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Maternità, quel concetto univoco che la società inculca ma è davvero così?

La maternità è oggi esibita, celebrata, pretesa e ampliata a ogni ambito dell’esistenza umana. Un canone quasi dovuto per una donna agli occhi dell’opinione pubblica raggiunta un’età, che somiglia molto ad un campanello che ricorda l’orologio biologico. Poco importano i desideri, le aspirazioni di una donna, il senso materno che una donna può o non può avvertire, i tempi e i modi diversi da una donna all’altra nell’avvertire il desiderio materno, che è intimo e personale. E’ più che una condizione fisiologica naturale: essere mamma oggi è per alcune, una sorta di affermazione sociale e personale senza eguali. Siamo reduci da un’estate di dolore materno, ribattezzata da alcune testate come “mostruosità materna”, la cronaca ha scosso l’opinione pubblica, lascandola incredula e sgomenta con l’omicidio della piccola Elena e della piccola Diana, vittime della follia criminale delle loro madri. Storie che hanno mostrato una maternità non materna, la piccola Diana è stata nascosta e negata ancor prima di nascere. Figli che diventano un ostacolo alla vita che si è sempre desiderato di vivere. Segno che l’esistenza dell’istinto materno non è scientificamente provata, ma non si può neppure prescindere anche da un’altra inconfutabile consapevolezza. Mettere al mondo un bambino crea sicuramente un legame indissolubile per chi lo ha sempre desiderato. Ma può turbare irrimediabilmente chi non vuole un figlio, ma si ritrova ad averlo. La mamma della piccola Diana, si è cucita addosso anche la professione di psicologa infantile, come a voler assumere un’etichetta sociale finalizzata ad attribuire credibilità al ruolo di madre, che in cuor suo sapeva di non essere in grado di adempiere. Dietro questi infanticidi, madri definite “strambe” dall’opinione pubblica, che nella vita di tutti i giorni si è girata dall’altra parte, divenute madri all’improvviso ed hanno anche un po’ improvvisato, e non si tratta solo di essere impacciate e impaurite per un essere piccolo che dipende totalmente dall’adulto, ma è dover accantonare i propri desideri per dare priorità ad una vita umana che a ritmi diversi da un adulto e che da solo non è in grado di fare nulla. Alla base degli infanticidi ci sono anche presunte patologie psichiatriche, ma portano ad una riflessione ampia sulla maternità oggi. L’opinione pubblica vuole che una donna sia pronta alla maternità, poco importano le aspirazioni di una donna ed i suoi desideri, sembra che sia un vestito che una donna debba indossare e farselo piacere, presentandosi pronta ad indossarla, pronta a rispecchiare le aspettative di tutti. Non siamo pronti e aperti a sentirci dire da una donna che non vuole figli, perché c’è sempre chi è pronto a tacciare di egoismo e di colpevole disamore per il futuro. Senza chiedersi, se dietro la reticenza a fare figli ci fosse un forte senso di responsabilità o di intime riflessioni. C’è anche da ammettere che la maternità non è sempre felice e che intorno alle donne serve una rete. In Italia è ancora un tabù dire che la maternità non sempre è un momento felice, e questo fa sì che non si attivino reti e servizi a sostegno delle donne che ne hanno bisogno. Ogni donna vive la maternità in modo differente, convivono una componente fisiologica e una psicologica. Spesso sono sottovalutati i campanelli d’allarme, per questo il ruolo dell’ostetrica, della ginecologa e del consultorio con le sue figure professionali, sono fondamentali per sostenere la donna. Lì dove però il consultorio è una realtà esistente e funzionante, perché c’è da ammetterlo che nonostante la legge abbia riconosciuto i consultori familiari in Italia, il flop è davvero palese. A questo si aggiunge l’immaginario comune che vuole le mamme perfette e pronte, ma la realtà è dura e difficile, ci si aspetta troppo da loro. I servizi sull’infanzia in Italia scarseggiano, mancano servizi adeguati che permettano di lavorare e conciliare la vita familiare in maniera serena e fluida. Manca ancora una cultura della maternità che sia vicina alle donne: bisogna potenziare i servizi materno-infantili, di prossimità e la rete di consultori. Sono i consultori che devono andare nelle scuole, e parlare di prevenzione, di gravidanze a rischio. Devono andare sui posti di lavoro. Bisogna creare negli ospedali un database dove viene comunicato il momento del parto di una donna al servizio sanitario. Infine, bisogna ripartire e lavorare con le nuove generazioni sul desiderio. E’ evidente che c’è la necessità di un cambiamento di prospettiva, che parta dall’infanzia. Il desiderio di maternità nelle ragazze è un’aspirazione generica, un desiderio vago. Si è perso il racconto della maternità. Non c’è più quel filo di continuità tra le generazioni, il racconto di mamme e nonne si è spero. I ragazzi di oggi spesso non hanno mai preso in braccio un neonato.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Social freezing, Bianca Balti e non solo: molte donne decidono di congelare gli ovuli per essere madri

