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Non si ferma la piaga della violenza sulle donne, ancora troppe le falle nel sistema di tutela

Uccise in casa e fatte a pezzi, strangolate, violentate, pugnalate e massacrate di botte fino alla morte. Femminicidi vittime dei loro compagni, mariti, o di uomini che conoscevano appena. Umiliate, sottomesse, annientate da uomini maschilisti che confondono l’amore col possesso, vittime silenziose della violenza domestica, l’altra forma della violenza sulle donne: violenza psicologica che si fonde anche alla violenza fisica da parte di uomini che ogni giorno colpiscono psicologicamente la donna da amare e talvolta si scagliano fisicamente contro di loro, picchiandole e colpendole. Tra le mura domestiche di famiglie apparentemente felici e sane si nasconde terrore e violenza, anche quella assistita dai propri figli, che ogni giorno vivono di paura e d’angoscia, compromettendo la loro salute psico-fisica. Non è raro che molti bambini soffrono di disturbi del linguaggio, disturbi psico motori e del sonno. Crescita che rischia di minare la loro vita da adulti e le loro relazioni sentimentali. Il modello rischia di ripetersi: violenza su violenza, o subire la violenza perché quello è l’unico modello che hanno conosciuto. Violenza che diventa trasversale, quando l’uomo uccide un figlio per colpire la donna. E’ risaputo che l’unico amore indissolubile per una donna è quello per un figlio ed è proprio quelle creature che colpiscono gli uomini violenti per creare un dolore immenso alla donna. Ci sono donne che purtroppo sono vittime perché nelle loro famiglie la violenza è l’unica forma d’amore che hanno conosciuto. Nella mente la donna giustifica l’aggressore “se si arrabbia e mi picchia vuol dire che ci tiene”, o “era solo uno schiaffo ma non mi fa mancare nulla”. Il problema nasce nella relazione di coppia, la dinamica a due: in queste relazioni accade che la donna cerca di curare il suo partner giustificando gli atteggiamenti violenti quando è lei stessa che necessita di cure. A sua volta il compagno non cambia e aumenta l’escaletion di aggressività fino ad arrivare in alcuni casi anche ad ucciderla. Gli strumenti sociali e legislativi per aiutare le donne ci sono, ma spesso non bastano. Le leggi nascono in Parlamento e non a contatto con la realtà. La vittima viene supportata dai CAV – Centri Antiviolenza o in alcuni casi collocata insieme ai figli in una casa rifugio, un posto segreto, sentendosi quasi reclusa, costretta a nascondersi come se avesse commesso lei il reato mentre l’uomo è libero di vivere la sua vita sociale. In alcune realtà la donna non viene immediatamente supportata psicologicamente, rischiando di venire meno alla protezione, ritornando con i loro aguzzini. E’ un meccanismo arrugginito che spesso avviene nelle piccole realtà di provincia dove si è ancorati alle tradizioni e dove la violenza da parte degli uomini viene spesso giustificata. E’ importante che anche la mentalità cambi, abbandonando la logica del subire come avveniva nel passato, attivando percorsi di sostegno e supporto psicologico e morale a favore delle donne, lavorando nella ri-costruzione del sé fortemente indebolito dalla violenza nonché nel rafforzare le reti di supporto, iniziando dalla famiglia. Spesso le donne vittime di violenza si ritrovano totalmente isolate dai propri cari e dalle amicizie, l’uomo violento l’ha allontanata dagli affetti e dalle persone a lei care, è importante aiutarla a rinforzare queste reti. Nel frattempo l’Italia arranca in un fenomeno in continua crescita e che spaventa ogni giorno. Un mondo sommerso che rischia di non venire mai a galla. Nel mentre l’Italia ha dato vita al nuovo Piano antiviolenza, ispirato alle linee guida della Convenzione di Instabul. “3P”: prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire i crimini. Presentato dalla ministra per le Pari opportunità, Elena Bonetti, che lo ha definito una bozza di intenti, nel quale ha aggiunto che andranno individuati “livelli di responsabilità, delle risorse occorrenti e della relativa tempistica. Vale a dire: ci vorrà tempo, frase che un po’ destabilizza. Il nuovo piano dovrebbe rafforzare le falle del precedente, perché vi esisteva un vecchio piano antiviolenza, e  dunque su pilastri: prevenzione, protezione e sostegno delle vittime, punizione dei colpevoli e assistenza e promozione. Tra le novità, c’è senz’altro, un’attenzione maggiore sul contrasto alla violenza economica attraverso l’educazione finanziariadelle donne con tirocini retribuiti e norme per favorire l’inserimento lavorativo al fine di realizzare l’obiettivo più generale dell’empowerment delle donne. Tra le priorità individuate dal piano c’è anche quella di aumentare il livello di consapevolezza nella pubblica opinione e nel sistema educativo e formativo sulle radici strutturali, sulle cause e sulle conseguenze della violenza maschile sulle donne e promuovere la destrutturazione degli stereotipi alla base della violenza. Perché una cosa è certa, senza dubbio bisogna intervenire ma bisogna anche prevenire lavorando sulle nuove generazioni insegnando loro il rispetto per sé e per gli altri senza distinzione di genere. Trasmettendogli il valore che la relazione a due deve essere un motivo di crescita, di confronto e di accettazione, non di possesso o vista come una violazione di confine.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Paure e angosce post dramma. Ecco perché le tragedie ci fanno paura

