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Infanzia, il luogo e le condizioni di vita ipotecano il futuro

L’Italia, un Paese non “a misura di bambino”, dove nascono sempre meno bambini e dove la povertà intrappola il loro futuro nelle aree più svantaggiate, nelle periferie educative, privandoli delle opportunità di coltivare passioni, talenti e aspirazioni. Una finestra sull’infanzia, che troppo spesso non viene aperta, eppure il Paese restituisce una fotografia fatta di povertà minorile e disuguaglianze educative, da nord a sud, con un futuro per loro sempre più a rischio. Un Paese che già prima della pandemia aveva dimostrato di aver messo l’infanzia agli ultimi posti tra le proprie priorità e che nonostante la sfida sanitaria e socioeconomica affrontata durante la pandemia da covid-19, stenta a cambiare strada, mettendo al centro delle politiche di rilancio l’infanzia. L’Italia è tra i paesi europei più “ingiusti” nei confronti delle nuove generazioni, come si evince anche dal rapporto di Save the Children, dove emerge che la povertà assoluta colpisce il 14,2% della popolazione sotto i 17 anni, ed è una forbice tra le più ampie tra i paesi europei. Le condizioni dei bambini, risorsa preziosa ma anche più trascurata dalle priorità degli adulti. In Italia, ogni bambino ha il triplo delle possibilità di trovarsi in condizioni di povertà assoluta rispetto agli over 65. Nello stesso rapporto, emerge l’incapacità di un ragazzino di quindici anni di comprendere il significato di un testo scritto, è al 51%. Un dato allarmante, non solo per il sistema di istruzione e per lo sviluppo economico, ma anche per la tenuta democratica di un paese. Un 1 milione e 384 mila bambini vivono in povertà assoluta in Italia. Incidono le condizioni economiche, nell’attuale società sei genitori su dieci hanno fatto i conti con la riduzione temporanea dello stipendio, e quasi un genitore su sette è tra i nuclei familiari più fragili, che ha perso il lavoro a causa dell’emergenza sanitaria. Paradossalmente, se uno dei due genitori ha perso il lavoro, con esso ha anche perso il diritto alle forme di sostegno in base al reddito che consentirebbero ai bambini di svolgere attività formative e ricreative importanti in questo periodo, cosa non da poco se si considerano le profonde differenze in termini di costi. Ma non sono solo le condizioni economiche del nucleo familiare a pesare sul loro futuro. L’ambiente in cui vivono ha un enorme impatto nel condizionare le loro opportunità di crescita e di futuro. Zone e periferie, possono significare impossibilità di uscire dal circolo vizioso della povertà, mentre a poca distanza vi sono zone di riscatto sociale. Pochi chilometri di distanza, tra una zona e l’altra, segnano la segregazione educativa che allarga sempre di più la forbice delle disuguaglianze, iniziando proprio dalle competenze scolastiche che segnano un divario sconcertante. A Napoli, secondo alcuni dati, i 15-32 enni senza diploma sono il 2% al Vomero, sfiorano il 20% a Scampia. Mentre, nei quartieri benestanti a nord di Roma i laureati sono più del 42%, quattro volte quelli delle periferie esterne, nelle aree orientali della città sono meno del 10%. Differenze sostanziali tra una zona e l’altra anche per quanto riguarda i NEET, i ragazzi tra i 15 ed i 29 anni che non studiano e non lavorano, né sono inseriti in corsi di formazione. Dati che sanno dell’assurdo se si prendono due bambini che vivono a un solo isolato di distanza e che possono trovarsi a crescere in due universi paralleli. Rimettere al centro delle politiche economiche e sociali i bambini significa riqualificare i territori, investendo sulle ricchezze e sulle diversità, combattendo gli squilibri sociali e le disuguaglianze, creando opportunità lì dove sono assenti. Basti pensare come la scuola ormai finita, dopo mesi di pandemia e di difficoltà oggettive, che hanno inciso sulla vita e sulla psiche di tanti bambini, come molti di questi siano esclusi dall’estate. In molte realtà non ci saranno momenti di aggregazione e di svago, attività ludico-ricreative, iniziando dai campi estivi, dai centri polifunzionali che si rimodulano, col risultato che questa estate non sarà uguale per molti bambini, tanti, troppi, gli esclusi dalle ricche opportunità educative e all’insegna della socialità. Sembra che l’isolamento sociale, ricreativo e formativo per molti di loro è destinato a continuare, almeno sino a quando non si interverrà con politiche coraggiose e risorse adeguate.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Neet una generazione a rischio. 1 giovane su 3 non studia e non lavora

