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Violenza sulle donne, numeri e storie di una piaga sociale

Il 25 novembre, si celebra la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne. I numeri sono da piaga sociale: tre donne su dieci hanno subito vessazioni. E in troppe ancora non denunciano. Picchiate tra le mura domestiche, violentate per strada, vittime di cyber bullismo. Donne vittime di violenze fisiche e sessuali, persecuzione e stalking. Uccise dalla violenza dei loro compagni. Una giornata, quella del 25 novembre, destinata ad essere una data simbolo per far riflettere collettivamente sulla gravità di un fenomeno che non accenna ad arrestarsi. La crescita del fenomeno è capillare in tutto lo stivale, senza distinzione tra Nord e Sud, con un’unica differenza che dal centro nord ci sono più organizzazioni di aiuto rispetto al sud, dove è ancora viva la cultura della riservatezza ad ammettere che si subisce violenza, per paura ma soprattutto per vergogna delle dicerie di paese. La pandemia non ha aiutato. Il coronavirus fuori e il proprio compagno violento dentro casa. Le restrizioni anti contagio imposte dal Governo non hanno aiutato tante donne che hanno dovuto affrontare una doppia paura e un doppio nemico. Secondo l’Istat le chiamate al numero antiviolenza 1522, durante il lockdown è stato intorno al 73%; ma il 72,8% non denuncia il reato subito. Sono invece 32 le vittime uccise da gennaio a giungo 2020. Il coronavirus non ferma la violenza sulle donne, ma cambia solo la narrazione. Raccontando di una realtà falsata: un crimine vero e proprio finisce sotto la dicitura “il dramma delle convivenza forzata”. La convivenza forzata con un uomo violento, ha peggiorato ulteriormente situazioni insostenibili, accelerando le aggressioni più frequentemente e talvolta con violenza, come avviene ad esempio durante le festività, i periodi estivi o durante i weekend. Un elemento resta costante: il tutto avviene per mano di uomini violenti.

Un fenomeno che sembra inarrestabile, eppure si può contare sul sistema legislativo che negli anni ne ha fatto una priorità, oggi, infatti, è in essere la legge n. 69/2019 ribattezzata “codice rosso”, che ha modificato il codice di procedura penale, con l’intento di favorire un percorso prioritario di trattazione di questi procedimenti a tutela delle vittime. La legge, obbliga la polizia giudiziaria a “riferire immediatamente al pubblico ministero anche in forma orale” – con l’intento di abbattere i tempi delle indagini, mentre il PM (Pubblico Ministero) dovrà trattare il caso assumendo “entro 3 giorni” informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti. Senza dubbio c’è molto da fare nella sua applicabilità soprattutto in termini di personale da impiegare, la carenza d’organico e la mole di lavoro degli uffici giudiziari si ripercuote anche in tematiche così delicate e complesse. Ma denunciare è importante, il primo passo – seppur difficile- verso un nuovo inizio. Eppure tante donne non lo fanno, quelle che invece lo fanno, spesso non sono costanti, ritirano poco dopo la loro denuncia, talvolta ritornano anche con l’uomo maltrattante, e spesso non per timore, ma per senso di amore – che di fatto è solo accudimento, sintomo di “crocerossina”.

In psicologia si parla ormai da anni di “ciclo della violenza” costituito da vere e proprie fasi che puntualmente si succedono in maniera ripetitiva. Sono state individuate da Walker e sono quattro, questo può aiutarci a capire e talvolta a comprendere perché spesso le donne ritirano la denuncia e con fatica l’opinione pubblica accetta e metabolizza questa scelta.

  • Fase dell’accumulo di tensione: vi è un graduale aumento della tensione caratterizzato da litigi frequenti e atteggiamenti violenti. Non vi è una durata stabilita, può perdurare anche per settimane. In questa fase possono presentarsi anche scenate di gelosia o grida.  La violenza e gli insulti agli occhi della vittima vengono percepiti sporadici, mentre l’aggressore vive sbalzi d’umore e si arrabbia per futili motivi. La vittima cerca di calmarlo e adotta comportamenti che possano non irritare il compagno. E’ proprio in questi momenti che la donna si colpevolizza.
  • Fase dell’aggressione: è una fase breve e sfocia nella violenza vera e propria. La vittima è anietata ed incredula, isolandosi da ciò che succede, infatti, molte donne prima di chiedere aiuto lascia passare molti giorni.
  • Fase del pentimento. In questa fase l’aggressore si presenta mite e pacato, pentito, servendosi di strategie: regali e promesse. La vittima si auto convince che non accadrà più, per questo motivo non chiede aiuto. E quelle che hanno denunciato, hanno iniziato a trovare equilibrio interiore e si convincono che quell’unione possa continuare.
  • Fase della riconciliazione. Maltrattante e maltrattato tornano a vivere insieme. L’apparente calma e il comportamento affettuoso dell’aggressore fanno credere alla vittima che sia cambiato davvero. Questa fase finisce quando dalla calma si passa nuovamente alle discussioni e vessazioni.

Per porre fine al ciclo della violenza, la vittima deve essere consapevole della sua situazione, senza motivazione e consapevolezza nessun aiuto sarà efficace.

