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Reddito di Cittadinanza, gli oneri prevedono lavori di pubblica utilità. Ecco di cosa si tratta

untitled 2Sono approdate, così come le ha definite il premier Giuseppe Conte, -“le misure più qualificanti dal punto di vista sociale e politico”, il reddito di cittadinanza e quota cento per le pensioni, presentate sotto forma di decreto legge al tavolo di Governo durante il Consiglio dei ministri dello scorso giovedì. Il decreto giunto nelle mani dei ministri, racchiude l’attesissimo reddito di cittadinanza in ventisette articoli. Una misura di politica attiva a garanzia del diritto al lavoro e di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale. Riguarderà un milione e settecentomila famiglie, compresi duecentocinquantamila nuclei con disabili. Tra i requisiti richiesti un reddito Isee inferiore a 9.360 euro, un valore patrimoniale mobiliare diverso dalla prima casa non superiore a 30.000 euro e un conto corrente non superiore a 6.000 euro. La soglia cresce in base al numero dei figli e alla presenza di disabili. Bisogna essere residente in Italia da almeno dieci anni. Si tratta di un’integrazione al reddito fino ad un massimo di 780 euro mensili, erogati ai beneficiari tramite un’apposita carta elettronica, spendibile in una rete di negozi, è possibile un prelievo di un massimo di 100 euro. Non sarà possibile cumulare il beneficio mensile: infatti, il contributo mensile che il nucleo non utilizzerà ritornerà nelle casse del ministero. La misura dura diciotto mesi, rinnovabile dopo un mese di pausa. Tra gli obblighi oltre a quella di seguire corsi di formazione, accettare una delle tre offerte di lavoro. In caso di frodi si rischia una condanna fino a sei anni. Connotato importante del reddito di cittadinanza, che lo evolve in una forma neanche innovata né innovativa, dei lavori socialmente utili. Coloro che usufruiranno del reddito di cittadinanza, saranno chiamati a prendere parte ad attività di pubblica utilità organizzate dai comuni per un minimo di otto ore settimanali. Esonerati solo i soggetti dichiarati inabili al lavoro, le persone con disabilità accertata o il caregiver, il familiare che accudisce quotidianamente la persona con disabilità. Sarà proprio con queste otto ore lavorative gratuite di pubblica utilità, infatti, che il beneficiario “ripagherà” l’investimento che lo Stato fa concedendogli il reddito di cittadinanza, allo stesso tempo, il soggetto beneficiario dovrà impegnarsi nel formarsi partecipando a dei corsi finalizzati al conseguimento di una qualifica professionale e ad accettare una delle tre proposte di lavoro che gli verranno presentate dal centro per l’impiego. Gli LPU sono quelle prestazioni non retribuite a favore della collettività che si svolgono presso enti locali, organizzazioni di volontariato o di assistenza sociale. Nel caso del Reddito di Cittadinanza, sembra proprio che saranno svolti presso i comuni. Il concetto di lavori di pubblica utilità è stato introdotto da un decreto del Ministero della Giustizia nel Marzo 2001, al fine di essere considerato a tutti gli effetti una sanzione penale sostitutiva. Quando, infatti, si parla di lavori di pubblica utilità, si fa riferimento a quel modo alternativo di scontare una condanna penale, attraverso un’attività riparativa e restitutiva. Nel caso del reddito di cittadinanza sarebbe più corretto parlare di lavori socialmente utili, ossia la partecipazione ad iniziative di pubblica utilità al quale si dedicano, limitatamente nel tempo, i soggetti svantaggiati nel mercato del lavoro. Ad oggi i lavoratori che si dedicano ai lavori socialmente utili, l’Inps, riconosce un assegno mensile, cosa che non avverrà per chi percepirà il reddito di cittadinanza. Il decreto legislativo 468/1997, determina i settori nella quale gli LPU svolgono le loro attività: dall’assistenza all’infanzia, al recupero dei tossicodipendenti, passando per il sostegno agli anziani, ma