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Mafiosi al 41 bis, l’emergenza sanitaria li riporta a casa?

untitled 2I cronisti di giudiziaria lo chiamano laconicamente “41 bis”. Un numero che descrive un articolo di legge dell’ordinamento penitenziario, norma che regolamenta la detenzione all’interno delle strutture carcerarie italiane. Il 41 bis in realtà è il “regime detentivo speciale”, istituito a cavallo delle due stragi che ferirono l’Italia: Capaci e via D’Amelio, erede delle già “carceri speciali” create negli anni Settanta contro il terrorismo e poi abolite nell’ottantasei con la legge Gozzini. In questo regime vi finiscono quegli uomini ritenuti dallo Stato il piano più alto del crimine. Il carcere duro viene usato per spezzare i legami con l’esterno degli uomini affiliati ai clan: ma anche per fiaccarne la resistenza, per spingerli alla resa. In questo regime sono finiti uomini che sono stati riconosciuti colpevoli di associazione mafiosa, alcuni sono ritenuti autori di omicidi, estorsioni, violenze o di aver pilotato appalti pubblici, insomma persone che nella loro vita hanno adottato condotte discutibili giuridicamente, pertanto, i giudici hanno deciso di applicare il regime del 41 bis: carcere duro che per legge non prevede la possibilità di usufruire di pene alternative. Almeno, sino ai giorni scorsi, infatti, sembrerebbe che il giudice di sorveglianza abbia concesso gli arresti domiciliari per motivi di salute, al capomafia di Palarmo, Francesco Bonura, 78 anni. Bonura è considerato uno dei boss più influenti ed è stato condannato definitivamente per associazione mafiosa a 23 anni. Così la notizia ribalzata sugli organi di stampa nazionale rischia di segnare – secondo molti- un precedente che aprirebbe le porte del carcere per molti mafiosi che hanno segnato epoche di terrore e di omicidi. Il là sembra che sia stato dato dal Dap (amministrazione penitenziaria) che il 21 marzo scorso ha inviato ai direttori delle carceri italiane una circolare che li invitava a segnalare detenuti malati e anziani per eventuali pene alternative. In altre parole, l’emergenza epidemiologica dettata dal covid19 porterebbe alcuni boss di cosa nostra agli arresti domiciliari in quanto il loro stato di salute sarebbe incompatibile in considerazione anche dell’emergenza covid, con il carcere.
Una situazione questa che genera all’interno della società civile indignazione e stupore. La giustizia è uno dei capisaldi del nostro Paese, ci appelliamo ad essa e ne confidiamo ogniqualvolta episodi violenti segnano la nostra società ed incidono ferite nelle nostre coscienze. Il regime del 41 bis, psicologicamente per l’opinione pubblica rispecchia il sinonimo  della definizione “buttate la chiave della sua cella”, infondo, sapere che una persona che si è macchiata di crimini feroci o si è affiliato alla criminalità organizzata per loschi benefici, stia patendo isolamento e stringenti condizioni di vita, appaga e non poco. Ed ora pensare che una pandemia possa riportare fuori dai penitenziari uomini vettori del virus mafioso, spaventa ed indigna, facendo calare in molti il senso di fiducia nutrito verso la giustizia. La stessa che và in frantumi e schiaffeggia i familiari delle vittime di mafia e non rende giustizia alle morti per mano di persone che non si sono posti alcun scrupolo e che nel corso della loro vita non hanno mai abiurato alla loro appartenenza alle più pericolose organizzazioni criminali del mondo. E chi ha vissuto gli anni del terrore oggi teme un ritorno al passato, come un dejavu alla stagione post-stragista, consentendo a queste persone di rafforzare il loro potere che si nutre anche di presenza fisica sul territorio e di potergli lasciare margine per nuove strategie di attacco allo Stato. Indignazione e paura che fanno parte di aspetti sociali e psicologici, umani e comprensibili, ma c’è anche un aspetto giuridico, che senza dubbio và approfondito e compreso, per questo motivo ho deciso di parlarne con l’avvocato penalista del foro di Nocera Inferiore, Giovanni Pentangelo, che ci aiuta a delineare meglio il quadro del 41 bis.