“Qualsiasi momento del giorno o della notte è quello giusto per dire basta e porre fine a una fase della tua vita che vorresti non aver mai vissuto.”
Raunda de Penaflor

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Mafiosi al 41 bis, l’emergenza sanitaria li riporta a casa?

untitled 2I cronisti di giudiziaria lo chiamano laconicamente “41 bis”. Un numero che descrive un articolo di legge dell’ordinamento penitenziario, norma che regolamenta la detenzione all’interno delle strutture carcerarie italiane. Il 41 bis in realtà è il “regime detentivo speciale”, istituito a cavallo delle due stragi che ferirono l’Italia: Capaci e via D’Amelio, erede delle già “carceri speciali” create negli anni Settanta contro il terrorismo e poi abolite nell’ottantasei con la legge Gozzini. In questo regime vi finiscono quegli uomini ritenuti dallo Stato il piano più alto del crimine. Il carcere duro viene usato per spezzare i legami con l’esterno degli uomini affiliati ai clan: ma anche per fiaccarne la resistenza, per spingerli alla resa. In questo regime sono finiti uomini che sono stati riconosciuti colpevoli di associazione mafiosa, alcuni sono ritenuti autori di omicidi, estorsioni, violenze o di aver pilotato appalti pubblici, insomma persone che nella loro vita hanno adottato condotte discutibili giuridicamente, pertanto, i giudici hanno deciso di applicare il regime del 41 bis: carcere duro che per legge non prevede la possibilità di usufruire di pene alternative. Almeno, sino ai giorni scorsi, infatti, sembrerebbe che il giudice di sorveglianza abbia concesso gli arresti domiciliari per motivi di salute, al capomafia di Palarmo, Francesco Bonura, 78 anni. Bonura è considerato uno dei boss più influenti ed è stato condannato definitivamente per associazione mafiosa a 23 anni. Così la notizia ribalzata sugli organi di stampa nazionale rischia di segnare – secondo molti- un precedente che aprirebbe le porte del carcere per molti mafiosi che hanno segnato epoche di terrore e di omicidi. Il là sembra che sia stato dato dal Dap (amministrazione penitenziaria) che il 21 marzo scorso ha inviato ai direttori delle carceri italiane una circolare che li invitava a segnalare detenuti malati e anziani per eventuali pene alternative. In altre parole, l’emergenza epidemiologica dettata dal covid19 porterebbe alcuni boss di cosa nostra agli arresti domiciliari in quanto il loro stato di salute sarebbe incompatibile in considerazione anche dell’emergenza covid, con il carcere.
Una situazione questa che genera all’interno della società civile indignazione e stupore. La giustizia è uno dei capisaldi del nostro Paese, ci appelliamo ad essa e ne confidiamo ogniqualvolta episodi violenti segnano la nostra società ed incidono ferite nelle nostre coscienze. Il regime del 41 bis, psicologicamente per l’opinione pubblica rispecchia il sinonimo  della definizione “buttate la chiave della sua cella”, infondo, sapere che una persona che si è macchiata di crimini feroci o si è affiliato alla criminalità organizzata per loschi benefici, stia patendo isolamento e stringenti condizioni di vita, appaga e non poco. Ed ora pensare che una pandemia possa riportare fuori dai penitenziari uomini vettori del virus mafioso, spaventa ed indigna, facendo calare in molti il senso di fiducia nutrito verso la giustizia. La stessa che và in frantumi e schiaffeggia i familiari delle vittime di mafia e non rende giustizia alle morti per mano di persone che non si sono posti alcun scrupolo e che nel corso della loro vita non hanno mai abiurato alla loro appartenenza alle più pericolose organizzazioni criminali del mondo. E chi ha vissuto gli anni del terrore oggi teme un ritorno al passato, come un dejavu alla stagione post-stragista, consentendo a queste persone di rafforzare il loro potere che si nutre anche di presenza fisica sul territorio e di potergli lasciare margine per nuove strategie di attacco allo Stato. Indignazione e paura che fanno parte di aspetti sociali e psicologici, umani e comprensibili, ma c’è anche un aspetto giuridico, che senza dubbio và approfondito e compreso, per questo motivo ho deciso di parlarne con l’avvocato penalista del foro di Nocera Inferiore, Giovanni Pentangelo, che ci aiuta a delineare meglio il quadro del 41 bis.

  1. Avvocato, anzitutto ci spiega in cosa consiste il regime del 41bis?

L’ art. 41 bis dell’ Ordinamento Penitenziario, comunemente conosciuto come “carcere duro” non è una pena, come da tanti erroneamente ritenuto, bensì una modalità di esecuzione della pena o della misura di custodia cautelare. Viene applicato su provvedimento del Ministro della Giustizia, previa richiesta del Ministro degli Interni o, più frequentemente, previa richiesta dell’ Ufficio della Direzione Distrettuale Antimafia che procede alle indagini sul detenuto, per reati di associazione mafiosa o di terrorismo con finalità eversive. Lo scopo è quello di isolare quasi totalmente il detenuto al fine di impedirgli di comunicare con i suoi sodali, anche attraverso canali indiretti e così interrompere il suo apporto direttivo o partecipativo all’ organizzazione criminosa di cui fa parte. Consiste in una notevole compressione dei diritti del detenuto ai limiti della tortura.
Si pensi che il detenuto al 41 bis trascorre 22 ore al giorno in una cella che, alla finestra, ha applicata una placca di metallo che gli impedisce di guardare fuori e che permette soltanto ad un fascio di luce naturale di entrare. É sorvegliato a vista 24 ore su 24. Ha una sola ora d’ aria al giorno ed una di socialità che svolge in gruppi di massimo 4 persone di età e di provenienza geografica differente. Ha un solo colloquio al mese con i familiari che incontra per un’ora in una stanza, alla presenza costante di un agente della Polizia Penitenziaria. É diviso dai familiari da uno spesso vetro divisorio che impedisce contatti “epidermici”e comunica con loro, attraverso un citofono. Tutta la posta che scambia è sottoposta a censura, tranne le comunicazioni con il suo difensore che rechino la dicitura “per interesse di Giustizia”.
I colloqui con i difensori non hanno limiti temporali ma vengono svolti alla presenza costante di un agente di polizia penitenziaria o sono video filmati. La partecipazione ai processi può avvenire esclusivamente in videoconferenza e mai fisicamente.