anche raccolta differenziata e gestione di discariche e di impianti per il trattamento di rifiuti solidi urbani; tutela delle aree protette e dei parchi naturali; miglioramento della rete idrica. Molti sono gli esempi di lavori socialmente utili e di pubblica utilità, molto dipenderà dalle esigenze del territorio e dalle necessità del comune di appartenenza. E’ bene sottolineare, come ha ribadito una sentenza del 2007 del Consiglio di Stato, chiarendo che le caratteristiche dei lavori socialmente utili non ne “consentono la qualificazione come rapporto di impiego”. Questo perché “il rapporto dei lavori socialmente utili trae origine da motivi assistenziali e riguarda un impegno lavorativo certamente precario”. Si tratta, se non altro, di una riproduzione di politiche attive che da un lato generano distorsioni da parte del lavoratore, che vivrà con l’aspettativa della stabilizzazione nel pubblico impiego sin dal primo giorno d’esperienza, dall’altro genera “dipendenza” da parte dell’ente pubblico ospitante che non riesce a colmare la garanza d’organico con unità lavorative aggiunte, per di più retribuite da un ente superiore. Eppure, non essendo una politica nuova, basterebbe girarsi indietro e osservare cosa è accaduto in questi anni, specie nelle regioni del Sud, molti lavoratori, si sono trovati a in queste misure “anti povertà” dove la spesso bassa indennità percepita, pur non essendo un salario occupazionale ma solo un’indennità di tirocinio o lavoro socialmente utile, è diventata l’unica fonte di sostentamento certo tanto da generare dipendenza. A quel punto, in pochi si sono avventurati nella ricerca di un’occupazione nel settore privato che proprio in quelle Regioni è debole ed economicamente povero, e chi riceveva altre opportunità, magari per fare l’insegnante fuori regione, è stato portato a rifiutare nella speranza della stabilizzazione. Ma se oggi, nel 2018, e dopo decenni di lavori socialmente utili, per alcuni di loro si può parlare, finalmente, di stabilizzazioni, grazie a politiche regionali e nazionali di assorbimento del precariato, non è pensabile che da oggi si tracci un simile percorso per altre migliaia di persone e che lo si venda, per giunta, come una politica innovativa e di cambiamento. Forse sarebbe opportuno che i beneficiari la vedano nell’ottica di un contributo alla propria collettività, come delle ore da dare agli altri, con altruismo e anche come auto mutuo sostegno per uscire dalla spirale dell’assistenzialismo.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Una seconda chance per i detenuti, cresce la messa alla prova

untitledTecnicamente si chiama “messa alla prova”, ma prosaicamente viene definita anche “seconda possibilità” o “seconda chance”: è l’istituto giuridico che sospende il procedimento giudiziario in corso per cercare una strada alternativa alla pena che punti alla riabilitazione dell’imputato. Nata inizialmente per i soli minorenni col dpr 488/1988, nell’aprile del 2014 fu esteso anche ai maggiorenni. E’ come se, di fronte ad un reato, lo Stato proponesse al reo di stringere un patto: la giustizia sospende il procedimento penale, già dalla fase delle indagini preliminari, stabilendo un percorso di recupero in cui l’imputato si impegna a seguire correttamente. Una misura in continua crescita: le richieste di ammissione ad attività socialmente utili sono aumentate del 28% negli ultimi anni: passando dalle 19.187 persone del 2016 alle 23.492 registrate nel 2017. Mentre, la sospensione del processo che consente agli imputati minorenni di svolgere lavori socialmente utili è aumentata del 22%, passando dai 19.554 del 2016 a 23.886 nel 2017. I dati sono stati elaborati dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, registrando un incremento significativo e costante delle richieste di ammissione alla messa alla prova, dimostrando che si sta sviluppando una nuova cultura della pena, che abbatte il rischio di recidiva e i costi del