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Non si ferma la piaga della violenza sulle donne, ancora troppe le falle nel sistema di tutela

Uccise in casa e fatte a pezzi, strangolate, violentate, pugnalate e massacrate di botte fino alla morte. Femminicidi vittime dei loro compagni, mariti, o di uomini che conoscevano appena. Umiliate, sottomesse, annientate da uomini maschilisti che confondono l’amore col possesso, vittime silenziose della violenza domestica, l’altra forma della violenza sulle donne: violenza psicologica che si fonde anche alla violenza fisica da parte di uomini che ogni giorno colpiscono psicologicamente la donna da amare e talvolta si scagliano fisicamente contro di loro, picchiandole e colpendole. Tra le mura domestiche di famiglie apparentemente felici e sane si nasconde terrore e violenza, anche quella assistita dai propri figli, che ogni giorno vivono di paura e d’angoscia, compromettendo la loro salute psico-fisica. Non è raro che molti bambini soffrono di disturbi del linguaggio, disturbi psico motori e del sonno. Crescita che rischia di minare la loro vita da adulti e le loro relazioni sentimentali. Il modello rischia di ripetersi: violenza su violenza, o subire la violenza perché quello è l’unico modello che hanno conosciuto. Violenza che diventa trasversale, quando l’uomo uccide un figlio per colpire la donna. E’ risaputo che l’unico amore indissolubile per una donna è quello per un figlio ed è proprio quelle creature che colpiscono gli uomini violenti per creare un dolore immenso alla donna. Ci sono donne che purtroppo sono vittime perché nelle loro famiglie la violenza è l’unica forma d’amore che hanno conosciuto. Nella mente la donna giustifica l’aggressore “se si arrabbia e mi picchia vuol dire che ci tiene”, o “era solo uno schiaffo ma non mi fa mancare nulla”. Il problema nasce nella relazione di coppia, la dinamica a due: in queste relazioni accade che la donna cerca di curare il suo partner giustificando gli atteggiamenti violenti quando è lei stessa che necessita di cure. A sua volta il compagno non cambia e aumenta l’escaletion di aggressività fino ad arrivare in alcuni casi anche ad ucciderla. Gli strumenti sociali e legislativi per aiutare le donne ci sono, ma spesso non bastano. Le leggi nascono in Parlamento e non a contatto con la realtà. La vittima viene supportata dai CAV – Centri Antiviolenza o in alcuni casi collocata insieme ai figli in una casa rifugio, un posto segreto, sentendosi quasi reclusa, costretta a nascondersi come se avesse commesso lei il reato mentre l’uomo è libero di vivere la sua vita sociale. In alcune realtà la donna non viene immediatamente supportata psicologicamente, rischiando di venire meno alla protezione, ritornando con i loro aguzzini. E’ un meccanismo arrugginito che spesso avviene nelle piccole realtà di provincia dove si è ancorati alle tradizioni e dove la violenza da parte degli uomini viene spesso giustificata. E’ importante che anche la mentalità cambi, abbandonando la logica del subire come avveniva nel passato, attivando percorsi di sostegno e supporto psicologico e morale a favore delle donne, lavorando nella ri-costruzione del sé fortemente indebolito dalla violenza nonché nel rafforzare le reti di supporto, iniziando dalla famiglia. Spesso le donne vittime di violenza si ritrovano totalmente isolate dai propri cari e dalle amicizie, l’uomo violento l’ha allontanata dagli affetti e dalle persone a lei care, è importante aiutarla a rinforzare queste reti. Nel frattempo l’Italia arranca in un fenomeno in continua crescita e che spaventa ogni giorno. Un mondo sommerso che rischia di non venire mai a galla. Nel mentre l’Italia ha dato vita al nuovo Piano antiviolenza, ispirato alle linee guida della Convenzione di Instabul. “3P”: prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire i crimini. Presentato dalla ministra per le Pari opportunità, Elena Bonetti, che lo ha definito una bozza di intenti, nel quale ha aggiunto che andranno individuati “livelli di responsabilità, delle risorse occorrenti e della relativa tempistica. Vale a dire: ci vorrà tempo, frase che un po’ destabilizza. Il nuovo piano dovrebbe rafforzare le falle del precedente, perché vi esisteva un vecchio piano antiviolenza, e  dunque su pilastri: prevenzione, protezione e sostegno delle vittime, punizione dei colpevoli e assistenza e promozione. Tra le novità, c’è senz’altro, un’attenzione maggiore sul contrasto alla violenza economica attraverso l’educazione finanziariadelle donne con tirocini retribuiti e norme per favorire l’inserimento lavorativo al fine di realizzare l’obiettivo più generale dell’empowerment delle donne. Tra le priorità individuate dal piano c’è anche quella di aumentare il livello di consapevolezza nella pubblica opinione e nel sistema educativo e formativo sulle radici strutturali, sulle cause e sulle conseguenze della violenza maschile sulle donne e promuovere la destrutturazione degli stereotipi alla base della violenza. Perché una cosa è certa, senza dubbio bisogna intervenire ma bisogna anche prevenire lavorando sulle nuove generazioni insegnando loro il rispetto per sé e per gli altri senza distinzione di genere. Trasmettendogli il valore che la relazione a due deve essere un motivo di crescita, di confronto e di accettazione, non di possesso o vista come una violazione di confine.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Non si ferma la piaga della violenza sulle donne, ancora troppe le falle nel sistema di tutela