  1. Ritiene che tale misura considerata l’emergenza epidemiologica possa avere delle eccezioni? In altri termini le chiedo, può un detenuto in regime di 41 bis essere scarcerato ad oggi?

Per come è “ridotto” all’ isolamento quasi assoluto, il pericolo del contagio da Covid-19 è una ipotesi pressoché remota per il detenuto al regime speciale del 41 bis. Si badi che lo stesso ha contatto esclusivamente con il gruppo di tre agenti penitenziari che si alternano nel sorvegliarlo a vista. Per cui, con il controllo sanitario degli agenti penitenziari che prestano servizio nelle sezioni detentive e degli avvocati che vanno a colloquio, il rischio contagio è scongiurato.

  1. Ammesso che un detenuto in tale regime avanzi istanza tramite il suo legale di scontare la pena in regime domiciliare, potrebbe essere accolta? La legge lascia margine e discrezionalità al giudice?

Bisogna distinguere  se il detenuto è in regime di espiazione pena o se è in regime di custodia cautelare, in altre parole se sta scontando una pena oppure è in attesa di giudizio definitivo. Nel primo caso è competente il Tribunale o il Magistrato di Sorveglianza per i detenuti al regime del 41 bis con unica sede in Roma, nel secondo caso è competente il Giudice innanzi al quale si sta svolgendo il processo. Il tribunale di Sorveglianza per i 41 bis ha percentuali di accoglimento delle istanze di attenuazione del regime detentivo rasenti lo zero. Nel secondo caso, venute meno le esigenze cautelari, il Giudice “del processo” deve valutare concretamente le istanze di attenuazione della misura.

  1. A Lei è capitato di ottenere una scarcerazione di un detenuto al regime del 41 bis?

Io ho difeso tre detenuti sottoposti a questo regime speciale. Uno in regime di espiazione pena a cui sono riuscito ad anticipare la scarcerazione grazie ad uno sconto di pena di oltre cinque mesi ottenuto sfruttando una norma che tutela detenuti, come il mio assistito, che  hanno vissuto un periodo considerevole di detenzione in condizioni ritenute degradanti ed inumane.
Gli altri due in regime erano di custodia cautelare perché ancora sotto giudizio.
Per uno sono riuscito, ad ottenere gli arresti domiciliari in un paese limitrofo al suo, grazie ad una istanza presentata dopo l’esame di alcuni collaboratori di Giustizia ritenuti originariamente “determinanti per l’accusa” ma poi non rivelatisi propriamente tali.
Per l’altro, non ho potuto fare altro che attendere la decorrenza dei termini di custodia cautelare perché sottoposto contemporaneamente a più processi in fasi dibattimentali diverse.

  1. Francesco Bonura, detenuto al carcere di Opera in regime di 41 bis ha ottenuto i domiciliari nella sua Palermo. Un caso singolo e dettato da cosa? Potrebbe creare un precedente, secondo lei?

Per poter rispondere, avrei bisogno di leggere attentamente il provvedimento che non ho ancora trovato sulla banca dati. A senso, ritengo che le motivazioni dell’attenuazione del regime detentivo per il Bonura non risiedano direttamente nel pericolo di contagio da Covid-19 ma più in un grave ed irreversibile stato patologico che, di fatto, gli impedirebbe anche di riprendere contatti con vecchi, o potenzialmente nuovi, sodali.
In altre parole, le gravi patologie e il decorso del tempo lo renderebbero avulso dagli attuali  sistemi criminali organizzati.

  1. Ad oggi vi è una legge, un decreto, qualche linea di indirizzo che concede ai detenuti per qualsiasi reato e regime –in questo caso vado oltre al 41 bis- in considerazione dell’emergenza epidemiologica di poter scontare la pena al di fuori di un penitenziario?

L’ art.  123 del Decreto Legislativo n. 18 del 17 marzo scorso, ripercorrendo la vecchia Legge 199 del 2010 tuttora in vigore, prevede che tutti i detenuti in regime di espiazione pena cha a giugno 2020 residuano non più di 18 mesi di pena da espiare, possono ottenere l’ attenuazione del regime detentivo, continuando a scontare la pena presso il proprio domicilio con il monitoraggio dato dal braccialetto elettronico. In modo molto cauto, i Magistrati di Sorveglianza competenti a decidere sulle istanze, hanno provveduto, ad oggi, ad attenuare il regime detentivo esclusivamente dei soggetti con serie patologie potenzialmente seriamente aggravabili dal Covid-19.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Coronavirus, l’istinto sociale di uscire che rischia di infrangere la legge

untitled 2Ai tempi del coronavirus c’è chi scalpita, chi brontola, chi ha cercato di ridisegnare la propria vita adattandola ai limiti imposti dalla pandemia mondiale: zero socialità, che si è riversata sui social e nella vita casalinga, abbracciando il cambiamento in favore del bene collettivo, dando esempio di una società non poi così avida ed egoista, ma c’è anche chi i limiti e le restrizioni non le ha accolte con favore, percependole come delle barriere di vita ingiustificate ed infondate. Così c’è chi continua a farsi la passeggiata mattutina, la corsa pomeridiana, chi esce a fare la spesa più volte al giorno. C’è l’emergenza coronavirus e queste misure sono necessarie per il contenimento del virus. Ma allora, ci si chiede, perché è comunque faticoso accettare di dover rimanere in casa fino a quando la situazione non migliorerà? Psicologicamente le restrizioni così come la pandemia sono approdati improvvisamente nelle nostre vite, creando disorientamento e trauma. Ci sentiamo come agli arresti domiciliari, e sappiamo che sono previste sanzioni e pertanto ci sentiamo puniti non dalla legge dello Stato, ma dalla legge della natura. L’uomo è chiamato a confrontarsi con la fragilità umana: deve gestire quel bambino pulsionale che c’è in lui e non sempre ci riesce. La nostra psiche non è abituata a raffrontarsi con questo tipo di situazioni di emergenza. Perché molti arrivano a trasgredire? La trasgressione l’abbiamo conosciuta dalla nostra stessa società, il benessere che ci ha portati a trasgredire. Nei paesi poveri, chi trasgredisce è un delinquente, da noi invece si ha la percezione di una persona perbene. Rimanere a casa è un bene per sé e per gli altri ma bisogna investire tutte le energie psichiche per fare in modo di non pensare che lo stare in casa sia tempo vano. Questi momenti ci fanno conoscere il nostro livello più profondo, facendoci migliorare. Contro l’angoscia della solitudine e della perdita delle abitudini, bisogna cercare di costruire pensieri positivi.

