Aveva ottenuto un permesso premio ma, allo scadere del beneficio, non ha fatto rientro nel carcere minorile di Nisida, dove era ristretto, facendo perdere le sue tracce. Si tratta di evasione, che avrà delle ripercussioni se il giovani non si costituirà. Incoscienti e spietati. Senza mai provare rimorso, né assumersi responsabilità alcuna. Giovanissimi, ancora bambini ma giocano con la vita e con la morte. Il pericolo, l’escalation di violenza gli provoca un brivido, in alcuni casi gli mette adrenalina. Furti, rapine, scappio e nella peggiore delle ipotesi omicidi, li affascina. Sono l’esercito tecnicamente dei bambini, che rifiutano le regole ed arrivano a compiere gesti terribili e senza senso con una leggerezza tale che anche davanti alle conseguenze non riescono a comprenderne la gravità. Così da fanciulli o poco più si ritrovano dietro le sbarre di uno dei diciannove penitenziari minorili presenti in Italia, che ospitano detenuti dai 14 ai 18 anni e fino ai 25 anni se il reato è stato commesso prima del raggiungimento della pena. Un carcere minorile non è un carcere per adulti, un istituto di pena per minori è un mondo diverso: dalle procedure d’ingresso per i visitatori alla storia professionale degli operatori, dall’iconografia carceraria alla sensibilità istituzionale, dai bisogni pedagogici e di salute ai diritti, dalle relazioni tra detenuti a quelle con lo staff, dai controlli alle attività consentite. Nell’ambito della giustizia minorile la carcerazione è fortemente residuale. I numeri dei ragazzi detenuti sono bassi. I minorenni sono meno di duecento, gli adulti tra i 18-25 anni, meno di trecento. Questo permette progettualità innovative e un’attenzione educativa individuale che non può essere paragonata alla burocratizzata vita carceraria degli adulti, afflitta da numeri che rendono i detenuti un numero agli occhi degli operatori. Così accade che negli istituti penitenziari per minori il direttore conosca singolarmente ogni giovane detenuto e gli operatori prendono i carico i destini individuali dei ragazzi con empatia, sapendo distinguere i comportamenti e gli atteggiamenti, lavorando su questo. La giustizia penale minorile consente la sperimentazione di percorsi e di pene alternative a quella carceraria, e ciò parte dal reato che ha portato alla detenzione. Si tende a categorizzarlo in quattro ampi insiemi: coloro che hanno commesso reati gravissimi contro la persona o di particolare rilevanza sociale; ragazzi immigrati privi di figure significative all’esterno; detenuti pluri-recidivi con stili di vita non legali; detenuti affetti da atteggiamenti oppositivi. Una composizione socio-penale, sulla quale gli operatori dovranno quotidianamente lavorare con attenzione psicologica e pedagogica elevata. Vanno, dunque, evitate semplificazioni trattamentali. In tutti gli istituti si prova ad evitare la vita comune tra minori e giovani adulti, una divisione che in alcuni casi è rigorosa, come avviene a Torino, perché gli adulti sono gestibili, conoscono i meccanismi del carcere, mentre i minori sarebbero un concentrato di rabbia, ormoni e vite complicate. In un istituto penitenziario per minori lo sguardo cade sui ragazzi e sul personale, a volte è difficile distinguere gli uni dagli altri. I poliziotti, ad eccezione del comandante di reparto, non indossano la divisa. La presenza di giovani agenti in borghese è sinonimo di vicinanza e di non stigmatizzazione carceraria che ha effetti benefici. Sparsi per l’Italia sono ristretti ragazzini che hanno alle spalle storie di autentica criminalità, come per i minori autoctoni ristretti al Fornelli di Bari, a Catanzaro, a Nisida o nei penitenziari minorili siciliani, va rotto il circolo vizioso del rapporto con l’istituzione. Dovrà presentarsi dolce, mite, accogliente, ma anche ferma e moralmente irreprensibile. Un poliziotto senza