  1. Avvocato, anzitutto ci spiega in cosa consiste il regime del 41bis?

L’ art. 41 bis dell’ Ordinamento Penitenziario, comunemente conosciuto come “carcere duro” non è una pena, come da tanti erroneamente ritenuto, bensì una modalità di esecuzione della pena o della misura di custodia cautelare. Viene applicato su provvedimento del Ministro della Giustizia, previa richiesta del Ministro degli Interni o, più frequentemente, previa richiesta dell’ Ufficio della Direzione Distrettuale Antimafia che procede alle indagini sul detenuto, per reati di associazione mafiosa o di terrorismo con finalità eversive. Lo scopo è quello di isolare quasi totalmente il detenuto al fine di impedirgli di comunicare con i suoi sodali, anche attraverso canali indiretti e così interrompere il suo apporto direttivo o partecipativo all’ organizzazione criminosa di cui fa parte. Consiste in una notevole compressione dei diritti del detenuto ai limiti della tortura.
Si pensi che il detenuto al 41 bis trascorre 22 ore al giorno in una cella che, alla finestra, ha applicata una placca di metallo che gli impedisce di guardare fuori e che permette soltanto ad un fascio di luce naturale di entrare. É sorvegliato a vista 24 ore su 24. Ha una sola ora d’ aria al giorno ed una di socialità che svolge in gruppi di massimo 4 persone di età e di provenienza geografica differente. Ha un solo colloquio al mese con i familiari che incontra per un’ora in una stanza, alla presenza costante di un agente della Polizia Penitenziaria. É diviso dai familiari da uno spesso vetro divisorio che impedisce contatti “epidermici”e comunica con loro, attraverso un citofono. Tutta la posta che scambia è sottoposta a censura, tranne le comunicazioni con il suo difensore che rechino la dicitura “per interesse di Giustizia”.
I colloqui con i difensori non hanno limiti temporali ma vengono svolti alla presenza costante di un agente di polizia penitenziaria o sono video filmati. La partecipazione ai processi può avvenire esclusivamente in videoconferenza e mai fisicamente.

  1. Ritiene che tale misura considerata l’emergenza epidemiologica possa avere delle eccezioni? In altri termini le chiedo, può un detenuto in regime di 41 bis essere scarcerato ad oggi?

Per come è “ridotto” all’ isolamento quasi assoluto, il pericolo del contagio da Covid-19 è una ipotesi pressoché remota per il detenuto al regime speciale del 41 bis. Si badi che lo stesso ha contatto esclusivamente con il gruppo di tre agenti penitenziari che si alternano nel sorvegliarlo a vista. Per cui, con il controllo sanitario degli agenti penitenziari che prestano servizio nelle sezioni detentive e degli avvocati che vanno a colloquio, il rischio contagio è scongiurato.

  1. Ammesso che un detenuto in tale regime avanzi istanza tramite il suo legale di scontare la pena in regime domiciliare, potrebbe essere accolta? La legge lascia margine e discrezionalità al giudice?

Bisogna distinguere  se il detenuto è in regime di espiazione pena o se è in regime di custodia cautelare, in altre parole se sta scontando una pena oppure è in attesa di giudizio definitivo. Nel primo caso è competente il Tribunale o il Magistrato di Sorveglianza per i detenuti al regime del 41 bis con unica sede in Roma, nel secondo caso è competente il Giudice innanzi al quale si sta svolgendo il processo. Il tribunale di Sorveglianza per i 41 bis ha percentuali di accoglimento delle istanze di attenuazione del regime detentivo rasenti lo zero. Nel secondo caso, venute meno le esigenze cautelari, il Giudice “del processo” deve valutare concretamente le istanze di attenuazione della misura.

  1. A Lei è capitato di ottenere una scarcerazione di un detenuto al regime del 41 bis?

Io ho difeso tre detenuti sottoposti a questo regime speciale. Uno in regime di espiazione pena a cui sono riuscito ad anticipare la scarcerazione grazie ad uno sconto di pena di oltre cinque mesi ottenuto sfruttando una norma che tutela detenuti, come il mio assistito, che  hanno vissuto un periodo considerevole di detenzione in condizioni ritenute degradanti ed inumane.
Gli altri due in regime erano di custodia cautelare perché ancora sotto giudizio.
Per uno sono riuscito, ad ottenere gli arresti domiciliari in un paese limitrofo al suo, grazie ad una istanza presentata dopo l’esame di alcuni collaboratori di Giustizia ritenuti originariamente “determinanti per l’accusa” ma poi non rivelatisi propriamente tali.
Per l’altro, non ho potuto fare altro che attendere la decorrenza dei termini di custodia cautelare perché sottoposto contemporaneamente a più processi in fasi dibattimentali diverse.