Uccise in casa e fatte a pezzi, strangolate, violentate, pugnalate e massacrate di botte fino alla morte. Femminicidi vittime dei loro compagni, mariti, o di uomini che conoscevano appena. Umiliate, sottomesse, annientate da uomini maschilisti che confondono l’amore col possesso, vittime silenziose della violenza domestica, l’altra forma della violenza sulle donne: violenza psicologica che si fonde anche alla violenza fisica da parte di uomini che ogni giorno colpiscono psicologicamente la donna da amare e talvolta si scagliano fisicamente contro di loro, picchiandole e colpendole. Tra le mura domestiche di famiglie apparentemente felici e sane si nasconde terrore e violenza, anche quella assistita dai propri figli, che ogni giorno vivono di paura e d’angoscia, compromettendo la loro salute psico-fisica. Non è raro che molti bambini soffrono di disturbi del linguaggio, disturbi psico motori e del sonno. Crescita che rischia di minare la loro vita da adulti e le loro relazioni sentimentali. Il modello rischia di ripetersi: violenza su violenza, o subire la violenza perché quello è l’unico modello che hanno conosciuto. Violenza che diventa trasversale, quando l’uomo uccide un figlio per colpire la donna. E’ risaputo che l’unico amore indissolubile per una donna è quello per un figlio ed è proprio quelle creature che colpiscono gli uomini violenti per creare un dolore immenso alla donna. Ci sono donne che purtroppo sono vittime perché nelle loro famiglie la violenza è l’unica forma d’amore che hanno conosciuto. Nella mente la donna giustifica l’aggressore “se si arrabbia e mi picchia vuol dire che ci tiene”, o “era solo uno schiaffo ma non mi fa mancare nulla”. Il problema nasce nella relazione di coppia, la dinamica a due: in queste relazioni accade che la donna cerca di curare il suo partner giustificando gli atteggiamenti violenti quando è lei stessa che necessita di cure. A sua volta il compagno non cambia e aumenta l’escaletion di aggressività fino ad arrivare in alcuni casi anche ad ucciderla. Gli strumenti sociali e legislativi per aiutare le donne ci sono, ma spesso non bastano. Le leggi nascono in Parlamento e non a contatto con la realtà. La vittima viene supportata dai CAV – Centri Antiviolenza o in alcuni casi collocata insieme ai figli in una casa rifugio, un posto segreto, sentendosi quasi reclusa, costretta a nascondersi come se avesse commesso lei il reato mentre l’uomo è libero di vivere la sua vita sociale. In alcune realtà la donna non viene immediatamente supportata psicologicamente, rischiando di venire meno alla protezione, ritornando con i loro aguzzini. E’ un meccanismo arrugginito che spesso avviene nelle piccole realtà di provincia dove si è ancorati alle tradizioni e dove la violenza da parte degli uomini viene spesso giustificata. E’ importante che anche la mentalità cambi, abbandonando la logica del subire come avveniva nel passato, attivando percorsi di sostegno e supporto psicologico e morale a favore delle donne, lavorando nella ri-costruzione del sé fortemente indebolito dalla violenza nonché nel rafforzare le reti di supporto, iniziando dalla famiglia. Spesso le donne vittime di violenza si ritrovano totalmente isolate dai propri cari e dalle amicizie, l’uomo violento l’ha allontanata dagli affetti e dalle persone a lei care, è importante aiutarla a rinforzare queste reti. Nel frattempo l’Italia arranca in un fenomeno in continua crescita e che spaventa ogni giorno. Un mondo sommerso che rischia di non venire mai a galla. Nel mentre l’Italia ha dato vita al nuovo Piano antiviolenza, ispirato alle linee guida della Convenzione di Instabul. “3P”: prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire i crimini. Presentato dalla ministra per le Pari opportunità, Elena Bonetti, che lo ha definito una bozza di intenti, nel quale ha aggiunto che andranno individuati “livelli di responsabilità, delle risorse occorrenti e della relativa tempistica. Vale a dire: ci vorrà tempo, frase che un po’ destabilizza. Il nuovo piano dovrebbe rafforzare le falle del precedente, perché vi esisteva un vecchio piano antiviolenza, e  dunque su pilastri: prevenzione, protezione e sostegno delle vittime, punizione dei colpevoli e assistenza e promozione. Tra le novità, c’è senz’altro, un’attenzione maggiore sul contrasto alla violenza economica attraverso l’educazione finanziariadelle donne con tirocini retribuiti e norme per favorire l’inserimento lavorativo al fine di realizzare l’obiettivo più generale dell’empowerment delle donne. Tra le priorità individuate dal piano c’è anche quella di aumentare il livello di consapevolezza nella pubblica opinione e nel sistema educativo e formativo sulle radici strutturali, sulle cause e sulle conseguenze della violenza maschile sulle donne e promuovere la destrutturazione degli stereotipi alla base della violenza. Perché una cosa è certa, senza dubbio bisogna intervenire ma bisogna anche prevenire lavorando sulle nuove generazioni insegnando loro il rispetto per sé e per gli altri senza distinzione di genere. Trasmettendogli il valore che la relazione a due deve essere un motivo di crescita, di confronto e di accettazione, non di possesso o vista come una violazione di confine.

