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Pride 2019: l’Italia arcobaleno che viola i diritti delle persone Lgbt

untitled 2Da alcune settimane le piazze italiane stanno ospitando cortei festosi e parate arcobaleno a favore dell’amore, contro ogni discriminazione. L’Onda Pride popolerà nei prossimi mesi le città italiane, con appuntamento incentrati sull’orgoglio LGBT, sigla che sta per “lesbiche, gay, bisessuali, trans gender”. Un affresco di colori e umanità in un Paese da sempre diviso tra battaglie contro i pregiudizi nei confronti del diverso – ma da chi?- e un atteggiamento di chiusura portato avanti da una parte dell’opinione pubblica, ma anche da una parte della politica e dei media, spesso inclini a dare risalto alla libertà sessuale solo se associata a un certo grado di spettacolarizzazione. Momenti questi che invitano a riflettere, già, perché quando si parla di coming out non c’è umanità: c’è chi lo sostiene senza “se” e senza “ma” e chi, al contrario, difende il diritto di tutti di non mettere in piazza la propria vita privata. Chi non si è mai nascosta è la paladina dei diritti LGBT, Vladimir Luxuria,che ha sempre invitato ad abbandonare ogni forma di negazione della propria identità. Luxuria, peraltro, detiene il titolo di prima parlamentare trans d’Europa e proprio quest’anno ha pubblicato un disco. Ma se per molti giovani e giovanissimi l’argomento è sdoganato, il prossimo step è il riconoscimento dei diritti di uomini e donne che non hanno alcuna colpa se non quella di amarsi. I gay pride che colorano le piazze italiane devono essere un invito alla riflessione su un tema ancora controverso, che in momenti differenti viene affrontato ma con approcci da discussione. Legislazione incompleta. Incitamento all’odio proveniente anche da funzionari pubblici e politici. Figli di genitori omosessuali non ancora pienamente riconosciuti e protetti. Nessuna regolamentazione su omofobia e trans fobia. Difficoltà a riconoscere lo status di rifugiato alle persone migranti che si dichiarano lgbt. Argomenti che nascondono dietro esseri umani che vedono ancora diritti violati e negati. Argomenti che sono diventati le principali evidenze del documento Italia: lo stato dei diritti umani di persone lesbiche, gay, bisessuali, trans gender e intersessuali presentato all’Onu da una coalizione di associazioni. A novembre, infatti, alle Nazioni Unite si terrà la trentaquattresima sessione della revisione periodica universale italiana, nel corso della quale il consiglio per i diritti umani dell’Onu esaminerà lo stato dei diritti umani in Italia. Il documento mostra uno spaccato italiano, mettendo in risalto anche un ambiente ostile per i giovani lgbt nelle scuole: tra termini dispregiativi, reati, molestie verbali e fisiche. Non sembra una priorità delle scuole italiane accogliere e rispettare la diversità. In molti casi, i dirigenti scolastici vietano di parlare di identità di genere o orientamento sessuale. Discriminazione ed omofobia secondo i dati si riversano anche sul tema della salute. Il 10,2% delle persone lgbt è stato discriminato nell’accesso al sistema sanitario da parte del personale medico e non medico. In molti casi le persone omosessuali non rivelano il proprio orientamento sessuale al proprio medico. Di conseguenza, le persone lgbt hanno un accesso ancora più limitato alle informazioni sulla salute sessuale e riproduttiva legate ai loro bisogni. Ancora troppe, tante le discriminazioni per chi ha un orientamento sessuale differente e allora ben vengano i gay pride, che ancora sono contestati e discussi, certamente gli eccessi lasciano sbigottiti e allontanano da quello che è senso di parata e marcia che vuole esaltare l’orgoglio di essere gay, opposto alla vergogna e allo stigma sociale. Volendo sottolineare un’accezione positiva contro la discriminazione e la violenza nei confronti delle persone lesbiche, gay, bisessuali e trans gender. Lo scopo è promuovere l’autoaffermazione e la dignità LGBT, i diritti all’uguaglianza, aumentare la visibilità LGBT come gruppo sociale, costruire una comunità e celebrare la diversità sessuale e la varietà di genere. Il simbolo di questo orgoglio è la bandiera arcobaleno, che differisce da quella della pace per la disposizione speculare dei colori. Oggi però si preferisce parlare di “Pride”, piuttosto che di “Gay Pride”, per comprendere così non soltanto gli omosessuali ma tutta la realtà arcobaleno, che spera – un po’ come tutti – che i propri diritti siano riconosciuti e che si possa convivere in una società tollerante e anti-diversa.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Anoressia ai tempi dei social: occhio ai blog “pro ana” dove si disimpara a mangiare

untitledE’ attraverso i social che oggi, più che mai, si propaganda il canone estetico del corpo filiforme, con numeri ormai da pandemia sociale. Il luogo di ritrovo sono i blog “pro ana”. E’ lì che le “amministratrici” reclutano ragazze, spesso poco più che bambine e le invitano a lasciare il loro numero di cellulare. Pochi minuti dopo si ritrovano inserite in un gruppi creati su watsapp per celebrare l’anoressia e cercare nuove adepte. Una modalità che bypassa tutti i controlli di rete da parte della polizia postale. Una spirale che avvolge e velocemente travolge. L’obiettivo minimo è perdere cinque chili in dieci giorni, ma con il passare del tempo diventa sempre più elevato. Nel gruppo compagne che insegnano a rifiutare il cibo e a vomitare, chi spiega che non puoi assumere più di dieci calorie al giorno, chi suggerisce di bere litri di acqua ghiacciata per ingannare la sensazione di fame, chi suggerisce di digiunare dopo le cinque del pomeriggio. Sono dieci i comandamenti da seguire:

  1. Se non sei magra, non sei attraente.
    Esser magri è più importante che esser sani.
    3. Compra vestiti, tagliati i capelli, prendi lassativi,
    muori di fame, fai di tutto per sembrare più magra.
    4. Non puoi mangiare senza sentirti colpevole.
    5. Non puoi mangiare cibo ingrassante senza punirti dopo.
    6. Devi contare le calorie e ridurne l’assunzione.
    7. Quello che dice la bilancia è la cosa più importante.
    8. Perdere peso è bene, guadagnare peso è male.
    9. Non sarai mai troppo magra.
    10. Essere magri e non mangiare sono simbolo di vera forza di volontà e autocontrollo;

ogni sette giorni bisogna comunicare il proprio peso. Se non si raggiunge la soglia fissata si èfuori dal gioco. Un punto di non ritorno l’anoressia. Tre milioni di persone in Italia soffrono di disturbi alimentari. Il 95% sono donne e la fascia più colpita è quella dell’adolescenza. Nel mondo sono 70 milioni, un numero spaventoso ed in continua crescita. Il cibo diventa nemico, nella loro mente si fa largo l’idea che il cibo è sporco, contamina e se mangi ti devi vergognare, devi vomitare e punirti. Le diete “fai da te”, i consigli delle blogger, i canoni di bellezza che sfornano i social, influenzano e “aiutano” nel perdere peso, arrivando alla soglia dei 32 chili, quella che tanto viene desiderata da molte ragazzine che entrano nel vortice dell’anoressia. Con quel peso, dicono gli esperti, senti solo un freddo atroce anche ad agosto, la pelle si spacca, le ginocchia non reggonono, il ciclo mestruale sparisce. Oggi non è più un’epidemia, ma una pandemia. Si tratta della seconda causa di morte per i ragazzi dai 15 ai 24 anni, dopo gli incidenti stradali. Secondo le statistiche il 15% di chi si ammala non ce la fa ad uscire. E’ la malattia delle società opulente. E oltre ai dati ufficiali c’è un sommerso di cui nessuno parla. Non esiste una causa sola, certo la moda ed i social influenzano e propongono un modello inesistente: taglie sempre più strette e longilinee, ma anche taglie sempre più piccole ed unisex, così è cresciuto anche il numero dei maschi che ne soffrono, ora sono quasi il dieci percento. Sui basta riportare gli hastag #meanspo, #thinspo, #thighap, #ana per trovarsi davanti ad una galleria degli orrori. Ragazze che si fotografano orgogliose delle loro gambe scheletriche, graziosi muscoli, ossa dove si contano solo le costole. Le diciture riprendono la frase “voglio essere skinny”, “ana è la mia unica amica. Lei non mi abbandonerà mai”. I social amplificano. Dai gruppi watsapp chiusi e clandestini, si passa al pubblico e ai social più usati: Instagram. C’è il gusto di mostrale, il premio è nello sguardo dell’altro. I like rafforzano il sintomo. Sono sempre più giovani quelle colpite dalla malattia, arrivano al ricovero, dopo lunghi digiuni, bambine di otto/nove anni. Molte lo fanno per attirare l’attenzione a casa, spesso hanno un rapporto conflittuale con la famiglia. L’anoressia è un attacco a mano armata alla madre. Giovani che non hanno bisogno di cibo ma di amore, adolescenti che vogliono regredire all’infanzia, culla della sicurezza. Si tratta di perlopiù di ragazzine sensibili e molte sole, magari con le mamme a dieta da sempre; con la convinzione che se non sono magre non valgono niente. Un male oscuro, i segnali di una battaglia sembrano lontano. Andrebbe prevista una legge che preveda il reato per chi istiga in rete, chi inneggia all’anoressia e induce a non mangiare. I disturbi del comportamento alimentare dovrebbero essere riconosciuti come malattia sociale. Ulteriore passo sarebbe quello di potenziare i centri specializzati, troppo pochi ancora in Italia, nel Sud Italia sono quasi inesistenti. E curarsi contro l’anoressia è già di per sé un’odissea che viene alimentata ancor di più dalla mancanza di strutture, personale e dalla possibilità di intervenire in tempo utile.

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Pronti per la notte di Halloween? Gli aspetti educativi della festa celtica ed i consigli di una meck up artist per un trucco “da paura”