Non vi è solo un aspetto psicologico e sociale che ci vieta di uscire di casa, ma vi è un aspetto altrettanto importante ed è quello della legge. Dall’inizio dell’epidemia da Coronavirus si parla di sanzioni per chi esce di casa senza un giustificato motivo, l’avvocato penalista Stanislao Sessa, autore e cultore della materia in diritto penale presso l’Università di Salerno, che ci spiega cosa succede se usciamo di casa ed infrangiamo la legge

 

Avvocato, qual è il punto di vista legale riguardo al decreto che prevede sanzioni per chi esce di casa senza giustificato motivo? E cosa si rischia uscendo di casa?

  • Nell’attuale decreto-legge, soffermandomi, specificamente, sull’operatività delle ultime modifiche, rimarco anzitutto che il mancato rispetto delle misure di contenimento COVID-19 è perseguito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da 400 a 3.000 euro, salvo ovviamente che il fatto costituisca reato.

Sempre nel testo del decreto, in virtù dell’ultima modifica, si statuisce che non si applicheranno più le sanzioni penali (di natura contravvenzionale) previste dall’articolo 650 del codice penale o da ogni altra disposizione di legge attributiva di poteri per ragioni di sanità.

Questo significa che, a partire dal 25 marzo 2020, chiunque venga fermato dalle Forze dell’Ordine fuori della propria abitazione, senza un valido motivo, che non sia quello delle comprovate esigenze lavorative, di assoluta urgenza per trasferimento in Comune diverso, situazioni di necessità o motivi di salute, rischia non più una denunzia per violazione dell’articolo 650 del codice penale “Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità” — che prevedeva l’applicazione dell’ammenda fino a 206 euro o l’arresto fino a tre mesi — bensì una sanzione amministrativa da 400 fino a 3.000 euro, che potrà essere aumentata fino ad un terzo (ovvero fino a 4.000 euro) se il fatto è commesso alla guida di un veicolo o in caso di recidiva.

Si badi bene, ciò non significa che le misure siano meno severe, anzi, il Governo ha contestualmente ordinato che vengano incrementati i controlli da parte delle Forze dell’Ordine, chiamando in campo financo l’Esercito, soprattutto nei principali snodi autostradali, nelle stazioni ferroviarie e degli autobus.

Preciso, infine, che l’entità della sanzione amministrativa sarà stabilita dal Prefetto e nel frattempo si avrà la possibilità di presentare scritti difensivi entro 30 giorni dall’inizio del procedimento.

In estrema sintesi: inizialmente si doveva affrontare un processo penale, anche se con sanzioni irrisorie, mentre oggi si dovranno pagare pesanti sanzioni pecuniarie.

 

  1. Dichiarare il falso in autocertificazione è reato?

La cd. “autocertificazione”, benché atto privato, se rilasciata ad un pubblico ufficiale, vale come un atto pubblico. Dunque dichiarare il falso, in un atto sostitutivo dell’atto notorio (autocertificazione), costituisce reato qualora venga consegnata a un pubblico ufficiale. Il delitto incriminato è quello di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (previsto e punito dall’art. 483 del codice penale). Non rileva che tale documento sia una dichiarazione del privato e non un atto pubblico; rileva piuttosto il soggetto al quale l’autocertificazione viene prodotta, andando, così, a sostituire un atto pubblico. È quanto chiarito anche dalla Cassazione con una recente sentenza.

La norma punisce, con la reclusione sino a due anni, chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità. Ebbene, secondo la Cassazione tale norma si applica anche alle false autocertificazioni quando l’atto ha lo scopo di provare i fatti descritti dal dichiarante al pubblico ufficiale.

Si potrebbe ritenere, ma risulterebbe, in concreto, difficilmente applicabile l’ulteriore fattispecie di cui all’art. 495 c.p. (conseguenze penali previste in caso di dichiarazioni mendaci), poiché tale delitto si configura esclusivamente con false attestazioni aventi ad oggetto l’identità, lo stato o altre qualità della persona.

Trattandosi di delitti, un’eventuale condanna, per aver redatto una falsa “autocertificazione”, può avere conseguenze gravi (perdita dell’incensuratezza, porto d’armi, assunzione nella pubblica amministrazione ecc.) e, quindi, in caso di contestazione, è sempre “preferibile” subire la sanzione amministrativa, dannosa solo al patrimonio, connessa all’arbitraria circolazione, che commettere il delitto di falso in autocertificazione (condanna devastante per un incensurato), ivi indicando falsi motivi a sostegno dell’abusiva uscita da casa.

 

  1. Rispetto ai reati di falso, l’essere o meno assoggettato a quarantena cambia qualcosa?

Certamente, poiché il modulo di autocertificazione richiede di attestare anche di non essere sottoposto alla misura della quarantena. Chi esce in tale condizione, quindi, rende un’autocertificazione falsa, commettendo per questo solo motivo un reato aggiuntivo a quello di violazione della quarantena. Le due sanzioni penali si sommano, con effetti ancor più devastanti per un incensurato.

