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Non si ferma la piaga della violenza sulle donne, ancora troppe le falle nel sistema di tutela

Uccise in casa e fatte a pezzi, strangolate, violentate, pugnalate e massacrate di botte fino alla morte. Femminicidi vittime dei loro compagni, mariti, o di uomini che conoscevano appena. Umiliate, sottomesse, annientate da uomini maschilisti che confondono l’amore col possesso, vittime silenziose della violenza domestica, l’altra forma della violenza sulle donne: violenza psicologica che si fonde anche alla violenza fisica da parte di uomini che ogni giorno colpiscono psicologicamente la donna da amare e talvolta si scagliano fisicamente contro di loro, picchiandole e colpendole. Tra le mura domestiche di famiglie apparentemente felici e sane si nasconde terrore e violenza, anche quella assistita dai propri figli, che ogni giorno vivono di paura e d’angoscia, compromettendo la loro salute psico-fisica. Non è raro che molti bambini soffrono di disturbi del linguaggio, disturbi psico motori e del sonno. Crescita che rischia di minare la loro vita da adulti e le loro relazioni sentimentali. Il modello rischia di ripetersi: violenza su violenza, o subire la violenza perché quello è l’unico modello che hanno conosciuto. Violenza che diventa trasversale, quando l’uomo uccide un figlio per colpire la donna. E’ risaputo che l’unico amore indissolubile per una donna è quello per un figlio ed è proprio quelle creature che colpiscono gli uomini violenti per creare un dolore immenso alla donna. Ci sono donne che purtroppo sono vittime perché nelle loro famiglie la violenza è l’unica forma d’amore che hanno conosciuto. Nella mente la donna giustifica l’aggressore “se si arrabbia e mi picchia vuol dire che ci tiene”, o “era solo uno schiaffo ma non mi fa mancare nulla”. Il problema nasce nella relazione di coppia, la dinamica a due: in queste relazioni accade che la donna cerca di curare il suo partner giustificando gli atteggiamenti violenti quando è lei stessa che necessita di cure. A sua volta il compagno non cambia e aumenta l’escaletion di aggressività fino ad arrivare in alcuni casi anche ad ucciderla. Gli strumenti sociali e legislativi per aiutare le donne ci sono, ma spesso non bastano. Le leggi nascono in Parlamento e non a contatto con la realtà. La vittima viene supportata dai CAV – Centri Antiviolenza o in alcuni casi collocata insieme ai figli in una casa rifugio, un posto segreto, sentendosi quasi reclusa, costretta a nascondersi come se avesse commesso lei il reato mentre l’uomo è libero di vivere la sua vita sociale. In alcune realtà la donna non viene immediatamente supportata psicologicamente, rischiando di venire meno alla protezione, ritornando con i loro aguzzini. E’ un meccanismo arrugginito che spesso avviene nelle piccole realtà di provincia dove si è ancorati alle tradizioni e dove la violenza da parte degli uomini viene spesso giustificata. E’ importante che anche la mentalità cambi, abbandonando la logica del subire come avveniva nel passato, attivando percorsi di sostegno e supporto psicologico e morale a favore delle donne, lavorando nella ri-costruzione del sé fortemente indebolito dalla violenza nonché nel rafforzare le reti di supporto, iniziando dalla famiglia. Spesso le donne vittime di violenza si ritrovano totalmente isolate dai propri cari e dalle amicizie, l’uomo violento l’ha allontanata dagli affetti e dalle persone a lei care, è importante aiutarla a rinforzare queste reti. Nel frattempo l’Italia arranca in un fenomeno in continua crescita e che spaventa ogni giorno. Un mondo sommerso che rischia di non venire mai a galla. Nel mentre l’Italia ha dato vita al nuovo Piano antiviolenza, ispirato alle linee guida della Convenzione di Instabul. “3P”: prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire i crimini. Presentato dalla ministra per le Pari opportunità, Elena Bonetti, che lo ha definito una bozza di intenti, nel quale ha aggiunto che andranno individuati “livelli di responsabilità, delle risorse occorrenti e della relativa tempistica. Vale a dire: ci vorrà tempo, frase che un po’ destabilizza. Il nuovo piano dovrebbe rafforzare le falle del precedente, perché vi esisteva un vecchio piano antiviolenza, e  dunque su pilastri: prevenzione, protezione e sostegno delle vittime, punizione dei colpevoli e assistenza e promozione. Tra le novità, c’è senz’altro, un’attenzione maggiore sul contrasto alla violenza economica attraverso l’educazione finanziariadelle donne con tirocini retribuiti e norme per favorire l’inserimento lavorativo al fine di realizzare l’obiettivo più generale dell’empowerment delle donne. Tra le priorità individuate dal piano c’è anche quella di aumentare il livello di consapevolezza nella pubblica opinione e nel sistema educativo e formativo sulle radici strutturali, sulle cause e sulle conseguenze della violenza maschile sulle donne e promuovere la destrutturazione degli stereotipi alla base della violenza. Perché una cosa è certa, senza dubbio bisogna intervenire ma bisogna anche prevenire lavorando sulle nuove generazioni insegnando loro il rispetto per sé e per gli altri senza distinzione di genere. Trasmettendogli il valore che la relazione a due deve essere un motivo di crescita, di confronto e di accettazione, non di possesso o vista come una violazione di confine.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Come nasce una baby gang: identikit dei violenti in erba