Neet, all’Italia il record in Europa: due milioni di giovani non studiano e non lavorano, né inseriti in percorsi di formazione. Un paese che non sa riconoscere le potenzialità dei suoi giovani. E’ questo il quadro che emerge dall’ultimo rapporto sui Neet in Italia. Uno studio firmato dal professore Alessandro Rosina per rete europea StartNet, che sottolinea come nel nostro paese quasi un quarto di chi ha tra i 20 ed i 34 anni vive in una condizione di sospensione, che il docente ha definito “una dissipazione del capitale umano”, rendendo l’Italia con la più alta incidenza in Europa – circa 1 giovane su 3-. Una situazione che è peggiorata ancor di più a causa della pandemia da coronavirus e destinato ad un ulteriore peggioramento. Se è vero che quello dei neet era un fenomeno già ampiamente diffuso prima del virus, lo è anche che il covid-19 ha reso il fenomeno un problema di primaria importanza. Neet è un acronimo nato in Inghilterra e racchiude tutti quei giovani che non studiano, non lavorano né sono impegnati in corsi di formazione. Un acronimo affibbiato ai tanti giovani in tutti il mondo, che per via dei percorsi scolastici non adeguati, per l’altissima difficoltà di entrare nel mondo del lavoro o per cause legate a problemi di tipo sociale e personale – discriminazione, basso livello di istruzione- sono costretti a doverci convivere. Per quanto concerne il nostro paese, i dati che saltano all’occhio sono diversi e di differente natura. Anzitutto il dato relativo al territorio. A livello geografico la fascia che risente maggiormente di tale problematica è il Mezzogiorno, con il 32.6%, rispetto al 19.9% del centro Italia, segue per ultimo il Nord con il 16.8%. Seguono poi le regioni, le principali del Sud-Sicilia, Calabria, Campania, Puglia e Sardegna-, presentano statistiche superiori alla media nazionale. Ma non solo un problema di regioni. I dati fanno emergere come anche all’interno della stessa area, si possono riscontrare differenze significative. In particolar modo in quelle in cui convivono zone rurali e zone edificate o in cui esistono grandi città con importanti zone periferiche, dove le risorse culturali ed economiche della popolazione sono più scarse. Non meno importante poi i dati riguardanti il genere, infatti, secondo il rapporto dell’Istat, il fenomeno neet sarebbe più diffuso tra le donne rispetto che agli uomini. Se i dati spaventano e tutto sembra in una fase di stallo, timidamente qualcosa si inizia a muovere, nel campo politico qualcuno ha sollevato il dibattito, come Susy Matrisciano, presidente della Commissione Lavoro e il Senatore Sergio Romagnoli, che nel giugno scorso hanno affrontato il fenomeno in un convegno. E non è tutto. Anche alcune organizzazioni cercano di trovare una risposta al problema, come la Fondazione Vodafone, che ha dato vita al progetto “LV8”, un’app che offre percorsi di formazione digitale pensati per i giovani che possano fornire loro svariate competenze utili nella ricerca di un impiego. Si tratta però di piccole gocce in un mare che ha bisogno di tornare a navigare con protagonisti i giovani che non possono restare fermi a guardare senza progettualità e futuro, sprecando talento e competenze.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Storico ma attuale al via il Servizio Civile. Consigli e spunti per partecipare