untitledRabbia, impotenza, senso dell’assurdo. Sono questi i sentimenti che si provano in questi giorni drammatici e tragici che l’Italia sta vivendo. Perché il terremoto lo puoi accettare. Anche se in queste ore in cui il Sud Italia è attraversato da uno sciame sismico, la paura tiene in allerta. Un ponte che cade davanti, addosso no, è impensabile. E’ qualcosa di difficile da elaborare, anche perché di strade e di ponti ogni giorno ne attraversiamo tanti, consapevoli di una scarsa manutenzione e coscienti di essere esposti a qualche rischio. Tutta Genova avrà bisogno di assistenza psicologica e tempo per sanare una ferita così profonda. Ma, non solo la città di Genova, tutti noi abbiamo bisogno di elaborare il senso di rabbia e di impotenza: è naturale e legittimo. Rabbia, impotenza e paura, che hanno radici profonde: prima, la morte di un uomo di successo, ricco e invidiato, che se ne va di colpo, lasciandosi tutto alle spalle. Ori e stracci: la ricchezza, il successo, l’invidia e l’adulazione. Il crollo, poi, improvviso di un ponte che inghiottisce sogni, passioni, amori e affetti. Infine, lo sciame sismico che smuove il Sud Italia e nella mente della gente riaffiora la paura del terremoto dell’Ottanta. Episodi di vita accentuati dalla fatalità che fanno scattare in tutti noi un sentimento quanto normale e comprensibile: la paura, che si accentua con le immagine dei media, con le ore che passano e sanciscono altre morti, con i social che lanciano paure e allarmismi: foto e commenti, la richiesta di non attraversare ponti a rischio. Per un attimo diventiamo ingegneri e giudici, alimentando l’ondata di fobia dei ponti, delle morti improvvise. Proteggersi dalla sovraesposizione di immagini e notizie, cercando di recuperare calma e tranquillità. E’ il primo passo per non farsi prendere dal panico e dalla paura comprensibili ma ingiustificati. La paura non può e non deve paralizzarci, ma diventare arma di reazione. Incidenti come quello di Genova, hanno un fortissimo impatto sull’opinione pubblica perché comportano un elevato numero di morti e feriti. Ma ciò non toglie che sono e rimangono eventi molto rari. In situazioni tragiche come queste, purtroppo, la rete, amplifica la paura e favorisce il dilagare del panico. E, invece, bisognerebbe considerare l’estrema rarità di questi eventi. Non è vero che la rete stradale è insicura, perché altrimenti avremmo disastri quotidiani, visto l’altro numero di viaggiatori quotidiani. Per cui, è bene non sovraesporsi ad immagini e notizie che di continuo in questi giorni sono trasmesse. Passare ore su internet a cercare informazioni non fa altro che aumentare il senso di insicurezza. Anche le storie dolorose che in questi momenti sono raccontate, facilitano il meccanismo di identificazione di milioni di persone, potenziali vittime di terzo livello di questo evento. Esiste, infatti, anche un traumatismo secondario legato proprio all’identificazione con le vicende delle vittime. Soprattutto, facciamo attenzione ai bambini, la cui sensibilità è molto accentuata. I genitori sono fondamentali, da loro devono sapere che avere paura è normale, è naturale, bisogna lasciarli esprimere le loro emozioni tenendo conto che dopo un simile trauma possono avere qualche regressione e magari fare pipì a letto. Davanti alle loro domande, ai mille perché di una tragedia bisogna cercare di dire la verità senza commenti: “il ponte è caduto perché era vecchio, fatto male”. Mentre tutti noi, nel nostro noi più intimo e profondo, dovremmo chiederci perché le morti di Genova, la morte di un uomo di successo come Marchionne, ci colpisce così tanto? Perché ci poniamo istintivamente una domanda: se è tutto così veloce e drastico, stiamo usando bene la nostra vita?

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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Caporalato: Braccianti morti sotto il sole del lavoro