  1. Francesco Bonura, detenuto al carcere di Opera in regime di 41 bis ha ottenuto i domiciliari nella sua Palermo. Un caso singolo e dettato da cosa? Potrebbe creare un precedente, secondo lei?

Per poter rispondere, avrei bisogno di leggere attentamente il provvedimento che non ho ancora trovato sulla banca dati. A senso, ritengo che le motivazioni dell’attenuazione del regime detentivo per il Bonura non risiedano direttamente nel pericolo di contagio da Covid-19 ma più in un grave ed irreversibile stato patologico che, di fatto, gli impedirebbe anche di riprendere contatti con vecchi, o potenzialmente nuovi, sodali.
In altre parole, le gravi patologie e il decorso del tempo lo renderebbero avulso dagli attuali  sistemi criminali organizzati.

  1. Ad oggi vi è una legge, un decreto, qualche linea di indirizzo che concede ai detenuti per qualsiasi reato e regime –in questo caso vado oltre al 41 bis- in considerazione dell’emergenza epidemiologica di poter scontare la pena al di fuori di un penitenziario?

L’ art.  123 del Decreto Legislativo n. 18 del 17 marzo scorso, ripercorrendo la vecchia Legge 199 del 2010 tuttora in vigore, prevede che tutti i detenuti in regime di espiazione pena cha a giugno 2020 residuano non più di 18 mesi di pena da espiare, possono ottenere l’ attenuazione del regime detentivo, continuando a scontare la pena presso il proprio domicilio con il monitoraggio dato dal braccialetto elettronico. In modo molto cauto, i Magistrati di Sorveglianza competenti a decidere sulle istanze, hanno provveduto, ad oggi, ad attenuare il regime detentivo esclusivamente dei soggetti con serie patologie potenzialmente seriamente aggravabili dal Covid-19.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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La vita nel post carcere. La difficoltà di ricostruire le reti della propria vita

