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‘Abbasc da a nonna

Nonna Luisa. Semplicemente Lei.

E’ un giorno di angeli oggi, quelli presenti e quelli ormai invisibili: oggi si celebrano i nonni, patrimonio umano e sociale dal valore inestimabile. Le lacrime rotalano negli occhi, le parole si fermano in gola, i ricordi veloci riemergono e si rincorrono. Da piccoli, i nonni sono tanto affetto e vizi a non finire, il luogo dove rifugiarsi dopo ogni marachella. Da grandi, sfogatoio e riflessioni. Da adulti quando li perdi ti rendi conto che un pezzo della tua vita si stacca, lo perdi, e inizi a vivere una fase di ricordi e di maturità, un tormento interiore, dove non manca la tristezza e la malinconia.

Sette mesi fa è venuta a mancare nonna Luisa, che a 75 anni, ha cresciuto quattro nipoti, e tre pronipoti, donna viaggiatrice, bilingue perché conosceva e parlava anche il francese, dal carattere temprato, eppure nascondeva un cuore umano e solidale. Era tosta con la vita, che troppe volte le ha tirato tranelli e difficoltà, aveva una sorta di corazza, che poi lasciava trapelare l’animo di chi non ha mai chiuso la porta in faccia a nessuno.

Uno dei momenti più tristi è pensare che la porta della casa di nonna Luisa, non si apre più a tutta una serie di eventi, momenti e affetto. Per noi nipoti è sempre stato “abbasc da ‘a nonna”.

Ogni Natale “c’arriunimm a abbasc da ‘a nonna” con l’immancabile fusillo, tirato da lei e con il segreto della farina, quei fusilli che noi nipoti donne sappiamo tirare, perché in molti pomeriggi di un’infanzia fa ce l’ha insegnato proprio lei, quando poi ci raccontava la sua infanzia o i racconti di famiglia. Quella casa, isola felice e isola di oggetti: “portiamolo abbasc da ‘a nonna, lo conserva lei”. E non diceva mai “no”, “mettetelo sul mezzanino”, un soppalco dove trovi di tutto ammassato, perché tutti noi non avevamo spazio ma non volevamo liberarcene.

I regali erano perlopiù soldi col bigliettino che recitava “come il tuo cuore desidera”.

E’ finita “abbasc da ‘a nonna” e ci siamo ritrovati di colpo adulti senza capire quando abbiamo smesso di essere bambini. Certo per i nonni siamo sempre piccoli e indifesi. Nonostante la mia età mi diceva “mangia, ma stai mangiando?” e “statt accort”. Aveva sempre i baci perugina pronti e se volevi anche il bitter analcolico. La pasta. Poi improvvisamente è finito tutto. E’ andata via troppo presto, porca miseria.

Abbasc da a’ nonna, non posso scampanellare più per far capire che sono, nella cantina dei ricordi vanno i natale nel “salone della nonna”, e i momenti nel quale mi fermavo per due chiacchiere e mi diceva “tieni la neve in tasca”, ma sono consapevole che ho avuto la fortuna di crescere con una Donna d’esempio, e forse nel carattere un po’ scontroso le somiglio. Orgogliosamente direi.

Fino all’ultimo nonna Luisa ci ha insegnato che vale la pena sempre lottare e che i desideri vanno esauditi, lasciandoci come ultimo testamento di vita che sai dove nasci ma non sai nella vita dove ti ritrovi e dove muori, perché la vita è eventi e seguire anche i propri desideri. E non a caso la sua canzone preferita era “la vie en rose” di edith de piaf, che cerco di ricordarmi nei momenti più tristi.

Amateli i nonni, rendetevi conto di che fortuna è averli, godeteveli fino all’ultimo e rendeteli felici.

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Assistente sociale, oltre una fiction