untitledDi lavoro e di caldo si muore davvero. La cronaca di questa estate ci restituisce sedici morti. Migranti stipati in furgone, morti nella tratta dai campi alle loro baracche. Ieri nuovo schianto nel Foggiano, morti dodici braccianti. Sabato un altro incidente in cui hanno perso la vita quattro vittime. Si indaga per verificare se fossero nelle mani dei caporali. Ombre e sospetti che riportano alla cronaca le morti sul lavoro che a causa delle temperature altissime portano i braccianti ad accasciarsi nei campi, nei cantieri e anche sui camion. Lo chiamano caporalato, ma si legge sfruttamento umano, che non conosce limiti e va combattuto, tutelando i diritti dei lavoratori, qualunque essi siano, qualsiasi sia la loro nazionalità, oltre ogni colore della pelle. Lavoratori, che prima di tutto sono esseri umani. Sono lavoratori invisibili per la legge che però assicurano manodopera nelle condizioni più disagiate e con paghe da fame. Secondo alcune stime sarebbero 400 mila in tutta Italia e la conta delle vittime dello sfruttamento rischia di rimanere parziale: le loro morti a volte passano in silenzio, altre volte rischiano di essere catalogate come incidenti stradali, perché spesso si ribaltano i pulmini carichi di lavoratori. Viaggiano in venti su mezzi omologati per nove e finiscono per essere contate come vittime della strada. Un fenomeno che non nasce oggi, ma si radica di anno in anno, anche perché le norme, sancite dalla legge 199/2016, che sanzionano il caporalato sono di difficile applicazione. Le aziende trattano direttamente con i caporali il prezzo della manodopera, i lavoratori vengono caricati su dei pulmini all’alba, per arrivare in campi di periferia, durante il viaggio qualcuno si addormenta e quando arriva a destinazione, scendendo i gradini del pulmino non sa neppure dove si trova. Uno o due euro per ogni cassetta di prodotti della terra, che vuol dire ore ed ore con la schiena piegata sotto il sole cocente. Così il sole del Sud per molti è sinonimo di vacanza ben riuscita, per altri si trasforma in una condanna quotidiana. Un’emergenza e le morti ci invitano a reagire ed in tempi brevi. Nell’estate del decreto dignità che vuole restituire, stando alle parole del suo ideatore il Ministro dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, dignità ai lavoratori, non possiamo e non dobbiamo girarci dall’altra parte dinanzi ad una realtà vera e disumana. Impegno ed intensità, proprio come si combatte da anni nel nostro paese la battaglia contro la criminalità organizzata, perché i caporali sono delinquenti. Nel frattempo in una delle estati più calde uomini e donne continuano a spaccarsi la schiena per pochi euro al giorno, rischiando ogni giorno di morire di caldo e di lavoro, una realtà che ci circonda: molti dei prodotti che acquistiamo al supermercato provengono da una filiera sporca, fatta di sfruttamento nei campi e grandi guadagni per le multinazionali dell’agricoltura. Eppure gli strumenti ci sono, basterebbe solo accoglierli in un’ottica di rispetto ed umanità. Il rispetto dei diritti umani, specialmente in campo lavorativo, permette il progresso economico, sociale e culturale. Il lavoro dignitoso, dunque, è proprio la chiave di volta, l’elemento essenziale capace di implementare uno sviluppo equo e sostenibile nel tempo. C’è bisogno di uno sforzo condiviso: da parte del lavoratore che deve superare le paure ed i timori e denunciare lo sfruttamento lavorativo, perché il silenzio di tutti rafforza ciò che puzza di illegale e disumano. Di recente è nata una campagna nazionale di Fai-Cisl, denominata “Sos caporalato”, un numero verde e spazi social dedicati a raccogliere le segnalazioni e le denunce di quanti lavorano in condizioni di sfruttamento e illegalità nell’agroalimentare. Le segnalazioni al numero verde 800-199-100 serviranno per un monitoraggio sull’evoluzione del fenomeno e consentiranno anche a dare voce a tante lavoratrici e tanti lavoratori vittime di caporalato. D’altra parte c’è bisogno di uno sforzo legislativo che garantisca dignità ai lavoratori, punendo il fenomeno con la certezza della pena. Puntando a creare una filiera agroalimentare controllata, tracciata e seguita.
Riusciremo a rendere dignitoso ed umano il lavoro?

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Sal Da Vinci, “il cantante” che unisce le generazioni. L’intervista esclusiva video

Sorriso spontaneo, umiltà e professionalità, ritratto di un’artista a tutto tondo: Sal da Vinci, che partito da Napoli ha conquistato i palcoscenici internazionali. Dal cinema al teatro, passando per la musica. Dopo gli impegni televisivi che lo hanno visto protagonista musicale su Rai1 nel corso dell’ultima edizione di “Domenica In”, Sal da Vinci, torna sul palco con un nuovo progetto che porterà questa estate in tourneè. Si intitola “il cantante”. Un mix perfetto tra divertimento, vita e musica.

Domina il palco, balla e fa ballare, unisce le generazioni, ripercorre i successi della sua carriera musicale, riporta in scena alcuni brani del fortunato “Scugnizzi”, regala monologhi di vita veri e sinceri, che incollano alle sue labbra e fanno riflettere nel profondo di ognuno. Così la serata si trasforma in un piacevole incontro con un’artista a tutto tondo in grado di emozionare profondamente.

Ieri sera, in una delle sue prime tappe del tuor estivo “il cantante” a Pagani (Salerno), abbiamo incontrato in esclusiva Sal da Vinci, nell’intervista video percorreremo con lui la nascita de “il cantante”, la carriera, le emozioni che provano i più giovani nel mondo del teatro e della musica, i consigli di Sal da Vinci ai più giovani e poi i sogni di Sal da Vinci.

(Intervista pubblicata per il mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

 

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Strattonata e picchiata dal padre, bimba di due mesi in coma. Intervengono i Servizi Sociali