Giovani volontari cercasi. Il Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale, ha pubblicato i bandi per il 2018 sul sito http://www.gioventuserviziocivilenazionale.gov.it con una novità reduce dello scorso anno: i progetti del servizio civile nazionale si potranno svolgere sia in Italia che all’estero. I ragazzi potranno scegliere dove andare a fare volontariato. Numerosi i progetti, di cui molti all’estero, presentati dagli Enti inseriti nell’Albo nazionale e tra altri offerti dagli Enti iscritti negli Albi regionali e delle Provincie autonome. Quasi tutti sono finanziati, dunque saranno retribuiti, anche se con somme non elevate, circa 433 euro al mese, ma esentasse e senza contribuzione. E sembrerebbe proprio che il servizio civile piaccia. Secondo un report pubblicato dal Dipartimento della Gioventù e del Servizio civile nazionale sono 43 mila i volontari attivi sul territorio, si arriva a 50 mila se si considera l’ultimo scaglione che è partito il 10 gennaio 2018. Non si tratta di un contratto di lavoro ma di un rapporto che vede insieme lo Stato, il giovane e l’ente pubblico o privato che lo ha selezionato, formato e preso in servizio. Un tempo era un modo per aggirare la “noia” ma da quando non è più obbligatorio, la prospettiva è cambiata. Storico ma attuale: il servizio civile è stato istituito quando è stata abolita la leva militare, ma conserva un forte legame con l’articolo 52 della Costituzione, che parla di difesa della patria. In questo caso si tratta di una difesa non armata con mezzi non violenti. Una difesa che oggi è a tutto tondo: delle molte ingiustizie, dalle diseguaglianze, dalle esclusioni, dagli sfregi al nostro patrimonio ambientale e culturale. Tutto quello che contrasta con i valori di equità, solidarietà, integrazione ed inclusione. Giovani ambasciatori di certi valori, ma non in astratto ma attraverso esperienze concrete. Chi vi scrive è anch’essa una volontaria del servizio civile, ormai da sei mesi. Sono in quel limbo che oscilla tra sei mesi già trascorsi e sei che verranno. Ho scelto la pubblica amministrazione, che sarà controcorrente, piena di problemi, ma è un perfetto ingranaggio che tiene insieme le istituzioni ed i servizi. Conoscerla da vicino, è entusiasmante quanto faticoso, costruttivo quanto professionale. Sinonimo di esperienza di vita e professionale. Ritmi di lavoro serrati, scadenze, burocrazia, ma anche volti e visi, storie umane, giornate lunghe ma che lasciano una morale. Il servizio civile è un modo per i giovani di mettersi alla prova, aprendo i propri orizzonti, in alcuni casi cambiando la propria visione sulla realtà dei problemi, contemplando nuove difficoltà mai contemplate prima. Un’occasione – e non da poco- di acquisire un senso di impegno civico, di appartenenza ad una comunità avendo la possibilità di sapere che il proprio impegno può essere d’aiuto, aprendosi nuovi orizzonti professionali e lavorativi in una catena che dà agli altri ma anche a se stessi. Un anno costruttivo, utile, formativo, un’esperienza che nasconde in sé una triplice valenza. La prima come servizio di utilità alla comunità a cui si è iscritti, realizzando il progetto scelto; la seconda è di formazione personale all’impegno civico, alla dimensione volontaria e anche all’acquisizione di competenze, capacità anche di tipo non