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“La paranza dei bimbi”, baby boss alla conquista delle piazze criminali. Come aiutarli?

untitled 2Spietati. Sfacciati. Arroganti. Parlano di soldi, di prostituzione, di armi e si impongono sulle piazze di spaccio e della criminalità organizzata. Sono i baby boss, la paranza dei bimbi, che hanno preso in ostaggio il cuore storico della città di Napoli, ma è un fenomeno che ormai coinvolge molte città d’Italia. Sono poco più che adolescenti, ventenni e controllano i quartieri della città. Vivono senza freni, pronti a tutto. Vivono di Gomorra e Scarface. Di droga e serate in discoteca fino all’alba. Guadagnano e spendono. In foto e sui social si mostrano armati e spavaldi, con una notevole fede, si tatuano santi e calciatori. Per loro, il potere si esaurisce in questi gesti ostentati. Si contrappongo alla vecchia guardia che creava imperi da proteggere da polizia e magistratura. Le nuove generazioni della criminalità non si fanno scrupoli a farsi notare. Si susseguono indagini ed inchieste che hanno l’obiettivo di puntare ad azzerare i fermenti criminali. Effervescenza che ha portato a parecchi omicidi e numerose “stese”: colpi di pistola in aria e minacciosi cortei di moto per le strade dei quartieri. Spesso impongono il loro “potere” ai commercianti della zona, arrivando a controllare i traffici di stupefacenti attraverso il sistematico rifornimento delle numerose piazze di spaccio presenti nei quartieri. Veri e propri clan di ragazzini o poco più che si occupano di agguati, violenze, le progettano, le eseguono, sino a gestire le attività di acquisto, preparazione, confezionamento e distribuzione di stupefacenti del nuovo cartello di camorra. Nei clan ognuno ha un ruolo definito, c’è il promotore e l’organizzatore dei ruoli di comando, ci sono i partecipanti, comuni affiliati, con compiti di appoggio logistico, poi i ragazzi che preparano e smistano la droga. Il guadagno è a cifre di tre zero, un vero e proprio business che li allontana sempre di più dal lavoro onesto, da una società fatta di istituzioni, diritti, doveri ed obblighi. Il guadagno facile, la sete di potere, l’essere osannati e temuti, li spinge a rifiutare una società fatta di controlli e regole, di istituzioni da rispettare, che per loro diventano solo da sfidare. Tra loro si creano patti e giuramenti. Una sorta di rito ufficiale li introduce all’interno del clan. Tra chi ha giurato fedeltà eterna ci sono le donne dei baby boss. Diventando le ragazze della paranza ed assistono l’organizzazione. C’è chi spedisce i messaggi, chi maneggia droga, chi si occupa del rifornimento delle piazze. In ogni caso condividono in pieno le scelte criminali dei compagni. Li assecondano. C’è chi cala il “paniere” dal balcone di casa per consegnare le dosi richieste, l’uomo raccomanda solo. Quando ci sono indagini che li investono si affidano all’omertà e all’indifferenza. Gravità e continuità di questi fenomeni connota una gravità sociale e culturale. Si tratta di ragazzi che crescono nel vuoto. Un vuoto sociale, culturale e morale. Al posto della cultura del valore