img_0217“Volevo solo farla giocare”, alla fine dopo ore di interrogatorio ha ceduto il padre della piccola poco più di tre mesi, in coma con un trauma cranico e alcune costole rotte. “Piangeva, non sapevo come farla smettere” ha detto al Pubblico Ministero. “Forse l’ho stretta in modo troppo energica”, ha raccontato il papà per giustificare le fratture alle costole della piccola. Ha confessato anche di averle fatto sbattere la testa contro il comodino, quando l’ha riposta nella culla. I genitori della piccola, poco più che trentenne lui, siciliano, con un lavoro saltuario come imbianchino, lei 28 anni piemontese, residenti a Stroppiana, in provincia di Vercelli, secondo quando si apprende hanno portato la piccola all’ospedale di Torino lo scorso venerdì. Ma non era la prima volta. Allora il padre aveva detto che era “caduta” mentre la teneva in braccio. La seconda volta invece la piccola aveva un’infiammazione. Al terzo ricovero la piccola si è presentata da subito ai medici in gravi condizioni, sono così scattate le indagini sulla famiglia: madre, padre e nonna. Non è chiara la dinamica, il papà non è stato in grado di ricostruirla, anche se ora è indagato a piede libero per lesioni aggravate, ma gli inquirenti continueranno ad indagare sul resto della famiglia. In quanto l’origine della condotta può risiedere non solo nello stato soggettivo di chi l’ha posta in essere, ma anche nelle condizioni di vita del nucleo familiare, particolarmente problematico. La conferma delle indagini estese all’intero nucleo familiare è arrivata anche dalla Questura di Vercelli. Secondo quanto si apprende la famiglia della bambina non è particolarmente “disagiata” ma era già finita nel mirino dei Servizi Sociali perché aveva dimostrato “atteggiamenti immaturi”. Non compravano il latte in polvere per la bambina ma andavano in giro con l’ultimo modello di cellulare. Ora la situazione è presa in esame dal Tribunale per i Minorenni. Ma il caso esula dalla sola cronaca nera e sfocia nel ruolo professionale, umano e civile dei medici e degli operatori ospedalieri definiti pubblici ufficiali e come tale hanno l’obbligo di denuncia, l’art. 361 del codice di procedura penale, che mira a far sì che la notizia di reato giunga a conoscenza dell’organo competente all’esercizio dell’azione penale. Allora ci si chiede: perché nelle due volte precedenti in cui la piccola è stata portata in ospedale nessuno abbia segnalato, violando così l’obbligo di segnalazione? Forse se la segnalazione del sospetto reato, così come riporta la norma che investe gli operatori sanitari dipendenti o convenzionati sarebbe arrivata prima evidentemente la famiglia sarebbe stata investita dalle indagini e supportata nella responsabilità genitoriale, che senza dubbio dai comportamenti che attuano, per loro è totalmente sconosciuta. I genitori avrebbero bisogno di un sostegno alla genitorialità che li aiuti a comprendere e migliorare la relazione con la bimba, gli stili educativi e comunicativi in famiglia per favorire una crescita migliore della piccola. Questo forse poteva essere un modo d’agire se le segnalazioni fossero arrivate in tempo e se si fosse agito immediatamente, oggi, lo scenario cambia: il Tribunale per i Minorenni potrebbe decidere per l’allontanamento della piccola dal nucleo familiare, anche se tutto dipenderà dalle indagini che gli inquirenti stanno svolgendo in queste ore e che investono l’intera famiglia, compresi i nonni, per cercare le origini del malessere familiare e dei comportamenti messi in atto. Insomma la vicenda è destinata a continuare e a spese di una bambina di soli tre mesi ricoverata in gravi condizioni, seppur le sue condizioni migliorano, che ha il solo “difetto” di chiedere amore e attenzioni, come tutti i neonati e tutti i figli.

(Articolo pubblicato su ildenaro.it)

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L’esercito dei nuovi poveri: giovani e italiani