scolastico. La terza è la positività di un’esperienza, sia per la propria vita che per qualche opportunità in più nel proprio itinerario professionale. Per molti giovani, il servizio civile diventa un “anno sabbatico”, per molti quello subito dopo la laurea o il diploma, che anziché risolversi in un nulla di fatto diventa, spesso, la chiave per capire davvero ciò che si vorrebbe fare un giorno come lavoro. Da volontaria che unisce il suo sapere professionale ed esperienziale, credo sia un’opportunità straordinaria, seppur dipende come viene percepita e vissuta da chi decide di intraprendere un anno – che dopo regalerà sempre incertezza- ma si possono sviluppare attività professionali e costruire una rete di contatti utili per il futuro lavorativo e professionale. D’altra parte per i Comuni, e questa è una certezza dell’oggi, i volontari del servizio civile diventano una risorsa preziosa che colma la carenza d’organico per un famoso turn-over ormai fermo per gli enti locali, ed i giovani del servizio civile freschi diplomati o laureati diventano una vera e propria boccata d’ossigeno. Non un lavoro, dunque, ma il servizio civile è l’occasione per calarsi in un perfetto scenario lavorativo: orari di lavoro da rispettare, obblighi e responsabilità in capo al volontario, rapporti tra colleghi e qui nasce lo spirito di condivisione e di gruppo, che a volte si annulla per lasciare posto ad ostilità e conflitti, ma un perfetto disegno di ciò che è l’ambiente di lavoro e prima un giovane imparerà a calarsi dentro e prima riuscirà a farsi le ossa in situazioni e climi lavorativi non sempre sereni e distesi. Perché tra colleghi non sempre la convivenza è facile. Tra i più giovani, secondo i dati, piace anche la possibilità di viaggiare con progetti sperimentali come quello dei Corpi Civili di Pace che, si pongono come obiettivo la promozione della pace e della cooperazione tra i popoli. I volontari operano in situazioni e aree già monitorate da organizzazioni del territorio, per affiancare chi lavora da anni in contesti difficili. Partecipare diventa un’occasione che lo Stato fornisce ai più giovani in un tempo di precarietà ed incertezza. Il bando è strutturato come un normalissimo bando concorsuale, il futuro volontario dovrà scegliere il progetto che è in linea con le proprie attinenze o semplicemente il progetto che più lo coinvolge. Inviata la richiesta di partecipazione con i documenti richiesti, dovrà attendere la pubblicazione delle date dei colloqui. Un vero e proprio colloquio conoscitivo/professionale. Al volontario sarà richiesta una breve presentazione, gli saranno fatte delle domande: dalla storia del servizio civile, alle motivazioni personali che lo hanno spinto a partecipare. Vivetevela come un normale colloquio, ma con carattere e decisione, dimostrate competenza, pacatezza, compostezza. Al termine del colloquio, l’esaminatore darà un punteggio che si sommerà alla valutazione dei titoli fatta in sede di richiesta, dopo qualche settimana saranno pubblicati i risultati con annessa graduatoria dei ammessi e non ammessi. Non sempre si riesce ad essere ammessi, almeno non sempre la prima volta e chi vi scrive ci ha provato più di una volta, ma se la ritenete un occasione che proprio non volete perdere per il vostro backgroud personale e professionale, non perdetela di vista.