Sguardo di sfida. La rabbia fin dentro gli occhi. La violenza che cova dentro, esplodendo in atti forti contro lo Stato, pietre, parolacce, sguardi di sfida alle forze dell’ordine, sino alla rabbia ceca contro i loro coetanei. Girano armati con coltelli in tasca e catene, mentre l’aspirale della violenza giovanile nel capoluogo partenopeo cresce e preoccupa. Dieci i ragazzi accoltellati da inizio dicembre ad oggi. Aggressioni e violenze ai danni di altri minori. Un ragazzo è stato accoltellato alla gola, Arturo, ad un altro è stata dovuta asportare la milza. E ancora, 17 rapine in due mesi, nel napoletano, messe a segno da scorribande di ragazzini. Ragazzini poco più che bambini che si fanno la guerra nel centro storico di Napoli, ragazzi che il giudice Nicola Quatrano ha legato addirittura ai militanti della Jihad, per quel “filo sottile ed esistenziale” rappresentato dalla “ricerca della morte”. Il “branco” vive di adrenalina che si respira per le strade di Napoli, si muovono, agiscono, feriscono, con spavalderia, sfidano le forze dell’ordine e poi spariscono mischiandosi alla gente impaurita. Gang di minori, che paralizzano la città, sono infatti, fenomeni criminali che hanno assunto proporzioni inquietanti tanto da lanciare un allarme sociale al pari della camorra. Ma se la strada attira, c’è chi ogni giorno, da anni, nella difficile e complicata Napoli investe sui più giovani, sono molti i progetti anche in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione e del Viminale che unisce scuola, quartieri, centri sportivi, associazioni del terzo settore e parrocchia, per rieducare i ragazzi, allontanarli dal crimine e dalla violenza. Ma le emergenze nascono e spaventano. Il quadro è complesso e va visto nella sua complessità. Napoli è una grande città che fa i conti con l’esclusione sociale, la presenza della criminalità organizzata, con forme di violenza. Serve unire la prevenzione e la repressione vadano a braccetto: educazione e limite funzionano in simbiosi. Invece, ancora una volta c’è chi si divide tra “mandiamo la Folgore” e chi vorrebbe un esercito di insegnanti. Ragazzini piccoli e feroci, fanno parte di famiglie non solo molto povere ma “scassate” – come si dice a Napoli-, con figure materne e paterne deboli o del tutto inesistenti, genitori che non hanno prospettive di impegno né formazione, che abitano ai margini di quartieri e comunità marginalizzate e visti come degli esclusi da queste stesse comunità. Alcuni di questi genitori sono nelle parti basse della criminalità organizzata o vi sono limitrofi, non hanno nessuna consapevolezza di come si educa un figlio, spesso sono disperati perché non hanno mezzi di sostentamento, spesso presentano caratteristiche psicosociali complesse. I figli non vanno a scuola, nutrendo un disappunto per l’istruzione ed il sapere, vivono alla giornata e si coagulano in una banda che non è organizzata con una gerarchia stabile, infatti, il fenomeno è nuovo e sconosciuto a quanti si occupano di giovani, perché il fenomeno è complesso e ancora sconosciuto in alcune sue parti a tutti. E’ un gruppo informale che se ne sta senza far niente, magari girano su motorini rotti, tirano tardi la notte, poi arriva l’adrenalina, fare qualcosa che sia un’avventura e nel giro di pochi minuti creano disastri terrificanti, contro qualcuno che scelgono al momento, perché magari ha avuto la sventura di passargli accanto o di essere in quel posto con loro. Alcuni a volte sono sotto l’effetto di alcool o di droghe. Sono questi effetti conglomerati di ragazzi che vivono ai margini della società, sotto la pressione della frustrazione, della regolazione emotiva e sostanzialmente non sanno cosa fare e cosa si dovrebbe fare. Non hanno una figura adulta di riferimento: un nonno saggio, un parroco amorevole, un volontario che li agganci, li rassicuri, gli fornisca alternative entusiasmanti e vive, che siano lontane della violenza e dal crimine. Sono bombe che rischiano di scoppiare alla prima occasione. Di positivo in questi giorni c’è una città che rifiuta la violenza, che si smuove nelle coscienze ed in piazza, e in quelle piazze non c’è solo il genitore del quartiere bene di Napoli, ma genitori fragili ed insicuri ma schierati dalla parte della legalità. Questa è la molla che deve portare tutti dalla stessa parte oltre la reazione: servono alleanze che costruiscano luoghi dove è possibile vivere “avventure” e “sfide” positive, alternative, in una fascia d’età che vada dai 10 ai 25 anni. Servono scuole, serve formazione professionale, stage sul territorio per amarlo e riconoscerlo nell’arte, nell’artigianato, perché sa di identità e di vita. Servono più educatori attivi che seguano le situazioni più fragili e a rischio, supportando la genitorialità con indicazioni educative, c’è bisogno che nascano centri di aggregazione giovanile dove ci siano i valori dello sport, della condivisione. La scuola da sola non basta, seppur deve essere più flessibile, con una formazione professionale vera, alleandosi con i tutor di strada. Accanto a tutto ciò ci deve essere non tanto un cambio della legge ma certezza delle sanzioni, anche non penali: il programma educativo deve essere realizzato per davvero, la sua esecuzione deve essere sorvegliata in maniera forte.

(Articolo pubblicato per il mio blog Pagine Sociali per il denaro.it)

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