c’è la cultura della strada, c’è la legge del branco. Una battaglia da combattere come tutte le altre. A Napoli, il cardinale Sepe, ha chiamato a raccolta un tavolo permanente, cercando di individuare percorsi e proposte. A rispondere per primo è stato il prefetto, che si è già attivato, ma al tavolo dovranno sedersi magistrati, il mondo della cultura, dell’università, forze dell’ordine, Regione, Comune e associazioni di genitori. L’origine è proprio nella famiglia, nel vuoto di valori, nella mancanza di senso del bene comune. Dall’ambiente giuridico viene proposta l’idea di una legge che sottragga la responsabilità genitoriale ai camorristi, seppur si tratterebbe di una soluzione estrema. Il fenomeno spesso si amplifica perché è accompagnato dalla povertà, che fa nascere l’incuria e l’abbandono a se stessi dei figli, l’evasione e la dispersione scolastica. Ma, oggi, si coniuga una povertà materiale con una povertà morale. Oltre però alle preoccupazioni e alle proposte, c’è un lavoro che è su strada, fatto di cooperative e associazioni che lavoro in campo educativo, volto ad allontanare dal potere e dalla violenza le giovani leve, per inserirli in una società che è fatta di attività, di gestione dell’immenso patrimonio artistico, o prendendosi cura dei territori agricoli oggi abbandonati, coltivandoli. E’ un popolo sociale che batte ed esiste, fatto di volontari, maestri e preti di strada che vanno a cercare i giovanissimi in difficoltà. Una vita che inizia nel solco del crimine e della violenza, ma se viene agganciata da chi ogni giorno mostra il buono che è in loro, il finale da scrivere può essere tutt’altro e gli esempi ci sono: vite salvate dalla camorra. Il carcere che si coniuga con il reinserimento sociale. La privazione della libertà come punizione per i loro reati, ma anche recupero, grazie all’attività di educatori, assistenti sociali e psicologi, che operano per creare un ponte tra il giovane ed il mondo esterno, che sia lontano dal crimine, dal senso di onnipotenza. Si lavora in primis sul minore, sulle condizioni di vulnerabilità, sulle motivazioni che lo hanno spinto a compiere il reato, per poi provare ad inserirlo nel circuito sociale attraverso il lavoro, attraverso l’aggregazione giovanile, perché solo con l’impegno, facendo leva sulle loro attitudini, sulla loro curiosità è possibile ottenere il meglio della personalità di un giovane. In molti casi, si può arrivare persino a sperimentare la mediazione penale, mettendo di fronte l’agente al soggetto che ha subito il reato, per una maggiore consapevolezza del reato commesso, ma anche per vederlo nell’ottica di un punto di ripartenza di una vita fatta di opportunità ed occasioni che la società onestamente ogni giorno mostra anche nei quartieri dove il destino dei più giovani sembra scritto già alla nascita. Insomma, come si direbbe in alcune zone del sud “da una rosa nasce una spina, da una spina nasce una rosa”.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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Le baby gang e il modello Gomorra: così la fiction si confonde con la realtà