untitled 2Carlo, nome di fantasia, aveva meno di trent’anni quando è entrato in uno dei tanti penitenziari italiani, lasciando a casa una moglie malata di cancro e un bambino di diciotto mesi. Quando ne è uscito con una qualifica da cuoco ed una da panettiere, con dentro il mondo sommerso del carcere, si è ritrovato compagno di vita di una donna cambiata e segnata dalla malattia e dalle difficoltà, e padre di un ragazzino poco più che adolescente. Il carcere ha segnato Carlo quanto la sua famiglia. Li incontro in un colloquio di servizio sociale, sono spaesati e quasi spaventati dalla nuova vita da ridisegnare e ricostruire. Parlare del “dopo”, di quando il cancello si chiude dietro le spalle di un detenuto e si riacquista la tanto desiderata, sognata e sperata “libertà”, è un argomento complicato, dove risulta facile scoraggiarsi e perdersi fra tutti i problemi che si riscontrano nel fine pena, cioè in quella fase della vita di un detenuto che dovrebbe rappresentare invece la fine del “problema dei problemi”, la carcerazione. Il fine pena è la gioia per la fine di un incubo, ma può rappresentare anche l’inizio di un altro momento buio. I problemi che franano addosso ad una persona che esce dal carcere sono molti: la mancanza di affetti, le amicizie perse, i legami familiari da riconquistare e la difficile ricostruzione dei rapporti sociali; poi i problemi pratici, come la perdita della residenza, in molti, infatti, hanno dimora presso l’istituto di pena; alcuni ex detenuti hanno anche la difficoltà di trovare un luogo dove dormire. Ma anche la mancanza di un minimo di disponibilità economiche per le prime necessità e per gli spostamenti, a volte si lascia l’istituto di pena con un sacchetto, quelli neri che contengono i propri effetti personali. Si scontrano con la mancanza di un lavoro, anche le persone in affidamento ai servizi sociali con un discreto lavoro, si vedono messi “alle strette” da quelle cooperative che danno lavoro solo a detenuti e non anche ad “ex”. Difficile anche l’assistenza medica, che a volte viene a mancare, se la persona perde la residenza che aveva fuori dal carcere. Infine, la crisi d’identità, non solo per chi è senza rapporti affettivi, lo scontro non è solo con un ambiente fortemente critico per i suoi trascorsi, ma anche con se stessi: gli incubi notturni, la difficoltà a ritrovarsi in un ambiente che per quanto dovrebbe essere familiare e proprio, fatica a diventare il proprio ambiente. Il carcere segna, lascia dentro paure, difficoltà, ed una volta fuori è difficile lasciarsi tutto alle spalle e paradossalmente il carcere sembra per molti un luogo “sicuro” rispetto a tutte le insicurezze del dopo. La galera, quella che piega la roccia, è lo stare esposti alle domande, reggere l’urto del passato senza defilarsi: “non potevi pensarci prima”, gli sguardi della gente, le loro attenzioni, i rimpianti: una galera personale che tortura dentro. Situazioni e mancanze che incidono in modo indelebile sulla psiche dell’ex-detenuto. Carlo, mi racconta che quasi ha dimenticato cosa significhi amare, mostrare atteggiamenti affettuosi, e seppur si senta padre, oggi nella vita di suo figlio si sente un perfetto sconosciuto: un rimprovero sembra inascoltato, un abbraccio quasi impossibile: il carcere lo ha reso anaffettivo. Il solo sostegno emotivo e morale non basta a Carlo e alla sua famiglia, prima di tutto Carlo ha bisogno di ritrovare se stesso, superando gli incubi, i ricordi del carcere, le mancanze e le difficoltà, con un percorso di sostegno psicologico che nel tempo si integrerà al figlio, perché padre e figlio devono avere il tempo ed il modo di costruire un rapporto mai esistito e sarà possibile partendo dalle basi: accompagnarlo a scuola, una passeggiata in bici, un semplice abbraccio sul divano durante una serie televisiva. Un percorso non semplice, che certo incontrerà ostacoli e difficoltà, che si scontrerà con la diffidenza, ma è un percorso umano e familiare che serve a rinascere, perché il fine pena è un inizio di pene nuove, come nel gioco dell’oca, si torna indietro, si ricomincia, si riparte da zero. Ma serve un percorso parallelo fatto di una giustizia umana fatta di accompagnamento nel fine pena, gli sforzi umani e solidali delle tante associazioni- poche e con pochi mezzi- che supportano gli ex detenuti, aiutandoli a reinserirsi nella società, sono una goccia nel mare, anche perché il volontariato è spesso “sbilanciato” all’interno delle carceri molto più che sul territorio. L’accompagnamento deve confrontarsi anche con l’aspetto morale e materiale, sarebbe opportuno all’uscita del carcere fornire uno zainetto con i primi oggetti specie per le emergenze, utilissimo anche se un po’ deprimente, bisognerebbe intensificare i colloquio nei mesi che anticipano l’uscita, monitorare i bisogni e attrezzarsi sul territorio, per rendere più efficace il sostegno. Urge e potrebbe diventare un obiettivo futuro, uno sportello che si occupi attivamente delle persone che stanno per finire la loro pena. Una rete di sostegno forte che individui i bisogni di queste persone, dall’affiancamento ai primi autonomi passi fuori dal carcere: la ricerca di un alloggio, l’aiuto quando piombano addosso multe, divieti, cancellazioni di residenza e tutto quello che somiglia al “dopo carcere” dove sembra un percorso ad ostacoli e sembra più semplice sfracellarsi che superare le tante barriere che si incontrano.