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Violenza sulle donne, numeri e storie di una piaga sociale

Il 25 novembre, si celebra la Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne. I numeri sono da piaga sociale: tre donne su dieci hanno subito vessazioni. E in troppe ancora non denunciano. Picchiate tra le mura domestiche, violentate per strada, vittime di cyber bullismo. Donne vittime di violenze fisiche e sessuali, persecuzione e stalking. Uccise dalla violenza dei loro compagni. Una giornata, quella del 25 novembre, destinata ad essere una data simbolo per far riflettere collettivamente sulla gravità di un fenomeno che non accenna ad arrestarsi. La crescita del fenomeno è capillare in tutto lo stivale, senza distinzione tra Nord e Sud, con un’unica differenza che dal centro nord ci sono più organizzazioni di aiuto rispetto al sud, dove è ancora viva la cultura della riservatezza ad ammettere che si subisce violenza, per paura ma soprattutto per vergogna delle dicerie di paese. La pandemia non ha aiutato. Il coronavirus fuori e il proprio compagno violento dentro casa. Le restrizioni anti contagio imposte dal Governo non hanno aiutato tante donne che hanno dovuto affrontare una doppia paura e un doppio nemico. Secondo l’Istat le chiamate al numero antiviolenza 1522, durante il lockdown è stato intorno al 73%; ma il 72,8% non denuncia il reato subito. Sono invece 32 le vittime uccise da gennaio a giungo 2020. Il coronavirus non ferma la violenza sulle donne, ma cambia solo la narrazione. Raccontando di una realtà falsata: un crimine vero e proprio finisce sotto la dicitura “il dramma delle convivenza forzata”. La convivenza forzata con un uomo violento, ha peggiorato ulteriormente situazioni insostenibili, accelerando le aggressioni più frequentemente e talvolta con violenza, come avviene ad esempio durante le festività, i periodi estivi o durante i weekend. Un elemento resta costante: il tutto avviene per mano di uomini violenti.

Un fenomeno che sembra inarrestabile, eppure si può contare sul sistema legislativo che negli anni ne ha fatto una priorità, oggi, infatti, è in essere la legge n. 69/2019 ribattezzata “codice rosso”, che ha modificato il codice di procedura penale, con l’intento di favorire un percorso prioritario di trattazione di questi procedimenti a tutela delle vittime. La legge, obbliga la polizia giudiziaria a “riferire immediatamente al pubblico ministero anche in forma orale” – con l’intento di abbattere i tempi delle indagini, mentre il PM (Pubblico Ministero) dovrà trattare il caso assumendo “entro 3 giorni” informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti. Senza dubbio c’è molto da fare nella sua applicabilità soprattutto in termini di personale da impiegare, la carenza d’organico e la mole di lavoro degli uffici giudiziari si ripercuote anche in tematiche così delicate e complesse. Ma denunciare è importante, il primo passo – seppur difficile- verso un nuovo inizio. Eppure tante donne non lo fanno, quelle che invece lo fanno, spesso non sono costanti, ritirano poco dopo la loro denuncia, talvolta ritornano anche con l’uomo maltrattante, e spesso non per timore, ma per senso di amore – che di fatto è solo accudimento, sintomo di “crocerossina”.