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messCi sono i giovani che hanno superato gli anziani e gli stranieri, ma soprattutto le famiglie con due o più figli: la crisi economica ha ridisegnato la mappa dell’indigenza tra le fasce sociali. Vivono in povertà assoluta, ovvero, persone che non hanno mezzi di sussistenza, 4.6 milioni, numero più alto dal 2015. Ma sono più di 8 milioni gli italiani che in generale hanno difficoltà economiche. 1.6 milioni le famiglie che incontrano difficoltà, sono quelle famiglie composte da quattro o più persone e le famiglie composte da soli immigrati. Al Sud la percentuale è di gran lunga superiore a quella degli immigrati. La povertà colpisce soprattutto i più giovani dai 18 ai 34 anni, casi di povertà economica, lavorativa, abitativa. I dati sulla povertà restano stabili tra gli anziani ma si triplicano tra i giovani e gli over 50. Dato preoccupante sono i minori: un minore su dieci vive in una situazione di grave indigenza: 1.31.000 per l’esattezza. La fotografica è stata scattata dal rapporto Caritas ed è drammatica.  Aumentano, infatti, gli italiani che si rivolgono ai centri d’ascolto della Caritas. Disoccupati, precari e pensionati: la povertà in Italia cambia volto. E soprattutto continua ad aumentare. C’è l’impiegato che ha perso il lavoro e l’imprenditore con l’azienda fallita. C’è il ragioniere e l’avvocato. C’è la pensionata, l’operaio licenziato e l’esodato. Alle mense italiane della Caritas ci sono sempre più italiani. Non solo senzatetto, clochard e sbandati. L’esercito dei nuovi poveri è quello della gente comune, delle persone qualunque, uomini e donne della porta accanto, padri e madri, lavoratori e lavoratrici senza più lavoro, stroncati dalla crisi e dal precariato, finiti sul baratro da un giorno all’altro. Tra i tavoli delle mense italiane si ascoltano le storie di vita quotidiana, storie che potrebbero accadere ad ognuno di noi. C’è chi si ritrova in bilico tra la perdita del lavoro e l’attesa della pensione, è quello che oggi si chiama esodato. Si ritrovano dopo il ridimensionamento dell’azienda a far fronte all’affitto da pagare, alle spese, troppe per poter saldare senza un lavoro e così si ritrovano con la loro dignità tra i tavoli della Caritas e cercano anche ospitalità per la notte. Non solo storie ma i dati dimostrano che i nuovi poveri sono italiani. Nel corso degli ultimi cinque anni, ai centri d’ascolto della Caritas c’è stato un aumento di 4 punti percentuali di utenti italiani. Alle mense Caritas gli italiani sono il 40% del totale, circa 50mila persone che mangiano con regolarità. Uomini e donne si equivalgono, c’è una prevalenza di coniugati (48,6%), seguono i disoccupati, le persone con domicilio e con figli. L’età oscilla tra i 35-44 anni ed i 45-54 anni.  Gli italiani alla Caritas non smettono di credere in un futuro migliore. Tenaci e non arrendevoli, nonostante tutto, seppur covano dentro rabbia contro il mondo del lavoro e contro la politica. Ma nelle mense trovano spazio, ascolto prima ancora che un pasto, gli operatori infatti riescono a supportare ed incoraggiare quanti prendono parte alla mensa, che resta l’unica realtà a cui potersi rivolgere per chi è in difficoltà. E se il mondo istituzionale e politico fino a qualche tempo fa restava a guardare ora sembra proprio che qualcosa si stia muovendo contro l’esercito dei poveri, infatti, è stata varata una misura di contrasto alla povertà: il reddito di inclusione, che dovrebbe coinvolgere due milioni di persone. Il reddito di inclusione crea un percorso per le famiglie in difficoltà, infatti non si limiterà solo a dare un sostegno economico alle famiglie in condizione di povertà ma si prenderanno in carico questi nuclei familiari con l’obiettivo dell’uscita da questa condizione guardando anche al lavoro e all’insieme dei servizi sociali. Si chiama reddito di inclusione ma si legge sotto l’acronimo di “Rei”, che interesserà circa 400 mila famiglie, per un totale di circa 1.5 milioni di persone. Famiglie con figli minori, disabili, donne in gravidanza e over 55 disoccupati in condizioni di disagio. L’accesso avverrà attraverso il modello Isee, questo permetterà di tenere conto delle famiglie che pagano l’affitto. Potranno accedere al beneficio anche alcuni proprietari di prima casa in povertà. La soglia per ottenere il beneficio sarà indicata nei decreti attuativi ma dovrebbe aggirarsi intorno ai 6 mila euro. L’importo mensile di aiuto non potrà superare i 485 euro al mese, ma l’importo sarà legato al numero dei componenti della famiglia e alla situazione reddituale. Per evitare che sia un disincentivo alla ricerca di lavoro, l’assegno verrà dato almeno in parte e per un periodo anche dopo un eventuale incremento di reddito. Il Rei sarà assegnato solo con l’adesione ad un progetto personalizzato di attivazione e inclusione sociale e lavorativa. Le risorse stanziate per il piano sono di 1.18 miliardi per il 2017 e di 1.7 per il 2018. Misure che non sembrerebbero fini a se stesse, fatte di incentivi m anche di sostegno sociale, eppure un primo tentativo era già stato fatto con il “SIA”, Sostegno Inclusione Attiva, fallito in molti comuni anche del Sud per la carenza di personale, in primis assistenti sociali che potessero pianificare e concordare con l’utenza il progetto personalizzato di inclusione, previo il monitoraggio costante. Sembrerebbe proprio che le basi di aiuto ci siano ma manca il personale per attuarlo: un cane che si morde la coda. Sarà questa la volta buona?

(Articolo pubblicato su: “ildenaro.it”)

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Accattonaggio: un esercito di minori all’angolo delle strade