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Il carcere che cambia: dall’orto sociale al lavoro che salva i detenuti

untitled 2Esiste un mondo contiguo e speculare, per niente lontano e distante dall’immaginario comune, si chiama carcere, ma si legge -per molti -come luogo di contenimento e di espiazione. Drammatiche le condizioni in cui versano le carceri italiane negli ultimi anni. Quella dei penitenziari è una bomba ad orologeria che rischia di esplodere. Gli scenari della carceri italiane ammutoliscono. Celle di sei, otto detenuti insieme, spesso non sono detenuti condannati ma in attesa di una sentenza – a cui attendono da mesi-. Docce comuni, orari fissi e sguardi attenti, poliziotti che vegliano. Condizioni igieniche quasi nulle. Gli spazi sono finiti. La polizia penitenziaria è poca. I soldi meno ancora. Aumentano le violenze, le risse ed i sucidi. La speranza è attesa di una richiestissima riforma penitenziaria, che da tempo giace nei meandri di Camera e Senato. In questa giungla di dolore, solitudine e sofferenza, nelle case di detenzione maschili, femminili e minorili si fanno sempre più largo le realtà associative, Onlus di volontariato che offrono agli ospiti opportunità di lavoro creative e valide. E’ il caso di dire che il lavoro salva il carcere e sono molte le protagoniste di questa mission: unire la forze sfruttando le risorse sociali per far sentire più alta la propria voce. Il lavoro passa e riparte proprio dal carcere: un laboratorio di idee e progetti utili a dare un segnale forte dimostrando la forza riabilitativa del lavoro e dei percorsi di formazione e istruzione come strumenti di valore legati alla dignità della persona. Si crea così una vera e propria economia carceraria, che secondo i responsabili di molte Onlus che operano nel settore, ha tutto il potenziale produttivo per contribuire alla crescita del paese. E’ un business virtuoso, pulito, solidale, dall’alto valore sociale e rigenerativo. Ogni cosa che prende vita in carcere è sinonimo di qualità e di riscatto sociale, di una scommessa su se stessi che ha il profumo di valore e valori. Così si macinano idee e progetti, volano dell’economia carceraria ed italiana. “Cotti in Fragranza” , start-up a vocazione sociale: un laboratorio per la preparazione di prodotti da forno di alta qualità, commercializzati nel territorio locale e nazionale. Nasce a Palermo ed è un esempio innovativo nel territorio del sud Italia, prima realtà imprenditoriale all’interno di un Istituto Penale per i Minorenni del sud (terza in tutta Italia). L’obiettivo ambizioso è quello di promuovere una stabile inclusione dei giovani del Malaspina che, previa formazione, potranno diventare lavoratori specializzati e autonomi, anche al di fuori del percorso detentivo. Apprendimento reciproco come condizione necessaria ed unica strategia vincente. Il “noi” che vuole diventare insieme persone competenti, capaci di operare scelte precise per il proprio benessere e quello altrui, capaci di cogliere il significato delle cose, valutare e decidere. Insieme, in grado di utilizzare strategie adeguate nei diversi contesti per trovare nuovi adattamenti e soluzioni creative. Il caffè diventa Galeotto al penitenziario Rebibbia di Roma, i detenuti producono e confezionano la torrefazione. Un eccellente prodotto solidale, miscelato con i migliori