L’input mediatico e direi anche informativo alle donne lo ha lanciato la bellissima modella Bianca Balti, che in una sua ultima newsletter ha deciso di raccontare il suo percorso di caduta e rinascita: la fine di una relazione tossica che l’aveva privata dell’amore per se stessa e la decisione di riprendere in mano la sua vita, cominciando dalla scelta di congelare gli ovuli per rimandare un’eventuale maternità. “Ho deciso di non limitare la mia possibilità di diventare ancora madre alla presenza di quell’uomo e in generale di una relazione”, ha scritto. Il racconto della Balti arriva dritto a molte donne che si ritrovano nel vortice di una relazione tossica che spegne e annienta la femminilità e l’autostima di molte. Le sue affermazioni sanciscono il coraggio di affermare la propria indipendenza anche nel dire che non bisogna avere una relazione a tutti i costi. Informazione anzitutto per le donne affinché siano libere di scegliere oltre che essere padrone sempre del proprio corpo ma anche padrone della propria emotività, della loro psiche e del loro tempo nell’avere una relazione. Un pensiero quello della Balti che ci fa vedere la maternità sotto occhi nuovi e possibili, che con coraggio –direi- finalmente scardina un argomento tabù e che impone quasi sempre un solo e unico punto di vista animato spesso da stereotipi. Le affermazioni della Balti finalmente aprono le porte al social freezing, congelamento degli ovociti, tecnica per preservare la fertilità, garantendo alla donna la possibilità di avere figli anche quando, col passare degli anni, i suoi ovociti cominciano a diminuire. Una pratica medica ancora poco conosciuta e possibile, che in Italia è a pagamento, ad oggi il Sistema Sanitario Nazionale copre i costi solo in caso di crioconservazione per ragioni mediche. Secondo quanto spiegano i ginecologi,  gli ovuli nelle donne dopo i 35 anni non solo iniziano a diminuire ma cominciano anche a perdere di qualità. Per questo, prima di quell’età, le donne possono decidere di scegliere la crioconservazione degli ovociti, regalandosi la possibilità di non perdere il proprio potenziale riproduttivo e “fermando” il processo di invecchiamento degli ovuli. Una tecnica quella del social freezing scelta da molte donne in Italia, soprattutto giovani, che magari non hanno trovato il partner giusto oppure hanno per il momento altre priorità, ma non vogliono per questo precludersi la maternità. E’ senza dubbio una possibilità futura per le donne di vivere la maternità, che in molte donne scatta col tempo e con gli anni, forse anche quando non si ha un lavoro o un partner, e a malincuore si accantona un desiderio naturale e se vogliamo biologico. Perché mai se esiste una tecnica medica? Certo, bisogna informare, bisogna che arrivi alle donne e bisogna parlarne anche per sensibilizzare il sistema scientifico sui costi, che non essendo coperti dal sistema pubblico, rischiano di non essere alla portata di tutte. Ma, forse un piccolo passo grazie anche alla testimonianza della Balti è stato compiuto. Certo è, che non sono mancati i punti di vista differenti e le critiche, di chi vede in questo modo una maternità posticipata secondo i desideri ed i tempi della donna, o chi vede il social freezing come l’ennesima tappa dell’emancipazione femminile che vuole tagliare fuori dall’immaginario la figura maschile, senza comprendere che la maternità non è un ritmo serrato e obbligato, dove la donna deve piegarsi ad una relazione sbagliata o tossica, al momento e all’età giusta per diventare madre, quando è possibile farlo quando si è pronti anche se l’età biologica non lo consente, ma lo consentono gli ovuli congelati preventivamente. Pensateci.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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La maternità è davvero quello che vogliamo?