Un blog è anche uno spazio libero che poi si apre al confronto mediante i commenti in rete, ancor di più sui social network. In questo spazio di parole e riflessione, voglio affrontare una tematica legata ad una delle professioni più umane e profondamente empatiche, bistrattata il più delle volte, talvolta umiliata, sconfinata dai più: l’assistente sociale.  Professione che ricopro ogni giorno con scienze e coscienza, con trasporto ma anche con fatica qualche volta. La fiction Rai- “Mina Settembre”, nata dalla penna dello scrittore napoletano Maurizio De Giovanni, che ha dedicato al personaggio e al ruolo il libro da cui è tratta la fiction “dodici rose a Settembre”, ha portato alla ribalta del grande pubblico la professione di assistente sociale, occasione più unica che rara. I film e le fiction del piccolo e grande schermo hanno preso spunto dalle più disparate professioni, mai però quella dell’assistente sociale, quasi come a non voler toccare un tasto che talvolta rischia di essere dolente. Mina Settembre, è dinamica, gioiosa, solare, “fatina” in diverse situazioni, alle volte sorvolando alcune procedure, d’altra parte è pur sempre una fiction ed il romanzo è giusto che ci sia, eppure non tutti lo comprendono, perché a me è già capitato di sentirmi dire “ma nel film fa così perché “tu” non fai così?” E come glielo spieghi che è pur sempre un film e che non può entrare nel merito delle norme, delle procedure, delle tutele per sé, per l’Ente, e ancor prima della persona, che è al centro di tutto? L’assistente sociale Mina Settembre è un po’ casinista nella vita privata, e forse rispecchia molte noi assistenti sociali, che con la vocazione di aiutare gli altri, con spirito di altruismo e abnegazione, siamo perfetti costruttori dei puzzle di vita altrui ma non delle nostre, dove siamo casiniste, caotiche, confusionarie e anche impacciate, e spesso pecchiamo di presunzione: ciò che accade alle altre persone in carico pensiamo che non possa mai accadere a noi e alle nostre famiglie. Fare l’assistente sociale è un lavoro umanamente gratificante ma anche molto impegnativo, a volte estremamente stancante, le giornate sono scandite di incontri, di problemi che aspettano una risposta, di responsabilità da assumersi e che ti portano a mediare e pensare quale sia la cosa giusta nel momento sbagliato nella vita dell’altro. E’ un difficile ma strano mestiere. Intreccia ansie, preoccupazioni, decisioni, scienza e coscienza, vite che ti passano davanti e ti entrano dentro, che talvolta si affidano a te. E’ un viaggio continuo e spesso difficoltoso, dove ti porti dentro e a casa gioie ma anche tanti pensieri. E’ però un mestiere di empatia e di amore. Che se lo fai è perché lo ami e perché ci credi. Consumi il cervello, il cuore e le suole delle scarpe, poni l’orecchio a terra, corri, ti affanni, c’è chi ti segue, chi si perde, chi ti critica, chi ti giudica, chi racconterà la sua versione dei fatti perché sa che sei vincolata al segreto professionale e alla privacy ma torni a casa distrutta ma felice. Il sorriso di una persona che hai avuto in carico. Il sorriso ritrovato di bambini provenienti da contesti disfunzionali, ripaga e ricompensa. Eppure è un lavoro a rischio, non sono nuovi i casi di minaccia, ritorsione, aggressione ai danni degli assistenti sociali, privi di ogni tutela, che ogni giorno lavorano col rischio di essere minacciati o di subire aggressioni. Un lavoro in perenne precariato, inutile innamorarsi dell’assistente sociale che vedete seduta dietro una scrivania di un comune, sono la maggior parte a tempo determinato, appoggiati su fondi che servono a contrastare la povertà, alcuni di essi lavorano in regime di co.co.co. attraverso cooperative, spesso sottopagati o malpagati, molti diritti sono annullati o non del tutto riconosciuti. Bizzarro ma vero: gli assistenti sociali tutelano e si battono per i diritti altrui ma di fatto svolgono un lavoro dove i propri diritti, iniziando da un lavoro stabile ed in tutela, non esistono quasi. Ho incontrato in molti concorsi a cui ho partecipato colleghi di quaranta e oltre anni, eterni precari, con anni in cui hanno lavorato e anni in cui si sono ritrovati a casa, mettersi in gioco ancora e ancora, credendoci sempre. Questo imbarazza in un paese civile, scoraggia quanti pensano che ci siano realmente occasioni di lavoro in un settore fragile e bisognoso di professionalità.  Ci viene chiesto di aiutare gli altri quando invece gli eterni incerti del lavoro sono proprio gli assistenti sociali. Eppure ogni giorno c’è carenza d’organico, quelli che sono in servizio si affannano, faticano, ma non riescono a star dietro a tutto e a tutti; i bisogni cambiano, le famiglie necessitano oggi più che mai del sostegno e dell’operato sociale, impossibile riuscirci per tutti, manca il tempo e lo spazio mentale, il confine è labile, il rischio di burn out è dietro l’angolo e questo rischia di essere un boomerang con ripercussioni su tutto e su tutti. Eppure si arranca e  si va avanti. E allora cosa si aspetta? Dei bei proclami, delle speranze di leggi di bilancio, di assunzioni e concorsi ne abbiamo sentito e ne sentiamo, eppure sembra che ci sia sempre qualcosa che ostacoli, oggi forse si dirà “a causa dell’incertezza di governo”, e ieri cos’era? Ricordo ai più che sono passati vent’anni e quest’anno ventuno dall’entrata in vigore della 328/2000 la legge quadro sul sistema integrato di interventi e servizi sociali e oggi più che mai ci sono nuove esigenze spinte dalla crisi economica degli anni passati e oggi da una pandemia che ha cambiato il volto delle persone e delle famiglie. Ma si resta fermi ancora al palo dove ci sono assistenti sociali che aspettano risposte, certezze, sicurezze, aspettano anche sostegno. Le risposte ed i fatti concreti chissà a quando.  Nel frattempo c’è Mina Settembre in tv!