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messL’ultima vittima ha sedici anni, si chiama Ciro, è uno studente liceale, domenica sera una baby gang, gli ha rotto il naso davanti ad una fermata della metropolitana di Napoli. Insulti e poi pesanti aggressioni ai danni del sedicenne. La polizia cerca gli aggressori di Ciro nei filmati delle telecamere della stazione. Il nome di Ciro si aggiunge a quello di tanti altri ragazzini napoletani: sei quelli aggrediti soltanto negli ultimi cinquanta giorni, feriti nel fisico e nell’animo dalla rabbia ceca di altri coetanei, molti di questi girano armati con coltelli in tasca e catene, mentre l’aspirale della violenza giovanile in città cresce e preoccupa. Questa mattina un vertice in Prefettura a Napoli ha riunito attorno ad un tavolo il ministro dell’Interno, Marco Minniti e le forze dell’ordine, per cercare insieme misure per contrastare l’escalation di episodi di violenza giovanile ad opera di babygang che da settimane terrorizzano gli adolescenti napoletani. Un’emergenza. Di “baby” hanno solo l’appellativo. Le gang di minori, che paralizzano la città, sono infatti, fenomeni criminali che hanno assunto proporzioni inquietanti tanto da lanciare un allarme sociale al pari della camorra. Facce ribelli, atteggiamenti da adulti, forti del branco ma bambini alla stregua delle vittime, odio e rabbia che si riversano in persecuzioni e violenze: sono gli orde di giovanissimi, cresciuti nel mito di “Gomorra”, hanno ambizioni di malavita uguali a quelli degli adulti. Lo scrivono sui social e lo dimostrano coi fatti. I profili di molti giovanissimi sono pieni di foto in cui impugnano coltelli, tirapugni appuntiti, pistole. Mentre si muovono in branco, come i lupi o le iene. Hanno un loro slang, si vestono tutti allo stesso modo. La guerra ai baby criminali a Napoli è appena all’inizio, caratterizzata da babygang che ormai si mostrano apertamente con rappresaglie e con l’auto celebrazione tramite l’uso dei social network. Gruppi composti da decine di giovanissimi, tra i 10 e i 12 anni, che entrano nel vortice della violenza con scorribande e dimostrazioni di potenza sia contro i loro coetanei sia nei confronti delle bande rivali che continuano a spuntare in giro per i quartieri popolari della città. Spinelli tra le labbra e pistole, i giovani emulatori di “Gomorra” imitano i grandi e lanciano messaggi ai nemici. In alcuni profili si possono notare le esaltazioni dei seguaci che commentano le esternazioni “da grandi” della futura generazione di camorristi. Dopo “Gomorra” le stese a Napoli sono aumentate. Violenza delle babygang, dei criminali di nuova generazione, contro tutto e tutti, randomiche, senza un senso preciso. Un prodotto di finzione che nasceva con l’idea di smantellare un sistema: quello della camorra, radicato come un cancro nel sistema napoletano, che si è trasformato per molti giovanissimi in idoli da ammirare ed emulare: affascinati dall’odio e dalla rabbia, dal brivido del gruppo, scaricando la violenza sui loro coetanei che ricevono del male senza una ragione apparente, facendo i conti col dolore fisico e quello dell’anima, che solo con un lento e lungo percorso di riabilitazione potrà essere accantonato. “Gomorra” è stata la ricchezza di Napoli, comparse, società di catering, un indotto economico per il territorio, le migliorie, dirette o indirette, nella vita di centinai di professionisti, ma il dubbio sorge. Se Gomorra, la serie, ha influenzato così negativamente i giovani, portandoli al crimine, perché Gomorra, nella persona della produzione, non riesce a influenzare chi governa e fa politica, e a investire su cose che servono effettivamente alla comunità, come ad esempio centri di aggregazione giovanile? Sarà forse che una è finzione e l’altra è realtà? E perché una è una società privata e l’altra, ben più costosa e lenta, è un’amministrazione pubblica? Domande che forse non trovano una risposta in una città che oggi si confronta con una violenza inaudita che rischia di generare potenti criminali del domani. Il successo ha trasformato Gomorra in una pseudo griffe culturale per le nuovissime generazioni, complice anche l’incapacità istituzionale, proponendo il solo modello culturale sbagliato senza esempi positivi, senza alternative ai giovani, abbandonati alla loro rabbia, alla strada e ai suoi richiami. Portare in tv Gomorra, assume effetti devastanti sui “figli di nessuno” che vedono nei clan e nella violenza l’unica “impresa” pronta ad “investire” su di loro. Questi giovanissimi hanno bisogno di seminare ed investire nel bene e nella cultura non sulla violenza, ma se non hanno esempi, indirizzi, spazi per loro si apriranno solo le porte del carcere minorile oggi e quello che ospita gli adulti domani, ritrovandoci adulti dediti al crimine e alla violenza, rischiando la morte, proprio come alcuni protagonisti di Gomorra nelle loro guerre di bande.

