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Ferite a morte. Pene dimezzate per gli orchi del femminicidio, una sconfitta per la società civile

untitledUno aveva agito in preda ad una “tempesta emotiva”, l’altro perché lei lo aveva “illuso”. Sentenze che pongono al centro il comportamento della vittima ed i sentimenti – sentenza dei “risentimenti” di un uomo che colpisce a morte la propria compagna di vita- pare proprio che abbia un peso nelle aule di tribunale. Una relazione altalenante e burrascosa o un’infanzia anaffettiva possono costituire attenuanti e alleggerire la condanna per un reato tanto agghiacciate e che non può trovare scusanti. Per entrambi gli autori di femminicidi, le pene per aver ucciso le moglie e le compagne hanno avuto una forte riduzione: da 30 a 16 anni di reclusione. Immediata l’indignazione. In un caso, il 57 enne emiliano, aveva confessato di aver strangolato a mani nude la compagna perché non accettava l’idea che lo lasciasse. Condannato a trent’anni in primo grado, la Corte d’Appello di Bologna ha dimezzato la pena a sedici anni, richiamando la perizia secondo cui l’uomo era in preda a una “soverchiante tempesta emotiva e passionale”, testimoniata dal tentativo di suicidio. Dieci giorno dopo la sentenza emiliana, la stessa pena viene inflitta al 52 enne ecuadoriano che nell’aprile del 2018 a Genova uccise accoltellando la moglie dopo aver scoperto che lei non aveva lasciato l’amante, come invece gli aveva promesso. Nel suo caso il rito abbreviato gli ha concesso una condanna a sedici anni. Il giudice nella sentenza ha scritto che l’uomo era stato mosso da un “misto di rabbia e disperazione, profonda delusione e risentimento” e avrebbe agito – sempre stando a quanto scrive il giudice – “sotto una spinta di uno stato d’animo intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile”. Le sentenze vanno rispettate, ma anche le vittime e le famiglie che restano a piangere dovrebbero esserlo: considerare ogni caso singolarmente e concedere riti speciali sono quando ritenuto opportuno potrebbe essere un primo passo. Quando i giudici scrivano che lo stato d’animo dell’ecuadoriano “non è umanamente del tutto comprensibile” sembra proprio che affermino che è umanamente comprensibile, lasciando trasparire tra le righe una sentenza di condanna all’atteggiamento fedifrago e contraddittorio della moglie. Lei gli ha solo promesso qualcosa che non ha mantenuto: fedeltà continua. Non è la prima e non sarà l’ultima donna a tradire il proprio compagno di vita, bisogna solo capire se questo debba essere considerato come un’aggravante o un’attenuante, quando dall’infedeltà si passa all’omicidio. Ma non sarà il primo né l’ultimo uomo al mondo ad aver avuto un’infanzia infelice e ad essere preda a “soverchiante tempesta emotiva e passionale” come nel caso del 57 enne emiliano. Nei cosiddetti delitti passionali e in tutti i femminicidi compiuti da uomini che non accettano di essere lasciati, ci sarà una componente emotiva. Una donna che decide di lavorare, una ragazza che decide di lasciare il proprio fidanzato, ogni donna che sceglierà provocherà una reazione emotiva, che non possono in alcun modo diventare attenuanti, non solo in fase processuale, ma ancor di più nella nostra cultura. La percezione che nasce da queste sentenze è che ci sia un ritorno al “delitto d’onore” che in passato era previsto nei casi di omicidio commesso da un uomo o da una donna nei confronti di un parente per “difendere l’onore suo e della sua famiglia” in caso di tradimento. Le analogie con il caso di Genova riguardano il legame di parentela tra omicida e vittima, e il più mite trattamento sanzionatorio, che nel caso del delitto d’onore prevedeva fino a un massimo di sette anni di carcere. Rievocarlo è suggestivo, ma le similitudini si possono constatare. Intanto, ci si chiede a che punto sia l’iter di approvazione del “codice rosa” che prevede una corsia preferenziale per le donne che denunciano abusi e violenze. Il testo sarebbe “un punto di svolta importante” –ha affermato il titolare della giustizia Alfonso Bonafede. Nel presente però queste sentenze hanno un forte impatto sull’opinione pubblica e stiamo correndo un duplice rischio: che la pena risenta della sensibilità dei giudici e che qualcuno inizi o ricominci a considerare il comportamento di una donna come la causa di una reazione violenta, di un atteggiamento prevaricatore, di un omicidio. E questo non possiamo permetterlo. Un paese democratico, un paese che tutela i diritti, che tutela le donne, che scende in piazza tra scarpe rosse e fiaccolate, non può permetterlo.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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“I nostri figli”, orfani anonimi del femminicidio