untitledC’è stato un tempo nel quale la festività di Halloween era patrimonio esclusivo delle popolazioni celtiche. Poi, negli Stati Uniti, quel ceppo originario ha assunto connotazioni meno sacre e più commerciali, meno sociali e più festaiole. Ed è così che ormai si festeggia, come l’occasione per indossare costumi più o meno spaventosi, un trucco più accentuato e per divertirsi senza troppi pensieri – almeno per gli adulti-. Criticata, osteggiata, ma vissuta da grandi e piccini, che si voglia o meno ormai è una festa che di diritto è entrata nella nostra se vogliamo tradizione. Non c’è scuola o famiglia che non organizzi una festa di halloween, non c’è locale o discoteca pronta a viverla a suon di musica e divertimento. Come zia e come assistente sociale, mi trovo alle volte alle prese con genitori ed amici che mi chiedono consigli su come rispondere alla richiesta da parte dei figli di poter partecipare alla festa di halloween dell’amichetto. Questa ricorrenza, sempre più diffusa nel nostro paese, pare sia ogni anno in grado di scaldare gli animi e dividere le coscienze. In particolare alcuni sembrano temere il riferimento a un mondo considerato “macabro”, popolato di zombie, fantasmi, mostri, streghe e vampiri, creature “terribili” colpevoli, secondo molti, di insinuarsi nella coscienza dei più piccoli e di poterla in qualche modo attirare verso il mondo dell’occulto. C’è chi ha timore che sia proprio questa festa a portare mostri e paure nei sogni dei bambini, e che forse sarebbe meglio proteggerli. Sgombriamo il campo da paure ed ansie che i più piccoli non si pongono ma che vivono se siamo noi adulti a trasmettergliele. Eppure ci sono degli aspetti educativi per cui potrebbe valere la pena farla diventare una festa un po’ nostra. Anzitutto, perché dà spazio ad altre culture, sarebbe bello se questo valesse per tutte le culture e non solo per quelle dominanti, è sempre positivo, aprire la mente e conoscerne delle altre. Aiuta a crescere. Aspetto da non trascurare ed educativo secondo la psicologia, è il travestimento. Il travestirsi da mostro o quant’altro e il giocare con pipistrelli, teschi e ragni, sortisce l’effetto contrario a quello prospettato dai genitori spaventati. Il travestimento in generale è il mezzo per “vestire e calarsi nei panni di un altro”, principesca o grottesca che sia, è un’attività che non dovrebbe mai mancare tra le occasioni ludiche dei bambini, almeno dai tre anni in su. E’ da questa fascia d’età, infatti, che il loro livello di sviluppo consente di distinguere tra realtà e fantasia, a godere del “fare finta di” e, come accade nei festeggiamenti di halloween, anche farsi scherno delle proprie paure. Infatti, il travestimento è il potente mezzo per esorcizzare le proprie paure. La festa di halloween, servendosi di simboli magici che affascinano, evoca e libera dalla paura proprio per i contenuti a sfondo macabro che sono il tema dominante. Halloween ha una funzione liberatoria: grazie ai “rituali” del 31 ottobre si ha l’occasione di prendere in giro la paura, di  combatterla e di sconfiggerla. Vale per adulti e ancor di più per i più piccoli che sono alle prese con la grande paura della crescita, paura che deve superare attraverso la maturazione che può passare anche per eventi esterni come, ad esempio, i festeggiamenti di halloween. Il bambino saprà sicuramente di quale creatura terribile vorrà indossarne i panni. Si trasformerà così nelle sue stesse paure, entrerà in quello che per lui è il mondo dell’ignoto, e riuscirà a farsi beffa di questo sapendo di essere “protetto”. Se in passato per sconfiggere i loro timori i ragazzi sognavano di essere Superman, il Supereroe tutto muscoli, oggi i nuovi giovani hanno come modello Harry Potter, orfano indifeso, che supera le grandi paure con l’intelligenza, l’astuzia, il coraggio. Il mondo delle paure trova, quindi, espressione anche nella festa di halloween e non va censurata perché è bene che il bambino sappia che di certe cose se ne può parlare. Ma c’è di più, diventare strega, folletto, fantasma o mostro per gioco può anche essere un modo per dare forma a quelle emozioni o parti di se stessi che trovano la possibilità di espressione in modo innocuo e divertente. Tra gli elementi educativi di halloween, troviamo il tema delicato della morte. La festa di halloween permette di avvicinare i bambini al tema della morte in modo ludico, con un tocco di ironia. Nulla vieta, dopo, di ricordare i propri cari defunti secondo le personali usanze e tradizioni. Il tradizionale giro scandito da “trick or treat” permette di entrare in contatto con bambini ed adulti del quartiere o del vicinato, di cui spesso si ignora anche la faccia. I piccoli vanno coinvolti anche nei preparativi, in laboratori creativi, come l’intaglio della zucca, per scoprire il reale significato dell’espressione “zucca vuota”. La zucca simbolo chiave della festa si fa conoscere e spesso bimbi inorriditi dalle verdure, sono incuriositi dal conoscerne il sapore, scoprendo giocando nuovi gusti. Halloween è un’occasione ulteriore per divertirsi in famiglia tutti assieme, visto che halloween non ha età. Allora perché non allargare gli orizzonti e pensare a come vestirsi e truccarsi nella notte più spaventosa dell’anno? Ho interrogato, Elisabetta Mariotti per farci spiegare piccoli, semplici stratagemmi per un trucco “da paura” per adulti e piccini.

Banale, forse scontata la mia domanda, ma ho l’occasione di porLa ad una professionista del settore: perché il trucco dopo il travestimento è un elemento fondamentale di halloween?

Io mi sento di dire che è il trucco ad essere l’elemento essenziale. L’abito viene forse dopo con i suoi accessori al seguito. Con il trucco, in questa occasione, possiamo sperimentare e osare come in nessun’altra occasione potremmo. Che decidiamo di trasformarci in streghe, zombie, scheletri, la scelta del make up è fondamentale per immergerci nell’atmosfera misteriosa e spaventosa di Halloween.

Quali consigli che puoi fornirci per un trucco ad effetto per un adulto uomo e un adulto donna?

Moltissimi sono i trucchi che potremmo realizzare per questa occasione. Di impatto e non troppo difficili da realizzare ci sono sicuramente gli scheletri, che si adattano sia ad una donna che a un uomo, indipendentemente dall’età e non passano mai di moda.

Per una donna che vuole apparire non poi così spaventosa ma comunque colpire e rimanere nel tema, mi sento di proporre un “diamond skull makeup”. Si tratta, di base, di un classico scheletro. Ciò che lo rende piacevole ed estremamente femminile, quasi elegante, sono questi diamantini facilmente trovabili in merceria. (Consiglio di applicarli con la colla per ciglia finte.) Completerà il look una bella corona di fiori finti e un bell’abito nero che credo sia immancabile nell’armadio di ogni donna.

