Bambini dietro le sbarre, l’infanzia con mamma reclusa tra le mura di un penitenziario

untitled 2E’ morta sul colpo la piccola Divine di quattro mesi, lanciata dalla mamma dalle scale del nido del carcere di Rebibbia, avviato l’iter per la morte cerebrale per il fratello di due anni. Sulla mamma, 33 enne di origini tedesche pende ora l’accusa di duplice infanticidio, è piantonata all’ospedale Pertini di Roma, pare abbia dichiarato al suo legale “i miei bambini adesso sono liberi,” apparendo consapevole del gesto compiuto; nel frattempo, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha sospeso i vertici del carcere. La cronaca riporta alla luce il tema dei bambini reclusi insieme alle loro mamme nei penitenziari italiani. Sono 62 i bimbi, con 52 mamme, attualmente presenti nelle carceri italiane. Dal 2007 sono stati creati in Italia cinque Icam (istituti di custodia attenuata per detenute madri), più vicini ad un asilo che ad una prigione, per ridurre al minimo i traumi dei più piccoli. Poche per troppi bambini reclusi. Nascere e crescere chiusi dietro le sbarre: sono i figli neonati delle detenute nei carceri femminili italiani, a cui la legge permette di vivere coi propri figli all’interno della struttura fino al compimento dei tre anni. Non è un modo di dire, poiché il giorno stesso del compleanno il bambino viene prelevato dalla struttura dove vive con la madre e affidato ad altre cure, nella migliore delle ipotesi alla famiglia d’origine. Una vita, quella dei piccoli, modulata sulle dinamiche della detenzione adulta, con le stesse sbarre, gli stessi colori, i pochi spazi e il problema del superaffollamento. E così capita che un bambino debba crescere dietro le sbarre, scontando una pena che non ha commesso, a volte anche da solo, senza altri bambini. A questi piccoli si aggiungono quelli che ogni giorno entrano in carcere per far visita al genitore detenuto: 100 mila ogni anno in Italia, sottoposti a perquisizione prima di entrare, proprio come gli adulti, e spesso sono costretti a incontrare il genitore in spazi grigi e chiusi. Tutto previsto dall’ordinamento penitenziario del 1975, mentre una legge che dispone diversamente esiste, ed è la legge 62 dell’aprile 2011 che introduce due alternative alla detenzione per questi bambini. La prima di queste opzioni sono gli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri con prole fino a tre/sei anni) che sebbene siano carceri, a livello edilizio sono comunque più simili a una casa normale, anche se la donna vive la propria quotidianità da detenuta. La seconda alternativa al carcere vero e proprio sarebbero, invece, le famose case famiglia protette, che dovrebbero essere destinate a donne che non hanno la possibilità di ripristinare la normale convivenza con il figlio per mancanza di un domicilio. Eppure la legge del 2011 urla con le sue misure alternative che i bambini in carcere non devono starci. Chi nasce e cresce in detenzione soffre di gravi deprivazioni sensoriali. La vita di un minore in carcere è uno schiaffo ai suoi diritti, il mondo è visto dalle sbarre di un penitenziario tra urla, sofferenze, storie di vita non facili, colori spenti, giochi monotoni e in luoghi chiusi e angusti, a volte in stanze piccole, per motivi di spazi, mentre fuori c’è il sole, la vita, i parchi giochi e poco oltre il mare. Il carcere non è il luogo dove poter essere madri, non è possibile gestire i propri figli, crescerli secondo criterio. I tempi, i modi, le compatibilità sono decisi altrove. E anche le esperienze significative, l’esplorazione del mondo, avvengono con altri. Come i volontari che operano in molti penitenziari, che nel fine settimana portano fuori dalle mura carcerarie i piccoli, che aspettano con gioia queste giornate. Ma arrivano poi le angosce, la paura di non tornare più dalla mamma o quella di non uscire più. Le madri sbagliano ma i bambini ne pagano le conseguenze in ambienti inidonei all’infanzia e alla possibilità di essere madri. La legge c’è ed è quella del 2011 che pensa a luoghi senza sbarre, armi o divise. Possibili soluzioni che ad oggi sono ancora utopia in un paese che non guarda ai diritti dei più piccoli, negandogli un’infanzia serena, spensierata, ma fatta di celle, di ambienti piccoli, di spazi verdi inesistenti, con un impatto psicologico non indifferente: a questi bambini vengono negati gli affetti, l’amore dei familiari, la possibilità di socializzazione, ma ancora la possibilità di conoscere il mondo, la curiosità e la scoperta tipici dei primi anni di vita. La vita tra le sbarre per un bambino si traduce anche in difficoltà di linguaggio, a volte imparano parole, gesti, atteggiamenti da adulti. Possono riscontrare difficoltà di inserimento in classi di bambini, possono essere iperattivi, sviluppare aggressività. Inoltre, l’istituto di pena spesso è l’elemento ostacolativo tra il bambino ed il genitore. L’istituto penitenziario non è il luogo adatto per un incontro, spesso sono gli assistenti sociali o anche il giudice a non concedere l’autorizzazione per un incontro ravvicinato tra madre e figlio, quando viene concesso, i bambini subiscono l’impatto con la realtà e vengono trattati dagli agenti come adulti, ritrovandosi nelle grandi stanze del parlatorio ad incontrare i loro genitori, senza privacy, senza possibilità di gioco. Bambini che vivono da piccoli realtà che solo un adulto può accettare e comprendere, fanciulli a cui l’infanzia viene concessa sotto reclusione, perché mamma sconta la pena e per riflesso anche suo figlio. C’è bisogno di avvicinarsi alla pena degli adulti con gli occhi di un bambino, perché le colpe degli adulti non possono ricadere sui più piccoli e l’infanzia non può e non deve essere negata o filtrata. Bambini a cui lo Stato deve garantire un’infanzia oltre le sbarre.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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