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Diritti dei bambini. Giornata mondiale

🎯Giornata Mondiale dei diritti dei bambini

📌Se tutti i bambini del mondo hanno gli stessi diritti, qualsiasi sia il loro sesso, luogo di nascita, religione, lingua o condizione sociale, lo si deve alla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (Convention on the Rigths of the Child – CRC), approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989, e ratificata dall’Italia con la legge n. 176/1991.

📍Quattro i principi ispiratori:
principi ispiratori:

✅ non discriminazione

✅superiore interesse del minore

✅diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo

✅ rispetto per l’opinione del minore.

⁉️Nessuno direbbe che alcuni bambini hanno meno diritti di altri. Eppure, ancora oggi, molti bambini e adolescenti, anche nel nostro Paese, sono vittime di violenze o abusi, discriminati, emarginati o vivono in condizioni di grave trascuratezza e disagio. Alcuni soffrono ancora la fame, la privazione degli affetti dei genitori e non frequentano la scuola.

🎯  Le sfide della pandemia per l’infanzia e l’adolescenza. In tempo di covid 19 è bene ricordarsi dei tanti minori che vivono in contesti disfunzionali e abbandonati: dove mancano strumenti per la Dad e supporto adeguato. Dei tanti che oggi si sentono al sicuro a casa ma che domani vivranno la difficoltà del ritorno. Di quanti si ritroveranno a fare i conti con le disuguaglianze che lascerà questa pandemia.

📌 il monito dovrebbe essere lavorare oggi come adulti, operatori del sociale, istituzioni, per costruire un domani più sereno, perché è un Dovere dell’adulto e un Diritto del minore.

giornatamondialedeidirittiminori #minori #assistentesociale #nessunosisalvadasolo

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#pensateci

Parliamone.
Queste settimane di emergenza che stanno paralizzando il mondo che non riesce più a vivere nella sua corsa affannosa, assistiamo in ordine sparso:

-alla pubblicazione e divulgazione del video di un paziente probabilmente affetto da covid che è stato ritrovato morto nel bagno dell’ospedale Cardarelli di Napoli.
Premesso che ogni essere umano ed ogni morte va rispettata, per cui c’è sempre un limite da porre all’informazione soprattutto rispettando la morte ed i familiari di quell’essere umano che ha trovato la morte improvvisamente, senza poter chiedere aiuto all’interno di un bagno dell’ospedale.
Questo non è giornalismo, me ne dissocio.
Il rispetto prima di ogni cosa.
Davanti a notizie ed immagini del genere bisogna solo provare “vergogna” da parte di chi ci governa e sa le reali condizioni sanitarie al Sud ed in Campania.
Dolore e preghiera da parte dell’opinione pubblica anziché farlo rimbalzare da una chat all’altra o da una bacheca all’altra. Silenzio e non commenti del tipo aveva o non aveva altre patologie. Ditelo.
Non è un gioco al massacro questa, si chiama Vita, eppure in questo momento surreale e tragico dovremmo ricordarcene.

-un ragazzo di 26 anni perde la vita in Italia a causa del covid, un titolo specifica che aveva già pregresse patologie e così i commenti dicono “finalmente lo dite che aveva pregresse patologie”, come se avere altre patologie giustificasse che si possa morire. Così come quelli che giustificano la morte degli anziani “tanto era anziano”, ma perché scusatemi chi è anziano, chi ha altre patologie può o deve morire secondo voi?

-un governatore della regione posta un tweet dove dice che nella sua regione per covid muoiono gli anziani che non sono più produttivi al tessuto economico. Ecco un rappresentante istituzionale che con un post che suona tanto come pacca sulla spalla legittima la morte degli anziani per covid, tanto alla fine -suo messaggio sublime- che ce ne facciamo? Ma ci rendiamo conto che parliamo di esseri umani, di persone che hanno prodotto in questo Paese, di persone che sono patrimonio umano?

-l’Italia viene divisa in colori, i contributi arrivano solo per alcune regioni, chi è reduce dal primo lockdown aspetta ancora gli aiuti pregressi. Infondo basta pubblicare un decreto e dire “facciamo. Ci siamo”. Ma dove siete quando la gente non può mettere il piatto a tavola?

