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Più poveri e disuguali in pandemia. Siamo pronti alla sfida assistenziale post covid?

Disuguaglianze, nuove forme di povertà, volti diversi alle famiglie, l’eredità e gli effetti economici e sociali che la pandemia lascerà rischiano di essere più pesanti del previsto. Il nuovo volto disegnato dalla pandemia è segnato da fragilità e povertà. Gli italiani si sono riscoperti più poveri e più soli. Le storie che gli assistenti sociali, gli operatori delle associazioni di volontariato e della Caritas che ogni giorno ascoltano, sono storie di coppie e famiglie normali diventate povere durante la pandemia. Lavoratori onesti ed umili, ma in un anno pandemico sono precipitati a reddito zero. E’ l’effetto della pandemia e lo stop a tante attività economiche, nel 2020 la povertà assoluta in Italia è tornata ai livelli di quindici anni fa. Persone che incontrano grandi difficoltà ad effettuare  le spese essenziali per il cibo o per curarsi. L’anno scorso i poveri assoluti sono stati un milione in più rispetto al 2019, più di trecentocinquantamila famiglie totalmente indigenti in un anno. In totale – secondo l’Istat- si tratta di oltre due milioni di famiglie. Le difficoltà maggiori tra le famiglie numerose e i lavoratori tra i 35 e i 44 anni, quelli cioè con lavori precari. Al Sud la situazione più difficile. Ma nelle regioni del Nord la povertà cresce più velocemente. Nell’anno della pandemia si sono azzerati i passi fatti nel 2019, ad oggi i minori coinvolti sono circa un milione e mezzo. Il covid ha fatto crollare anche la spesa delle famiglie: si evitano gli acquisti, se non necessari.  Il volto della povertà è cambiato: sono coloro che fino a poco tempo fa donavano e oggi si ritrovano a bussare alle porte di associazioni e Caritas.

La situazione rischia di peggiorare. A primavera scade la misura che, insieme alla cassa integrazione, ha in parte arginato la crisi da covid per alcune categorie. Nei prossimi mesi, infatti, si prospetta lo sblocco dei licenziamenti e  solo in Campania si rischiano 100mila licenziamenti, 1 milione quasi in tutta Italia, già alcune storiche attività commerciali e di ristorazione nel capoluogo campano non ce l’hanno fatta a sopravvivere al post lockdown ed hanno cessato le loro attività, saltati già diversi posti di lavoro. Nei mesi si sono susseguiti aiuti economici e sociali, dal Reddito di Emergenza, ai buoni spesa, al decreto ristori, agli interventi dei singoli comuni o dei fondi diocesani dedicati, utili a sostenere le spese più urgenti magari legate al pagamento dell’affitto degli immobili, dalle rate del mutuo, delle utenze o agli acquisti alla ripartenza delle attività. Misure a cui non tutti hanno avuto eguale accesso,  il reddito delle scorso anno era totalmente differente alla situazione attuale. Infondo, però si tratta di palliativi, di assistenzialismo che serve nell’emergenza ma non lascia margine di prospettive future. Oggi quasi una persona su due di quelle accompagnate e sostenute è un “nuovo povero”. L’incremento nell’incidenza delle donne, più fragili e svantaggiate sul piano occupazionale e spesso portavoce dei bisogni dell’intero nucleo familiare. E allora quale prospettiva in tema di politiche economiche e sociali ci aspettano per fronteggiare i postumi della pandemia? Ad oggi, l’unica certezza che sembra esistere è quella del Reddito di Cittadinanza, seppur si prospettano cambiamenti, di fatto qualche novità già esiste: chi ha percepito per le prime diciotto mensilità la misura di contrasto alla povertà, rischia di veder ridotto notevolmente il contributo mensile in quanto le precedenti mensilità sono conteggiate ai fini dell’Isee aggiornato. D’altra parte da solo il  reddito di cittadinanza non riuscirebbe a coprire i tanti poveri, con quali mezzi poi?

Al di là di tutto resta la necessità di misure fiscali e finanziarie utili a sostenere la ripresa e la ripartenza delle tante attività economiche e commerciali, utili anche le agevolazioni all’assunzione di personale, inoltre và pensato e studiato un programma di assistenza a medio-lungo termine, che superi la logica del puro assistenzialismo e garantisca effettiva integrazione sociale e lavorativa, iniziando dalle opportunità di lavoro, ma se le attività chiudono è difficile l’assunzione. Insomma, un cane che si morde la coda, nel frattempo le famiglie sperimentano situazioni di povertà e disuguaglianze che rischiano solo di peggiorare e non migliorare, forse è tempo di pensarci e iniziare a costruire il domani delle famiglie, dell’economia e del sociale del nostro Paese, per non farci trovare impreparati e più forti nella ripresa post pandemia.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Le baby gang e il modello Gomorra: così la fiction si confonde con la realtà