untitledNiente più fondi in manovra per gli orfani di femminicidio. Bocciata l’erogazione di dieci milioni di euro proposta dalla vicepresidente alla Camera, Mara Carfagna. La rabbia dei parenti è un pugno dritto allo stomaco. Un appello accorato e commovente, affidato alle colonne de “Il Corriere della Sera” da Renato, padre di una ragazza uccisa dall’uomo che diceva di amarla –ora in carcere con una condanna a 30 anni – e nonno nonché tutore dei nipotini. Nella sua lettera elencava, disperato, tutte le difficoltà anche economiche nell’affrontare la situazione. Nonostante esista una legge che garantisce un mantenimento ai figli rimasti senza un genitore a seguito di un omicidio commesso dall’altro coniuge, senza risorse diventa difficile il sostegno. Un emendamento di pochi giorni fa, ha bocciato l’incremento di 10 milioni di euro per le famiglie affidatarie dei minori orfani di femminicidio, soprattutto nel caso si tratti di zii, nonni o parenti a cui il minore è stato affidato per rispettare la continuità affettiva ma che versano in condizioni economiche disagiate o comunque non prospere. Le risorse erano individuate eliminando spese non produttive, dunque l’emendamento non chiedeva un euro in più ai contribuenti. Sono circa milleseicento i cosiddetti “orfani speciali” in Italia, molti di loro testimoni delle violenze subite dalla madre o addirittura spettatori dell’uccisione da parte del compagno. Orfani speciali che devono riuscire a fronteggiare e convivere con quelle profonde cicatrici che scenari del genere lasciano, ma soprattutto al trauma di una perdita genitoriale devono aggiungere l’incertezza del proprio destino. Il più delle volte sono le “vittime collaterali”: i familiari che rimangano a prendersi cura e che si trovano a fronteggiare problemi sia economici per il mantenimento delle vittime che psicologici. Terrore, tremori, fragilità. Poi lo scontro con la lenta e fredda burocrazia, è questa la vita degli orfani di femminicidio. Un incubo che investe le piccole vittime. Che fine fanno? La cronaca li investe di attenzioni per qualche giorno: il pensiero corre al trauma indelebile di quel che è accaduto, si sprecano commenti ed indignazione. Poi, il buio. Un velo di oblio cala sul loro immenso bisogno di attenzioni e cure, di diritti che le istituzioni oggi gli negano. Si tratta di vittime che non possono contare sul supporto dei servizi. Così ci si scontra con un’Italia di battaglie sul bene superiore dei minori, dove protocolli e percorsi pensati per chi sopravvive all’epidemia dei femminicidi – uno ogni tre giorni- non ne esistono, questi figli vengono dimenticati e l’anno successivo all’evento traumatico, quello decisivo, stando ai manuali di psicologia per evitare scelte estreme da parte loro, ci pensano nella maggioranza dei casi i nonni. Dolore al dolore, trauma su trauma, lutto su lutto. Montagne da scalare: i funerali, i processi, la burocrazia, l’affidamento, le domande insistenti dei piccoli sui loro papà, le difficoltà economiche delle famiglie affidatarie che devono fare i conti col dolore da mascherare e una vita da rimodulare e ridisegnare in funzione di un bambino orfano delle persone più importanti della propria vita, familiari consapevoli che un giorno la realtà andrà raccontata e rivissuta per quanto macabra e dolorosa. Alle vittime collaterali, si è ispirato il film “i nostri figli” andato in onda su Rai 1, lo scorso giovedì. Una grande storia d’amore, responsabilità e coraggio. Un racconto intenso, interpretato da Vanessa Incontrada e Giorgio Pasotti, genitori nel film di due bambini ed un matrimonio solido, mentre in Sicilia un’altra famiglia si sgretola per sempre: la cugina di lui viene uccisa dal marito ed i tre figli Luca, Giovanni e Claudio, vengono affidati a Roberto e Anna (Pasotti e Incontrada). La famiglia si allarga ma è difficile trovare un nuovo equilibrio, non mancano le difficoltà di inserimento, le difficoltà economiche, e i due protagonisti da buoni genitori fanno molti sacrifici, soprattutto quando lui perde la sua azienda. Un tassello alla volta, la tenacia e la responsabilità dei due genitori verso i loro cinque figli diventa una forma di impegno civile e nella quotidianità riescono a superare molti ostacoli pur di offrire un futuro tutto nuovo ai tre orfani. Il film è andato in onda proprio nelle ore in cui veniva bocciata la manovra che prevedeva più fondi agli orfani di femminicidio. Uno schiaffo in pieno volto questa bocciatura, se non altro perché arriva a distanza di poche settimana dal 25 Novembre, giornata mondiale contro la violenza sulle donne, in cui da Nord a Sud, si sono intitolate strade, si sono colorate panchine rosse, si sono susseguite manifestazioni e racconti di cronaca per invocare le donne sotto l’hastag #nonènormalechesianormale a reagire contro la violenza qualsiasi essa sia, ricordando le tante – troppe – donne uccise per mano dell’uomo che aveva professato di amarle. Ricordi che hanno visto il volto e la voce dei tanti figli orfani di femminicidio, che ogni giorno, secondo anche le testimonianze fanno i conti con la vergogna, sentimento quanto naturale e di reazione personale che scatta negli orfani. Piccole vittime che si porteranno dentro un vissuto ed un dolore troppo grande che non possono vivere da soli, è ciò che stanno urlando ad un Stato sino ad ora assente e carente di servizi. Eppure sono nostri figli, figli dello Stato, figli di questo mondo diventato crudele, geloso, beffardo, figli di uno Stato che non ha saputo proteggere e sorreggere in vita le loro mamme – molte di loro- hanno denunciato in vita i loro compagni, spesso invano. Siamo davvero sicuri di voler consegnare a questi ragazzi incertezza, precarietà e ancor più dolore?