-gli ospedali sono in affanno eppure però c’è chi dice “ci atteniamo ai dati”. Ma perché ci vogliono i numeri anziché vedere barelle qua e là nei corridoi, gente che viene soccorsa in auto, gente che muore nell’attesa fila di accesso al Pronto Soccorso. Poi ci voleva il genio della lampada per prevederlo? Non si sapeva che sarebbero andati in affanno totale, specie dove la sanità è sempre stata commissariata o finanziata continuamente?

-ci siamo dimenticati che non ci si ammala solo di covid, ma anche di altro, che si possa aver bisogno di un ospedale per altre problematiche?

-vogliamo parlare del senso civico quasi inesistente? La gente viola la quarantena, chi è in isolamento ed asintomatico, si sente libero di poter uscire. Di gente che non indossa la mascherina o la porta come accessorio scalda collo. Di esercizi commerciali che ancora non fanno rispettare le regole perché uno è amico, perché non vogliono discussioni, perché dobbiamo campare anche noi.

Ci siamo riempiti la bocca e le bacheche che saremmo diventati persone diverse, migliori, che saremmo tornati ad una quotidianità cambiata con consapevolezza ed accortezza. Siete sicuri? No, perché io francamente mi sembra che siamo diventati peggio, del tipo: ognuno per sé e dio per tutti; del “io speriamo che me la cavi”; “morte tua vita mea”; del “tanto a me il virus non mi tocca”. Infondo ora la cosa più importante è se possiamo fare il cenone a Natale e Conte sta vagliando in che modo possiamo farlo per accontentare quelli che dobbiamo essere “sett ott e nuje”.
Alla fine di questa malvagia giostra fermiamoci a farci un esame di coscienza.

#pensateci

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Elogio all’Indipendenza

untitledElogio all’Indipendenza

Da quando, un anno fa, la mia storia “d’amore” è giunta al capolinea, con gli strascichi e con tutto ciò che un rapporto che naufraga comporta e non sto qui a dirvi chi ha lasciato chi, chi ha commesso più errori di chi, perché è finita: storia troppo lunga, personale e poco social. Ma, da quando è finita, dagli amici o presunti tali, in ordine sparso,  mi sono sentita dire:

-ho avuto persone che all’inizio mi sono state accanto, poi lentamente hanno preso le distanze, lasciando spazio al silenzio. D’impatto iniziale le ho cercate, ho provato a capire, poi ho lasciato scorrere. Non si può forzare qualcuno ad un’amicizia che magari ha bisogno di più vicinanza, più chiacchierate e meno “ridiamoci su”.

-mi sono sentita dire: “la nostra comitiva è composta di sole coppie, capirai bene che tu sola…” e come mi ha detto una mia amica: “la mamma degli stupidi è sempre incinta”. In effetti, forse non ha tutti i torti. Glisso e ci scherzo su: “non esistono più le comitive di una volta”: maschi e femmine, coppie e single;

-qualcuno ha sussurrato ad altri per vie traverse che per rispetto al mio ex fidanzato mi hanno allontanato dalle loro amicizie.

Traduzione: ci si schiera da una parte o dall’altra;

 

-mi sono sentita dire: “una sera ti aggreghi a noi, ti faccio sapere dove andiamo, solitamente stiamo tra amici e ci divertiamo”.

Attendo ancora quella telefonata, eppure il mio telefono funziona: la linea c’è, i messaggi li ricevo… ;

 

-qualcuno ha utilizzato la strada della diplomazia: “ti richiamo”, “sono impegnata in questo periodo”, “che stress in queste settimane”.

Peccato che poi alla fine non abbia neanche scritto un messaggio, un biglietto col piccione viaggiatore o un non so cosa.

 

Insomma, un decalogo quello che potrei scrivervi e raccontarvi, che oggi mi suona buffo.

E’ pur vero che quando ci si lascia e quando hai sofferto e covato dolore dentro, non sei al massimo dello splendore, delle risate, ma certo non sei da emarginare.

Certo qualche errore- specie quando ero in coppia- con gli amici l’ho commesso anche io, per carità.

Ma io di questo periodo di solitudine ne ho fatto un punto di forza e di ripartenza. Stare a casa di sabato sera o nel week end non mi è pesato, anzi l’ho vissuto come un riapprezzare il relax, la musica, i libri da divorare, il piacere di lasciarsi coccolare da casa propria, perché potremmo farci del male, sbagliare nella vita, ma c’è sempre un posto dove si ritorna ed è la propria casa. Non sempre la casa è sinonimo di solitudine e di depressione, certo, ci sono persone che vivono male la fine di una storia e stare in casa è come stare in trappola. Nel mio caso l’ho visto come un ritrovarmi, come un riesplorarmi, come un tempo per me. Un tempo che fa riflettere, capire, fa male anche perché prendi coscienza di tante cose ma solo imparando a stare da soli è possibile poi stare bene con gli altri, con gli amici che ritrovi, con le nuove comitive, o se volete e siete pronti con un nuovo flairt o un nuovo amore.