In psicologia si parla ormai da anni di “ciclo della violenza” costituito da vere e proprie fasi che puntualmente si succedono in maniera ripetitiva. Sono state individuate da Walker e sono quattro, questo può aiutarci a capire e talvolta a comprendere perché spesso le donne ritirano la denuncia e con fatica l’opinione pubblica accetta e metabolizza questa scelta.

  • Fase dell’accumulo di tensione: vi è un graduale aumento della tensione caratterizzato da litigi frequenti e atteggiamenti violenti. Non vi è una durata stabilita, può perdurare anche per settimane. In questa fase possono presentarsi anche scenate di gelosia o grida.  La violenza e gli insulti agli occhi della vittima vengono percepiti sporadici, mentre l’aggressore vive sbalzi d’umore e si arrabbia per futili motivi. La vittima cerca di calmarlo e adotta comportamenti che possano non irritare il compagno. E’ proprio in questi momenti che la donna si colpevolizza.
  • Fase dell’aggressione: è una fase breve e sfocia nella violenza vera e propria. La vittima è anietata ed incredula, isolandosi da ciò che succede, infatti, molte donne prima di chiedere aiuto lascia passare molti giorni.
  • Fase del pentimento. In questa fase l’aggressore si presenta mite e pacato, pentito, servendosi di strategie: regali e promesse. La vittima si auto convince che non accadrà più, per questo motivo non chiede aiuto. E quelle che hanno denunciato, hanno iniziato a trovare equilibrio interiore e si convincono che quell’unione possa continuare.
  • Fase della riconciliazione. Maltrattante e maltrattato tornano a vivere insieme. L’apparente calma e il comportamento affettuoso dell’aggressore fanno credere alla vittima che sia cambiato davvero. Questa fase finisce quando dalla calma si passa nuovamente alle discussioni e vessazioni.

Per porre fine al ciclo della violenza, la vittima deve essere consapevole della sua situazione, senza motivazione e consapevolezza nessun aiuto sarà efficace.

“Qualsiasi momento del giorno o della notte è quello giusto per dire basta e porre fine a una fase della tua vita che vorresti non aver mai vissuto.”
Raunda de Penaflor

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Effetti del Covid-19, le coppie potranno divorziare via mail

untitledC’eravamo tanto amati, ma ci diciamo addio con una mail. In tempo di pandemia dirsi addio dopo anni d’amore e d’unione matrimoniale è diventato a portata di click. Lo avevamo immaginato che questo virus avrebbe cambiato le nostre abitudine e avrebbe inciso non poco in molti settori e infatti, una delle cose che la pandemia da Coronavirus ci ha fatto riscoprire, è quanto sia diventato facile ridurre i tempi burocratici- spesso molto lunghi- grazie all’apporto del digitale. Anche in un settore, come quello della giustizia, dove velocizzare sembrava un’utopia. Così considerato il differimento delle udienze in programma a causa dell’emergenza epidemiologica ed il rinvio prossimo in considerazione dell’estate, la tanto agognata semplificazione è diventata fattibile. La pandemia ha cambiato le regole e le procedure per le richieste di divorzi e separazione dei coniugi. La soluzione che i Tribunali hanno individuato anche per rispettare le norme sul distanziamento sociale per il contenimento del contagio, è l’udienza virtuale nei casi in cui la separazione ed il divorzio trovino consenso tra gli ormai quasi ex coniugi, ovvero, per le procedure dove le coppie hanno già trovato un’intesa sui termini pratici dell’addio. Il Consiglio nazionale forense ha varato delle nuove linee guida sulla gestione dei procedimenti che hanno per oggetto la famiglia. Regole che sono divenute necessarie perché pur rispettando e comprendendo il periodo di stasi e sospensione, la vita di relazione delle persone non può rimanere cristallizzata per mesi, considerato – recitano le linee guida- “la salute è da tutelare, ma la famiglia non è da meno.” E tutti i procedimenti in materia-si legge nelle linee guida- sono intrinsecamente connotati d’urgenza. In molti tribunali del Nord Italia, da fine aprile, chiunque voglia presentare ricorso per la separazione consensuale potrà farlo in via telematica attraverso un protocollo ad hoc previsto. Quindi, moglie e marito dichiareranno con atto separato di essere informati della possibilità di procedere senza la loro presenza fisica e di aver aderito liberamente e coscientemente, oltre che di non averci ripensato e ribadendo la loro volontà a non riconciliarsi. I ricorsi dovranno essere inviati tramite l’utilizzo di una pec e con sottoscrizione da entrambe le parti. Una formula che lascia chiedersi se sarà il futuro in tema di separazione, seppur è ancora da capire se funzionerà. Per adesso viene applicata in alcuni tribunali in altri non viene neppure esplorata. Eppure la pandemia non ha fatto riscoprire a molti il piacere di stare in coppia, anzi in molti stati del mondo e non solo, i divorzi sono aumentati a causa della quarantena. E in Italia cosa accadrà alle coppie in post quarantena? Certamente la gestionale familiare, gli spazi da condividere, il lavoro da casa, le lunghe giornate tra le sole mura domestiche, hanno lavorato contro chi era forse già un po’ a rischio. E ora, potendo ritornare fuori casa, potrebbe essere più deciso a mettere fine alla propria relazione, se non altro per ritrovare un equilibrio umano che in coppia non funzionava. Una vera e propria casistica italiana, ad oggi non è possibile farla, di certo però ci sarà una mole di separazioni accantonate da gestire nei tribunali italiani, mentre dovremmo attendere la fine totale del lokdown per comprendere quante “pause di riflessione” nelle coppie italiane ci sono state.