crudi, provenienti da continenti lontani. Si chiamano “lanzarelle” del caffè, sono le donne del carcere femminile di Pozzuoli e producono caffè artigianale, secondo la tradizione napoletana. Cinquantasei le donne che nel tempo si sono susseguite, perché solo il lavoro offre dignità e possibilità di riscatto reale. Molte di loro prima di lavorare al progetto, non avevano mai avuto un regolare contratto di lavoro. Ora hanno la possibilità di imparare un mestiere, ma ancor di più acquisiscono coscienza dei loro diritti e delle loro possibilità. “Buoni dentro”, al Beccaria di Milano, carcere minorile si è intrapresi la sfida di pianificazione e pasticceria. Una piccola bottega nel cuore del penitenziario minorile, strutturato in forma di bottega di produzione artigiana, dove i giovani attivi nel laboratorio sono affiancati da un formatore sotto la supervisione di un maestro artigiano. Il laboratorio sforna quotidianamente pane, focaccia biscotti, destinati al consumo interno dell’istituto. In occasione delle festività realizza la produzione artigianale di dolci tradizionali: panettone per Natale e colomba per Pasqua. Dal febbraio 2015 è attivo anche il laboratorio di panificazione con punto vendita di pezzi di pane Piazza Bettini a Milano, che impiega alcuni giovani detenuti sotto la guida e la supervisione di un maestro artigiano.  Il lavoro costituisce un fattore cruciale per favorire il cambiamento nei giovani sottoposti a restrizione della libertà e rappresenta un fattore determinante per il successo dei progetti di reinserimento sociale. Ai ragazzi viene offerta un’opportunità concreta di supporto al cambiamento e alla ri-costruzione dell’identità personale attraverso il lavoro che nasce dalle loro capacità e dal loro impegno. Un orto sociale e un’area verde per i colloqui con le famiglie lì dove prima vi era un campo da calcio in erba per anni abbandonato. Oggi, cambia sembianze il supercarcere di Ascoli Piceno. Oggi quel campo è tornato a nuova vita, in parte destinato di nuovo a piccolo perimetro di gioco, in parte ad area verde per i colloqui con le famiglie e per il resto destinato ad orto sociale. Un’innovativa esperienza nella quale il valore ricreativo ed educativo dell’orto, viene affiancato da un’esperienza teorico-pratica nella gestione del verde e del giardinaggio, per creare specifiche professionalità di settore. “La pizza buona dentro e fuori” questo lo slogan utilizzato dal carcere di Fuorni (Salerno) che nei giorni scorsi ha presentato il progetto di una pizzeria sociale all’interno del penitenziario salernitano. Siglato il documento che realizzerà la pizzeria in un locale già individuato, si iniziano ora a formare i detenuti che potranno acquisire il titolo di pizzaiolo che sarà spendibile poi una volta tornati in libertà. Secondo il direttore del penitenziario, il progetto, in carcere continuerà, perché sarà favorito il passaggio di testimoni tra i detenuti. “Questa idea progettuale –ha dichiarato Martone- deve essere foriera di lavoro, di opportunità trattamentali, di opportunità formative e di attestati spendibili anche all’estero”. Tra carenze e diritti che sembrano essere negati, si fa largo un’idea di carcere sociale e costruttiva, attesa da tanto, troppo tempo e che sembra prendere il sopravvento con realtà belle e che vale la pena raccontare e perché no, acquistare.