divisa accorcia le distanze, ma l’autorevolezza, la determinazione e la coerenza contano in un rapporto con un ragazzo in via di formazione. Per funzionare al meglio, la giustizia minorile deve costruire ponti e alleanze con gli attori: associazionismo, scuole, enti no profit. E’ importante stimolare nelle carceri minorili corsi di formazione professionali, decisivi per i ragazzi in crescita. Un attore decisivo per il destino dei ragazzi reclusi è il variegato mondo del terzo settore, dell’associazionismo e della cooperazione sociale. La sua creatività può fare tantissimo. Dal teatro in carcere ai laboratori di cucina e pasticceria, passando per laboratori di grafica e scultura, sono irrinunciabili nella fase della crescita. Ma gli istituti penitenziari minorili italiani fanno i conti con le carenze e le problematiche, iniziando da operatori precari, che rischiano di andare via lasciando un percorso di aiuto iniziato e condiviso, ed il cambiamento dell’operatore nel minore non genera sicurezza, anzi rischia di far fallire il percorso già avviato. Anche un tempo non prestabilito, non aiuta. Un limite alle possibilità di organizzare del tempo in carcere è dato dal breve periodo di permanenza del ragazzo e ciò risulta impossibile prendere i giovani seriamente in carico. Anche l’edilizia penitenziaria non aiuta. Strutture brutte, fatiscenti, nate da posti dismessi. Una pratica ancora ricorrente è purtroppo quella dei continui trasferimenti dei ragazzi ritenuti difficili. Troppo spesso vengono trattati come fossero pacchi. Il sistema penitenziario minorile pur avendo delle carenze risulta maggiormente organizzato rispetto a quello degli adulti. Ha una sua identità pedagogica, ma deve andare ancora oltre. Non deve farsi affascinare dai metodi approssimativi del sistema degli adulti. Deve rinunciare del tutto alle asprezze, all’isolamento punitivo. Deve riuscire a puntare su due sole parole chiave: prevenzione ed educazione, certo deve anche confrontarsi con i fallimenti ed interrogarsi perché in un permesso premio il minore possa non rientrare più: è solo il modo per essere un recidivo o c’è un malessere non compreso?
(Articolo pubblicato per il mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)
Remon, a quattordici anni è fuggito dal suo Paese, l’Egitto, senza nemmeno avere la possibilità di salutare i suoi genitori e suo fratello. Con follia e paura si è rivolto a scafisti senza scrupoli pur di raggiungere l’Italia e diventare un ragazzo libero di studiare. Libero di professare la sua fede: lui è cristiano copto. È stato chiuso durante la trattativa economica con la sua famiglia in un appartamento alcuni giorni. Poi, disorientato, ha cambiato tre imbarcazioni. Pericolose, gelide. Senza mangiare se non riso cotto con l’acqua salata, bere se non benzina. Ustionato di giorno dai raggi del sole, congelato la notte. Poi è arrivato in Sicilia, pensando che quell’isola fosse la famosa Milano. Quella città di cui tanti parenti gli parlavano in Egitto. Dove si lavora, si studia, si può pregare senza rischiare la vita. Ma è diventato un numero, dopo lo sbarco. È entrato in un centro di accoglienza, poi un altro e ha capito cosa sia la paura. Ma anche quanto valga la libertà: più della solitudine. Più di qualsiasi timore. Quando stava per smettere di avere speranza e di contare i giorni, ha incontrato Carmelo e Marilena. Una coppia generosa, senza figli, che l’ha accolto e gli ha permesso di salvarsi e studiare ad Augusta. Remon, ha deciso di lasciare la sua storia come un’impronta, tra le pagine di un libro, scritto dalla giornalista e scrittrice, Francesca Barra, “il mare nasconde le stelle”. Remon è l’emblema di tanti orfani del Mediterraneo, piccoli anonimi, che arrivano in Italia. Sono schiavi invisibili, giovanissime vittime dello sfruttamento e della tratta dei migranti. Un fenomeno