(Articolo pubblicato in Pagine Sociali il mio blog per ildenaro.it)

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Agire, subito. A fianco delle donne vittime di violenza e di chi non ha più voce…

untitled 2Donne umiliate, maltrattate, picchiate ed uccise. Un bollettino da guerra, la cronaca di queste ultime ore. Da Nord a Sud dell’Italia e non c’è ceto sociale o differenze culturali che tengano. Gli uomini diventano violenti, bastardi e cattivi. Senza se e senza ma. Un’ignobile guerra contro le donne che ci rimettono i sentimenti, le paure, le angosce e molto-troppo spesso la vita. Inaccettabile. Intollerabile. Fermiamo questa violenza inaudita. Abbiamo bisogno di uno Stato che stia accanto alle vittime, che le supporti, li tuteli. Abbiamo bisogno di pene certe e severe.

Siamo stanche “del poi faremo”, “è pronto un disegno di legge”, proclami a cui non seguono i fatti e si continua ad essere umiliate o uccise dall’uomo che credevamo ci amasse.
E’ impensabile che alle soglie del 2019 in una società che corre veloce e fatta di donne di potere e di carattere, le donne siano ancora l’avamposto della politica e delle tutele.

Avete idea di cosa di prova a stare accanto ad una persona che anche per una banalità diventa violento, irascibile, aggressivo, che ti accusa –anche se colpa non ne hai?

Avete idea di cosa si prova ad aver paura-ma di quelle che ti scappa la pipì- quando inizia a sbattere i pugni su qualsiasi cosa, quando la rabbia è fuoco nei suoi occhi e ti guarda come se fossi il diavolo in persona? Avete idea di cosa si prova fingere a se stessi che è solo un momento, che poi passerà? O quando ti fai mille domande e magari cerchi di capire dove hai sbagliato, colpevolizzandoti, ne avete idea?