Si giunge poi ad un momento che il periodo di “relax casalingo” un po’ stufa e un po’ pesa e così ho capito che si riparte e sempre e solo da un’unica persona –sembrerà egoistico- ma da se stessi. Così ho ripreso a vestirmi con un outfit da sabato sera, ad andare al teatro, a mettermi in auto e girare a vuoto per la città o semplicemente entrando in un bar. Beh sì DA SOLA, che poi infondo non si è mai da soli perché si incontra sempre qualcuno che si conosce, con quale ti intrattieni a chiacchierare.

Mentre scrivo mi chiedo se l’ho fatto più per ripicca nei confronti di chi mi ha ferita e fatta male dal mio ex fidanzato a tutti quelli che citati sopra mi hanno risposto in quel modo. Non saprei, infondo, il problema è più Loro che Mio.

 

Quindi, donne, la forza siamo noi, le nostre capacità, le nostre energie, la nostra tenacia, la nostra curiosità, la nostra INDIPENDENZA e si riparte sempre da questa fantastica ed unica avventura: l’Indipendenza di se stessi.

Vi starete chiedendo se sono felice? Sono felice di aver preso coraggio un anno fa, contenta di esser ripartita da me stessa, certo cerco un lavoro stabile, mi confronto con le ansie e le paure dei concorsi, non ho smesso di studiare, lavoro con un progetto e questo è stato anche il mio punto di forza nelle settimane più burrascose e tempestose. Insomma non è una vita perfetta e delineata ma d’altra parte cosa lo è a questo mondo ed in questa vita?

Perché vi scrivo e vi racconto ciò? Perché nel tempo, per lavoro e anche per rapporti personali, ho incontrato donne e anche mie coetanee che cercavano un fidanzato o restavano con quella persona perché la solitudine era un mostro impossibile da affrontare. Ma, nessuno merita di vivere in rapporti – che siano anche amicizie- che sono di convenienza o di apparenza solo perché non si riesce a guardare un po’ più dentro di se stessi, scovando la parte migliore di noi: coraggio ed indipendenza, che permettetemi di dire nelle donne è in dosi massicce.

Viva l’Indipendenza, viva le Donne.

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E uagluine ro’ vic: il racconto di chi cresce per strada