Un dato però sembra certo: secondo una proiezione del Censis, nel 2031 non saranno celebrati matrimoni nelle nostre chiese. Secondo l’indagine statistica ribattezzata “non mi sposo”, le nozze non saranno più il “baricentro della vita”. I matrimoni saranno superati e anche in via d’estinzione. Non saranno più considerati garanzia di un amore eterno né sinonimo di famiglia felice. Infondo, le conquiste di questi ultimi anni hanno giovato ai figli in primis, in quanto è stata-finalmente- superata la distinzione tra figli nati fuori e dentro il matrimonio, e le coppie di fatto hanno conquistato molti diritti. E se magari aggiungessimo anche future pandemie che potrebbero portarci a stretto contatto h24, il dato Censis potrebbe risultato quasi certo.

Ai posteri ardua sentenza.

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Ferite a morte. Pene dimezzate per gli orchi del femminicidio, una sconfitta per la società civile

untitledUno aveva agito in preda ad una “tempesta emotiva”, l’altro perché lei lo aveva “illuso”. Sentenze che pongono al centro il comportamento della vittima ed i sentimenti – sentenza dei “risentimenti” di un uomo che colpisce a morte la propria compagna di vita- pare proprio che abbia un peso nelle aule di tribunale. Una relazione altalenante e burrascosa o un’infanzia anaffettiva possono costituire attenuanti e alleggerire la condanna per un reato tanto agghiacciate e che non può trovare scusanti. Per entrambi gli autori di femminicidi, le pene per aver ucciso le moglie e le compagne hanno avuto una forte riduzione: da 30 a 16 anni di reclusione. Immediata l’indignazione. In un caso, il 57 enne emiliano, aveva confessato di aver strangolato a mani nude la compagna perché non accettava l’idea che lo lasciasse. Condannato a trent’anni in primo grado, la Corte d’Appello di Bologna ha dimezzato la pena a sedici anni, richiamando la perizia secondo cui l’uomo era in preda a una “soverchiante tempesta emotiva e passionale”, testimoniata dal tentativo di suicidio. Dieci giorno dopo la sentenza emiliana, la stessa pena viene inflitta al 52 enne ecuadoriano che nell’aprile del 2018 a Genova uccise accoltellando la moglie dopo aver scoperto che lei non aveva lasciato l’amante, come invece gli aveva promesso. Nel suo caso il rito abbreviato gli ha concesso una condanna a sedici anni. Il giudice nella sentenza ha scritto che l’uomo era stato mosso da un “misto di rabbia e disperazione, profonda delusione e risentimento” e avrebbe agito – sempre stando a quanto scrive il giudice – “sotto una spinta di uno stato d’animo intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile”. Le sentenze vanno rispettate, ma anche le vittime e le famiglie che restano a piangere dovrebbero esserlo: considerare ogni caso singolarmente e concedere riti speciali sono quando ritenuto opportuno potrebbe essere un primo passo. Quando i giudici scrivano che lo stato d’animo dell’ecuadoriano “non è umanamente del tutto comprensibile” sembra proprio che affermino che è umanamente comprensibile, lasciando trasparire tra le righe una sentenza di condanna all’atteggiamento fedifrago e contraddittorio della moglie. Lei gli ha solo promesso qualcosa che non ha mantenuto: fedeltà continua. Non è la prima e non sarà l’ultima donna a tradire il proprio compagno di vita, bisogna solo capire se questo debba essere considerato come un’aggravante o un’attenuante, quando dall’infedeltà si passa all’omicidio. Ma non sarà il primo né l’ultimo uomo al mondo ad aver avuto un’infanzia infelice e ad essere preda a “soverchiante tempesta emotiva e passionale” come nel caso del 57 enne emiliano. Nei cosiddetti delitti passionali e in tutti i femminicidi compiuti da uomini che non accettano di essere lasciati, ci sarà una componente emotiva. Una donna che decide di lavorare, una ragazza che decide di lasciare il proprio fidanzato, ogni donna che sceglierà provocherà una reazione emotiva, che non possono in alcun modo diventare attenuanti, non solo in fase processuale, ma ancor di più nella nostra cultura. La percezione che nasce da queste sentenze è che ci sia un ritorno al “delitto d’onore” che in passato era previsto nei casi di omicidio commesso da un uomo o da una donna nei confronti di un parente per “difendere l’onore suo e della sua famiglia” in caso di tradimento. Le analogie con il caso di Genova riguardano il legame di parentela tra omicida e vittima, e il più mite trattamento sanzionatorio, che nel caso del delitto d’onore prevedeva fino a un massimo di sette anni di carcere. Rievocarlo è suggestivo, ma le similitudini si possono constatare. Intanto, ci si chiede a che punto sia l’iter di approvazione del “codice rosa” che prevede una corsia preferenziale per le donne che denunciano abusi e violenze. Il testo sarebbe “un punto di svolta importante” –ha affermato il titolare della giustizia Alfonso Bonafede. Nel presente però queste sentenze hanno un forte impatto sull’opinione pubblica e stiamo correndo un duplice rischio: che la pena risenta della sensibilità dei giudici e che qualcuno inizi o ricominci a considerare il comportamento di una donna come la causa di una reazione violenta, di un atteggiamento prevaricatore, di un omicidio. E questo non possiamo permetterlo. Un paese democratico, un paese che tutela i diritti, che tutela le donne, che scende in piazza tra scarpe rosse e fiaccolate, non può permetterlo.