Per l’uomo che quasi sicuramente, non me ne vogliate, sarà meno abile delle donne a giostrarsi con il makeup ma che per quel giorno ha la “scusa” di potercisi cimentare, mi sento di proporre diversi trucchi: dal vampiro al classico scheletro.

Il trucco-vampiro necessita di un colorito piuttosto pallido quindi per questo makeup è necessario disporre di un fondotinta bianco o cerone e cipria trasparente per fissare la nostra base. Giocare con matita, ombretto e rossetto rosso sarà sicuramente essenziale per creare un forte contrasto tra lo scuro degli occhi (con occhiaie effetto misterioso) e labbra rosse, a voler richiamare il contatto con il sangue. Per quanto riguarda il costume, possiamo facilmente comporlo con quello che abbiamo a disposizione. Una camicia bianca con dei pantaloni neri eleganti e l’immancabile mantello, sono sufficienti per il travestimento. Per completare il look e renderlo ancora più spaventoso, consiglio delle lenti a contatto e i classici denti da dracula, seppur non “comodissimi”.

Il trucco da teschio è un trucco semplice da realizzare, ma si presta a numerosissime variazioni sul tema. In più ci bastano pochi prodotti per realizzare questo make up.

Per prima cosa bisogna fare la base bianca. Per realizzarla si può utilizzare un apposito cerone, oppure un fondotinta nella tonalità più chiara disponibile, il cui effetto pallore si può rafforzare con una cipria molto chiara, che contribuisce anche a fissare il make up. Trucchiamo in questo modo anche le labbra.

Servendoci di un kajal e ombretto nero cerchiamo i nostri occhi di nero, anche esagerando. Sempre utilizzando la matita nera coloriamo la parte più interna delle labbra e disegniamo linee nere a mo’ di denti sulle labbra. Coloriamo di nero anche il naso. Se siamo un po’ più abili divertiamoci a disegnare altri dettagli, come ad esempio gli zigomi incavati, usando anche uno sfumino per modellare meglio il segno della matita e dell’ombretto.

Come truccare un bambino: optare per una trucco sobrio o è possibile osare, ed in che modo osare?

Innanzitutto è regola di base quella di usare solo ed esclusivamente trucchi e cosmetici per bambini, devono essere dermatologicamente testati. Per questo, sconsiglio di comprarli nei negozi cinesi. Prima di iniziare, consiglio di testare il trucco su una piccola parte di pelle per verificare che non ci sia una reazione. Meglio comunque usare colori ad acqua, più traspiranti e facili da togliere.

Si sa che ai bambini si divertono molto più di noi a travestirsi e in questa occasione non sembrano affatto spaventati da queste figure horror.

Per una bambina, un must have è il trucco da strega. Si inizia scegliendo il colore principale: le streghe, si sa, possono arrivare sulla scopa vestite di verde o di viola. Qui immancabile però sarà il noto cappello a punta e l’abitino da strega con scopa al seguito. Compra un trucco da viso per halloween per bambini: che sia verde o viola non è importante, l’importante è che sia anallergico. Dopo aver applicato la base del colore che si preferisce, ci si concentra sulle decorazioni, dalle ragnatele, ai pipistrelli, ai fantasmini.

Per un bambino, molto carino e semplice da realizzare, è il trucco da zucca. Tutto ciò che serve è un trucco per viso arancione, uno bianco ed una matita nera. Ci si può concentrare sull’intero viso oppure solo su una metà.

Suggerimenti per i prodotti da utilizzare?

Per i prodotti da utilizzare per questi tipi di makeup credo che bisogni disporre di un cerone o, più leggero, un fondotinta molto chiaro che poi andrà fissato con una cipria molto chiara o, meglio, trasparente. Immancabile la matita o un ombretto nero. Utili sono gli aquacolor, disponibili in tutti i colori e facilmente reperibili negli appositi negozi o, eventualmente, su amazon. Si tratta di una sorta di acquerelli ma creati appositamente per essere utilizzati sul corpo. Andranno poi via facendosi una doccia.

Per i bambini, invece, come già detto esistono trucchi appositamente per loro. L’importante è che siano anallergici e testati dermatologicamente. Comunque consiglio sempre di fare una prova sul braccio del bambino qualche giorno prima per verificare che non ci sia alcun problema.

Qual è il trucco halloween 2018?

Spesso i trucchi di halloween seguono ciò che le ultime uscite cinematografiche a tema horror, ci propongono. Ricordo che l’anno scorso uscì IT e difatti spopolavano makeup del clown ovunque, indistintamente tra uomini e donne. Quest’anno in voga potrebbe esserci la mostruosa suora protagonista di “The Conjouring 2”, davvero terrificante.

Con la collaborazione di Elisabetta Mariotti make up artist

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Bambini dietro le sbarre, l’infanzia con mamma reclusa tra le mura di un penitenziario