img_0217“So tutt frat sti guaglion ‘e miezz ‘a vij” mi accolgono con questa frase i “uagluine ‘e mezz ‘a vij” come si dice nel linguaggio dialettale, ovvero, i ragazzi che la strada la vivono, che di quella strada ne sono cresciuti. “Signori si nasce”, era il refrain di Totò. Ma principi, nei quartieri “bassi” di alcune zone, lo si può diventare. L’ascesa nei rioni “della diversità” diventa un valore aggiunto e non è una questione di galloni. Contano di più il cuore, i sogni e le capacità di guardare il mondo con gli occhi di un innamorato. Su un terreno di questo tipo, lancio il messaggio, che possono sbocciare i fiori più belli. Come? Avendo il coraggio di cambiare le cose dal di dentro o partendo dai ragazzi stessi. Sant’Agostino diceva che il viaggio è il libro più importante della vita. E molti ragazzi dei “quartieri” o dei “rioni” dopo aver visto il resto d’Italia e le capitali europee, hanno capito che la loro città non aveva nulla di meno. “uagliella a ro’ vic’” mi definiscono così e mi immergo tra le vie e le storie dei ragazzi del rione “palazzine” di Pagani, in provincia di Salerno, dove ogni giorno nascono idee ed attività per contrastare il disagio sociale, pur consapevoli che Pagani è quel fazzoletto di terra cerniera tra Napoli e Salerno, con una linea storica “75” Napoli-Pagani, definita asse delle droga, arresti per droga e spaccio che quotidianamente popolano la cronaca nera, a questo si aggiunge quel “marchio” che la città ed i giovani nella loro onestà devono contrastare: terra di camorra. La scia di episodi criminosi che di piombo e sangue hanno macchiato la città è lunga ma c’è anche un profumo di rinnovamento, di nuovo che avanza, di giovani “dei quartieri” che dalla strada non hanno imparato il crimine e la violenza, ma ben altro e questo articolo nasce proprio da questo spirito e viene scritto di pancia e di cuore. Quello che emerge nella nostra conversazione, sono rapporti di amicizia intimi che prosperano in situazioni caratterizzate spesso di disagio, ma pure da grande ricchezza d’animo. Si inseriscono nella società in punta di piedi, con rispetto di tutti, anche dei pregiudizi che qualcuno nutre nei loro confronti, perché figli della strada, ed in molti albeggia la convinzione che a questi ragazzi è stata instillata l’idea del crimine e della “vita facile”, invece, loro mi conducono in un mondo parallelo che vive nelle nostre città, ragazzi che dalla strada hanno imparato il rispetto dell’altro e della difesa, che si pongono dall’altra parte dell’idea criminale, e mi spiegano che la violenza non li attrae, ma si pongono in prima linea per l’amico in difficoltà, e se si ritrovano coinvolti in qualche rissa spesso è proprio contro il loro volere. Mi conducono a spasso tra gli avamposti culturali del quartiere: la storia di Sant’Alfonso, l’arte del territorio, l’amore per il calcio, il tifo spensierato e sano, tra le chiese che spuntano quasi ad ogni angolo, gli ipogei. Tra loro e in questo patrimonio storico culturale che conoscono meglio di un critico d’arte cittadino, spunta un ragazzo, apparentemente “figlio borghese”, con un’identità forte e fiera: “sono cresciuto in strada- dice-, anche se vivo nel centro storico della città.” Figlio di professionisti cittadini, abbigliamento impeccabile, sguardo da professionista anche lui, di quella strada ne và orgoglioso, perché dice: “la strada mi ha insegnato il buono ed il male, scansato i pericoli, affrontato situazioni che alcuni ragazzi non hanno affrontato, ma questo mi ha insegnato a crescere, affrontando la vita in modo diverso.” La strada, mi racconta, gli ha insegnato le amicizie vere, ad un usare un “nostro” anziché il “mio”, a condividere, ma anche ad aiutarsi, confrontandosi, e non lo ha etichettato come “figlio borghese” nonostante abbia una buona dizione, raramente cade in qualche forma dialettale e sia un ragazzo prossimo alla laurea in ingegneria e lui stesso non rinnega la strada né tantomeno accetta il marchio dispregiativo che molti danno ai ragazzi di strada. L’inclusione sociale, a queste latitudini, è un piacere e lo si riscopre tra loro. Sono ultimi, per molti, ma non si sentono inferiori e proprio da questo è partito l’input di scegliere un diverso tra i diversi per il ruolo di aviatore. Perché da loro sono nati i centri di aggregazione giovanile, che in silenzio ed in sordina opera sul territorio di Pagani, ben cinque sono i punti d’aggregazione, sconosciuti a molti, ma non a chi ne ha bisogno, creando un’aspirale di solidarietà infinita: ragazzi di strada che aiutano altri ragazzi di strada, perché si sa non sempre la strada innesta pensieri positivi, valori saldi, e proprio ai ragazzi più fragili si avvicinano, per agganciarli e per mostrargli l’altro volto della strada, per organizzare momenti di confronto e di volontariato: organizzando banchi alimentari per i più bisognosi, gruppi di volontariato, perché ci sia inclusione e non esclusione. E se gli si chiede cosa pensano della camorra sono netti e ne parlano come di strade senza uscita, strade che non bisogna assolutamente prendere, perché non portano a nulla e non hanno futuro. Mi ritrovo dinanzi a ragazzi equilibrati, ponderati, con valori saldi, legati alla famiglia, con un profondo amore che rappresenta la leva più forte con cui cambiare il mondo. La realtà, passeggiando tra i vicoli ed i quartieri delle città, non è poi così diversa, certo, come mi dicono anche loro “il buono ed il male esiste ovunque”. Ma, c’è un orgoglio: principi cresciuti tra i vicoli. In un tempo di scorribande di ragazzini che in molte città italiane, in particolar modo a Napoli, seminano il panico ed il terrore, in un fenomeno che sa di nuovo alle istituzioni, al mondo del sociale e ai suoi professionisti, ho voluto cercare di abbattere il muro di pregiudizi, di stereotipi, che un po’ tutti abbiamo sempre avuto sui ragazzi cresciuti “con le regole della strada”, ma scopro un mondo che è fatto di altro, che supera la convinzione dei codici, del male e della violenza, seppur siamo tutti consapevoli, io per prima, che tra loro può esserci la serpe in seno, più fragile che dalla strada incontra la criminalità o la violenza, ma questi ragazzi ci danno una lezione di vita, a me per prima, perché ci raccontano una strada che non è solo figlia del male, ma è una piccola società di giovanissimi che si tengono per mano per seguire una nuova strada ed aiutare altri ragazzi.