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Giustizia, cosa cambia con la riforma dell’ordinamento penitenziario

imagesPiù misure alternative al carcere esclusi i reati più gravi. Questo il cardine della riforma dell’ordinamento penitenziario, approvata in Consiglio dei Ministri. Il sovraffollamento è il senso delle nuove misure, aumenta il rischio che la pena non sia rieducativa, da qui il potenziamento della rieducazione come del reinserimento sociale. Stabilite poi maggiori tutele per i diritti dei detenuti in termini di salute, identità di genere, incolumità personale, oltre ad una nuova disciplina per i colloqui con i familiari e per l’uso delle tecnologie informatiche all’interno del carcere. Il testo dovrà ora tornare alle Commissioni parlamentari per l’ultimo vaglio, ma, intanto non è esente dalla polemica politica. All’attacco il centro destra: da Fratelli d’Italia, alla Lega, che promettono battaglia. “Non è un salva ladri, né uno svuota carceri” ha precisato il guardasigilli Orlando, che ha spiegato che si dovrà valutare il comportamento del detenuto e ammetterlo a misure alternative al carcere, che prevedono percorsi di lavoro e di servizio sociale, che gli consentono di restituire qualcosa di quello che ha tolto alla società e di non essere recidivo. Misure che mirano ad abbattere il muro delle recidive, che resta il più alto in Europa, seppur in Italia si spende quasi 3 miliardi l’anno per il trattamento dei detenuti, così come confermato da Orlando. L’obiettivo principale della riforma è rendere attuale l’ordinamento penitenziario previsto dalla legge di riforma penitenziaria 354/1975, per adeguarlo ai successivi orientamenti della giurisprudenza della Corte Costituzionale, Corte di Cassazione e delle Corti europee. Quindi con soluzioni che non indeboliscano la sicurezza della collettività, infatti, non si estende la possibilità ai detenuti in regime di 41bis per reati di mafia e per i reati di terrorismo, ma si riporti al centro del sistema la finalità rieducativa della pena indicata anche dall’articolo 27 della Costituzione, ma anche facilitare la gestione del settore penitenziario e a diminuire il sovraffollamento. Un passo legislativo sui temi delicati come la salute psichica, l’accesso alle misure alternative, la vita interna alle carceri, i rapporti con l’esterno ed il sistema disciplinare. Carceri e condizioni disumane, da anni il dibattito infuoca il mondo politico e si pone al centro dell’attenzione. Dopo una flessione nel numero dei detenuti seguita dalla sentenza Torreggiani, con la quale la Corte europea dei diritti umani condannò l’Italia per trattamenti inumani e degradanti, negli ultimi tre anni si è assistito ad un aumento costante delle presenze in carcere. La riforma dell’ordinamento penitenziario, dovrebbe dare l’opportunità di tornare a far calare gli attuali numeri con ripercussioni positive sulla vita in carcere. Le questioni attualmente aperte, che riguardano le carceri italiane, che proprio a causa del sovraffollamento, non riescono a trovare soluzioni. Tra questi ad esempio la necessità di ampie ristrutturazioni degli istituti. In più della metà delle strutture ci sono celle senza doccia ed in molte celle manca l’ acqua calda, in violazione di quanto prevede la legge. Sovraffollamento e aumento dei suicidi si presentano così, oggi, gli istituti di pena italiani, destinati ad accogliere soggetti che trasgredendo le prescrizioni di legge, sono sanzionati con la pena. Condizioni disumane e poche opportunità di recupero, così come è nell’intento della riforma del ’75: la pena deve avere caratteri di rieducazione e reinserimento educativo e sociale. Una realtà, quella del sistema penitenziario rinnegata ed oscura per troppi anni, sino ad oggi, in questo colpo di coda del governo, che propone misure alternative che reinseriscano nella società con dignità e rispetto del detenuto e della comunità stessa, restando fermo nell’intento che spetta al magistrato di sorveglianza, così come detta anche il diritto penitenziario, ogni decisione in merito, valutando ogni singolo caso. La proposta di modifica dell’ordinamento penitenziario dalla sua ha un’apertura umana, dignitosa, ma restano ancora diritti come i minori e la sessualità da affrontare. L’auspicio è che la grossa maggioranza, fresca di vincitori, guardi anche al sistema carcerario, perché ci sono luoghi come le celle, dai quali ci si aspetta il loro regno con l’orecchio al suolo e le braccia intorno alla testa, cercando di emergere da quel braccio carcerario che oggi li tieni lì.