untitled 2E’ morta sul colpo la piccola Divine di quattro mesi, lanciata dalla mamma dalle scale del nido del carcere di Rebibbia, avviato l’iter per la morte cerebrale per il fratello di due anni. Sulla mamma, 33 enne di origini tedesche pende ora l’accusa di duplice infanticidio, è piantonata all’ospedale Pertini di Roma, pare abbia dichiarato al suo legale “i miei bambini adesso sono liberi,” apparendo consapevole del gesto compiuto; nel frattempo, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha sospeso i vertici del carcere. La cronaca riporta alla luce il tema dei bambini reclusi insieme alle loro mamme nei penitenziari italiani. Sono 62 i bimbi, con 52 mamme, attualmente presenti nelle carceri italiane. Dal 2007 sono stati creati in Italia cinque Icam (istituti di custodia attenuata per detenute madri), più vicini ad un asilo che ad una prigione, per ridurre al minimo i traumi dei più piccoli. Poche per troppi bambini reclusi. Nascere e crescere chiusi dietro le sbarre: sono i figli neonati delle detenute nei carceri femminili italiani, a cui la legge permette di vivere coi propri figli all’interno della struttura fino al compimento dei tre anni. Non è un modo di dire, poiché il giorno stesso del compleanno il bambino viene prelevato dalla struttura dove vive con la madre e affidato ad altre cure, nella migliore delle ipotesi alla famiglia d’origine. Una vita, quella dei piccoli, modulata sulle dinamiche della detenzione adulta, con le stesse sbarre, gli stessi colori, i pochi spazi e il problema del superaffollamento. E così capita che un bambino debba crescere dietro le sbarre, scontando una pena che non ha commesso, a volte anche da solo, senza altri bambini. A questi piccoli si aggiungono quelli che ogni giorno entrano in carcere per far visita al genitore detenuto: 100 mila ogni anno in Italia, sottoposti a perquisizione prima di entrare, proprio come gli adulti, e spesso sono costretti a incontrare il genitore in spazi grigi e chiusi. Tutto previsto dall’ordinamento penitenziario del 1975, mentre una legge che dispone diversamente esiste, ed è la legge 62 dell’aprile 2011 che introduce due alternative alla detenzione per questi bambini. La prima di queste opzioni sono gli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri con prole fino a tre/sei anni) che sebbene siano carceri, a livello edilizio sono comunque più simili a una casa normale, anche se la donna vive la propria quotidianità da detenuta. La seconda alternativa al carcere vero e proprio sarebbero, invece, le famose case famiglia protette, che dovrebbero essere destinate a donne che non hanno la possibilità di ripristinare la normale convivenza con il figlio per mancanza di un domicilio. Eppure la legge del 2011 urla con le sue misure alternative che i bambini in carcere non devono starci. Chi nasce e cresce in detenzione soffre di gravi deprivazioni sensoriali. La vita di un minore in carcere è uno schiaffo ai suoi diritti, il mondo è visto dalle sbarre di un penitenziario tra urla, sofferenze, storie di vita non facili, colori spenti, giochi monotoni e in luoghi chiusi e angusti, a volte in stanze piccole, per motivi di spazi, mentre fuori c’è il sole, la vita, i parchi giochi e poco oltre il mare. Il carcere non è il luogo dove poter essere madri, non è possibile gestire i propri figli, crescerli secondo criterio. I tempi, i modi, le compatibilità sono decisi altrove. E anche le esperienze significative, l’esplorazione del mondo, avvengono con altri. Come i volontari che operano in molti penitenziari, che nel fine settimana portano fuori dalle mura carcerarie i piccoli, che aspettano con gioia queste giornate. Ma arrivano poi le angosce, la paura di non tornare più dalla mamma o quella di non uscire più. Le madri sbagliano ma i bambini ne pagano le conseguenze in ambienti inidonei all’infanzia e alla possibilità di essere madri. La legge c’è ed è quella del 2011 che pensa a luoghi senza sbarre, armi o divise. Possibili soluzioni che ad oggi sono ancora utopia in un paese che non guarda ai diritti dei più piccoli, negandogli un’infanzia serena, spensierata, ma fatta di celle, di ambienti piccoli, di spazi verdi inesistenti, con un impatto psicologico non indifferente: a questi bambini vengono negati gli affetti, l’amore dei familiari, la possibilità di socializzazione, ma ancora la possibilità di conoscere il mondo, la curiosità e la scoperta tipici dei primi anni di vita. La vita tra le sbarre per un bambino si traduce anche in difficoltà di linguaggio, a volte imparano parole, gesti, atteggiamenti da adulti. Possono riscontrare difficoltà di inserimento in classi di bambini, possono essere iperattivi, sviluppare aggressività. Inoltre, l’istituto di pena spesso è l’elemento ostacolativo tra il bambino ed il genitore. L’istituto penitenziario non è il luogo adatto per un incontro, spesso sono gli assistenti sociali o anche il giudice a non concedere l’autorizzazione per un incontro ravvicinato tra madre e figlio, quando viene concesso, i bambini subiscono l’impatto con la realtà e vengono trattati dagli agenti come adulti, ritrovandosi nelle grandi stanze del parlatorio ad incontrare i loro genitori, senza privacy, senza possibilità di gioco. Bambini che vivono da piccoli realtà che solo un adulto può accettare e comprendere, fanciulli a cui l’infanzia viene concessa sotto reclusione, perché mamma sconta la pena e per riflesso anche suo figlio. C’è bisogno di avvicinarsi alla pena degli adulti con gli occhi di un bambino, perché le colpe degli adulti non possono ricadere sui più piccoli e l’infanzia non può e non deve essere negata o filtrata. Bambini a cui lo Stato deve garantire un’infanzia oltre le sbarre.

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Scuola, il diritto allo studio non vale per gli studenti disabili