Avete idea di come la tua vita diventa “oggetto suo”, ti priva prima degli amici, poi ti impone dei diktat, poi inizia a mettere bocca nel tuo lavoro, sui tuoi accordi lavorativi, sino ad allontanarti da tutto. Ne avete idea?

Avete idea di come “quell’uomo” riesca a spegnere quell’uragano di vitalità, energia, spensieratezza, gioia che sei? E’ come se un albero si spogliasse di tutte le sue foglie anche se non è autunno. Ti spegni. Ti annulli. Ti cancelli.

Avete idea di cosa si prova ad essere abbandonati su una strada di notte solo perché “hai osato” dire di voler tornare a casa. Perché casa dei tuoi genitori è sempre il porto sicuro dove vuoi tornare.

Vi potrei chiedere altri dieci, cento “avete idea”, ma preferisco fermarmi qui.

 

Direte e penserete: “gli uomini violenti vanno lasciati e subito. Ai primi segnali”, sapete se lo ripetono anche le donne che prendono coscienza di essere annullate, violentante psicologicamente, fisicamente, donne che si sentono oggetto, ma non è sempre così facile e sapete perché? Perché la paura si amplifica, arrivano le scenate sotto casa, arrivano i messaggi che fanno paura, le ansie si moltiplicano, e nel frattempo ti sei spenta totalmente: non sorridi più, non hai più tutta quell’energia, ti senti una stupida: “perché i segnali c’erano” (te lo dici da sola) e sai di non essere tutelata da nessuno: se denunci non possono agire, infondo e –nella stragrande maggioranza dei casi- è un incensurato, e poi secondo il nostro sistema giuridico alla prima denuncia non si può intervenire. Che poi anche alla seconda, terza, centesima non è che sempre ci siano interventi di tutela, a volte sono delle misure di allontanamento che poco o nulla fanno. Così decidi di fare da sola, farti aiutare, supportare e proteggere dalla tua famiglia. Esci con gli amici-almeno sei in compagnia-, cambi abitudini, blocchi numero, social, porti con te sempre il telefono-si sa mai qualcosa- e speri (forse egoisticamente ed in cattiva fede) che lui possa distogliere il suo sguardo e magari invaghirsi di un’altra-mentre ti ripeti: ”poverina”-.

E quando le cose si placano –nella migliore delle ipotesi che auguro a tutti che possa essere così- ti ritrovi con la famiglia che è indebolita e sfinita, ma è stata la tua salvezza, pochi veri amici al tuo fianco, sono passate settimane e mesi e sei ritornata quella che eri con la tua vita, i tuoi difetti, il tuo carattere, ed una sera ti ritrovi a parlarne come se stessi parlando in terza persona, come se tu stessi raccontando la storia di qualcun altro, non la tua.

Ma non sempre ahimè, ahinoi così, a volte c’è una tomba che aspetta le donne che non potranno parlarne più e non potranno più riprendersi la loro vita.
Agiamo, Agite subito, adesso, non c’è più tempo.

 

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Figlicidio, la guerra trasversale degli uomini contro le donne