(Articolo pubblicato per il mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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In corsia tra i malati oncologici, Insieme per la battaglia più importante della vita

FB_IMG_1511987989951In corsia, tra i cubicoli ospedalieri, tra i pareri dei medici e le terapie da somministrare. Toccante, forte, ma viva come in effetti è la vita, il DH dell’ospedale in cui ogni giorno vengono somministrate a decine di pazienti fiale di chemioterapia è un groviglio di volti segnati, sofferenti, battaglieri, sorridenti, ma anche un groviglio di speranza, “perché fin quando c’è partita bisogna giocarsi tutte le carte”, dice qualche paziente. Da molti mesi mi occupo di malati oncologici e dei loro familiari, come assistente sociale e volontaria per l’associazione “Insieme per Rinascere”, li supporto, li consiglio nel percorso sociale e umano nella battaglia più grande della vita, quella della lotta al tumore. Organizzo e prendo parte ai gruppi di auto aiuto, partecipo e sposo iniziative come il make up per le donne in terapia, ma mai mi sono calata nella realtà ospedaliera fino ad ieri, quando insieme ai miei colleghi e compagni di un’avventura che sa di vita e di dedizione agli altri, sono andata al DH dell’ospedale di Pagani: pochi posti, per tanti, troppi malati, che aspettano anche ore per quel posto e per la somministrazione di quel farmaco che tutti sanno far male dopo, ma che rappresenta la speranza a cui aggrapparsi per vincere quel male arrivato d’improvviso a scombussolare i piani della vita. Il cancro è una cicatrice nell’anima. Ruba la salute, spesso la dignità, la fiducia in se stessi, la percezione di sé nel mondo. E negli ospedali esiste una vita, esistono uomini e donne che malgrado tutto continuano ad essere madri, padri, mogli, mariti o figli. Riescono a collocare nell’agenda della vita l’appuntamento per la chemioterapia fra una lavatrice o la partita di calcetto del proprio figlio. Sono uomini e donne coraggiosi e bellissimi. Ma quegli ambienti sono carichi di speranza, di dolore e di solitudine, così ieri siamo approdati con le nostre paure più intime, con il nostro sorriso, con la nostra grinta e la nostra tenacia, per essere accanto a chi ogni giorno lotta anche contro se stesso. Siamo arrivati per parlare, ma non pensate che sia stato un sopporto indegno o di rito, non ci sono state parole “non vi preoccupate”, “ce la farete”, abbiamo parlato ognuno di noi stessi, dei nostri interessi, della nostra vita, dei dilemmi amorosi, abbiamo ascoltato musica, perché ai pazienti abbiamo donato grazie ad un’agenzia di comunicazione dei tablet per accompagnarli nelle ore di terapia. Perché il cancro si può affrontare se un paziente non è solo ma ha una rete sociale, familiare, affettiva, su cui poter contare. Un sorriso, una parola, un po’ di musica per alleggerire il carico, stemperare la tensione, una piccola parentesi di leggerezza, per non sentirsi soli, con qualche piccola e sana iniezione di fiducia, con uno strumento di supporto sociale, psicologico che aiuti i pazienti a trovare la forza di combattere.

E’ stata un’esperienza unica, che mi ha infuso un’adrenalina ed una carica incredibile, dando senso al mio lavoro e alle mie idee, alle nostre iniziative come associazione. Credo che forse siano stati più i pazienti a dare qualcosa di intimo, profondo a me che forse io nell’ascoltarli e nel dialogare. Presto ritorneremo, ci saremo, perché Insieme siamo la forza. Insieme per Rinascere.

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Estetica oncologica: un nuovo modo di affrontare il cancro

17799377_1852211925033975_8249244302505497766_nDalla corsia al salone di bellezza, dai cubicoli alla poltrona estetica, dai pareri dei medici a quello di una consulente d’immagine della squadra del make up artist Diego Dalla Palma. La speranza trionfa nei sorrisi delle pazienti di Pagani, che giovedì pomeriggio si sono incontrate nei locali dell’oratorio della chiesa San Sisto di Barbazzano, che ha accolto l’iniziativa “laboratorio di bellezza per le pazienti oncologiche”, organizzato dall’associazione di volontariato “Insieme per rinascere”. Per un giorno, l’oratorio della parrocchia si è trasformato in un beauty saloon, tra creme, ombretti colorati e ritocchi di make up. La bellezza va celebrata, anche e soprattutto quando è martoriata e mutilata dalla malattia, sepolta sotto una parrucca, asportata insieme ad un seno, nascosta da una cicatrice. Il cancro è una cicatrice nell’anima. Ruba la salute, ma anche troppo spesso la dignità, la fiducia in se stessi, la percezione di sé nel mondo. Queste donne, malgrado tutto continuano ad essere madri, mogli e figlie. Riescono a collocare nell’agenda della vita l’appuntamento per la chemioterapia fra la scuola dei figli e le incombenze domestiche. Sono donne coraggiose e bellissime. Ed ecco che arriva l’estetica oncologica, un nuovo modo di affrontare il cancro. Molte le donne che ieri a Pagani si sono avvicinate alla bellezza e all’estetica, sposando l’idea che è possibile mantenere inalterata la propria immagine nonostante la malattia, anche perché aiuta a stare meglio. Un effetto benefico. Sapere che oggi accanto alle terapie oncologiche esiste la possibilità di pensare alla propria bellezza nonostante il tumore, può cambiare molto la percezione di se stesse come malate di cancro, e quindi la propria qualità di vita che si ripercuote sull’andamento della malattia.