nascosto e difficile da tracciare che vede come protagonisti i minori stranieri giunti in Italia via mare e via terra, molti dei quali non accompagnati da genitori o parenti. Secondo l’Organizzazione umanitaria, in Italia tra gennaio e giugno 2016 sono arrivate via mare 70.222 persone in fuga da guerre, fame e violenze. Di queste 11.608 sono minori, il 90% dei quali (10.524) non accompagnati. Un numero più che raddoppiato rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente quando si sono registrati 4.410 arrivi. Piccole vittime dello sfruttamento. La tratta di persone, in Italia, costituisce la terza fonte di reddito per le organizzazioni criminali, dopo il traffico di armi e di droga. Ovviamente i minori stranieri, soprattutto quelli non accompagnati, rappresentano un potenziale bacino di sfruttamento per coloro che cercano di trarre profitto dal flusso migratorio, speculando in vari modi sulla vulnerabilità dei più piccoli: dallo sfruttamento nel mercato del lavoro nero, alla prostituzione, allo spaccio di droga fino ad altre attività criminali. Un girone infernale, in cui rischiano di finire i minori stranieri non accompagnati, eppure il sistema giuridico italiano, attraverso la figura dell’assistente sociale, ha l’obiettivo di tutelare i minori stranieri non accompagnati. Qualora un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio identifichi un minore straniero non accompagnato sul territorio dello stato italiano, le leggi da applicare sono le stesse previste per la protezione dei minori italiani. Di conseguenza sarà suo compito segnalare la situazione del minore alla procura e al giudice tutelare. Il minore che verrà riconosciuto in stato di abbandono verrà collocato in luogo sicuro. Laddove ve ne siano le condizioni verrà aperta la tutela e valutato l’affidamento del minore. I minori stranieri sono inespellibili dal territorio italiano salvo che per ragioni di ordine pubblico e sicurezza dello stato. Il D. Lgs 286/1998 e il DPR 394/99 prevedono però la possibilità del rimpatrio assistito del minore quando questo è considerato opportuno nell’interesse dello stesso. “Rimpatrio assistito“ significa affidare nuovamente il minore alla famiglia o alle autorità responsabili del paese di provenienza con un progetto di reinserimento. Per i minori stranieri non accompagnati che restano nel nostro Paese, è previsto un lavoro congiunto tra Assistente Sociale e Tribunale per i Minorenni, affinchè si riescano a rintracciare familiari entro il quarto grado di parentela per un affido intra familiare, oppure optare per un affido extra- familiare, ovvero, famiglie che hanno dato la disponibilità ad accogliere in casa dei minori privi o allontanati dalla loro famiglie. E’ il primo passo per un Paese come l’Italia verso l’integrazione e l’apertura all’altro, specie se minore, che spesso ha vissuto esperienze traumatiche durante la traversata in mare. Ma siamo un Paese generoso che lo fa lontano dai riflettori. Esistono tante famiglie che accolgono minori immigrati, con sacrifici e sforzi inenarrabili. Con una fiducia dettata da un solo istinto: l’amore gratuito. Perché l’affido è la forma di amore più incondizionata e rischiosa. Sono bambini indifesi, che vivono in conflitto perenne tra i ricordi della famiglia biologica e la gratitudine. Il cibo della loro terra e quello del paese che li ospita. In conflitto tra le abitudini e la spontaneità. La lingua. Esistono i confronti, che sono inevitabili e dolorosi. Dovremmo fare tutti un passo indietro, essere aperti alla forza dell’amore, della fede, del sogno onesto di questi bambini, che vince su tutto. Un Paese che accolga e non chiuda: dalla scuola alla famiglia, grattando via pregiudizi e ragionamenti banali. Cercando di costruire un Paese tollerante ed aperto, ma anche di professionisti che lavorino in rete verso la stessa finalità.