 

  1. Cosa succede se una persona che si trova in quarantena, perché positiva al virus esce di casa?

Chiunque, risultato positivo al virus, violi la quarantena uscendo dalla propria abitazione, incorre nella più grave sanzione prevista dall’articolo 260 Testo unico leggi sanitarie ed è punito con l’arresto da 3 a 18 mesi e con l’ammenda da 500 euro a 5.000 euro. La contravvenzione non si applica se il fatto integra il reato di epidemia colposa (452 codice penale) oppure un più grave reato.

 

  1. Le chiedo di parlarci del tanto discusso “reato di epidemia”, di cosa si tratta e cosa si rischia?

Ai nostri fini, appare necessario preliminarmente evidenziare che vi è lieve dissonanza tra il concetto di “epidemia” in senso scientifico ed in senso giuridico. Dal punto di vista scientifico, s’intende ogni malattia infettiva o contagiosa suscettibile, per la propagazione dei suoi germi patogeni, di una rapida ed imponente manifestazione in un medesimo contesto e in un dato territorio colpendo un numero di persone tale da destare un notevole allarme sociale e un correlativo pericolo per un numero indeterminato di individui.

La nozione giuridica di epidemia è, invece, più ristretta e circoscritta rispetto a quella fornita in ambito scientifico, in quanto il legislatore, con la locuzione “mediante la diffusione di germi patogeni” prevista nell’art. 438 c.p., ha inteso circoscrivere la punibilità alle condotte caratterizzate da determinati percorsi causali. Pertanto l’epidemia costituisce l’evento cagionato dall’azione incriminata la quale deve estrinsecarsi secondo una precisa modalità di realizzazione, ossia mediante la propagazione volontaria, o colpevole, di germi patogeni di cui l’agente sia in possesso. Non è normativamente individuato in che modo debba avvenire detta diffusione: la norma incriminatrice non seleziona le condotte diffusive rilevanti e richiede — con espressione quanto mai ampia — che il soggetto agente procuri un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni, senza individuare in che modo debba avvenire questa diffusione. Occorre, però, che sia una diffusione capace di causare un’epidemia.

Si comprende dunque che, per potersi configurare il delitto, è sempre necessario che la malattia provocata dalla diffusione dei germi patogeni abbia una grande capacità di diffondersi e quindi di colpire un numero indeterminato di persone, altrimenti mancando la cd. “offensività” della condotta. Se manca tale rischio di contagio (mascherina e distanziamento) il reato de quo non può consumarsi: sul punto è stata esplicita una sentenza del Tribunale di Savona del 2008 che ha escluso il delitto in questione in un caso di salmonella in cui l’insorgere della malattia si era esaurito nell’ambito di un ristretto numero di persone.

Non può difettare proprio l’evento tipico dell’epidemia, che si connota          — come già precisato dalla giurisprudenza di legittimità — nella diffusività incontrollabile all’interno di un numero rilevante di soggetti e quindi per una malattia contagiosa dal rapido sviluppo ed autonomo, entro un numero indeterminato di soggetti, e per una durata cronologicamente limitata. Si può configurare il reato di epidemia di cui all’articolo 438 c.p. solo se il numero delle persone contagiate è ingente.

Affinché possa configurarsi il reato, dunque, occorre che l’autore abbia il possesso fisico di germi patogeni e che si renda responsabile non di singole condotte di trasmissione di agenti patogeni ma dello spargimento di detti germi in un’azione finalizzata a colpire, nel modo più rapido e incontrollabile, una pluralità indeterminata di soggetti.

Naturalmente, ne maiora mala sequantur, sconsiglio caldamente chi è infetto di mettersi in condizione di subire tale imputazione, essendo indubbiamente preferibile la quarantena alla………..reclusione.

  1. Avvocato, vorrei affidarmi a delle sue conclusioni…

L’intervento del legislatore ha, senza dubbio, avuto il pregio di creare una base normativa organica per offrire una risposta sanzionatoria, effettiva e tempestiva, volta a dissuadere i consociati dalla violazione delle misure di contenimento. Purtroppo, lo sforzo appare in parte vanificato dal frenetico susseguirsi di atti normativi, che pur volti a dare risposte rapide e adeguate ad una vicenda inedita e in continua evoluzione, hanno creato numerosi nodi interpretativi.La questione di fondo non è di poco momento, poiché impatta sul delicato equilibrio tra le esigenze di salute pubblica e i diritti fondamentali della persona costituzionalmente garantiti.

Comunque è sempre preferibile restare a casa!

Maria Rosaria Mandiello con la collaborazione di Stanislao Sessa  avvocato penalista

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Da Instagram alla legge contro il cyberbullismo è lotta alla cattiveria 2.0

