte forse che esagerata “solo per una quarantena”. Senza dubbio c’è chi diversamente da me ha vissuto e vive peggio, ma esperienze come queste cambiano le persone.

Non sono mai stata scettica su questo virus, anzi, sono sempre stata molto attenta: non sono andata da mio nipote a Roma per via dei mezzi pubblici, paura anche solo di poter essere involontariamente un vettore, ho sempre detto fino alla noia in molti colloqui con utenti indisciplinati “signora si alzi la mascherina, signora la prego la maschierina”. Ho dovuto cacciare fuori un utente perché aveva violato la quarantena (e che agitazione in quel momento).

Da oggi però sarò più dura perché forse è proprio la rigidità che potrà portarci verso una strada migliore e francamente, attaccatemi pure, ci vuole da parte del governo decisioni incisive anche se queste toccano settori a rischio e già fragili. Il virus viaggia ad una velocità che neppure ci rendiamo conto e noi spesso siamo superficiali e irresponsabili. Questa estate ci siamo comportati come se fosse finita la guerra, mentre il virus indisturbato ringraziava nei nostri abbracci e baci, nelle nostre strette di mano e nelle nostre feste.

Io torno a vivere, diversamente, anche con empatia e affetti diversi, perché in questi momenti hai il tempo per riflettere e fare un viaggio interiore anche tra gli affetti e gli amici.

Torno alla normalità del momento consapevole che la forza a questo virus la diamo soprattutto noi, consapevole che ci sta cambiando le vite e le emozioni.

Consapevole che l’ho scampata. E ringrazio Dio.

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Hikikomori, i giovani reclusi in casa che dicono “no” alla vita

untitled 2In camera tutto il giorno. Il mondo è confinato in una socialità virtuale e senza alcun legame col mondo esterno. Prigionieri di se stessi. Iperconnessi ed in perenne solitudine. Una gioventù limitata nel tempo e nello spazio, una stop forzato alla crescita. Giovani che si ritirano dal mondo, si chiamano “hikikomori”. Erano 100 mila in Italia prima del lockdown ma i numeri sono aumentati con la pandemia. Reclusi in casa, in particolare in camera, spesso per paura del mondo esterno. Per loro la notte è sinonimo di sicurezza, al mattino, invece, cresce l’ansia. Il pc ed i social sono il loro mondo. Per loro le relazioni umane si azzerano, quasi inesistenti, nella maggior parte dei casi molti di questi ragazzi non ha mai avuto una relazione affettiva.  Qualcuno li definisce inetti e pigri, ma sono figli della generazione hikikomori, parola giapponese che significa strare in disparte, ritirarsi. In Giappone, il fenomeno ha avuto inizio negli anni Ottanta, dove si stima siano un milione gli autoreclusi.  Covano dentro di loro dolore e vergogna nel mostrarsi al mondo esterno. La vergogna, sembra essere proprio l’elemento fondamentale, secondo lo psicoterapeuta Piotti, tra i primi in Italia ad occuparsi di ritiro sociale. La società è ormai diventata spietata con e tra gli adolescenti, nulla perdona: dal brufolo alla gaffe fatta in classe. Una società dove la bellezza è centrale e lo sguardo dell’altro è il giudice più temuto. E se ti senti inadatto e brutto, l’unica soluzione è optare per il virtuale e restare chiuso nel posto in cui più ti senti al sicuro. Internet li protegge e allo stesso tempo imprigiona. Una sindrome sociale che nell’ 80% dei casi colpisce i maschi ma il numero delle ragazze è in continuo aumento. Secondo dei dati, giunti dal Giappone, colpisce soprattutto i primogeniti ed i figli unici. Solitamente si tratta di intelligenze sopra la media, carriere scolastiche brillanti interrotte e mai riprese. Molti provengono da famiglie acculturate ed istruite. In alcuni casi i genitori sono reduci da separazioni ed uno dei due è assente nella vita del minore. Gli anni di chiusura solitamente oscillano tra i tre ed i dieci anni, ma possono anche andare oltre. Alla base di questa scelta solitamente c’è delusione, un caso di bullismo, o anche un’offesa che ha ferito. Il corpo si nasconde, quasi si annulla, il sesso non interessa. Molti hikikomori si professano asessuali. Il primo campanello d’allarme per i genitori è l’abbandono della scuola. L’anno critico solitamente arriva in seconda o terza media, oppure poco dopo l’inizio del primo anno delle superiori. Da un’indagine dell’Associazione Hikikomori Italia, unico punto di riferimento nel nostro paese per le famiglie, con molti gruppi di auto mutuo aiuto, il fenomeno è più presente al Nord, mentre il Lazio è la regione che registra più casi. . E la quarantena dovuta alla pandemia non ha fatto altro che acuire il fenomeno, infatti, in molti hanno trasformato l’isolamento forzato in casa in un isolamento volontario. Senza scuola, senza hobby e con una routine ormai consolidata, il rischio ora è quello di non aver voglia di tornare fuori.  La risposta è forse in una ribellione solitaria al mondo fatto di apparenze, di conflitti e di competitività che abbiamo lasciato loro in eredità, dove la fuga dal mondo per un mondo celato sembra in loro l’unica via d’uscita.