(Articolo pubblicato per il mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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Riforma della giustizia: via con la cancellazione dei Tribunali per i minorenni

 

img_0217Organo di garanzia suprema, nel panorama della giustizia viene definito uno dei più grandi uffici giudiziari per l’esercizio della giustizia in ambito minorile in Italia, è il Tribunale per i minorenni, caratterizzato da un bacino di utenza assimilato al distretto della Corte d’Appello. La riforma del processo civile, discussasi nelle scorse settimane in Senato, prevede la soppressione dei tribunali per i minorenni, sostituendoli con sezioni specializzate all’interno dei tribunali ordinari. La riforma scritta nel ddl 2284, già approvato alla Camera, in un articolo prevede la soppressione dei 29 tribunali per i minorenni italiani e delle procure minorili che saranno sostituiti da sezioni apposite all’interno dei tribunali ordinari. Il mondo della giustizia è in rivolta. Sono state presentate ben quattro proposte di stralcio. Da Nord a Sud si rincorrono convegni e petizioni, la più popolare lanciata su “Change.org” ha superato le 23mila firme. Firmatari nomi di spicco della magistratura e non solo: tra associazioni di settore e non. Eppure l’Europa ha indicato l’Italia come modello nella direttiva sul “giusto processo minorile”, ma il governo si muove nella direzione opposta. Il governo taglia la giustizia, con l’intento di razionalizzarne i costi, cancellando così i tribunali dopo quasi cento anni di storia. Non solo il settore della giustizia minorile si muove contrario alla soppressione ma anche quella ordinaria già fortemente gravata dai tagli e dal ridimensionamento del personale, inimmaginabile pensare anche di accollarsi le competenze riguardanti i minori: dalle funzioni penali alle adozioni. Inoltre, il trasferimento delle sezioni minorili nella macchina già congestionata dei tribunali ordinari dovrebbe avvenire a costo zero. I tribunali per i minori spesso intervengono prima che i ragazzi compiono reati, ciò che non potrebbe fare la giustizia ordinaria, incapace di mettere in atto un intervento di prevenzione, danneggiando così gli interessi e i diritti dei minori e delle loro famiglie. Difficile immaginare che una procura, che si occupa di questioni che vanno dal terrorismo alla corruzione, possa dedicare ampie risorse alle segnalazioni dei servizi sociali. O che possa pensare al futuro dei figli delle famiglie mafiose, come hanno cominciato a fare i tribunali per i minorenni di Reggio Calabria e Napoli. Non essendo più autonomi, i passaggi burocratici delle sezioni minorili potrebbero raddoppiare, con un abbassamento del servizio. E i ragazzi, finora protetti in un sistema giudicato tra i più avanzati al mondo, finirebbero per essere una delle tante incombenze, confusi tra gli adulti e le tante scartoffie. Il rischio maggiore che gli addetti ai lavori denunciano è la perdita della specializzazione che in questi anni ha reso l’Italia il fiore all’occhiello della giustizia minorile, separata da quella degli adulti. Grazie alla composizione mista dei tribunali minorili, fatta da giudici togati e onorari, esperti in pedagogia o psicologia, assistenti sociali, fa sì che il processo penale minorile sia diverso da quello per gli adulti, improntato invece in un’ottica di sanzione e punizione. Si tratta di una logica diversa: il ragazzo non solo viene visto come autore di reato, ma anche come vittima di una situazione familiare disagiata, quindi persona da supportare ed aiutare. Si punta non alla punizione del minore ma alla possibilità di offrirgli una seconda possibilità. Privilegiando l’ascolto, la conoscenza delle personalità e la sospensione del processo con la messa alla prova. Si punta non alla punizione del minore ma alla possibilità di offrirgli una seconda possibilità. Privilegiando l’ascolto, la conoscenza delle personalità e la sospensione del processo con la messa alla prova. E l’azione deve essere immediata, perché si tratta individui in crescita che non possono attendere passaggi e tempi lunghi della giustizia italiana. Spesso le segnalazioni di abusi e maltrattamenti che arrivano alle procure si risolvono solo con gli interventi dei servizi sociali, senza il ricorso al tribunale. E con l’arrivo dei tanti minori stranieri non accompagnati, gli uffici dei luoghi di approdo sono carichi di lavoro.
Chi si pone dall’altra parte della barricata, contrario alla soppressione non vuole solo che si mantenga lo stato attuale delle cose, ma chiede in tempi celeri una riforma del sistema, stabilendo procedure univoche, che ad oggi non esistono e maggiore informatizzazione. Ad oggi, manca una banca dati dei minori che vivono lontani dalla famiglia e dei bambini adottabili. La proposta che viene avanzata è quella di creare un unico tribunale rivolto alle famiglie, che accorpi tutte le competenze. Bisognerebbe tralasciare la logica dell’efficienza economica e ragionare in termini di efficacia e questa riforma ha proprio il segno dell’inefficacia.