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messSi è tolto la vita dopo aver ucciso le due figlie di 8 e 14 anni il carabiniere che a Cisterna di Latina, pochi giorni fa si era barricato in casa per nove ore dopo aver sparato alla moglie. La donna, dalla quale il militare si stava separando, è ricoverata in ospedale, le sue condizioni migliorano, ma dovrà sopravvivere alla perdita più grande che una madre possa vivere: la morte della sue due figlie per mano dell’ex marito, diventato la sua più grande paura, come si legge nei verbali di denuncia della donna, sino al mattino in cui è diventato il sicario che l’ha colpita ed ha ucciso poi le loro figlie. Uomini che minacciano le donne, rabbia e rancore che in loro cova alla fine di una storia che non riescono ad accettare, e spesso i figli diventano arma di bersaglio. Si chiama “figlicidio”, ed è una delle forme più terribili di femminicidio, diventando l’arma più potente che un uomo ha nel far del male ad una donna, uccidendo il proprio figlio. Un numero in crescita seppur ancora incerto, tanto che se ne chiede di riferirne in Commissione Parlamentare per l’Autority dell’Infanzia. Colti nel sonno, approfittando del loro assoluto senso di sicurezza, si consuma così l’infanticidio la vendetta trasversale del femminicidio: colpiscono i figli, indifesi e deboli, per fare del male alla madre. Dietro l’infanticidio si cela un messaggio, i padri che uccidono i figli per colpire le madri, vogliono dimostrare di essere padroni della famiglia, per punire compagne che hanno pensato di lasciarli. Non un raptus di follia, ma un omicidio premeditato con violenza, scegliendo le vittime più deboli: i bambini. I figli sono visti come il riflesso della madre, come punto debole anche delle donne più forti, come vittime predestinate che scontano le colpe delle donne in una sorta di rivendicazione maschilista della sovranità in famiglia. I padri sanno che i figli sono gli elementi deboli, più indifesi, sanno, che colpendo loro, colpiscono anche la madre che è poi la vera vittima degli omicidi. Non una follia improvvisa, ma è un male omicida che matura nel tempo. L’identikit che viene tracciato dagli psichiatri che assicurano che non si tratta mai di un fulmine a ciel sereno e tendere a giustificare non aiuta nemmeno a cogliere i segnali di un eventuale pericolo. Nella maggior parte dei casi ci si trova di fronte ad uomini tra i 35 ed i 50 anni che usano armi da taglio o pistole. Le statistiche tracciate dai criminologi mettono in relazione l’aumento dei casi con il crescere di separazioni e divorzi. Come per il femminicidio, l’infanticidio è la risposta violenta e brutale di quegli uomini che non sanno accettare la separazione, che vedono il divorzio come una minaccia per la loro mascolinità e che uccidono per riprendere il controllo. Alla base c’è un’idea distorta della famiglia vista come mezzo di affermazione e di potere e non come nucleo familiare condiviso: i figli e la moglie sono trofei da sfoggiare e quando la realtà bussa alla porta c’è solo la violenza. In psichiatria si tende a chiamarlo “feudalesimo affettivo” per descrivere questa concezione di famiglia. Padri e mariti che considerano figli e mogli come una proprietà, uomini malvagi che comunque non possono non aver lanciato dei segnali. Non ci sono giustificazioni per questi assassini, non è la famiglia, la compagna, i figli a togliere spazio e libertà: sono loro a togliere la vita in nome di un maschilismo retrogrado e stupido. Restano delle donne e delle madri che nonostante il coraggio, la forza della denuncia e della ribellione, devono fare i conti col dolore più grande: la perdita di un figlio, amplificata dall’assassino che è stato il loro amore nella vita. Donne che chiedono aiuto e tutele, sostegno e rete sociale che sia reale e veritiera, che ci sa certezza e non insicurezza. Donne che non vanno lasciate sole già dall’instante in cui denunciano il loro ex compagno, vanno supportate e protette: dalla legge sino ai servizi, ma resta solo al momento un bel proclama che non smetteremo mai di scrivere e di urlare, sperando che di “tragedie annunciate” non ce ne siano più.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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I figli del femminicidio: una legge, ora li tutela