untitledUn blog è uno spazio dove poter riflettere e confrontarsi con le opinioni ed i pensieri altrui, e se un blog si unisce anche alla professione di un giornalista che come nel mio caso svolge anche un lavoro sociale, credo debba suscitare anche emozioni, sconvolgimenti personali e confronti di idee e perché no, un confronto intimo e personale. Infondo si dice che il Capodanno, che per altro ci siamo lasciati da poco alle spalle, sia tempo di bilanci e credo che per fare dei bilanci bisogna anche interrogarsi con se stessi e con le proprie opinioni, cosa che forse abbiamo smesso di fare perché assorbiti dai social e dalla vita sempre più confusionaria e frenetica.

La domanda che mi e vi pongo: la maternità è davvero quello che vogliamo?

La realizzazione personale di una donna non passa inesorabilmente per l’essere madre. E spesso, il desiderio di maternità non è spontaneo ma indotto da pressioni culturali o familiari. Nel mio lavoro incontro poco più che maggiorenni che cresciute nel desiderio di una famiglia immaginata e costruita nelle loro menti che poi si scontra con la realtà ed i fallimenti, restando madri, e si sentono intrappolate perché devono badare alla crescita di un essere che non ha chiesto di venire al mondo ma che ha i suoi ritmi ed i suoi tempi. Ne incontro spesso di mamme che si ritrovano strette in questo ruolo, anche perché devono provvedere economicamente alla loro crescita e conciliare i tempi con gli orari ed i lavori precari, saltuari e mal pagati. Così intorno a loro proviamo a creare una rete fatta di servizi: educativa domiciliare, tirocini di inclusione sociale – affinché ritrovino il senso di stare nella società ed un lavoro dignitoso con orari accessibili e conciliabili, la rete familiare: i nonni, i parenti prossimi affinché alleggeriscano il carico; i pediatri affinché monitorino il benessere fisico: ci sono bambini a cui mancano i vaccini obbligatori; sostegno alla genitorialità per supportarla nel ruolo che sembra a molti naturale e spontaneo, ma di fatto non lo è.

Di contro ci sono anche donne che hanno un desiderio fuori dal comune, un cuore colmo di amore e di speranza, desiderose di essere mamme e quando ti raccontano il loro desiderio davvero ti si apre il cuore. Poi c’è la società e le credenze culturali: una donna che non vuole avere figli? Assurdo. Una donna che giunta alla fatidica età non ha ancora figli? Assurdo. Eppure nessuno si ferma a riflettere su quanto queste domande e credenze possano ferire o pungere nell’orgoglio di una donna: puoi incontrare quella che lo desidera un figlio ma anche quella che in quel momento è concentrata su se stessa o non prova alcun desiderio di maternità, quest’ultima viene messa al rogo come la peggiore delle streghe. Ma signori miei, come scriveva la poetessa Alda Merini, “i figli si partoriscono ogni giorno”. Quello del genitore, me lo ripete ogni giorno mia mamma e me lo insegna ogni mattina il mio lavoro, è un “mestiere” che non conosce pause. Tutte le donne sono “predisposte” o più semplicemente vogliono avere figli? Il desiderio di maternità nella stragrande maggioranza dei casi è sempre naturale o è piuttosto indotto? Alcune donne nel proprio intimo si chiedono: “voglio davvero essere madre?”, “lo sarò mai”? Un modo scientifico per darsi una risposto o per capire se davvero è ciò che si desidera quello di avere un figlio non esiste, ma esistono domande utili da porsi prima di fare un passo che cambierà radicalmente la propria vita e per carità nessuno mette in dubbio che sarà bellissimo ed unico e che dolori, notti insonni e poppate possano essere unicamente belle ma non è detto che lo sia per tutti allo stesso modo o che sia il desiderio di tutte. Ad ogni modo vi suggeriscono quattro domande da porsi per capire se si è predisposte o se si desidera davvero diventare madri:

posso/voglio far posto nella mia vita a qualcuno che dipenderà totalmente da me? Quanto sono condizionata da un’aspettativa sociale o familiare? Il mio desiderio di avere un figlio potrebbe essere legato al desiderio di risolvere le mie carenze personali o di rendere più solida la mia relazione? Siamo in due a volerlo, o è solo un desiderio mio?