(Articolo pubblicato su “ildenaro.it”)

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Melania Rea, Elena Ceste. Quando il sicario è in casa.

E’ un pugno allo stomaco il mucchio selvaggio di foto di mariti, fidanzati, conviventi, padri che hanno ammazzato la “loro” compagna di vita. Bacheche zeppe di madri, figlie, fidanzate, amanti assassinate, che da anni ci imbattiamo.
Molti uomini li abbiamo visti in salotti televisi in cui recitavano un “copione” ben definito. Lacrime e parole amorevoli, inviti alle loro consorti, mentre, ormai erano già morte e per mano loro.
Una carrellata di assassini. Facce normali. Facce semplici. Facce pulite. Facce serene. Facce spensierate. Facce “amorevoli”.
Eppure in loro si nascondeva la ferocia in un’esistenza apparentemente anonima.
“Strano, era tanto un bravo ragazzo…” “Mai dato problemi sul lavoro…” “Sempre così gentile, così educato”.
Uomini apparentemente “rassicuranti”, dall’animo feroce e assassino. E proprio per questo, messi tutti insieme, terribili.
“Sicari domestici”. L’uomo di casa diventa il proprio assassino. Melania Rea, Elena Ceste, forse anche Roberta Ragusa, uomini, mariti, padri assassini. Matrimoni e famiglie apparentemente felici eppure profondamente tristi e problematici.
Da una parte le donne che tentano di salvare il matrimonio, di tenere unite la famiglia, chiudono più di un occhio di fronte ai maltrattamenti, ai tradimenti, alla bugie, agli intrichi. Dall’altra gli uomini, spesso, con una doppia vita, con un’altra compagna, un altro piano ben premeditato ed una compagna di troppo.
L’amore e la passione non c’entrano nulla, né i “raptus” di follia. Gli omicidi di donne sono una vera e propria esclation di violenza, fino ad uccidere. Sono morti annunciate. Morte che camminano. Sono omicidi premeditati.
Questi uomini hanno il loro “nuovo progetto di vita”,un’altra famiglia,un’altra vita,nascondere i loro segreti,ma confido nella Giustizia,a cui da donna,da figlia,faccio appello affinché l’unico loro progetto di vita oggi e domani sia il carcere a vita ed una pena esemplare.
Solo così potremmo dare “pace” a quelle donne che non ci sono più.

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