processo. Cinque sono i campi in cui il “messo alla prova” deve svolgere mansioni gratuite: -attività sociali e socio-sanitarie, in associazioni che aiutano a disintossicare da alcool e tossicodipendenze o nell’assistenza ad anziani e disabili; – protezione civile; – patrimonio ambientale; -patrimonio culturale e archivistico; -immobili e servizi pubblici (lavoro in ospedali, case di cura, cura di beni demaniali). Se il soggetto sottoposto alla misura riesce ad arrivare alla fine del percorso concordato ottenendo valutazioni positive da parte della struttura a cui è affidato e dal magistrato di sorveglianza, il processo si conclude senza pena “dimenticando” il reato. Se tutto va come deve andare questo tipo di operazione alla fine crea riscatto personale e sicurezza sociale. Una persona recuperata rende più sicura la comunità intera e sicurezza non è soltanto: lo metto in galera. E’ anche: lo metto nelle condizioni di non fare più quel che ha fatto. La messa alla prova nasconde un fine volto a riparare il danno, eliminando le conseguenze dannose o pericolose derivanti dal suo reato, risarcendo il danno causato. La giurisprudenza prevede che per i minorenni l’accesso alla seconda possibilità sia data per qualsiasi reato, mentre per i maggiorenni può accadere soltanto se il reato non prevede una pena più alta di quattro anni. La chance è esclusa, nei casi in cui il giudice definisca il reo un “delinquente abituale” o “delinquente per tendenza”. La ratio della messa alla prova si sposa anche nel contrasto alla recidiva, che supera l’85% nel nostro paese, facendo diventare le prigioni “le università del reato” di cui spesso i sociologi parlano. Per questo la messa alla prova è un istituto intelligente: cercare di allontanare dal reato chi mostra di volersi seriamente ravvedere, diventando la strada più razionale da percorrere. Per far sì che la messa alla prova sia effettiva e funzioni e per evitare che essa sia una vuota declamazione di principio è indispensabile costruire “ponti” tra giurisdizione, uffici di esecuzione penale esterna e soggetti della società civile. In questo contribuito si delinea un possibile percorso che non ignora le criticità che si presentano a chi vuol far funzionare le cose. Un programma di messa alla prova può essere di qualunque genere, con un solo obbligo a chiunque lo segua: rendersi utile alla collettività. Nel caso degli adulti i giudici chiedono una sorta di indagine sulla persona agli assistenti sociali dell’ Uepe, sul tipo di reato commesso, la personalità, la famiglia, la sua rete sociale, tracciando insieme alla stessa persona un piano di recupero e vigila sull’andamento del progetto. Gli esempi di percorsi personalizzati sono infiniti. C’è chi guida in stato di ebrezza e segue sedute per alcolisti anonimi, chi commette piccoli furti ed aiuta gli operatori nelle mense dei poveri, chi è indagato per maltrattamenti e si occupa di disabili. Ci sono inquisiti per reati ambientali che si occupano di servizi comunali come spazzare le strade, pulire i canili, tenere in ordine cimiteri, tenere aperti musei e biblioteche nelle ore serali. E’ capitato che un giudice abbia chiesto come ulteriore atto di giustizia riparativa che l’indagato scrivesse una lettera di scuse alla vittima o ai suoi familiari. Se può reggerlo psicolgicamente, capita che gli si chieda invece di parlare in pubblico, soprattutto nelle scuole, della sua esperienza e del suo disvalore delle sue azioni. Ogni messa alla prova viene monitorata con relazioni periodiche: Il contraltare di un insuccesso non è un successo ma molto di più: è un ragazzino o un adulto che, finito il suo periodo di messa alla prova, decide di trasformare quell’esperienza, quale che sia, nel suo percorso di vita. E’ così che la messa alla prova diventa la scommessa sulla quale puntare.

(Articolo pubblicato per il mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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