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messTutele per gli orfani di femminicidio, la Camera, ha approvato la legge che tutela i figli rimasti privi di uno o entrambi i genitori a seguito di un crimine domestico. Lo spirito della norma si muove attorno alla certezza che la violenza familiare, gli omicidi domestici e i femminicidi sono un fenomeno diffuso in Italia e lo Stato ha il dovere di contrastare sia sul piano culturale che giudiziario, e le istituzioni devono guardare anche alle conseguenze che questi crimini determinano sui figli delle vittime. Come ha anche sottolineato nel suo intervento in aula la deputata del Partito Democratico, Marilena Fabbri. Proprio per tutelare gli orfani del femminicidio si è reso necessario mettere mano ad un aggiornamento del quadro giuridico e una nuova definizione degli interventi in grado di dare risposte serie, coerenti e in breve tempo, perché spesso questi bambini sono orfani tre volte: per la perdita di entrambi i genitori e per l’indifferenza dello Stato. Il provvedimento introduce nuove misure, come il patrocinio gratuito nel processo penale e nei procedimenti civili, l’assistenza medico-psicologica gratuita fin quando si rende necessaria, percorsi agevolati di studio, formazione ed inserimento lavorativo e la facoltà per i piccoli orfani di poter chiedere con procedura semplificata la modifica del proprio cognome. Norme che rappresentano un primo passo per lo Stato di stare accanto a questi “orfani speciali” che vivono una grande sofferenza, aiutandoli a continuare ad andare avanti mettendoli nelle condizioni di costruirsi un futuro. Ora il provvedimento passa al Senato. Terrore, tremori, fragilità. Poi lo scontro con la lenta e fredda burocrazia, è questa la vita dei orfani di femminicidio. Un incubo che investe le piccole vittime. Che fine fano? La cronaca li investe di attenzioni per qualche giorno: il pensiero corre al trauma indelebile di quel che è accaduto, si sprecano commenti ed indignazione. Poi, il buio. Un velo di oblio che negli ultimi anni è calato su 1.628 figli. Soltanto negli ultimi tre anni, stando ai dati sino al 2016: 417,180 minori dei quali: 52 sono stati testimoni dell’omicidio della madre da parte del padre, 18 sono stati uccisi insieme a lei. Nella metà dei casi tra le mura domestiche è entrata una pistola, un fucile, che ha fatto esplodere la quotidianità. Sono i dati che emergono da una ricerca finanziata dall’Unione Europea e condotta dalla Seconda Università degli studi di Napoli, con a capo la psicologa, Anna Costanza Baldry, che ha studiato il fenomeno insieme ad un équipe di psicologi dal 2011. Baldry, ha intervistato 143 di questi orfani: alcuni oggi sono adulti, hanno raccontato la loro storia da soli, con immense difficoltò, altri sono minorenni e sono stati accompagnati dai loro affidatari. I dati sono stati raccolti e presentati alla Camera, che ha redatto un documento di linee guida di intervento messo a disposizione dei servizi sociali, dei magistrati, insegnati e forze dell’ordine, con l’obiettivo di seguire un protocollo univoco e tempestivo. La ricerca fa emergere l’immenso bisogno da parte di questi bambini di attenzione e cura. Diritti che oggi le istituzioni gli negano. Si tratta di vittime che non possono contare sul supporto dei servizi. Così ci si scontra con un’Italia di battaglie sul bene superiore dei minori, dove protocolli e percorsi pensanti per chi sopravvive all’epidemia dei femminicidi – uno ogni tre giorni- non ne esistono, questi figli vengono dimenticati e l’anno successivo all’evento traumatico, quello decisivo, stando ai manuali di psicologia per evitare scelte estreme da parte loro, ci pensano nella maggioranza dei casi i nonni. Dolore al dolore, trauma su trauma, lutto su lutto. Montagne da scalare: i funerali, i processi la burocrazia, l’affidamento, le domande insistenti dei piccoli sui loro papà. Il papà non si cancella, lo stesso studio della dottoressa Baldry, riporta che spesso i bambini hanno chiesto del papà e le famiglie affidatarie non sanno gestire la situazione: in alcuni casi preferiscono attendere la maggiore età affinché  possano decidere da soli. Ma sei vittime su 10 spesso non riescono a reggere le lettere, gli incontri con quello che è stato l’assassino della mamma. Ci sono bambini che decidono per un incontro in carcere, mentre, le vittime adolescenti tendono a trovare delle giustificazioni all’inaudita violenza: lo stress, le liti. Lo studio, riporta anche, con molto stupore degli esperti, che in poche vittime scaturiscono psicopatologie particolari, mentre, il sentimento più esposto è la vergogna. Emerge anche che i piccoli si sentono diversi dagli altri, un vissuto ed un accaduto troppo ingombrante per loro, il non potersi sfogare pesa ancora di più, si ritrovano a vivere in una famiglia fatta di familiari che a loro volta ogni giorno in prima persona vivono il lutto. Nel caso dei maschi prevale il senso di colpa di non esser riuscito a salvare la propria mamma. Piccole vittime che si porteranno dentro un vissuto ed un dolore troppo grande che non possono vivere da soli, è ciò che stanno urlando ad un Stato sino ad ora assente e carente di servizi.