untitled 2Era il giugno dello scorso anno e la Camera approvava la legge che dà disposizioni sulla tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto al fenomeno del cyber bullismo, una legge che tutela i minori coinvolti in violenze per via telematica. Obiettivo della legge è quello di contrastare il fenomeno in tutte le sue manifestazioni, con azioni preventive e a tutela puntando all’educazione dei minori coinvolti. Questo sia per quello che riguarda le vittime sia i responsabili, assicurando inoltre l’attuazione degli interventi necessari. Il cyber bullismo è un fenomeno in crescita e senza freni, almeno una vittima ogni trenta bambini. Sono gli stessi genitori italiani a denunciarlo, tanti altri, rimangono in silenzio, soffocati dalla paura, dal timore delle conseguenze. Molti genitori non sanno riconoscere i segni di questo problema, inoltre, tanti bambini decidono di tacere gli episodi subiti, spesso per paura di perdere l’accesso ad internet oppure di azioni da parte degli adulti che potrebbero metterli in imbarazzo o in difficoltà con i loro coetanei. Gli strumenti di bit sono sempre più pervasivi, le minacce che si trascinano dietro, in evidente espansione. Ma i modi per stendere a tappeto i cyber bulli non tardano ad arrivare, cominciando proprio da Instagram il popolare social di fotografie, che nel nuovo aggiornamento aggiunge il filtro anti-haters. Il noto social network ha rilasciato un nuovo aggiornamento per combattere gli haters con un filtro che blocchi i commenti offensivi. Il filtro si muove per identificare commenti che contengano attacchi all’aspetto fisico o al carattere di una persona, nonché minacce alla sua sicurezza. Il filtro che tende di arginare il bullismo è stato rilasciato a livello globale e attivato in automatico. Convinzione e certezza della scelta fatta è arrivata proprio dal team di lavoro del popolare social che nella direzione di proteggere i membri più giovani della community scrive che: “è fondamentale per aiutarli a sentirsi a proprio agio per esprimere chi sono e cosa gli interessa”, volto ad un uso virtuoso del social network. Dai social che mirano ad arginare il fenomeno si arriva alla legge che tutela i minori coinvolti in violenza telematica. La legge ha introdotto delle novità, cominciando proprio dal significato di cyber bullismo, infatti, nel testo di legge è riportato che si intende: “qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, manipolazione, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti on line aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso o la loro messa in ridicolo”. Un minore vittima di cyber bullismo o i responsabili del minore hanno il diritto di inoltrare, ai titolari dei siti web o dei social network interessati, un’istanza per la rimozione o il blocco di qualsiasi dato personale del minore. Se non si dovesse provvedere a tale rimozione entro le quarantotto ore, si avrà il diritto di rivolgersi al garante della privacy che interverrà entro le quarantotto ore successive. La legge, inoltre, estende per il cyber bullismo la procedura di ammonimento da parte del questore, già prevista in materia di stalking. In caso vi dovessero essere delle ingiurie, diffamazioni, minacce o trattamenti illeciti di dati personali commessi mediante internet da minori ultraquattordicenni nei confronti di altro minorenne, fino a quando non è proposta querela o non è presentata denuncia, è applicabile la procedura di ammonimento da parte del questore. Infine, si dispone che in ogni istituto scolastico sarà individuato tra il corpo docente un referente per le iniziative contro il bullismo e il cyber bullismo. Al preside spetta informare subito le famiglie dei minori coinvolti in atti di bullismo e stabilire eventuali azioni di carattere educativo e percorsi di recupero. In particolare, il Miur ha per effetto della legge, il compito di predisporre linee di orientamento di prevenzione e contrasto puntando anche sulla formazione del personale scolastico. Alle iniziative in ambito scolastico collaboreranno anche la polizia postale e le associazioni del territorio. Accanto ad un lavoro istituzionale e di prevenzione, occorre però la collaborazione dei genitori, che seppur spaventati dal fenomeno, sono pochi ancora i genitori che non filtrano in alcun modo l’accesso al web e nemmeno le applicazioni per lo smartphone. I genitori svolgono un ruolo fondamentale nell’educazione dei loro figli indicando i limiti da rispettare per un comportamento accettabile e sicuro. Un dialogo aperto sulle esperienze del web è il primo passo per proteggere i propri figli dal sistema online. Internet è una risorsa importante e preziosa per la crescita dei ragazzi, che tra l’altro non conoscono alcun mondo al di fuori del web. Ma, hanno bisogno di regole e queste devono fornigliele i genitori, stabilendo in famiglie delle regole. Se i pericoli sono all’esterno e nell’ovunque digitale, gli anticorpi si sviluppano sempre e da sempre tra le mura di casa.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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Padri e figli negati. La dura legge dell’astio genitoriale