 

(Articolo pubblicato sul mio blog “Pagine Sociali” per ildenaro.it)

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Maternity blues, quella sensazione di malessere che colpisce le neo mamme dopo il parto

untitledSenso di inadeguatezza, sensazione che la vita ti sfugga dalle mani, incapacità di organizzare il proprio tempo e il proprio spazio come prima dell’arrivo del bambino. Un mondo sommerso ed intimo, fatto di paure, angosce, mascherate dal sorriso e dalla felicità dell’arrivo di una nuova vita, ma non sempre la maternità è gioia. All’indomani del parto molte mamme provano sensazioni contrastanti e sconosciute per un momento così idilliaco e atteso. Il più delle volte dopo poche settimane questa sorta di ansia mista a depressione scompare da sola, ma talvolta resta e si può trasformare in depressione post partum, che tanto male fa alle mamme quanto ai bambini. Quello che le donne non dicono sulla maternità è un viaggio confidenziale che viaggia sui social spesso accompagnato dall’hastag “bastatacere”, madri che sfatano i tabù sulla gravidanza, denunciando mortificazioni subite durante i nove mesi o durante il parto. Racconti di coraggio e di verità che aiutano a salvare vite. Per anni il pensiero comune ed imposto parlava di dolore, di allattamento “solo” al seno e di paura a pronunciare la sola frase “depressione post partum”. Trattato poco e male. Molte neo mamme si sono sentite dire: “l’hanno fatto tutte”, “tutte abbiamo partorito con dolore. Tu perché richiedi l’epidurale?”, “allatta perché è un diritto, è un dovere di ogni madre. Fa bene al bambino e a te perché lo senti vicino”. Poco importa se il tuo corpo segnala un allarme, se la tua mente si sente stranamente stanca, sotto pressione, infondo le altre mamme sono felici, serene, in perfetta forma. La maternità è prima di tutto portatrice di vita e poi di esperienze soggettive. Le donne hanno bisogno di parlare, di raccontare e di raccontarsi anche nel post parto, del dolore, della stanchezza provata, non è sinonimo di debolezza o di “cattiva madre” ma è sinonimo di forza, perché raccontandosi e lasciandosi supportare si riesce a superare il terrore provato o che si prova, superando le ferite più intime. Le neo mamme in difficoltà non vanno sottovalutate e derise. Le madri vanno ascoltate. Ciò che fanno è un miracolo di cristallo. Delicatissimo. Come tale va trattato. Eppure ancora troppo spesso le mamme sono lasciate sole con le paure più intime, con le incertezze, con le difficoltà, con il buio psicologico. Una neo mamma su dieci in Italia soffre di depressione post partum nei primi tre mesi dalla nascita del figlio. A volte il dato sfiora il 15%. Una percentuale che si traduce tra le 50 e le 100mila donne ogni anno. Meno del 50% di chi è colpita da questo disturbo chiede aiuto e sostegno. Per tutelare il benessere psicofisico della mamma, della coppia e del bimbo nel periodo che va dalla gravidanza fino ai primi due anni di vita dei piccoli, Onda, Osservatorio nazionale per la salute della donna e di genere, ripropone la sua campagna “Un sorriso per le mamme”. Il fenomeno della depressione perinatale, che colpisce circa 90mila donne. Il 13% sperimenta già un disturbo dell’umore durante le prime settimane dopo il parto, un dato che sale al 14,5% nei primi tre mesi postnatali con episodi depressivi maggiori o minori ed al 20% nel primo anno dopo il parto. Si tratta di stime molto approssimative, dal momento che i sintomi sono frequentemente sottovalutati sia dalle pazienti sia dai clinici e che solo in circa la metà dei casi viene riconosciuto il disturbo e fornita la risposta adeguata. Un aiuto online. Attraverso il sito internet (www.depressionepostpartum.it) le future madri e le neomamme avranno la possibilità di cercare i nominativi e le attività dei centri di supporto per la depressione perinatale. Potranno infatti usufruire del servizio “L’esperto risponde” che permette di chiedere supporto a uno specialista. La depressione post partum è un problema di salute pubblica di notevole importanza, ma spesso sminuita o sottovalutata dalle donne, dalle famiglie e dalla società. Cerchiamo di conoscere gli aspetti psicologici ed il modo di approccio alla depressione post partum con la psicologa Verdiana Abitudine.