(Articolo pubblicato sul mio blog “Pagine sociali” per ildenaro.it)

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Quando la terra trema c’è anche l’assistente sociale. Il lavoro di emergenza tra le macerie

IMG_0217Una notte come tante, quella di martedì 25 agosto 2016, una notte che segnerà e colpirà, creando una ferita nel cuore e nelle vite di molti italiani. Interminabili minuti di paura, che sconvolgono e distruggono gran parte del Centro Italia. Il terremoto nella sua furia spazza via case, interi paesi, cancellando borghi, storie e talvolta vite. Quel che resta è il silenzio del dolore, la desolazione e cumoli di macerie che tracciano una ferita in più nella vita degli italiani. Le immagini che le televisioni ci propongono sono forti, spaventano, eppure mostrano un popolo composto che sa fondere paura e razionalità, nonostante il tragico momento, in cui il bilancio delle vittime sale di ora in ora, di giorno in giorno. Ci sono momenti così, nella storia degli uomini, dove si reagisce con l’emozione oltre che con la razionalità, perché l’emozione sveglia, incita a stare all’erta. Quell’emozione che smuove quanti per lavoro o semplicemente per impeto agiscono, accorrono nelle zone terremotate per dare il loro contributo, per fornire il loro personale aiuto. Sono i volontari o più comunemente “angeli”, che sfidano la paura, l’angoscia, il senso di smarrimento per aiutare chi nel terremoto ha perso tutto o chi farà i conti con la terra che trema ogni notte. A condividere per mesi il dramma della perdita della quotidianità, la fatica e le delusioni della ricostruzione, lo sforzo di tornare ad una normalità di vita dopo un evento destabilizzante, destrutturante come un terremoto, ci sono anche gli assistenti sociali, che ricoprono un duplice ruolo: curare le ferite piscologiche, con l’ascolto, la comprensione, l’empatia; ed i bisogni sociali, legati ai sussidi economici, alle richieste di assistenza, supporto agli anziani, ai minori. Un “pronto intervento sociale”, in cui il servizio sociale interviene come connettore di rete in grado di raccogliere i diversi bisogni portati dai cittadini colpiti dall’emergenza per attuare interventi idonei ad aiutare la popolazione ad affrontare meglio il momento di crisi. Assistenti sociali che arrivano sul luogo del terremoto quando i riflettori si spengono, quando il ricordo inizia a svanire nelle menti degli altri. L’assistente sociale arriva nei luoghi terremotati dopo le prime 72 ore. All’inizio la cosa più importante è non fare danni ma lasciare fare: persone competenti affinché facciano il proprio lavoro, ovvero, salvare vite. Passate le prime emergenze, inizia il lavoro dell’assistente sociale, che per codice deontologico è chiamata a mettersi a disposizione in queste situazioni. Il vantaggio di intervenire in questi momenti è conoscere d’anticipo la popolazione per il quale si lavorerà: si conoscono già le situazioni di fragilità, anziani soli, minori rimasti soli per il quale bisogna avviare una procedura d’affido. L’obiettivo principale è evitare l’acuirsi di disagi già presenti, cosa non sempre facile, perché si parla di zone ormai orfane di ogni via di comunicazione, di ogni tipo di struttura. L’assistente sociale arriva e lavora, quando le tende dei volontari si smontano e restano le problematiche: pensate a persone in misura alternativa al carcere o a ragazzi minorenni rimasti senza famiglia. Aiutare le famiglie a guardare avanti. Dunque, supporto, prospettiva e counselling sono le parole chiavi della professione di fronte ad un contesto crollato, ad un ambiente rotto, a delle relazioni rotte, perché prima di tutto è necessario ascoltare, capire, interpretare gesti, movenze, disegni dei più piccoli, che nascondono paure, fragilità, speranze nel futuro. Il ruolo dell’assistente sociale è un lavoro chiave specie in queste situazioni, in quanto può riportare un equilibrio, ristabilire il funzionamento sociale delle persone, ma per ognuna servono strumenti adeguati e bisogna individuarli, per farlo però c’è bisogno di ascolto, di comprensione, di un setting, ovvero, di un ambiente idoneo, improntato alla dignità, all’intimità e alla riservatezza. Un lavoro che non è solo, ma anello di un ingranaggio perfetto, di un lavoro di rete, in collaborazione con i medici di base, psicologi, neuropsichiatri, insegnati ed educatori. E’ importante che si cerchi di creare soprattutto per i più piccoli una normalità, fatta anche dalla scuola, quindi più che mai è importante il lavoro di rete con gli insegnanti, che dovranno anche fungere da supporto psicologico per i più piccoli. Non solo piccoli ma anche adulti, ed è anche a loro che l’assistente sociale porta il suo supporto, accogliendo le paure, le angosce del futuro, cercando di essere tramite con la parte amministrativa e politica, anche perché un’unica certezza accomuna chi è sopravvissuto al terremoto: non abbandonare il proprio paese. In effetti, le persone non vanno allontanate da quello che rimane delle loro vite e del loro passato. Un’esigenza che anche i politici devono abbracciare. La soluzione più economica non sempre è ottimale nel lungo periodo: le risorse vanno utilizzate con criterio ed intelligenza. Bisogna ricostruire e non creare marginalità. Arginare difficoltà non fa che crearne delle altre, talvolta più complesse.