IMG_0217Non ha più lacrime, Gaetano Palladino, “padre battagliero” che ha vinto le ostilità della giustizia ma si scontra con la freddezza dell’in-applicazione giuridica. Da quasi due ani, da quando la Cassazione gli ha dato ragione, attende di riabbracciare e di essere un padre a tempo pieno dei suoi tre figli di 4, 7 e 9 anni, che dal 2014 sono accuditi da una famiglia affidataria. Vive nella loro perenne attesa, con la cameretta pronta coi loro giochi, e l’amore infinito di un padre che dagli errori è rinato. Infatti, ha pagato il suo debito con la giustizia. Qualche anno fa finisce in carcere per aver venduto cd e dvd falsi, quando lui è in cella la moglie decide di abbandonare la famiglia e di lasciare i loro tre figli in una casa famiglia. Riottenuta la libertà, Gaetano, intraprende una battaglia legale, per errore il Tribunale per i Minorenni li ha dichiarati adottabili. La Corte d’Appello prima e la Cassazione dopo, hanno riconosciuto in Gaetano il padre legittimo e dichiarato i figli non adottabili. Nonostante ciò la famiglia affidataria continua a fare ricorso e a vincerlo, così i bambini vivono in “un’altalena emotiva”: sei giorni stanno coi genitori affidatari e per un’ora a settimana con il loro papà. La Cassazione è stata chiara Gaetano è il loro padre ed ha tutto il diritto di ricostruire un rapporto con loro. Padri negati e figli contesi dai genitori, dall’astio che cova dentro una coppia ormai naufragata e nel cuore duro della legge. Gaetano ha subito l’abbandono e la lontananza dei figli nel periodo in cui era in carcere, oggi, nonostante le sentenze siano al suo fianco ancora non riesce ad essere un padre presente, scontrandosi con la quotidianità negatagli. Ci sono padri straordinariamente felici di essere padri, come Gaetano, e di fare da padri. Perché per molti resta l’esperienza più bella della loro vita. Crescere, educare, giocare, gioire col proprio bambino nutre il cuore, la mente, l’anima, ricuce le ferite, cambia il volto alla giornata. Ci sono madri che negano ai padri questo diritto, negandogli quindi di vivere. Ci sono padri che passano notti insonni, subiscono alienazioni genitoriali, telefonate interrotte col figlio, abbracci fugaci coi loro piccoli, figli manipolati, menzogne; assistono ad accordi violati, aggressioni al patrimonio. Padri che si ritrovano in un’aula di tribunale a lottare per un diritto sacrosanto: essere padri. Padri che vivono il figlio come ostaggio, vile merce di scambio, strumento di vendetta. Ci sono padri che non vivono, lavorano più serenamente. Ci sono padri che si impoveriscono, perché il loro patrimonio è preso di mira, perché scambiati per sanguisuga sotto la celebre frase “essere un padre presente”. Che finiscono a fare la coda alla mensa dei poveri o dormono in auto. Ci sono padri che hanno sconvolgimenti esistenziali non più riparabili, destinati a restare inchiostro d’odio. Ci sono padri negati. Uno dei maggiori drammi della società moderna: le unioni finiscono e si oppongono le madri con “violenza” negando loro l’esercizio della condivisione genitoriale nella crescita del figlio. Il legislatore è intervenuto con la legge dell’8 febbraio 2006, n.54 (separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), capovolgendo il sistema allora vigente, in base al quale i figli venivano affidati a uno dei genitori secondo il prudente apprezzamento del presidente del tribunale o del giudice o secondo le intese raggiunte dai coniugi. Le nuove norme attuano il principio della bigenitorialità riconoscendo ad entrambi i genitori il diritto di essere realmente tali verso il bimbo e il contestuale diritto del bimbo di essere cresciuto da entrambi. Il principio è fondamentale ma in una situazione conflittuale è difficile metterlo in pratica, soprattutto se la forbice tra i genitori: educazione, residenze, abitudini, si allarga. Diventa dunque essenziale il ruolo del giudice e degli avvocati che assistono le parti. C’è bisogno di un’applicazione della legge con equilibrio, saggezza e responsabilità, dai giudici minorili e che gli avvocati che assistono i genitori in tale delicato conflitto siano innanzitutto competenti, esperti e responsabili. Ruolo determinante è giocato dal Tribunale per i Minorenni, con la sua equipe, formata da assistenti sociali, che dovranno nel caso relazionare dopo una serie di incontri con la coppia conflittuale, capire gli atteggiamenti, le emotività, dei bambini e suggerire, indirizzando il giudice verso una sentenza saggia, equa e che giunta nell’interesse dell’unico innocente: il bambino, vittima di un amore finito male, che di odio covato e di un amore che gli viene negato. Per cui è bene che i genitori si passino una mano sulla coscienza ma che lo faccia anche la legge che non resti ferma e inapplicata come nel caso di Gaetano che attende ancora di poter essere un padre e che rappresenta tanti altri padri in attesa di una sentenza o in attesa che questa sia rispettata.

(Articolo pubblicato per il mio blog “Pagine sociali” per ildenaro.it)

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Biotestamento, lo Stato sancisce per gli italiani l’autodeterminazione alle cure

 Un giorno raro, che accompagna anche la speranza che sia sempre meno raro, in cui Politica ed Istituzioni si sono incontrate e coese. Un giorno che ha sancito un Paese più libero, più democratico, più civile. Ieri, dopo uno stallo durato otto mesi e forti tensioni della maggioranza tra Pd e centristi, appelli di senatori a vita e sindaci di tutta Italia, il biotestamento, ha incassato il via libera definitivo dell’aula di Palazzo Madama ed è diventata legge dello Stato. Il biotestamento è la manifestazione delle volontà sui trattamenti ammessi o esclusi nelle fasi finali dei una malattia. La legge afferma il diritto del malato di decidere Se e Come farsi curare anche quando non sarà più in grado di esprimersi. Il paziente manifesterà le sue decisioni per iscritto o in un audio con le “Disposizioni anticipate di trattamento” (Dat). Ci sarà un “fiduciario”, una persona incaricata di far rispettare le volontà contenute del Dat, quando il malato non ha più la possibilità di pronunciarsi. In caso di nuove cure possibile successive alle disposizioni dettate dal paziente, questo si potrà confrontare con il fiduciario e valutare se modificare le volontà. Il malato potrà anche rifiutare idratazione e nutrizione, seppur terapie prescritte dal medico, da parte sua il medico potrà rifarsi all’obiezione di coscienza ma la struttura sanitaria deve attuare la volontà del paziente. La legge ha incontrato gruppi politici favorevoli al biotestamento ma anche gruppi parlamentari cattolici che si sono opposti, per i quali sospendere le cure equivale al suicidio assistito. Un passo storico, è definito da molti all’indomani dell’approvazione della legge, molti i cittadini che si sono espressi favorevoli, in nome del principio di autodeterminazione. Quando la vita rischia di perdere dignità per molti la strada percorribile è quella di sospendere le cure, ma tenendo conto della volontà della persona interessata, a sancirlo il principio di autodeterminazione che è la base fondante del biotestamento. Compilare il proprio testamento biologico ha un valore profondamente educativo, obbliga, ognuno di noi a confrontarsi con se stesso, con i temi esistenziali, a dibatterli, a chiedersi come sia più giusto o più adeguato a concludere la propria vita e di conseguenza il proprio ciclo biologico. Una riflessione personale quanto collettiva. Ragionare sul tema del testamento biologico è importante: non solo per il riconoscimento di un diritto ormai accertato per tutti – il consenso informato da parte del paziente al rifiuto delle terapie-, quanto alla possibilità di riflettere e interrogarci su temi cruciali come quello dei diritti e delle volontà nelle fasi finali della propria vita. L’alternativa, se la legge non fosse passata, sarebbe stata quella di andare avanti da soli, cercandosi magari un bravo tatuatore così come avvenne qualche anno, quando un paziente di settant’anni giunto al pronto soccorso in condizioni precarie e tutti i tentativi di risvegliarlo si erano rivelati inutili. Ma, sul petto del paziente era tatuata una scritta “non resuscitare” con firma connessa e tatuata. I medici nel primo tentativo ignorarono la scritta, nel frattempo un’assistente sociale recuperava un documento ufficiale, così che quando le condizioni del paziente peggiorarono lo condussero alla morte: senza che i medici ricorressero alla rianimazione cardiopolmonare o ad altre tecniche di assistenza respiratoria. Con il testamento biologico si potrà mettere nero su bianco senza doverlo tatuare sulla pelle. La legge sul fine vita mette al centro di tutto il paziente, unico ammalato e sofferente, soggetto che ha capacità di agire quando scriverà le sue volontà e nessuno potrà sostituirsi a lui, neanche l’equipe multidisciplinare composta dall’assistente sociale, dallo psicologo, dai medici specialisti che vorranno fare da ponte nelle dimissioni protette con la famiglia, per cui obbliga tutti noi professionisti a confrontarsi con un principio sacrosanto ed esistente da sempre, anche nel codice deontologico degli assistenti sociali: l’autodeterminazione dell’utente, capace di agire, libero nelle sue scelte e nessuno potrà sostituirsi a lui, neanche nella sua volontà di morire e smettere di combattere, obbligando tutti noi a lasciare le nostre convinzioni e accettare la volontà del paziente.