(Articolo pubblicato per il mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Una seconda chance per i detenuti, cresce la messa alla prova

untitledTecnicamente si chiama “messa alla prova”, ma prosaicamente viene definita anche “seconda possibilità” o “seconda chance”: è l’istituto giuridico che sospende il procedimento giudiziario in corso per cercare una strada alternativa alla pena che punti alla riabilitazione dell’imputato. Nata inizialmente per i soli minorenni col dpr 488/1988, nell’aprile del 2014 fu esteso anche ai maggiorenni. E’ come se, di fronte ad un reato, lo Stato proponesse al reo di stringere un patto: la giustizia sospende il procedimento penale, già dalla fase delle indagini preliminari, stabilendo un percorso di recupero in cui l’imputato si impegna a seguire correttamente. Una misura in continua crescita: le richieste di ammissione ad attività socialmente utili sono aumentate del 28% negli ultimi anni: passando dalle 19.187 persone del 2016 alle 23.492 registrate nel 2017. Mentre, la sospensione del processo che consente agli imputati minorenni di svolgere lavori socialmente utili è aumentata del 22%, passando dai 19.554 del 2016 a 23.886 nel 2017. I dati sono stati elaborati dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, registrando un incremento significativo e costante delle richieste di ammissione alla messa alla prova, dimostrando che si sta sviluppando una nuova cultura della pena, che abbatte il rischio di recidiva e i costi del processo. Cinque sono i campi in cui il “messo alla prova” deve svolgere mansioni gratuite: -attività sociali e socio-sanitarie, in associazioni che aiutano a disintossicare da alcool e tossicodipendenze o nell’assistenza ad anziani e disabili; – protezione civile; – patrimonio ambientale; -patrimonio culturale e archivistico; -immobili e servizi pubblici (lavoro in ospedali, case di cura, cura di beni demaniali). Se il soggetto sottoposto alla misura riesce ad arrivare alla fine del percorso concordato ottenendo valutazioni positive da parte della struttura a cui è affidato e dal magistrato di sorveglianza, il processo si conclude senza pena “dimenticando” il reato. Se tutto va come deve andare questo tipo di operazione alla fine crea riscatto personale e sicurezza sociale. Una persona recuperata rende più sicura la comunità intera e sicurezza non è soltanto: lo metto in galera. E’ anche: lo metto nelle condizioni di non fare più quel che ha fatto. La messa alla prova nasconde un fine volto a riparare il danno, eliminando le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal suo reato, risarcendo il danno causato. La giurisprudenza prevede che per i minorenni l’accesso alla seconda possibilità sia data per qualsiasi reato, mentre per i maggiorenni può accadere soltanto se il reato non prevede una pena più alta di quattro anni. La chance è esclusa, nei casi in cui il giudice definisca il reo un “delinquente abituale” o “delinquente per tendenza”. La ratio della messa alla prova si sposa anche nel contrasto alla recidiva, che supera l’85% nel nostro paese, facendo diventare le prigioni “le università del reato” di cui spesso i sociologi parlano. Per questo la messa alla prova è un istituto intelligente: cercare di allontanare dal reato chi mostra di volersi seriamente ravvedere, diventando la strada più razionale da percorrere. Per far sì che la messa alla prova sia effettiva e funzioni e per evitare che essa sia una vuota declamazione di principio è indispensabile costruire “ponti” tra giurisdizione, uffici di esecuzione penale esterna e soggetti della società civile. In questo contribuito si delinea un possibile percorso che non ignora le criticità che si presentano a chi vuol far funzionare le cose. Un programma di messa alla prova può essere di qualunque genere, con un solo obbligo a chiunque lo segua: rendersi utile alla collettività. Nel caso degli adulti i giudici chiedono una sorta di indagine sulla persona agli assistenti sociali dell’ Uepe, sul tipo di reato commesso, la personalità, la famiglia, la sua rete sociale, tracciando insieme alla stessa persona un piano di recupero e vigila sull’andamento del progetto. Gli esempi di percorsi personalizzati sono infiniti. C’è chi guida in stato di ebrezza e segue sedute per alcolisti anonimi, chi commette piccoli furti ed aiuta gli operatori nelle mense dei poveri, chi è indagato per maltrattamenti e si occupa di disabili. Ci sono inquisiti per reati ambientali che si occupano di servizi comunali come spazzare le strade, pulire i canili, tenere in ordine cimiteri, tenere aperti musei e biblioteche nelle ore serali. E’ capitato che un giudice abbia chiesto come ulteriore atto di giustizia riparativa che l’indagato scrivesse una lettera di scuse alla vittima o ai suoi familiari. Se può reggerlo psicolgicamente, capita che gli si chieda invece di parlare in pubblico, soprattutto nelle scuole, della sua esperienza e del suo disvalore delle sue azioni. Ogni messa alla prova viene monitorata con relazioni periodiche: Il contraltare di un insuccesso non è un successo ma molto di più: è un ragazzino o un adulto che, finito il suo periodo di messa alla prova, decide di trasformare quell’esperienza, quale che sia, nel suo percorso di vita. E’ così che la messa alla prova diventa la scommessa sulla quale puntare.