Pubblicato su “ildenaro.it”

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Racconti d’attesa/parte1.

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Le sale d’attesa degli ospedali, delle cliniche hanno il sapore dell’amaro, dell’attesa, dello sguardo fermo sull’orologio, delle lacrime che bagnano il viso, del sorriso dopo un intervento, ma sono anche i luoghi dell’amore, della tenerezza, del “io ci sono”, del “io ti aspetto qui, dove altro”? Sono i luoghi in cui incontri le storie di infiniti calvari, di morti scampate, di sconosciuti che diventano amici tuoi senza che tu neanche te ne accorga, che in un filo di voce e con l’animo buono svuotano il sacco e ti raccontano pezzi di vita, del loro amore. Anche i medici diventano dopo un po’ parte della tua vita, nasce la fiducia, la confidenza. Eppure ti giri a pensare che sono luoghi “pesanti”, “tristi”, però sono questi i luoghi che ti insegnano la vita, ti insegnano a rimboccarti le maniche, ad aiutare e ad aiutarti, ad essere una persona diversa nel bene e nel male. Poi impari a sopportare gli infiniti racconti, la tensione, la paura, ad ingannare il tempo, impari ad accettare le mille sfaccettature della vita e la freghi a novantesimo minuto in un calcio di rigore, impari che ciò che sarà sempre la molla della vita, il materasso sui cui atterrare dopo mille voli nella vita è solo l’Amore. Unico e raro. L’amore che solo in pochi davvero possono darti: un genitore, il compagno della vita che ti sei scelto. Eh sì, perché in tutto questo lungo periodo di sale d’attesa ne ho girate, di storie ne ho incontrate, tanto che prima o poi mi deciderò ad aprire una sezione del mio blog dal titolo “racconti d’attesa”, ma ciò che più di tutto mi colpisce sono gli uomini, che da sempre lì dipingiamo menefreghisti, rompiscatole, che magari vivono da 15-20 e oltre anni con la stessa compagna di vita, hanno condiviso tutto e quando aspettano in quale sale d’attesa sembrano smarriti, vuoti, persi, nulli. Ed in molti dicono di non essere nulla senza loro accanto. Mercoledì, nell’ennesima sala d’attesa, ho incontrato un signore che ha salutato velocemente la moglie e doveva attendere poi che uscisse dalla sala operatoria, così lui era perso, mi ha guardata-non so cosa io sia, se una persona che ispira fiducia, una camomilla in persona- ma fatto sta che mi raccontano tutto. Dopo il primo sguardo ha iniziato a dirmi io devo tutto a lei, se non fosse per lei io non sarei vivo, ed ora mi costringono ad aspettare senza sapere nulla….poi è andato avanti a raccontarmi il resto della storia, che forse vi racconterò in un’altra puntata.
Non so se davvero nella nostra vita, quella che conduciamo oggi, a volte senza regole, fuori dagli schemi, di corsa, sempre con la quinta inserita nella marcia della vita, con in mente come fregare il prossimo, con l’animo sempre più egoista e menefreghista, sempre un po’ cattivo ed invidioso, riusciamo ad essere più umani e ad amare, la cosa più semplice al mondo ma anche la più difficile. Ad amare e a preoccuparci. Chissà!

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