(Articolo pubblicato sul mio blog “Pagine Sociali” per ildenaro.it)

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Il suicidio di un adolescente, perché?

untitled 2Tragico, disumano, scomodo persino da concepire, inimmaginabile. Eppure il dramma dei giovani adolescenti che arrivano a togliersi la vita è una vera emergenza sociale. La cronaca degli ultimi tempi è un susseguirsi di notizie che riportano la morte tragica di ragazzini poco più che adolescenti che hanno deciso di togliersi la vita. Con loro svanisce il senso della vita dei genitori, l’illusione si essere una famiglia normale e serena. In loro la domanda più dolorosa “come ha potuto fare un gesto del genere?” Purtroppo, quel gesto non è così raro. In Italia, secondo le statistiche, lo compiono circa 500 giovani ogni anno. Per uno che ve ne riesce, ci sono circa quattro o cinque tentativi sventati. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il suicidio è la seconda causa di morte in Europa nella fascia d’età tra i 15 e i 29 anni, segue poi la morte per incidente stradale.

Un paradosso delle società occidentali: cresce la qualità della vita, si accarezza il benessere ma non diminuisce il numero di chi decide di togliersi la vita. Il problema è l’inafferrabile solitudine dei figli. Il salto nel vuoto di ogni giorno. Da genitori si può sbagliare per amore, ma sbagliare per amore non cancella l’errore. I genitori spesso cercano tra le cose dei figli, la paura più grande dell’ultimo decennio è l’hashish, alcuni di questi chiamano i carabinieri, per risolvere alla radice il problema generato dalla scoperta e può apparire un atto di coraggio. Forse lo è, forse però no. Un gesto, a volte dettato dalla disperazione. Ma dietro lo sballo o la chiusura totale del figlio c’è la solitudine. C’è il silenzio lancinante. Il dialogo oramai divenuto impossibile con la generazione di oggi. Il silenzio delle chat, gli smartphone, l’aver dimenticato di guardarsi negli occhi quando si parla, di non avere un adulto di riferimento con il quale confidarsi. La mente di un adolescente è un universo a sé. Il mondo a volte può ferire, travolgere, agitare una coscienza. I genitori sono avvolti in un amore permissivo che impedisce di guardare nel cuore dei propri figli. Le canne, saranno pure un problema ma la morte come auto-punizione inflittasi è del tutto sproporzionata. I campanelli d’allarme ci sono. Ma spesso vengono sottovalutati. Di morte non se ne parla, ancor di più di suicidio, in famiglia come a scuola, è ancora considerato un tabù. Bisogna imparare a parlarne e ad ascoltare. Se l’adolescente fa capire di avere intenzione di togliersi la vita, bisogna prendere seriamente il suo messaggio ed intervenire. Alcuni adulti credono che di certi argomenti sia meglio non parlarne per non istigare, ma le ricerche dimostrano che non è così. Affrontare l’argomento in modo diretto e dare ascolto alle voci dei ragazzi è esattamente quello che bisogna fare. Un adolescente su due ha pensieri suicidi. L’adolescenza è un periodo difficile, se non si percepiscono prospettive e speranza per il futuro, ma si avvertono ostacoli e difficoltà, che a quell’età appaiono insormontabili, si può decidere di voler scomparire. L’adolescenza è il passaggio alla vita ed è il momento in cui si prende consapevolezza della difficoltà della vita.  I fattori scatenanti possono essere i conflitti con i genitori, brutti voti scolastici, il cyberbullismo. Bisogna fare attenzione e coglierli come segnali non solo l’annuncio da parte del ragazzino di volersi suicidare, ma anche quando mostrano eccessiva tristezza, chiusura, quando provano a scappare di casa. A quel punto tocca all’adulto cercare il dialogo e affrontare il problema e talvolta farlo anche con uno psicoterapeuta in grado di ascoltare dapprima l’adolescente e poi la famiglia, in grado di ricongiungere un dialogo familiare inesistente o perso. Le famiglie però faticano a chiedere aiuto, perché c’è ancora un pesante stigma sociale intorno alla sofferenza mentale.  L’adulto deve essere in grado di andare oltre le proprie idee e i propri preconcetti, e prendere sul serio il figlio, ricalibrare le reazioni in base al problema del suo ragazzo prima che sia troppo tardi. I genitori non sono responsabili del male di vivere dei figli. Anzi, se adeguatamente supportati da uno psicoterapeuta la famiglia è una risorsa preziosa per questi ragazzi.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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La vita e i disagi dei più piccoli al tempo del lokdown