untitled 2“Mio figlio per andare a scuola dovrà attendere l’arrivo del sostegno”. “Le ore di sostegno sono state ridotte”, sono alcune delle storie che mi scrivono o mi raccontano i genitori di ragazzi con disabilità. Le storie che raccolgo dimostrano che il diritto a frequentare la scuola in Italia non vale per tutti. Sono migliaia gli alunni e studenti con disabilità fisica o psichica, che a poche ore dall’inizio dell’anno scolastico non possono ancora partecipare alle lezioni insieme ai loro compagni di classe. L’assenza di assistenza personale in classe e di un trasporto adeguato purtroppo non è una sorpresa. L’Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare segnala criticità e problemi: assistenza carente e barriere architettoniche, specialmente nelle regioni del Sud. Criticità e problemi che mettono a rischio il diritto allo studio degli alunni con disabilità, sancito in primis dalla Costituzione italiana e in secundis dalla Convenzione Onu sui Diritti delle Persone con Disabilità. Molte le carenze: dagli insegnanti di sostegno specializzati, alla mancanza di piani didattici personalizzati. Secondo i dati sono oltre 250 mila gli alunni con disabilità, un numero in crescita che mostra un elemento positivo in vista di una piena inclusione scolastica di tutti i giovani con disabilità, ma la mancanza di investimenti che assicurino personale qualificato ed un giusto trasporto, rischia di peggiorare la situazione e danneggiare chi non ha colpa. I disagi si estendono su tutto il territorio nazionale, con criticità diverse sia a livello geografico, sia dei singoli istituti scolastici. L’orario di frequenza in teoria è uguale per tutti, ma per i tanti alunni e studenti con disabilità si devono poi tener conto anche delle ore necessarie per il sostegno, delle ore che effettivamente vengono assegnate e che possono essere “coperte” da insegnanti specializzati e da educatori personali. 139 mila insegnanti di sostegno accoglieranno gli studenti con disabilità, 13 mila i recenti stabilizzati, ma secondo i recenti dati di Fish, mancano ancora all’appello circa 40 mila posti di ruolo di docenti specializzati. Le stabilizzazioni sono senza dubbio un intervento positivo ma non sufficienti a garantire la continuità didattica e a fare in modo che tutti i bambini e i ragazzi con disabilità possano seguire le lezioni ogni giorno. Stando ai dai di Fish, circa l’80% degli alunni ha cambiato due insegnati di sostegno nel corso dello scorso anno scolastico e il 48% ne ha cambiati persino tre. Secondo la normativa vigente l’insegnante di sostegno è a pieno titolo docente di tutta la classe: ciò significa che la sua presenza è un valore per tutta la classe e non solo per lo studente con disabilità. In molti casi la sola insegnante di sostegno non basta, alcuni alunni non sono autonomi nella mobilità, nel mangiare o nell’andare in bagno, deve poter contare sul supporto fornito da un’altra figura professionale: l’assistente all’autonomia e alla comunicazione o assistente ad personam, figura professionale specifica e riconosciuta e finanziata dagli enti locali. Secondo i dati Istati, in stima questi alunni possono contare su circa 12.5 ore settimanali di assistente ad personam nelle scuole primarie e circa 11.5 ore in quelle secondarie. Nel Mezzogiorno tale aiuto si riduce drasticamente con un gap di oltre tre ore rispetto alle scuole del Nord. Un capitolo alquanto reale sono le ancora troppe barriere architettoniche nelle scuole. Secondo la Corte dei Conti, nello scorso anno scolastico su un totale di 39.847 edifici attivi, più di 10 mila non risultano in regola con la normativa sulle barriere architettoniche. In particolare, non risultano a norma, le scale e i servizi igienici specie nel Mezzogiorno, si riscontra anche la scarsa presenza di segnali visivi, acustici e tattili nelle scuole di tutta Italia. Alunni e genitori che si ritrovano a scontrarsi con la lenta burocrazia che lascia l’amaro in bocca, carenza di servizi e strutture non adeguate ai loro figli. Ci sono genitori che mi raccontano di banchi inadeguati per le disabilità dei loro figli, dopo i pellegrinaggi tra uffici comunali, Asl, dirigente scolastico, estenuati arrivano a reperirlo o a farselo costruire pur di garantire un’esperienza unica al proprio figlio, perché la scuola favorisce la relazione, l’autonomia, la conoscenza di cose nuove, la socializzazione con figure nuove e con i compagni, che offrono la possibilità di progredire, di acquisire nuove conoscenze. Genitori che si trovano sempre più in difficoltà a gestire situazioni che richiedono spesso di assentarsi dal lavoro per ottenere ciò che è di diritto, sentendosi abbandonati invece che accolti da un sistema che fatica a funzionare come dovrebbe. Sembra proprio che le istituzioni continuino a parlare di inclusione scolastica e di diritto allo studio, ma nei fatti restano solo parole. Sembra quasi che sia un favore elargire i diritti dovuti ai nostri ragazzi, come il sostegno a scuola, e sembra quasi che ciò che a loro è dovuto sia un privilegio concesso. È necessario costruire un impianto strutturale solido in cui le istituzioni si prendano cura degli studenti e collaborino con le associazioni del territorio per la realizzazione del diritto allo studio. E’ importante creare collaborazioni, fare rete, partendo dal dialogo con i docenti ed i genitori per trovare insieme soluzioni che permettano agli studenti di scegliere liberamente e di vivere l’esperienza scolastica oltre la loro disabilità, che non può e non deve essere un limite ma un valore aggiunto che permette la piena integrazione scolastica. Non smettono di crederci gli alunni e nemmeno i genitori che non si arrendono di fronte ad una fredda burocrazia.