(Articolo pubblicato per il mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Bambini dietro le sbarre, l’infanzia con mamma reclusa tra le mura di un penitenziario

untitled 2E’ morta sul colpo la piccola Divine di quattro mesi, lanciata dalla mamma dalle scale del nido del carcere di Rebibbia, avviato l’iter per la morte cerebrale per il fratello di due anni. Sulla mamma, 33 enne di origini tedesche pende ora l’accusa di duplice infanticidio, è piantonata all’ospedale Pertini di Roma, pare abbia dichiarato al suo legale “i miei bambini adesso sono liberi,” apparendo consapevole del gesto compiuto; nel frattempo, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha sospeso i vertici del carcere. La cronaca riporta alla luce il tema dei bambini reclusi insieme alle loro mamme nei penitenziari italiani. Sono 62 i bimbi, con 52 mamme, attualmente presenti nelle carceri italiane. Dal 2007 sono stati creati in Italia cinque Icam (istituti di custodia attenuata per detenute madri), più vicini ad un asilo che ad una prigione, per ridurre al minimo i traumi dei più piccoli. Poche per troppi bambini reclusi. Nascere e crescere chiusi dietro le sbarre: sono i figli neonati delle detenute nei carceri femminili italiani, a cui la legge permette di vivere coi propri figli all’interno della struttura fino al compimento dei tre anni. Non è un modo di dire, poiché il giorno stesso del compleanno il bambino viene prelevato dalla struttura dove vive con la madre e affidato ad altre cure, nella migliore delle ipotesi alla famiglia d’origine. Una vita, quella dei piccoli, modulata sulle dinamiche della detenzione adulta, con le stesse sbarre, gli stessi colori, i pochi spazi e il problema del superaffollamento. E così capita che un bambino debba crescere dietro le sbarre, scontando una pena che non ha commesso, a volte anche da solo, senza altri bambini. A questi piccoli si aggiungono quelli che ogni giorno entrano in carcere per far visita al genitore detenuto: 100 mila ogni anno in Italia, sottoposti a perquisizione prima di entrare, proprio come gli adulti, e spesso sono costretti a incontrare il genitore in spazi grigi e chiusi. Tutto previsto dall’ordinamento penitenziario del 1975, mentre una legge che dispone diversamente esiste, ed è la legge 62 dell’aprile 2011 che introduce due alternative alla detenzione per questi bambini. La prima di queste opzioni sono gli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri con prole fino a tre/sei anni) che sebbene siano carceri, a livello edilizio sono comunque più simili a una casa normale, anche se la donna vive la propria quotidianità da detenuta. La seconda alternativa al carcere vero e proprio sarebbero, invece, le famose case famiglia protette, che dovrebbero essere destinate a donne che non hanno la possibilità di ripristinare la normale convivenza con il figlio per mancanza di un domicilio. Eppure la legge del 2011 urla con le sue misure alternative che i bambini in carcere non devono starci. Chi nasce e cresce in detenzione soffre di gravi deprivazioni sensoriali. La vita di un minore in carcere è uno schiaffo ai suoi diritti, il mondo è visto dalle sbarre di un penitenziario tra urla, sofferenze, storie di vita non facili, colori spenti, giochi monotoni e in luoghi chiusi e angusti, a volte in stanze piccole, per motivi di spazi, mentre fuori c’è il sole, la vita, i parchi giochi e poco oltre il mare. Il carcere non è il luogo dove poter essere madri, non è possibile gestire i propri figli, crescerli secondo criterio. I tempi, i modi, le compatibilità sono decisi altrove. E anche le esperienze significative, l’esplorazione del mondo, avvengono con altri. Come i volontari che operano in molti penitenziari, che nel fine settimana portano fuori dalle mura carcerarie i piccoli, che aspettano con gioia queste giornate. Ma arrivano poi le angosce, la paura di non tornare più dalla mamma o quella di non uscire più. Le madri sbagliano ma i bambini ne pagano le conseguenze in ambienti inidonei all’infanzia e alla possibilità di essere madri. La legge c’è ed è quella del 2011 che pensa a luoghi senza sbarre, armi o divise. Possibili soluzioni che ad oggi sono ancora utopia in un paese che non guarda ai diritti dei più piccoli, negandogli un’infanzia serena, spensierata, ma fatta di celle, di ambienti piccoli, di spazi verdi inesistenti, con un impatto psicologico non indifferente: a questi bambini vengono negati gli affetti, l’amore dei familiari, la possibilità di socializzazione, ma ancora la possibilità di conoscere il mondo, la curiosità e la scoperta tipici dei primi anni di vita. La vita tra le sbarre per un bambino si traduce anche in difficoltà di linguaggio, a volte imparano parole, gesti, atteggiamenti da adulti. Possono riscontrare difficoltà di inserimento in classi di bambini, possono essere iperattivi, sviluppare aggressività. Inoltre, l’istituto di pena spesso è l’elemento ostacolativo tra il bambino ed il genitore. L’istituto penitenziario non è il luogo adatto per un incontro, spesso sono gli assistenti sociali o anche il giudice a non concedere l’autorizzazione per un incontro ravvicinato tra madre e figlio, quando viene concesso, i bambini subiscono l’impatto con la realtà e vengono trattati dagli agenti come adulti, ritrovandosi nelle grandi stanze del parlatorio ad incontrare i loro genitori, senza privacy, senza possibilità di gioco. Bambini che vivono da piccoli realtà che solo un adulto può accettare e comprendere, fanciulli a cui l’infanzia viene concessa sotto reclusione, perché mamma sconta la pena e per riflesso anche suo figlio. C’è bisogno di avvicinarsi alla pena degli adulti con gli occhi di un bambino, perché le colpe degli adulti non possono ricadere sui più piccoli e l’infanzia non può e non deve essere negata o filtrata. Bambini a cui lo Stato deve garantire un’infanzia oltre le sbarre.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Padri separati, scatta il carcere per l’ex coniuge che non versa il mantenimento