untitled 2In un attimo ci siamo trovati catapultati in una realtà da fantascienza o da previsione di stregoneria. La pandemia da coronavirus ha sconvolto le nostre vite di adulti, possiamo solo immaginare quali danni rischi di fare in menti in formazione come quelle dei bambini. Proprio per questo motivo in molti avevano avanzato alle istituzioni la richiesta “dell’ora d’aria”: brevi passeggiate periodiche per i più piccoli al fine di fargli sgranchire le gambe e fargli vedere la luce del sole. Idea che ha sollevato opinioni discordanti specie tra i pediatri che ipotizzando degli assembramenti in parchi pubblici avevano sconsigliato ai genitori l’ora d’aria per i più piccoli. Così i piccini si sono ritrovati in quarantena tra sogni e bisogni. All’inizio sembrava che l’emergenza si sarebbe risolta in poche settimane ed invece ad un mese e poco più di lockdown, tranquillizzare i bambini, capire i loro bisogni non è per niente facile. Và in pensione anche l’arcobaleno coi suoi colori ed il motto “andrà tutto bene” . Improvvisamente i più piccoli si sono trovati catapultati in una realtà che in poche ore è cambiata: lo shock della chiusura delle scuole, mamma e papà a lavoro da casa, insomma un giorno tutto si è fermato improvvisamente: chiusi in casa e isolati da tutti per settimane. Niente compagni, niente amici, niente nonni o parenti, niente più attività pomeridiane, e nessuna possibilità di uscire di casa. Così si è cercati di non spaventarli: fiabe, disegni, garantire loro una normalità “riadatta” con compiti a casa. Ma nel frattempo i loro bisogni crescono, come i dubbi e le domande che certo un disegno o un abbraccio non spazzano via. Ci sono bambini che sono diventati più agitati, fanno i capricci o manifestano tristezza e si lasciano andare a crisi di pianto senza un apparente motivo. Sono le emozioni che chiedono di essere espresse.  E’ bene però porre attenzione ai loro atteggiamenti: sintomi regressivi, ovvero, il bambino manifesta la richiesta di vicinanza fisica ai genitori specie nelle ore notturne, presentando anche un sonno agitato e caratterizzato da frequenti risvegli, molti di loro sviluppano anche paure nuove, che prima non presentavano. Metà dei bambini in questo periodo presenta una maggiore irritabilità, intolleranza alle regole, un notevole calo di attenzione, alimentato dal disinteresse di molte attività. Particolare attenzione deve essere prestata al comportamento di adattamento che potrebbe nascondere la presenza di vissuti depressivi o comunque di un importante malessere psicologico. Molti bambini sembrano che si siano adattati con facilità alle restrizioni, eppure potrebbero nascondere capricci, incomprensioni, problemi del sonno e richieste che prima non avevano avanzato: spie di un malessere psicologico.

Evitiamo di creare per loro attività strutturate e ripetitive: disegno di una casetta, dolci da fare insieme, ma lasciamoli liberi di sfogarsi, di mettere in circolo le loro emozioni, la loro fantasia e la loro creatività. Capovolgiamo le cose: gli adulti si adattano alle loro decisioni e prove, qualsiasi sia il risultato. E se le emozioni vengono fuori su carta in un disegno, invitiamoli a raccontare. I bambini esprimono il loro mondo con le azioni, gli adulti con le parole. C’è poi un aspetto che non va tralasciato: l’immobilità relazionale e fisica a cui sono costretti i bambini ormai da troppo tempo. Le restrizioni hanno costretto i piccini in casa, appartamenti piccoli o grandi, privandoli della possibilità di movimento e di relazioni sociali, contrariamente al passato. Sono sempre stati bambini iperattivi e con giornate piene di impegni: dalla scuola alle attività extrascolastiche, oggi pur assaporando il piacere della casa e della famiglia nei più piccoli però queste restrizioni pesano non poco. Senza dubbio la tecnologia và in loro aiuto anche al fine di continuare a sentirsi coi loro coetanei purché questa sia guidata e mediata sempre più dagli adulti di riferimento. Non dimentichiamoci che i bambini hanno bisogno di muoversi e respirare aria pulita, quindi se non abbiamo uno spazio verde o un viale di casa dove lasciarli correre in spensieratezza e fantasia, lasciamo che la casa non sia più casa, adattiamola alla loro dimensione  e al loro caos, lasciamola arieggiare: assimilare i raggi del sole e il profumo della primavera farà bene ai più piccoli ma anche ai grandi.

Insomma, siamo tutti chiamati ad un’esperienza che mai ci saremmo aspettati e per cui nessuno era preparato, aspetti per il quale sono chiamati a confrontarsi gli adulti, sia perché hanno competenze e sia perché designati del compito evolutivo, oltre che da sempre l’adulto è anche sinonimo di protezione per i più piccoli. Proteggere, però non significa omettere la realtà o dimenticare che i bambini hanno delle esigenze, un linguaggio non verbale e delle emozioni che potrebbero faticare  ad emergere. Quindi osserviamoli e consentiamogli di continuare il loro percorso di crescita in modo più fisiologico possibile. Infondo è un loro diritto fondamentale, sancito anche dalla Carta dei diritti del Fanciullo , che recita: “Ogni bambino deve avere protezione e facilitazioni, secondo le leggi o disposizioni analoghe in modo da crescere sano fisicamente, intellettualmente, moralmente e così via” e anche in questa situazione è nostro dovere garantirgliela.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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