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messL’ultima vittima ha sedici anni, si chiama Ciro, è uno studente liceale, domenica sera una baby gang, gli ha rotto il naso davanti ad una fermata della metropolitana di Napoli. Insulti e poi pesanti aggressioni ai danni del sedicenne. La polizia cerca gli aggressori di Ciro nei filmati delle telecamere della stazione. Il nome di Ciro si aggiunge a quello di tanti altri ragazzini napoletani: sei quelli aggrediti soltanto negli ultimi cinquanta giorni, feriti nel fisico e nell’animo dalla rabbia ceca di altri coetanei, molti di questi girano armati con coltelli in tasca e catene, mentre l’aspirale della violenza giovanile in città cresce e preoccupa. Questa mattina un vertice in Prefettura a Napoli ha riunito attorno ad un tavolo il ministro dell’Interno, Marco Minniti e le forze dell’ordine, per cercare insieme misure per contrastare l’escalation di episodi di violenza giovanile ad opera di babygang che da settimane terrorizzano gli adolescenti napoletani. Un’emergenza. Di “baby” hanno solo l’appellativo. Le gang di minori, che paralizzano la città, sono infatti, fenomeni criminali che hanno assunto proporzioni inquietanti tanto da lanciare un allarme sociale al pari della camorra. Facce ribelli, atteggiamenti da adulti, forti del branco ma bambini alla stregua delle vittime, odio e rabbia che si riversano in persecuzioni e violenze: sono gli orde di giovanissimi, cresciuti nel mito di “Gomorra”, hanno ambizioni di malavita uguali a quelli degli adulti. Lo scrivono sui social e lo dimostrano coi fatti. I profili di molti giovanissimi sono pieni di foto in cui impugnano coltelli, tirapugni appuntiti, pistole. Mentre si muovono in branco, come i lupi o le iene. Hanno un loro slang, si vestono tutti allo stesso modo. La guerra ai baby criminali a Napoli è appena all’inizio, caratterizzata da babygang che ormai si mostrano apertamente con rappresaglie e con l’auto celebrazione tramite l’uso dei social network. Gruppi composti da decine di giovanissimi, tra i 10 e i 12 anni, che entrano nel vortice della violenza con scorribande e dimostrazioni di potenza sia contro i loro coetanei sia nei confronti delle bande rivali che continuano a spuntare in giro per i quartieri popolari della città. Spinelli tra le labbra e pistole, i giovani emulatori di “Gomorra” imitano i grandi e lanciano messaggi ai nemici. In alcuni profili si possono notare le esaltazioni dei seguaci che commentano le esternazioni “da grandi” della futura generazione di camorristi. Dopo “Gomorra” le stese a Napoli sono aumentate. Violenza delle babygang, dei criminali di nuova generazione, contro tutto e tutti, randomiche, senza un senso preciso. Un prodotto di finzione che nasceva con l’idea di smantellare un sistema: quello della camorra, radicato come un cancro nel sistema napoletano, che si è trasformato per molti giovanissimi in idoli da ammirare ed emulare: affascinati dall’odio e dalla rabbia, dal brivido del gruppo, scaricando la violenza sui loro coetanei che ricevono del male senza una ragione apparente, facendo i conti col dolore fisico e quello dell’anima, che solo con un lento e lungo percorso di riabilitazione potrà essere accantonato. “Gomorra” è stata la ricchezza di Napoli, comparse, società di catering, un indotto economico per il territorio, le migliorie, dirette o indirette, nella vita di centinai di professionisti, ma il dubbio sorge. Se Gomorra, la serie, ha influenzato così negativamente i giovani, portandoli al crimine, perché Gomorra, nella persona della produzione, non riesce a influenzare chi governa e fa politica, e a investire su cose che servono effettivamente alla comunità, come ad esempio centri di aggregazione giovanile? Sarà forse che una è finzione e l’altra è realtà? E perché una è una società privata e l’altra, ben più costosa e lenta, è un’amministrazione pubblica? Domande che forse non trovano una risposta in una città che oggi si confronta con una violenza inaudita che rischia di generare potenti criminali del domani. Il successo ha trasformato Gomorra in una pseudo griffe culturale per le nuovissime generazioni, complice anche l’incapacità istituzionale, proponendo il solo modello culturale sbagliato senza esempi positivi, senza alternative ai giovani, abbandonati alla loro rabbia, alla strada e ai suoi richiami. Portare in tv Gomorra, assume effetti devastanti sui “figli di nessuno” che vedono nei clan e nella violenza l’unica “impresa” pronta ad “investire” su di loro. Questi giovanissimi hanno bisogno di seminare ed investire nel bene e nella cultura non sulla violenza, ma se non hanno esempi, indirizzi, spazi per loro si apriranno solo le porte del carcere minorile oggi e quello che ospita gli adulti domani, ritrovandoci adulti dediti al crimine e alla violenza, rischiando la morte, proprio come alcuni protagonisti di Gomorra nelle loro guerre di bande.