983990_1852212171700617_1956924640713132625_nCosì giovedì nelle stanze dell’oratorio della parrocchia paganese le donne hanno potuto strappare segreti e consigli dalla make up artist, che ha insegnato loro come truccarsi per nascondere pallore ed eruzione cutanei, quali colori usare, quali trattamenti estetici fare per stare meglio con se stesse e nel proprio corpo che dolorosamente muta. Un’iniziativa quasi unica nel suo genere, che nella città di Sant’Alfonso presto si ripeterà, ma laboratori estetici per pazienti oncologiche sono ancora pochi in Italia, si può contare solo Casoria, che per un giorno ha trasformato la sala della chemioterapia in un centro estetico ed il reparto di oncologia di Sesto San Giovanni nel milanese. Troppo poco ancora, perché quando si partecipa ad un laboratorio di bellezza oncologica, si comprende come l’estetica oncologica non è solo una parentesi di leggerezza, durante la quale le donne non pensano alla malattia e non si sentono malate, ma è una iniezione di fiducia, uno strumento di supporto psicologico che le aiuta a ritrovare forza e a sentirsi bene con loro stesse.

 

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Parto anonimo, per la Cassazione il figlio può cercare la madre

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messCon la maggiore età, il figlio di una madre che ha voluto partorire in totale anonimato ha il diritto di andare a cercarla. Lo ha stabilito di recente la Corte di Cassazione. I giudici sono intervenuti su un argomento al quanto delicato, sulla quale si sta discutendo da quattro anni, da quando la Corte Costituzionale nel 2013, aveva dichiarato illegittime le norme che impediscono, per motivi di privacy di risalire ed interpellare la mamma biologica. E’ da allora che si aspetta l’intervento del legislatore. I lavori sono iniziati dopo che alla procura della Cassazione era arrivata una richiesta di chiarimento dell’Associazione dei magistrati per minorenni e la famiglia, il primo presidente Giovanni Canzio aveva chiesto un pronunciamento alle Sezioni Unite, vista la particolare rilevanza della questione. Prima della pronuncia della Cassazione, i tribunali avevano deciso in modi del tutto diversi, in molti tribunali era stata respinta la richiesta di interpello perché in attesa dell’intervento del legislatore per dare corso alla richiesta del figlio, che il giudice interpelli in via riservata la madre naturale facendole presente la sua volontà di non essere nominata. In tribunali come Trieste, Piemonte e Valle d’Aosta è stata concessa la possibilità di interpello riservato anche senza la legge in forza dei principi dettati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e per effetto della sentenza di illegittimità costituzionale de 2013. La sentenza di Cassazione sgombra il campo da tante ipotesi e scelte diverse, infatti, si legge che, nonostante “il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa”, c’è “la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione.” Stando i dati forniti nello scorso anno dal tribunale per i minori di Roma, su quindici istanze presentate prima della pronuncia della Cassazione, di figli che hanno chiesto alle madri di rimuovere l’anonimato, tredici donne hanno accettato e due hanno detto di no. Libertà di scelta. Il verdetto colma il vuoto normativo ma colma anche il desiderio di tanti bambini, oggi uomini e donne che nonostante una famiglia adottiva solida e amorevole, nonostante la loro età adulta ed il percorso di vita, sentono un vuoto che risale alle loro origini, un vuoto fatto di domande che cercano una risposta, un vuoto che vuole ricercare il volto di quella mamma che li ha messi al mondo. Una sentenza che fa gioire anche tante “mamme anonime”, che finalmente potranno far cadere quel velo segreto, felici di poter ritrovare i figli abbandonati, mentre, altre mamme decideranno di rimanere “mamme segrete”, preferendo il ricordo della nascita ed il dolore, nella maggior parte dei casi, dell’abbandono, facendo sì che molte buste, con i dati del dramma dell’abbandono, restino di nuovo blindate. Per sempre. Nei cassetti di un tribunale.

 

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