Pubblicato su: “il denaro.it”

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#Noallaviolenzasulledonne

http://video.repubblica.it/dossier/femminicidio/violenza-donne-il-primo-spot-rivolto-all-uomo-fermati/147027/145544

Ho scelto questo hastag: #noallaviolenzasulle donne e questo video,il primo spot televisivo rivolto agli uomini con un unico monito:Fermati!

La violenza sulle donne è un’ignobile guerra contro le donne. Donne uccise per mano di mariti,compagni o fidanzati. Oggi lo urliamo più forte nella Giornata Mondiale per l’Eliminazione della Violenza Contro le Donne.

Il 25 Novembre è dedicato a tre sorelle:Patria, Minerva, Maria Teresa Mirabal. Il loro nome in codice era Mariposas, ovvero farfalle. Creature libere di combattere per la liberazione del proprio Paese e contro la dittatura trujillista. Erano nate a Ojo nella Repubblica Dominicana. Vennero, per la loro resistenza, torturate in una piantagione di canna da zucchero. Massacrate a bastonate, strangolate e dunque uccise, insieme con l’autista. Accadde il 25 novembre del 1960.

Da allora centinaia di donne in tutto il mondo sono morte perchè vittime della violenza degli uomini che hanno amato,protetto e giustificato ed ogni giorno centinaia di donne subiscono violenze fisiche o psicologiche.

Le donne sono farfalle libere di vivere, amare e libere di combattere per i loro ideali e i loro sogni.

Agli uomini dedico 365 giorni di memoria. E alle donne ogni straordinario giorno di vita. E’ tempo che le donne tornino farfalle libere di volare.

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Ossessione maschile.

Femminicidio. Un’ignobile guerra contro le donne. Una guerra inarrestabile, forte, dolorosa. Dettata dall’ossessione, dall’amore malato verso le donne. Risale a poche ore fa l’ultima vittima per mano di un uomo, Cristina Biagi, uccisa dopo una denuncia per stalking dall’ex marito, Marco Loiola, dopo che lo stesso ha quasi ucciso il nuovo compagno di lei, per poi sparsi in bocca. Due bambini di 3 e 10 anni si ritrovano a piangere la morte della loro mamma e del loro papà. Orfani, segnati da un destino terribile: vivere per sempre sapendo che la mamma è stata uccisa dal loro papà. Un omicidio in una movimentata domenica estiva, sul lungo mare di Ostia, non uno scrupolo, né vergogna. L’ennesimo, tragico clichè: lei innamorata, madre di due figli che ha senza dubbio tentato di ricucire un rapporto ormai sgretolatosi, ha accettato le botte, subito in silenzio. Si è illusa che lui fosse la persona di sempre, quell’uomo di cui lei stessa si era innamorata. Poi il sogno si è frantumato di fronte alla realtà. Un uomo probabilmente ossessivo, geloso, violento. Così la decisione dolorosa, la separazione. La speranza di tutte le donne è che quell’uomo che hai amato che in un attimo è diventato un orco, un uomo così diverso da com’era, possa capire, ragionare, lasciarti in pace. Invece, inizia un tormento, un calvario fatto di minacce, persecuzioni, telefonate. La vita di una donna si paralizza, si cristallizza. Inizia a temere per se stessa, per i propri figli e per la propria famiglia. A poco serve se annullerà la sua vita sociale, il suo essere donna, la cercherà e troverà ovunque. Così le donne trovano il coraggio, tra la paura e la solitudine di denunciare, sperando nell’aiuto delle forze dell’ordine, delle istituzioni, della legge-soprattutto-. La Procura, come in questo caso, aveva già avviato le indagini, ma Marco Loiola è stato più veloce. E l’epilogo tragico lo conosciamo tutti, l’abbiamo già sentito, letto e visto tante, troppe volte. La domanda che ci si pone senza insistenza, ogni volta, è come si poteva fare per evitare questo delitto? E’ stato sottovalutato il rischio? A cosa servono gli appelli, gli approfondimenti tv che invitano le donne a reagire, a denunciare? Le donne hanno bisogno di sentirsi tutelate, protette dalla legge e dalle istituzioni. Eppure oggi una nuova donna riempie le cronache italiane. Una donna che aveva denunciato per stalking il suo assassino. Non ci stupiamo se poi familiari, amici, parenti, vicini ci diranno “era una morte annunciata”.