Dottoressa, la maternità dovrebbe essere il momento più idilliaco per una donna, eppure, spesso, è accompagnata dalla depressione post partum, cosa accade e cos’è la DPP?

Quando parliamo di depressione post partum indichiamo un disturbo a carico della sfera emotiva della puerpera, che si sviluppa entro 6 settimane dal parto per poi persistere nella peggiore delle ipotesi anche fino ad un anno e colpisce quasi il 15% della popolazione femminile anche se si tratta di un disturbo sotto diagnosticato. È pensiero comune che l’esperienza della maternità sia un evento così felice da essere immune da stati d’animo negativi, ma non è così. Voglio precisare che i disturbi cui può andare incontro una donna a seguito del parto possono essere tanti e di varia intensità, come un semplice stato melanconico dovuto ad uno squilibrio ormonale, che va incontro a spontanea remissione entro la prima settimana dal parto (maternity blues), oppure una vera e propria psicosi puerperale con problematiche più gravi che si spingono fino a dispercezioni e disturbi del pensiero. La DPP si colloca, in termini di gravità, a metà tra questi due poli per cui non va sottovalutata e va assolutamente trattata, poiché è a rischio cronicizzazione. La DPP è caratterizzata da tutti i sintomi tipici della normale depressione, quindi umore persistentemente triste con frequenti pianti e tendenze autocritiche, faticabilità e mancanza di energia, perdita di interesse per tutte le attività, disturbi del sonno e dell’alimentazione oltre che una vera e propria difficoltà di accudimento del neonato.

 

Perché alcune donne sono più soggette di altre a tale disturbo?

Il motivo per cui la DPP colpisce alcune donne piuttosto che altre esclude una più elementare ipotesi di squilibri ormonali a favore di altre più complesse che riguardano la vita passata della neo mamma, in primis il suo rapporto con la figura materna. È importante, infatti, che la donna durante il cambiamento dell’identità da figlia a madre non riattualizzi delle dinamiche relazionali del passato conflittuali e tumultuose con la sua stessa madre, bensì abbia un ricordo ed un vissuto felice e armonioso da riproporre poi nel rapporto col suo stesso bambino. Inoltre , La donna vive una relazione gestazionale con il bambino considerato parte di se stessa ma al momento del parto è costretta a separarsene, per cui anche questa “perdita” può innescare delle risposte depressive quasi come se stesse elaborando un lutto. Da non trascurare la componente socio-relazionale ossia la vicinanza degli affetti, primo fra tutti il partner, gli amici, la famiglia e l’inevitabile sostegno delle strutture ospitanti. Potremmo indicare un’ipotesi biologica per la diminuzione di noradrenalina e serotonina, neurotrasmettitori implicati nella regolazione delle interazioni e delle attività come lavarsi, dormire ecc. Altre concause possono essere di natura personale come il proprio livello di autostima, di natura economica o genetica come una certa familiarità nell’ambito dei disturbi psichiatrici. Dunque, da come si intuisce, le cause possono essere molteplici e soltanto al momento della valutazione psicologica della donna sarà possibile stabilire con certezza quella scatenante ed intervenire.

 

In passato non si soffriva di depressione post partum? Il problema di tutti i mali che affliggono la nostra società oggi non è quello di essere piombati all’improvviso nelle nostre vite bensì quello di aver assunto nel tempo dei tratti sempre più marcati ed intensi; è biologicamente prevedibile che una donna sperimenti un’alterazione del proprio umore dopo il parto, per cui anche nell’antichità le donne ne erano soggette ma sicuramente oggi tale alterazione è più rumorosa poiché la donna, sempre più emancipata a livello sociale, diventa sempre più vulnerabile a livello psicologico, ragion per cui fronteggia difficoltà aggiuntive a quella del semplice accudimento del bambino. La donna di oggi non ha l’esclusivo compito di procreare e allevare i figli. La donna di Oggi è una donna in carriera, combattuta dal desiderio di coronare la propria femminilità e dalla paura di perdere il lavoro durante la maternità; la donna di oggi convive con lo stress di procurarsi i mezzi necessari per crescere i propri figli poiché le precarie condizioni economiche fungono da ostacolo ; insomma sono aumentati gli agenti stressanti divenendo fertilizzanti di un eventuale malessere post partum.