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messCon la mano tesa, percorrono le strade del nostro paese. Accovacciati a terra come stracci o vagabondi tra le auto in sosta. Sono loro, il popolo degli indigenti, dei reietti. E’ la dura legge della sopravvivenza di molti bambini, costretti a chiedere l’elemosina ai semafori o sul sacrato delle chiese. Capita di incontrarli sui bus urbani, in stazione, tra le bancarelle dei mercati rionali. Scene quotidiane di un’ infanzia negata. Un bicchiere di plastica da riempire e qualche santino per fare presa sulla carità cristiana e sulla generosità dei passanti durante le ore convulse dello shopping. Molti di questi bambini presidiano gli ingressi di bar, tavole calde e supermercati affermando di “aver fame”, ma in realtà accettano solo monete. Il passante di turno che si offre di comprare sul momento qualcosa da mangiare non è particolarmente gradito. Non è un mistero che tutto ciò rientri nella severa logica familiare: portare a casa più denaro possibile. Un passaggio antico quanto il mondo, l’elemosina, un tempo, veniva indentificata con il nome di “questua”: che, secondo la tradizione cristiana, indicava l’andare di porta in porta a elemosinare offerte, in particolare cibo o denaro. Oggi, a distanza di millenni, la prassi non ha modificato il suo significato, ma ha tramutato il nome in altro: accattonaggio. Con l’avvento della crisi economica, che ha portato molte famiglie a fare i conti con le difficoltà economiche, specie famiglie già indigenti ed in difficoltà, come i rom, gli extracomunitari, che per sopravvivere ricorrono all’elemosina o vendere piccoli oggetti. All’angolo delle strade vi è un vero e proprio esercito di minori. Il fenomeno dell’accattonaggio minorile ha subito un’impennata a ridosso degli anni ’80, fenomeno partito dai minori slavi sbarcati sulle nostre coste. Ad oggi, accanto a queste 3-4mila presenze sul territorio nazionale, si sono aggiunti fanciulli provenienti dal nord Africa e dall’Albania, sempre più vittime di organizzazioni dedite all’immigrazione clandestina. Bambini che così vengono sottratti all’infanzia, al gioco, all’istruzione, ad una vita di opportunità, di sapere e di occasioni. Ad oggi, l’accattonaggio è un reato penale, l’art. 670 del codice penale, prevede la reclusione fino a tre mesi per chiunque elemosini denaro in luogo pubblico. Una sentenza del 1995 ha fatto una distinzione tra le diverse forme di accattonaggio. Pertanto, se la richiesta di denaro è legittimata da “umana solidarietà”, se fa “leva sul sentimento di umana carità” e se “non intacca né l’ordine pubblico né la pubblica tranquillità”, allora essa è lecita. Quindi, distinguere un tipo di accattonaggio da un altro diventa una cosa molto complessa, soprattutto se non si è nelle condizioni di valutare quale sia il limite per  la “reale povertà” o di prevedere l’utilizzo finale del denaro richiesto, ossia se poi questo viene utilizzato per l’acquisto di alcool, droga o altri beni non legati ad uso di primaria necessità. E i bambini lungo le strade che chiedono l’elemosina? Anche in questo caso, con la sentenza n. 44516/2008, la cassazione ha stabilito che una madre Rom che portava i bambini a mendicare al semaforo era stata assolta dall’accusa di “riduzione in schiavitù”. Infatti, l’accattonaggio con minori rom al seguito non è necessariamente una forma di maltrattamento o sfruttamento di minori. In pratica, secondo la sentenza, anche i bimbi rom chiedendo l’elemosina (per sopravvivere) contribuiscono all’economia familiare. In altre parole, i giudici non hanno autorizzato la “questua” dei rom con i minori al seguito, hanno invece contestato l’equazione: elemosina sta a rom come sfruttamento di bambini sta a schiavitù.
Il fenomeno è complesso quanto complicato: molti di questi bambini rappresenta per i genitori una fonte economica. Un fatto che scandalizza noi, non le loro famiglie. Credo che ci vorrà molto tempo, forse un equivalente economico da offrire e un grande lavoro di approfondimento, per venire a capo del problema Ma ci si scontra con la carenza di assistenti sociali che possano vigilare, segnalare in tempo ai Tribunali, ancor di più garantire servizi e benefici economici alle famiglie. Così, se il contrasto alla mendicità non è supportato da adeguati strumenti di reinserimento nella società, si rischia semplicemente di cadere in azioni repressive. Eppure il principio ispiratore è la legge 285 del ’97 che è il principale strumento di attuazione della Convenzione internazionale dei Diritti dell’Infanzia, ratificata da quasi tutti paesi del mondo. Essa invita Comuni, singoli o associati, a promuovere condizioni di vita dirette a garantire a tutti i bambini e le bambine, una crescita equilibrata e dignitosa. Sembra un difficile cammino che il nostro paese non ha ancora compiuto per salvare dagli angoli della strada e restituirli all’infanzia questi bambini.

(Articolo pubblicato su: “il denaro.it)

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Riforma della giustizia: via con la cancellazione dei Tribunali per i minorenni

 