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messOra i padri non potranno più esimersi dal mantenere i propri figli. I genitori, separati o divorziati, che non pagano l’assegno di mantenimento rischiano fino ad un anno di carcere o una multa fino a 1.032 euro. A sancirlo è l’art. 570 bis del codice penale, che entra pienamente in vigore, prevedendo pene nette per i genitori che si sottraggono “agli obblighi di assistenza inerenti la responsabilità genitoriale o alla qualità di coniuge”. La norma abolisce le diverse regole e sentenze contraddittorie che negli anni si sono susseguite, ma non si applica ai conviventi. Il procedimento del neo articolo 570bis è contemplato nella recente riforma sul riordinamento penitenziario, scritta dal governo ormai dimissionario, ma in esso viene specificato che il reato è ascritto ai padri ex coniugi, mentre non è ancora contemplato per i padri ex conviventi. Questo crea un vuoto normativo che dovrà essere colmato a stretto giro. Dunque, scatta la galera per quei genitori inadempienti che ripetutamente si rifiutano di versare i soldi alla ex moglie per contribuire al mantenimento dei figli, anche se maggiorenni. La norma, prevede, che chi non versa tale assegno non andrà subito in prigione, ma questa legge servirà sicuramente da ammonimento e monito. Nel caso, infatti, che il reato dovesse essere perpetrato nel tempo e dopo diverse sentenze, la prospettiva della prigione non sarebbe remota. La legge, conclude, con la previsione di sanzioni per quei padri, separati o divorziati, che sperperano il patrimonio familiare, non garantendo ai figli la necessaria sussistenza o eredità. Anche in questi casi la pena prevista potrebbe essere il carcere o la multa a seconda che oltre il comportamento di un genitori inadempiente, il mantenimento venga versato “a singhiozzo”. Anche in questo caso si parla di casi di ex coppie coniugate: lasciati fuori gli ex non coniugati. La legge fa scalpore ma nasce sulla base del codice penale del 1930 che già puniva con il carcere, seppur sulla carta, coloro che facevano mancare i mezzi di sostentamento al coniuge o ai figli. Poi le modifiche, sino ad oggi, in cui è reato non pagare gli assegni per i figli in genere. Discutibile su molti aspetti: ad esempio, non versare l’assegno per il figlio maggiorenne sarà punito solo se i genitori sono divorziati ma non sei genitori sono separati o addirittura conviventi. Potrebbe finire in tribunale anche chi è puntuale con l’assegno mensile ma non ha rimborsato le spese per i libri o per le vacanze dei figli. Incongruenze che fanno indispettire i tanti padri che ogni giorno si scontrano oltre che con l’astio dell’ex compagna anche con situazioni di grande stress emotivo ed economico. Molti padri di oggi perdono tutto, non riescono ad arrivare a fine mese, spesso sono ridotti alla miseria e non possono neppure detrarre dalla dichiarazione dei redditi l’assegno di mantenimento per i figli. Così può capitare che finiscano in strada, magari a dormire in macchina o in situazioni indecorose. Il nuovo articolo del codice penale di certo non va incontro ai padri separati, anzi, sembra un’ulteriore spada di Damocle per quei padri desiderosi di esserlo ma che con la separazione hanno incontrato la povertà. Intorno, però al mondo dei padri separati in difficoltà, che sembrano non esserci, -ma sono un’ampia fetta di popolazione italiana, basta vedere i dati dell’Istat relativi alle separazioni e ai divorzi nel 2015, anche grazie al “divorzio breve”, l’aumento degli scioglimenti delle unioni è stato del 57% rispetto al 2014. Alle 82.469 coppie che hanno divorziato vanno poi sommate anche le 91.706 che si sono separate. Sempre secondo l’Istat, l’età media oscilla tra i 48 anni per i mariti ed i 45 anni per le mogli – c’è un modo fatto di associazioni e servizi che tendono a ricucire il rapporto padre-figlio sgretolatosi anche a causa dell’aspetto economico, come la casa per i padri separati, alle porte di Roma, dove i padri separati in difficoltà economiche possono stare da sei mesi ad un anno, realtà simili stanno nascendo in molte città italiane anche per rispondere alla reale esigenza del minore: stare col proprio papà, anche perché quando i figli vengono separati dal padre, subiscono un lutto. I figli hanno bisogno della mamma quanto del padre ed i padri hanno il diritto ed il dovere di essere padri ma sembra proprio che le normative vadano nella direzione opposta del sostegno alla paternità.

(Articolo pubblicato per il mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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