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Femminicidio: Un’ignobile guerra contro le donne

Femminicidio: Un’ignobile guerra contro le donne
Donne uccise, violentate, malmenate. Un omicidio ogni sette nel Mondo è commesso fra le mura di casa e per mano del partner. L’amore che diventa ossessione. L’amore che si traduce in uomini possessivi. Un’ignobile guerra contro le donne. Spulciando la lista i nomi sono tanti, Gabriella, Lucia, Eléna, Zineb, Rosy –solo l’ultima di una lunga lista. Avevano 50, 40, 36, 22 anni. Erano italiane, moldave. Erano madri, non avevano figli. Erano single, erano sposate. Le loro storie non esistono si annullano, si cancellano. Storie di vita che vengono cancellate, incone lugubri ripetute all’infinito. Spesso un trafiletto su un giornale, se il delitto non è stato particolarmente efferato. Ma sono donne, morte ammazzate da mariti, fidanzati, amanti e conviventi. Uomini da amare, in cui si nutriva una fiducia che non ha eguali che si trasformano in killer che vengono protetti da alibi concettuali, linguistici. Giustificati da una perizia psichiatrica o da una “banale” scusa. “Ha ucciso dopo un raptus, ha ucciso per gelosia, ha ucciso perché aveva paura di essere lasciato”. La vittima non esiste mai, cancellata, annullata, dimenticata. Il maschio assassino, ancora una volta è il protagonista, lui l’unico e solo. Novantadue le vitte in Italia dall’inizio dell’anno. Numeri da guerra. Numeri che rabbrividiscono. Ultima, solo in ordine di tempo è la storia di Rosy Bonanno, venticinque anni, uccisa forse davanti agli occhi del suo bimbo di due anni, dall’uomo che ha denunciato per ben sei volte per molestie. Per stalking. Eppure nessuna l’ha protetta, aiutata, supportata. Ha subito, ha avuto paura per sé e per il suo bambino. Ha combattuto contro l’ossessione, l’amore malato, la paura, fino ad incontrare la morte per mano dell’uomo che amava. In un paese civile come l’Italia si muore ancora per mano di uomo senza che nessuno reagisca, tuteli. E allora la tanto invocata e raggiunta legge sullo stalking viene sottovalutata? Così un’altra donna, Rosy Bonanno, muore sotto le coltellate dell’uomo che amava di 36 anni e sotto gli occhi del suo bambino, che speriamo non ricordi le immagini efferate dell’assassinio di sua madre. Quasi ogni giorno muore una donna per mano dell’uomo che amavano, ogni giorno un bollettino da guerra. Non bastano i proclami, le belle parole, le campagne di sensibilizzazione. Bisogna agire e subito per fermare questa guerra. Non è accettabile l’indifferenza nei confronti della denuncia. Le donne vanno protette. Servono pene certe e sicure. Non a caso Beccaria parlava di “probabilismo”, sostenendo la necessità della prevedibilità e della certezza della legge, essendo l’unico modo per garantire sicurezza personale ai cittadini. Sicurezza che oggi non è garantita, soprattutto alle donne. Iniziamo a creare dei centri antiviolenza. Attiviamo campagne di sensibilizzazione partendo dalle scuole, insegniamo ai bambini ad amare sin da piccoli le donne, a coccolarle, ad amarle, ad accudirle e non ad odiarle, a possederle. Portiamo nelle scuole il monologo di Luciano Littizzetto, declamato durante l’ultimo festival della canzone italiana. Non aspettiamo un’altra vittima, non è possibile, tuteliamo la vita, la nostra. “Ne abbiamo una sola e non sette come i gatti.”

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