 

Come si può aiutare una donna in depressione post partum e quali sono i consigli per ridurre DPP?

Il mio consiglio non è volto mai alla cura del sintomo quanto più alla sua prevenzione. Una donna che vive in un contesto di vita stressante e insoddisfacente deve, per il suo benessere personale in primis, imparare ad utilizzare al meglio le proprie risorse così da evitare eventuali declini in situazioni come il parto .come prevenzione risultano molto utili programmi di accoglienza delle future mamme per l’intera durata della gravidanza, dove la donna ha modo di esprimere ed elaborare le sue preoccupazioni e i suoi problemi. In caso invece di DPP conclamata, Il percorso più adeguato per una neo mamma è quello psicoterapeutico, a causa dell’impossibilità dell’assunzione di farmaci antidepressivi, che risulterebbero nocivi per il bambino in fase di allattamento. D’aiuto possono essere anche lo sport e i contatti sociali in modo da ridurre l’isolamento.

  Scritto in collaborazione con la psicologa dottoressa Verdiana Abitudine

(Pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

 

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“Il bambino dell’acido”:quando maternità e crudeltà fanno discutere

7011967_origLa maternità che si mescola alla crudeltà. E’ il caso di Martina Levato, la neo mamma sulla quale pesa una condanna giudiziaria, che giorni fa ha dato alla luce il suo piccolo Achille, strappatogli non appena il piccolo ha visto la luce del mondo. In molti parlano di crudeltà. Don Antonio Mazzi, persona che stimo profondamente, ieri mattina ha detto che la giustizia non sostituisce l’amore. Aggiungendo: “Credo che il giudice abbia preferito lavarsene le mani e applicare le normali procedure.” Questa volta non sono d’accordo con Don Mazzi e con i tanti che parlano di crudeltà e sbandierano ai quattro venti l’amore che questa donna potrebbe provare per il piccolo. Perché non pensiamo a tutelare il bambino invece di parlare di crudeltà? Sono una zia, follemente innamorata del proprio nipote, ed io, francamente, mio nipote non glielo affiderei. Nessuno di voi affiderebbe il proprio figlio. Dunque, perché lasciare quel bambino alle “cure” di una donna condannata per aver gettato dell’acido al suo ex fidanzato? Alla storia della strega cattiva che diventa fatina non ci credo. Una donna violenta non aggiusta il suo equilibrio perché ha partorito un figlio. Una nascita non può cancellare ogni colpa. Una nascita non può essere il bonus per un’altra chance. Sono forse, per deformazione professionale, per il lavoro che dovrò fare, per tutelare i minori. Sempre. Non esistono “se” o “ma”. Quel bambino come tanti altri non ha alcuna colpa ed ha tutto il diritto ad una mamma ed un papà, che siano due persone estranee alla cattiveria e alla crudeltà. Un bambino cresce bene con chi lo ama, lo accudisce, lo considera persona, quell’esserino che sarà il prolungamento di sé. E’ bene dire che i genitori sbagliano e quando sbagliano bisogna proteggere i bambini. Non affidi un figlio ad un padre con problemi psichiatrici. Non vedo perché non dovrebbe essere lo stesso con una madre che ha problemi psichici.

Perché forse esiste ancora quell’idea che la donna in quanto generatrice abbia il diritto a poter avere una seconda chance?

Sono pienamente d’accordo con la scelta del giudice e a differenza di Mazzi, credo che abbia fatto la cosa giusta: una delle rare volte in cui in Italia è stata fatta la cosa giusta. Perché caro Don Mazzi e cari lettori, se il giudice avesse fatto la scelta opposta e la donna negli anni si sarebbe scagliata in un atto di violenza contro il bambino, avreste detto tutti che la scelta fatta a monte era stata azzardata, scellerata e vi sareste scagliati tutti contro “il sistema”,contro il giudici e gli assistenti sociali: che quando vi fa comodo sono streghe altre volte fatine che scrivono il “lieto fine”.

Tuteliamo il piccolo, sarebbe crudele non farlo.

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