(Articolo pubblicato per il mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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Lite tra i genitori sui vaccini per il figlio, il Tribunale: Servizi sociali garantiscano cure e istruzione…

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messE’ la prima volta che accade, a decidere per il bambino saranno i servizi sociali su indicazione del Tribunale che sostituiranno i genitori. Il padre accusa la moglie, convinta no-vax, di impedire al piccolo anche di socializzare. Ora gli assistenti sociali dovranno verificare se il bimbo può fare o meno le vaccinazioni obbligatorie, se ottiene le cure necessarie e se frequenta regolarmente la scuola. Tocca ai servizi sociali prendere le decisioni sulla sua salute, oltre a quelle sull’istruzione e sull’educazione. Si è pronunciato così nelle scorse settimane il Tribunale per i minori di Milano che ha risolto il dissidio tra due genitori, che da tempo non stanno insieme, riguardo a figlio, che ha 4 anni. I rapporti sono tesi e conflittuali tra i due genitori, ed uno degli argomenti di dissidio è proprio il tema vaccini. La madre non vuole farli, il padre invece sì. Fino ad ora l’ha avuta vinta la madre ed il bimbo non è mai entrato in un ambulatorio per le iniezioni, ma in concomitanza con la legge che ha previsto l’obbligatorietà per l’iscrizione a scuola di questi strumenti di prevenzione, i giudici hanno deciso di affidare le cure del piccolo ai servizi sociali, i genitori verranno avvertiti e se non seguiranno le indicazioni dei servizi il figlio potrebbe essere collocato fuori dalla famiglia. Bambini e vaccini, un binomio che tiene banco da mesi: per iscrivere i bambini alla scuola dell’infanzia da 0-6 anni è obbligatorio vaccinarli, per la scuola dell’obbligo invece aumentano da dieci a trenta volte le sanzioni per i genitori che non eseguono la profilassi per i figli. Aumentato anche il numero delle vaccinazioni obbligatorie. Sono le disposizioni contenute nel decreto varato dal Consiglio dei Ministri che reintroduce l’obbligatorietà delle vaccinazioni. Negli ultimi anni c’è stato un abbassamento del livello di protezione anche per il diffondersi di comportamenti e teorie anti-scientifiche e per le diverse risposte delle regioni in mancanza di un indirizzo generico. Le misure prese con la dovuta gradualità intendono assicurare ai bambini livelli di protezione più elevati di quella attuale. Teorie, idee dei genitori, il web che incalza con consigli, alimentando sempre più paure, così in Italia negli ultimi anni si è creato un vero e proprio allarmismo intorno al mondo dei vaccini, causando un calo del 5%, così molti bambini non sono stati vaccinati e sono rimasti vittime innocenti di ideologie e teorie anti-scientifiche. Eppure, fino a qualche anno fa le Asl avevano l’obbligo di segnalare al Tribunale per i Minorenni, che allertava gli assistenti sociali, i genitori che non si presentavano alle vaccinazioni, ma la mole di segnalazioni ha obbligato i Tribunali a richiedere alle Asl lo stop delle segnalazioni, intervenendo solo nei casi di bambini già segnalati al Tribunale per altri motivi, così da richiedere nell’indagine socio-familiare affidata all’assistente sociale del caso di contattare anche l’Asl e di capire quali e quanti vaccini il bambino o l’adolescente seguito aveva ricevuto negli anni, chiedendo poi durante il colloquio coi genitori il motivo per cui eventualmente si erano sottratti dalla somministrazione del vaccino, ciò corrispondeva in termini sociali e giuridici ad una trascuratezza dei compiti genitoriali, ad un venir meno della responsabilità genitoriale oggi divenuta capacità genitoriale. Insomma un’evoluzione giuridica che era andata regredendo ma oggi col nuovo decreto che sancisce l’obbligatorietà dei vaccini ed inoltre la recente sentenza del Tribunale di Milano mettono fine a qualsiasi ideologia genitoriale anti vaccino e a qualsiasi forma di dimenticanza in tema di vaccinazione da parte dei genitori.

(Articolo pubblicato per ildenaro.it)

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