Uno aveva agito in preda ad una “tempesta emotiva”, l’altro perché lei lo aveva “illuso”. Sentenze che pongono al centro il comportamento della vittima ed i sentimenti – sentenza dei “risentimenti” di un uomo che colpisce a morte la propria compagna di vita- pare proprio che abbia un peso nelle aule di tribunale. Una relazione altalenante e burrascosa o un’infanzia anaffettiva possono costituire attenuanti e alleggerire la condanna per un reato tanto agghiacciate e che non può trovare scusanti. Per entrambi gli autori di femminicidi, le pene per aver ucciso le moglie e le compagne hanno avuto una forte riduzione: da 30 a 16 anni di reclusione. Immediata l’indignazione. In un caso, il 57 enne emiliano, aveva confessato di aver strangolato a mani nude la compagna perché non accettava l’idea che lo lasciasse. Condannato a trent’anni in primo grado, la Corte d’Appello di Bologna ha dimezzato la pena a sedici anni, richiamando la perizia secondo cui l’uomo era in preda a una “soverchiante tempesta emotiva e passionale”, testimoniata dal tentativo di suicidio. Dieci giorno dopo la sentenza emiliana, la stessa pena viene inflitta al 52 enne ecuadoriano che nell’aprile del 2018 a Genova uccise accoltellando la moglie dopo aver scoperto che lei non aveva lasciato l’amante, come invece gli aveva promesso. Nel suo caso il rito abbreviato gli ha concesso una condanna a sedici anni. Il giudice nella sentenza ha scritto che l’uomo era stato mosso da un “misto di rabbia e disperazione, profonda delusione e risentimento” e avrebbe agito – sempre stando a quanto scrive il giudice – “sotto una spinta di uno stato d’animo intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile”. Le sentenze vanno rispettate, ma anche le vittime e le famiglie che restano a piangere dovrebbero esserlo: considerare ogni caso singolarmente e concedere riti speciali sono quando ritenuto opportuno potrebbe essere un primo passo. Quando i giudici scrivano che lo stato d’animo dell’ecuadoriano “non è umanamente del tutto comprensibile” sembra proprio che affermino che è umanamente comprensibile, lasciando trasparire tra le righe una sentenza di condanna all’atteggiamento fedifrago e contraddittorio della moglie. Lei gli ha solo promesso qualcosa che non ha mantenuto: fedeltà continua. Non è la prima e non sarà l’ultima donna a tradire il proprio compagno di vita, bisogna solo capire se questo debba essere considerato come un’aggravante o un’attenuante, quando dall’infedeltà si passa all’omicidio. Ma non sarà il primo né l’ultimo uomo al mondo ad aver avuto un’infanzia infelice e ad essere preda a “soverchiante tempesta emotiva e passionale” come nel caso del 57 enne emiliano. Nei cosiddetti delitti passionali e in tutti i femminicidi compiuti da uomini che non accettano di essere lasciati, ci sarà una componente emotiva. Una donna che decide di lavorare, una ragazza che decide di lasciare il proprio fidanzato, ogni donna che sceglierà provocherà una reazione emotiva, che non possono in alcun modo diventare attenuanti, non solo in fase processuale, ma ancor di più nella nostra cultura. La percezione che nasce da queste sentenze è che ci sia un ritorno al “delitto d’onore” che in passato era previsto nei casi di omicidio commesso da un uomo o da una donna nei confronti di un parente per “difendere l’onore suo e della sua famiglia” in caso di tradimento. Le analogie con il caso di Genova riguardano il legame di parentela tra omicida e vittima, e il più mite trattamento sanzionatorio, che nel caso del delitto d’onore prevedeva fino a un massimo di sette anni di carcere. Rievocarlo è suggestivo, ma le similitudini si possono constatare. Intanto, ci si chiede a che punto sia l’iter di approvazione del “codice rosa” che prevede una corsia preferenziale per le donne che denunciano abusi e violenze. Il testo sarebbe “un punto di svolta importante” –ha affermato il titolare della giustizia Alfonso Bonafede. Nel presente però queste sentenze hanno un forte impatto sull’opinione pubblica e stiamo correndo un duplice rischio: che la pena risenta della sensibilità dei giudici e che qualcuno inizi o ricominci a considerare il comportamento di una donna come la causa di una reazione violenta, di un atteggiamento prevaricatore, di un omicidio. E questo non possiamo permetterlo. Un paese democratico, un paese che tutela i diritti, che tutela le donne, che scende in piazza tra scarpe rosse e fiaccolate, non può permetterlo.
(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)