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Paure e angosce post dramma. Ecco perché le tragedie ci fanno paura

untitledRabbia, impotenza, senso dell’assurdo. Sono questi i sentimenti che si provano in questi giorni drammatici e tragici che l’Italia sta vivendo. Perché il terremoto lo puoi accettare. Anche se in queste ore in cui il Sud Italia è attraversato da uno sciame sismico, la paura tiene in allerta. Un ponte che cade davanti, addosso no, è impensabile. E’ qualcosa di difficile da elaborare, anche perché di strade e di ponti ogni giorno ne attraversiamo tanti, consapevoli di una scarsa manutenzione e coscienti di essere esposti a qualche rischio. Tutta Genova avrà bisogno di assistenza psicologica e tempo per sanare una ferita così profonda. Ma, non solo la città di Genova, tutti noi abbiamo bisogno di elaborare il senso di rabbia e di impotenza: è naturale e legittimo. Rabbia, impotenza e paura, che hanno radici profonde: prima, la morte di un uomo di successo, ricco e invidiato, che se ne va di colpo, lasciandosi tutto alle spalle. Ori e stracci: la ricchezza, il successo, l’invidia e l’adulazione. Il crollo, poi, improvviso di un ponte che inghiottisce sogni, passioni, amori e affetti. Infine, lo sciame sismico che smuove il Sud Italia e nella mente della gente riaffiora la paura del terremoto dell’Ottanta. Episodi di vita accentuati dalla fatalità che fanno scattare in tutti noi un sentimento quanto normale e comprensibile: la paura, che si accentua con le immagine dei media, con le ore che passano e sanciscono altre morti, con i social che lanciano paure e allarmismi: foto e commenti, la richiesta di non attraversare ponti a rischio. Per un attimo diventiamo ingegneri e giudici, alimentando l’ondata di fobia dei ponti, delle morti improvvise. Proteggersi dalla sovraesposizione di immagini e notizie, cercando di recuperare calma e tranquillità. E’ il primo passo per non farsi prendere dal panico e dalla paura comprensibili ma ingiustificati. La paura non può e non deve paralizzarci, ma diventare arma di reazione. Incidenti come quello di Genova, hanno un fortissimo impatto sull’opinione pubblica perché comportano un elevato numero di morti e feriti. Ma ciò non toglie che sono e rimangono eventi molto rari. In situazioni tragiche come queste, purtroppo, la rete, amplifica la paura e favorisce il dilagare del panico. E, invece, bisognerebbe considerare l’estrema rarità di questi eventi. Non è vero che la rete stradale è insicura, perché altrimenti avremmo disastri quotidiani, visto l’altro numero di viaggiatori quotidiani. Per cui, è bene non sovraesporsi ad immagini e notizie che di continuo in questi giorni sono trasmesse. Passare ore su internet a cercare informazioni non fa altro che aumentare il senso di insicurezza. Anche le storie dolorose che in questi momenti sono raccontate, facilitano il meccanismo di identificazione di milioni di persone, potenziali vittime di terzo livello di questo evento. Esiste, infatti, anche un traumatismo secondario legato proprio all’identificazione con le vicende delle vittime. Soprattutto, facciamo attenzione ai bambini, la cui sensibilità è molto accentuata. I genitori sono fondamentali, da loro devono sapere che avere paura è normale, è naturale, bisogna lasciarli esprimere le loro emozioni tenendo conto che dopo un simile trauma possono avere qualche regressione e magari fare pipì a letto. Davanti alle loro domande, ai mille perché di una tragedia bisogna cercare di dire la verità senza commenti: “il ponte è caduto perché era vecchio, fatto male”. Mentre tutti noi, nel nostro noi più intimo e profondo, dovremmo chiederci perché le morti di Genova, la morte di un uomo di successo come Marchionne, ci colpisce così tanto? Perché ci poniamo istintivamente una domanda: se è tutto così veloce e drastico, stiamo usando bene la nostra vita?

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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August blue, la depressione di metà estate

untitled 2Tutti felici, pronti alle ultime ore di lavoro, tutti a chiederci: “quando vai in ferie tu?”, “dove andrai in vacanza?” Intorno a noi città semi vuote, negozi pronti ad affiggere il cartello “chiusi per ferie”, in molti sono già abbronzati e coperti da abiti leggeri e colorati. Ad Agosto e nel cuore dell’estate sembra che l’unica cosa a non essere concessa è essere tristi. Eppure nonostante il sole, le belle giornate, l’odore del mare e le vacanze che si respira nell’aria per molte persone, con il passare dei giorni di agosto, qualcuno avverte un’angoscia crescente e un’ansia che in alcuni casi più conclamati può persino trasformarsi in depressione. Una sindrome estiva, ribattezzata “August Blue” dallo psichiatra Stephen Ferrando, direttore di psichiatria al Westchester Medical Center che ha paragonata questa particolare forma di disordine affettivo al “Blue Monday”, la sensazione di disagio ed angoscia che si percepisce la domenica sera. Addirittura, secondo un algoritmo calcolato, esisterebbero il Blue del Blue, ovvero, il terzo lunedì di Gennaio. Quello che succede ad Agosto, ha spiegato uno studio pubblicato dal New York Magazine, è simile a ciò che accade la domenica sera, ma in scala maggiore. Una tipologia di depressione che si colloca con il disordine affettivo stagionale, cioè quel disturbo dell’umore che colpisce alcune persone col cambio di stagione. Agosto infatti è il “mese di mezzo”: da un lato la vacanza desiderata, frutto di mesi di lavoro e di stress; dall’altro è anche il punto a capo nei confronti dell’anno che da lì a poco va a ricominciare. Secondo alcuni studiosi, per molti il vero Capodanno non è il primo gennaio, ma il primo settembre, quando si rientra  lavoro, riaprono le scuole e si ricomincia: una routine dalla quale si vorrebbe fuggire nei mesi successivi. L’August Blue, però non è solo una generica sindrome di malcontento, ma un’autentica patologia. I sintomi, secondo anche il dottor Ferrando, sarebbero angoscia e panico persistenti, per almeno due settimane, con prospettive confuse sul futuro e instabilità emotiva al solo pensiero dell’arrivo dell’autunno. August Blue, sembrerebbe essere, una nota amare e scura nei giorni di vacanza, momenti preziosi da trascorrere in solitudine, in famiglia o con amici, che rischia di rovinare momenti che potrebbero essere belli. I rimedi però ci sono. Per non incappa cere nel “Blue August”, la prima regola è quella di cercare di allentare la tensione, cercando soprattutto di disintossicarsi dai social, fonte primaria di stress. Il continuo condividere dove si è, cosa si fa, ci mette in competizione con gli altri. E’ importante concedersi una pausa detox permettendosi di concentrarsi su se stessi, senza sentirsi in dovere di dimostrare nulla a nessuno. Divertirsi per se stessi non per gli altri. Allentare i ritmi e magari assaporare anche un po’ di noia aiuta invece a rigenerarsi e a godersi maggiormente il mese di Agosto e in genere i giorni dedicati al riposo e al relax. Al rientro, l’ideale, sarebbe cercare di rimandare questa sindrome da rientro a ferie finite con la consapevolezza che tutte le paure e le angosce si smaltiranno da sole con il tempo, quando le tessere della routine andranno al loro posto e un giorno dopo l’altro si tornerà a ripercorrere la strada verso un’altra estate.
Insomma, qualunque siano le vostre vacanze: in città, al mare, in compagnia o semplicemente da soli, che siano giorni o poche ore, fatene tesoro, lasciate il cellulare e la corsa allo scatto social, dedicatevi alla sana noia, al mondo intorno, alla natura, a voi stessi, agli affetti e perché no, al divertimento. Lasciate paure ed angosce che solitamente affliggono.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Caporalato: Braccianti morti sotto il sole del lavoro