(Articolo pubblicato per il mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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Un popolo con la valigia: la fuga dei giovani talenti dall’Italia

Un vero e proprio “boom” di nuovi emigranti, sintomo di un’Italia fragile. Un segnale forte che ci riporta alla memoria i primi anni del ventesimo secolo, e che necessita di essere arrestato con il rilancio della ricerca e della produzione nel campo dei beni e dei servizi

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Bel Paese arrivederci. O forse addio. Per ora la decisione è una: partire per l’estero, poi si vedrà. Un popolo di emigranti lo siamo sempre stati, ma negli ultimi anni di crisi la fuga di giovani talenti è aumentata. Giovani, brillanti e laureati per loro un volo di sola andata verso l’Europa o il nuovo continente: l’America.

Perché i giovani talenti italiani lasciano l’Italia in cerca di fortuna altrove? L’Italia, il bel Paese agli occhi degli europei e degli americani. Un paese da sogno, la destinazione per una fuga d’amore, o per la fuga perfetta fino al cliché. Una leggenda. Una storia costruita da chi ci vede dall’esterno.

L’Italia è il Paese dove i padri cercano disperatamente lavoro, mentre i figli si dividono tra lo studio, i corsi all’università da seguire (magari in sedi diverse), gli orari dei treni in continuo disaccordo, tratte che non vengono coperte, il tirocinio da incastrare, ma anche un lavoro per cercare di mantenersi in un’Italia di incertezze e fragilità. L’Italia è il Paese dove una laurea non basta più ad aprire tutte le porte, o quanto meno quelle del mondo del lavoro. Anzi, spesso non ne apre neanche una, e l’unica chance che resta è andare via.

Qualche tempo fa il New York Times, il più influente settimanale nel mondo, si è occupato di quella che negli ultimi anni è stata ribattezzata “la fuga dei cervelli”, citando sulle sue pagine esempi su esempi di giovani brillanti che fuori dai confini italiani hanno trovato il loro posto e la loro fortuna. Storie semplici, di giovani volenterosi, che negli anni hanno patito la fame, la stanchezza, le difficoltà, lo stress, l’ansia e l’angoscia per una vita fatta di studio ma anche di precarietà. Sono centinaia i giovani che ogni anno decidono di lasciare l’Italia in cerca di un futuro altrove. Lunghi anni di sacrifici, di studi per conseguire una laurea, una specializzazione, un master. Ma spesso in Italia non bastano a trovare un posto di lavoro.

Eppure non si chiede il “lavoro della vita”, quello che da bambini si sognava: ormai, sappiamo che quello non esiste più, ma si cerca, si chiede, un lavoro che soddisfa e permetta di guadagnare più di quel tanto per “tirare a vivere”.

Via dall’Italia. Via per scegliere quei luoghi in cui hanno ancora un senso i valori della lealtà, del rispetto, del riconoscimento del merito e dei risultati.

E’ passato un secolo da quando con valigie di cartone e l’essenziale si partiva. Un secolo intero, ma i motivi che spingono i giovani a cercare lavoro fuori confine non sono molto diversi da quelle delle ultime ondate di migranti, che sognavano l’America come terra delle opportunità.

L’Italia perde così il talento, i suoi giovani, tenendosi un mercato del lavoro congelato a causa del suo radicato clientelismo e nepotismo. Perde i suoi figli e il suo futuro, e si trova intrappolata in un circolo vizioso. L’economia continuerà a essere mortificata, soffocando l’innovazione. Nel frattempo ogni giovane che parte è una voce in meno nel nostro Paese. Un sapere in meno.

Questo mio articolo è stato pubblicato da “Il Nuovo Risorgimento Nocerino”

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