img_0217Organo di garanzia suprema, nel panorama della giustizia viene definito uno dei più grandi uffici giudiziari per l’esercizio della giustizia in ambito minorile in Italia, è il Tribunale per i minorenni, caratterizzato da un bacino di utenza assimilato al distretto della Corte d’Appello. La riforma del processo civile, discussasi nelle scorse settimane in Senato, prevede la soppressione dei tribunali per i minorenni, sostituendoli con sezioni specializzate all’interno dei tribunali ordinari. La riforma scritta nel ddl 2284, già approvato alla Camera, in un articolo prevede la soppressione dei 29 tribunali per i minorenni italiani e delle procure minorili che saranno sostituiti da sezioni apposite all’interno dei tribunali ordinari. Il mondo della giustizia è in rivolta. Sono state presentate ben quattro proposte di stralcio. Da Nord a Sud si rincorrono convegni e petizioni, la più popolare lanciata su “Change.org” ha superato le 23mila firme. Firmatari nomi di spicco della magistratura e non solo: tra associazioni di settore e non. Eppure l’Europa ha indicato l’Italia come modello nella direttiva sul “giusto processo minorile”, ma il governo si muove nella direzione opposta. Il governo taglia la giustizia, con l’intento di razionalizzarne i costi, cancellando così i tribunali dopo quasi cento anni di storia. Non solo il settore della giustizia minorile si muove contrario alla soppressione ma anche quella ordinaria già fortemente gravata dai tagli e dal ridimensionamento del personale, inimmaginabile pensare anche di accollarsi le competenze riguardanti i minori: dalle funzioni penali alle adozioni. Inoltre, il trasferimento delle sezioni minorili nella macchina già congestionata dei tribunali ordinari dovrebbe avvenire a costo zero. I tribunali per i minori spesso intervengono prima che i ragazzi compiono reati, ciò che non potrebbe fare la giustizia ordinaria, incapace di mettere in atto un intervento di prevenzione, danneggiando così gli interessi e i diritti dei minori e delle loro famiglie. Difficile immaginare che una procura, che si occupa di questioni che vanno dal terrorismo alla corruzione, possa dedicare ampie risorse alle segnalazioni dei servizi sociali. O che possa pensare al futuro dei figli delle famiglie mafiose, come hanno cominciato a fare i tribunali per i minorenni di Reggio Calabria e Napoli. Non essendo più autonomi, i passaggi burocratici delle sezioni minorili potrebbero raddoppiare, con un abbassamento del servizio. E i ragazzi, finora protetti in un sistema giudicato tra i più avanzati al mondo, finirebbero per essere una delle tante incombenze, confusi tra gli adulti e le tante scartoffie. Il rischio maggiore che gli addetti ai lavori denunciano è la perdita della specializzazione che in questi anni ha reso l’Italia il fiore all’occhiello della giustizia minorile, separata da quella degli adulti. Grazie alla composizione mista dei tribunali minorili, fatta da giudici togati e onorari, esperti in pedagogia o psicologia, assistenti sociali, fa sì che il processo penale minorile sia diverso da quello per gli adulti, improntato invece in un’ottica di sanzione e punizione. Si tratta di una logica diversa: il ragazzo non solo viene visto come autore di reato, ma anche come vittima di una situazione familiare disagiata, quindi persona da supportare ed aiutare. Si punta non alla punizione del minore ma alla possibilità di offrirgli una seconda possibilità. Privilegiando l’ascolto, la conoscenza delle personalità e la sospensione del processo con la messa alla prova. Si punta non alla punizione del minore ma alla possibilità di offrirgli una seconda possibilità. Privilegiando l’ascolto, la conoscenza delle personalità e la sospensione del processo con la messa alla prova. E l’azione deve essere immediata, perché si tratta individui in crescita che non possono attendere passaggi e tempi lunghi della giustizia italiana. Spesso le segnalazioni di abusi e maltrattamenti che arrivano alle procure si risolvono solo con gli interventi dei servizi sociali, senza il ricorso al tribunale. E con l’arrivo dei tanti minori stranieri non accompagnati, gli uffici dei luoghi di approdo sono carichi di lavoro.
Chi si pone dall’altra parte della barricata, contrario alla soppressione non vuole solo che si mantenga lo stato attuale delle cose, ma chiede in tempi celeri una riforma del sistema, stabilendo procedure univoche, che ad oggi non esistono e maggiore informatizzazione. Ad oggi, manca una banca dati dei minori che vivono lontani dalla famiglia e dei bambini adottabili. La proposta che viene avanzata è quella di creare un unico tribunale rivolto alle famiglie, che accorpi tutte le competenze. Bisognerebbe tralasciare la logica dell’efficienza economica e ragionare in termini di efficacia e questa riforma ha proprio il segno dell’inefficacia.

(Articolo pubblicato su “ildenaro.it”)

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Addio al genitore collocatario nell’affido condiviso, parola del Tribunale di Salerno

img_0217Affido condiviso ma senza genitore collocatario prevalente, parola del Tribunale di Salerno, che mette mano alla risoluzione delle controversie sui figli al momento della separazione, applicando, dopo Brindisi, le nuove linee guida in nome della bigenitorialità. In pratica, salvo situazioni particolari, come impegni lavorativi o allattamento, scompare la collazione prevalente, utile per stabilità logistica, optando per la continuità e stabilità degli affetti coinvolgendo entrambi i genitori nella quotidianità dei figli attraverso l’assegnazione ad entrambi dei compiti di cura comprensivi anche della parte economica. Quindi mantenimento diretto per i capitoli di spesa e assegno solo in via subordinata, con funzione perequativa. Non una fiscale pariteticità di tempi, ma pari opportunità per i figli di rapportarsi con ciascun genitore per ogni loro esigenza. Genitori che saranno in una posizione di pari dignità e pari responsabilità, presenti nella vita dei figli intercambiabilmente, in una sorta di equilibrio dinamico. I compiti di cura scattano per entrambi genitori, in modo che possano entrambi partecipare alla vita quotidiana dei figli. Quanto alla casa, se i tempi sono equivalenti si decide secondo la legge ordinaria e se non lo sono, si guarda prima alla soluzione più idonea per i figli e poi avviene l’assegnazione. Una vera inversione di marcia rispetto alle prassi prevalenti. Eppure si è trattato solo di applicare una legge esistente, perché l’affido condiviso è legge applicata solo nel nome ma ignorata nella sostanza, tanto che in Senato dallo scorso febbraio è ripresa la discussione sulla riscrittura delle norme sull’affido condiviso per applicare pienamente il diritto dei figli minori a ricevere pariteticamente cura, educazione e istruzione da entrambi i genitori. Ma oggi arrivano nuove linee guida che da Brindisi sono approdate a Salerno, il primo Tribunale che ha seguito le tracce del foro pugliese, anche perché il capoluogo campano è stato in passato culla dell’affidamento condiviso. Così il tribunale di Salerno ha voluto aprire un nuovo corso applicativo della legge 54/2006 sull’affido condiviso dei figli separati, sancendo un maggior coinvolgimento del padre, il genitore oggi tipicamente non collocatario, ad aspetti della vita quotidiana, ciò significa per le madri la possibilità di godere di pari opportunità anche nel mondo del lavoro e nella propria vita privata. Ma d’altra parte significherà per i figli non veder sbiadire la figura di uno dei genitori per effetto di una separazione che coinvolge solo il ruolo di coppia e non quello di genitori. Nelle nuove linee guida non dimenticano la mediazione familiare, la cui pratica viene ricordata e raccomandata. Dopo 11 lunghi anni, viene applicata la legge dello Stato, un atto dovuto. Una vera rivoluzione. L’auspicio è che l’esempio sia un effetto domino per altri tribunali italiani e soprattutto questo primo passo sia uno scossone per il Parlamento affinché si senta sollecitato a provvedere senza indugio. Le linee guida hanno in allegato anche un modulo di istruzioni d’uso redatto in collaborazione con l’associazione “crescere insieme”, che nasce secondo il prof Marino Maglietta, presidente nazionale dell’associazione, con lo scopo di condividere il testo con altri fori, ma soprattutto adottandole su base nazionale la riforma della legge 54 del 2006, tanto chiacchierata, non potrebbe più essere rimandata secondo il professore e il Ministero della Giustizia si sentirebbe obbligato a tenerne conto e a darne diffusione.