untitledDi lavoro e di caldo si muore davvero. La cronaca di questa estate ci restituisce sedici morti. Migranti stipati in furgone, morti nella tratta dai campi alle loro baracche. Ieri nuovo schianto nel Foggiano, morti dodici braccianti. Sabato un altro incidente in cui hanno perso la vita quattro vittime. Si indaga per verificare se fossero nelle mani dei caporali. Ombre e sospetti che riportano alla cronaca le morti sul lavoro che a causa delle temperature altissime portano i braccianti ad accasciarsi nei campi, nei cantieri e anche sui camion. Lo chiamano caporalato, ma si legge sfruttamento umano, che non conosce limiti e va combattuto, tutelando i diritti dei lavoratori, qualunque essi siano, qualsiasi sia la loro nazionalità, oltre ogni colore della pelle. Lavoratori, che prima di tutto sono esseri umani. Sono lavoratori invisibili per la legge che però assicurano manodopera nelle condizioni più disagiate e con paghe da fame. Secondo alcune stime sarebbero 400 mila in tutta Italia e la conta delle vittime dello sfruttamento rischia di rimanere parziale: le loro morti a volte passano in silenzio, altre volte rischiano di essere catalogate come incidenti stradali, perché spesso si ribaltano i pulmini carichi di lavoratori. Viaggiano in venti su mezzi omologati per nove e finiscono per essere contate come vittime della strada. Un fenomeno che non nasce oggi, ma si radica di anno in anno, anche perché le norme, sancite dalla legge 199/2016, che sanzionano il caporalato sono di difficile applicazione. Le aziende trattano direttamente con i caporali il prezzo della manodopera, i lavoratori vengono caricati su dei pulmini all’alba, per arrivare in campi di periferia, durante il viaggio qualcuno si addormenta e quando arriva a destinazione, scendendo i gradini del pulmino non sa neppure dove si trova. Uno o due euro per ogni cassetta di prodotti della terra, che vuol dire ore ed ore con la schiena piegata sotto il sole cocente. Così il sole del Sud per molti è sinonimo di vacanza ben riuscita, per altri si trasforma in una condanna quotidiana. Un’emergenza e le morti ci invitano a reagire ed in tempi brevi. Nell’estate del decreto dignità che vuole restituire, stando alle parole del suo ideatore il Ministro dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, dignità ai lavoratori, non possiamo e non dobbiamo girarci dall’altra parte dinanzi ad una realtà vera e disumana. Impegno ed intensità, proprio come si combatte da anni nel nostro paese la battaglia contro la criminalità organizzata, perché i caporali sono delinquenti. Nel frattempo in una delle estati più calde uomini e donne continuano a spaccarsi la schiena per pochi euro al giorno, rischiando ogni giorno di morire di caldo e di lavoro, una realtà che ci circonda: molti dei prodotti che acquistiamo al supermercato provengono da una filiera sporca, fatta di sfruttamento nei campi e grandi guadagni per le multinazionali dell’agricoltura. Eppure gli strumenti ci sono, basterebbe solo accoglierli in un’ottica di rispetto ed umanità. Il rispetto dei diritti umani, specialmente in campo lavorativo, permette il progresso economico, sociale e culturale. Il lavoro dignitoso, dunque, è proprio la chiave di volta, l’elemento essenziale capace di implementare uno sviluppo equo e sostenibile nel tempo. C’è bisogno di uno sforzo condiviso: da parte del lavoratore che deve superare le paure ed i timori e denunciare lo sfruttamento lavorativo, perché il silenzio di tutti rafforza ciò che puzza di illegale e disumano. Di recente è nata una campagna nazionale di Fai-Cisl, denominata “Sos caporalato”, un numero verde e spazi social dedicati a raccogliere le segnalazioni e le denunce di quanti lavorano in condizioni di sfruttamento e illegalità nell’agroalimentare. Le segnalazioni al numero verde 800-199-100 serviranno per un monitoraggio sull’evoluzione del fenomeno e consentiranno anche a dare voce a tante lavoratrici e tanti lavoratori vittime di caporalato. D’altra parte c’è bisogno di uno sforzo legislativo che garantisca dignità ai lavoratori, punendo il fenomeno con la certezza della pena. Puntando a creare una filiera agroalimentare controllata, tracciata e seguita.
Riusciremo a rendere dignitoso ed umano il lavoro?

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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