(Articolo pubblicato sul mio blog “Pagine sociali” per ildenaro.it)

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Quando la terra trema c’è anche l’assistente sociale. Il lavoro di emergenza tra le macerie

IMG_0217Una notte come tante, quella di martedì 25 agosto 2016, una notte che segnerà e colpirà, creando una ferita nel cuore e nelle vite di molti italiani. Interminabili minuti di paura, che sconvolgono e distruggono gran parte del Centro Italia. Il terremoto nella sua furia spazza via case, interi paesi, cancellando borghi, storie e talvolta vite. Quel che resta è il silenzio del dolore, la desolazione e cumoli di macerie che tracciano una ferita in più nella vita degli italiani. Le immagini che le televisioni ci propongono sono forti, spaventano, eppure mostrano un popolo composto che sa fondere paura e razionalità, nonostante il tragico momento, in cui il bilancio delle vittime sale di ora in ora, di giorno in giorno. Ci sono momenti così, nella storia degli uomini, dove si reagisce con l’emozione oltre che con la razionalità, perché l’emozione sveglia, incita a stare all’erta. Quell’emozione che smuove quanti per lavoro o semplicemente per impeto agiscono, accorrono nelle zone terremotate per dare il loro contributo, per fornire il loro personale aiuto. Sono i volontari o più comunemente “angeli”, che sfidano la paura, l’angoscia, il senso di smarrimento per aiutare chi nel terremoto ha perso tutto o chi farà i conti con la terra che trema ogni notte. A condividere per mesi il dramma della perdita della quotidianità, la fatica e le delusioni della ricostruzione, lo sforzo di tornare ad una normalità di vita dopo un evento destabilizzante, destrutturante come un terremoto, ci sono anche gli assistenti sociali, che ricoprono un duplice ruolo: curare le ferite piscologiche, con l’ascolto, la comprensione, l’empatia; ed i bisogni sociali, legati ai sussidi economici, alle richieste di assistenza, supporto agli anziani, ai minori. Un “pronto intervento sociale”, in cui il servizio sociale interviene come connettore di rete in grado di raccogliere i diversi bisogni portati dai cittadini colpiti dall’emergenza per attuare interventi idonei ad aiutare la popolazione ad affrontare meglio il momento di crisi. Assistenti sociali che arrivano sul luogo del terremoto quando i riflettori si spengono, quando il ricordo inizia a svanire nelle menti degli altri. L’assistente sociale arriva nei luoghi terremotati dopo le prime 72 ore. All’inizio la cosa più importante è non fare danni ma lasciare fare: persone competenti affinché facciano il proprio lavoro, ovvero, salvare vite. Passate le prime emergenze, inizia il lavoro dell’assistente sociale, che per codice deontologico è chiamata a mettersi a disposizione in queste situazioni. Il vantaggio di intervenire in questi momenti è conoscere d’anticipo la popolazione per il quale si lavorerà: si conoscono già le situazioni di fragilità, anziani soli, minori rimasti soli per il quale bisogna avviare una procedura d’affido. L’obiettivo principale è evitare l’acuirsi di disagi già presenti, cosa non sempre facile, perché si parla di zone ormai orfane di ogni via di comunicazione, di ogni tipo di struttura. L’assistente sociale arriva e lavora, quando le tende dei volontari si smontano e restano le problematiche: pensate a persone in misura alternativa al carcere o a ragazzi minorenni rimasti senza famiglia. Aiutare le famiglie a guardare avanti. Dunque, supporto, prospettiva e counselling sono le parole chiavi della professione di fronte ad un contesto crollato, ad un ambiente rotto, a delle relazioni rotte, perché prima di tutto è necessario ascoltare, capire, interpretare gesti, movenze, disegni dei più piccoli, che nascondono paure, fragilità, speranze nel futuro. Il ruolo dell’assistente sociale è un lavoro chiave specie in queste situazioni, in quanto può riportare un equilibrio, ristabilire il funzionamento sociale delle persone, ma per ognuna servono strumenti adeguati e bisogna individuarli, per farlo però c’è bisogno di ascolto, di comprensione, di un setting, ovvero, di un ambiente idoneo, improntato alla dignità, all’intimità e alla riservatezza. Un lavoro che non è solo, ma anello di un ingranaggio perfetto, di un lavoro di rete, in collaborazione con i medici di base, psicologi, neuropsichiatri, insegnati ed educatori. E’ importante che si cerchi di creare soprattutto per i più piccoli una normalità, fatta anche dalla scuola, quindi più che mai è importante il lavoro di rete con gli insegnanti, che dovranno anche fungere da supporto psicologico per i più piccoli. Non solo piccoli ma anche adulti, ed è anche a loro che l’assistente sociale porta il suo supporto, accogliendo le paure, le angosce del futuro, cercando di essere tramite con la parte amministrativa e politica, anche perché un’unica certezza accomuna chi è sopravvissuto al terremoto: non abbandonare il proprio paese. In effetti, le persone non vanno allontanate da quello che rimane delle loro vite e del loro passato. Un’esigenza che anche i politici devono abbracciare. La soluzione più economica non sempre è ottimale nel lungo periodo: le risorse vanno utilizzate con criterio ed intelligenza. Bisogna ricostruire e non creare marginalità. Arginare difficoltà non fa che crearne delle altre, talvolta più complesse.

Pubblicato su “ildenaro.it”

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