Sembra proprio che però un primo passo sia stato compiuto affinché venga pienamente applicato il diritto alla bigenitorialità, ci arriverà anche lo Stato italiano?

(Articolo pubblicato su ildenaro.it)

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Dai “non autosufficienti” ai centri antiviolenza, i super tagli alle politiche sociali del governo

cropped-cropped-cropped-cropped-cropped-foto-per-copertina-blog.jpgIl governo Gentiloni mette mano alle politiche sociali con un drastico taglio sociale. Un doppio taglio sia al Fondo Politiche Sociali che al Fondo Non Autosufficienza in virtù dell’accordo fra Stato e Regioni. Vita indipendente, assistenza domiciliare, asili nido e servizi per la prima infanzia, misure di contrasto alla povertà, vengono meno. Mentre, diminuisce anche il Fondo per le politiche sociali che oggi tocca quota 5% delle risorse che erano state stanziate nel 2004, l’anno del massimo storico. Il taglio ormai è certo, resta però la speranza che il presidente del consiglio Paolo Gentiloni possa intervenire. I tagli sono più che mai sostanziali: il fondo nazionale per la non autosufficienza vedrà una sforbiciata di 50 milioni di euro, scendendo per il 2017 da 500 a 450 milioni, annullando così l’aumento che il Parlamento aveva promesso sul finire del 2016. Ne risente in modo peggiore anche il Fondo per le politiche sociali che dai 311,58 milioni stanziati nell’ottobre 2016 scende a 99,7 milioni di euro. Un taglio che sembra nascere dall’accordo Regioni e MeF, ma che vede scomparire molti servizi dei quali essenziali. I tagli vanificano di fatto il Fondo Non Autosufficienza nato con la legge 296/2006, destinato a “garantire l’attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni assistenziali da garantire su tutto il territorio nazionale con riguardo alle persone non autosufficienti.” La nozione di non autosufficienza fa riferimento allo stato di disabilità avanzato che non permette alle persone di svolgere le normali funzioni della vita quotidiana, necessitando di un supporto assistenziale, solitamente ne beneficiano anziani e disabili. Quindi, le risorse contenute nel FNA sono dirette a potenziare l’assistenza domiciliare, che crea la condizione affinché la persona possa continuare a vivere a casa propria, ma finanzia anche l’acquisto di servizi di cura e di assistenza, quando è svolto dai familiari o interventi complementari al percorso domiciliare – brevi ricoveri in strutture di sollievo. Il Fondo fornisce risorse di supporto a quelle già esistenti dalle Regioni e dagli enti locali e servono a coprire la parte sociale dell’assistenza sociosanitaria. I tagli ricadrebbero su tutte queste prestazioni che non potranno così più essere garantiti o in minima parte. Il ridimensionamento economico tocca anche il Fondo Politiche Sociali, previsto dalla legge 119/1997 e ridefinito dalla legge 328/2000. Il fondo stanzia finanziamenti per tutti gli interventi di assistenza alle persone e alle famiglie ma regge anche i finanziamenti ai Piani Sociali Regionali e Piani Sociali di Zona, che hanno il compito in ogni territorio di disegnare una rete integrata di servizi alla persona rivolti all’inclusione dei soggetti in difficoltà, o comunque all’innalzamento del livello di qualità della vita. Il Fondo riesce a finanziare una molteplicità di cose: servizi di cura delle persone, in particolare di cura dell’infanzia e degli anziani non autosufficienti, servizi e misure per favorire la permanenza al proprio domicilio, servizi per la prima infanzia, servizi territoriali comunitari, servizi residenziali per le fragilità, misure di inclusione sociale e di sostegno al reddito, interventi e servizi a contrasto della povertà e dell’esclusione sociale. Una parte del Fondo nazionale per le politiche sociali destinata al Ministero del lavoro e delle politiche sociali finanzia da anni un programma di prevenzione dell’allontanamento dei minorenni dalla famiglia di origine. La crisi spinge a tagliare, quindi a sottrarre servizi e diritti agli utenti, annullando ogni possibilità di aiuto, caricando ancor di più le famiglie e le persone in stato di difficoltà. Un cane che si morde la coda ma a farne le spese sono le famiglie e i soggetti in stato di bisogno in un Stato assente e carente di risorse finanziarie.

Pubblicato su “il denaro.it”

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