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Riforma processo penale, con la giustizia riparativa si incontrano vittima e autore del reato. Cosa cambia?

Via libera unanime da parte del consiglio dei ministri alla riforma della giustizia. L’ok è arrivato dopo una lunga discussione e una breve sospensione, ora la discussione passa al Parlamento, al quale si è appellato il presidente del consiglio dei ministri Mario Draghi, chiedendo di sostenere con lealtà questo importante provvedimento che porta la firma del ministro Cartabia. L’intervento è corposo: dal reset della durata delle indagini preliminari, al “contingentamento” dell’obbligatorietà dell’azione penale al capitolo sanzioni e riti alternativi, ma soprattutto il ritorno “parziale” della prescrizione. Ma uno degli emendamenti del ddl di riforma del processo penale, disciplina in modo organico il metodo della giustizia riparativa. Nel pieno rispetto della direttiva europea e nell’interesse sia della vittima che dell’autore del reato. Ad oggi l’emendamento prevede l’accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni fase del procedimento, su base volontaria e con il consenso libero e informato della vittima e dell’autore, spetterà al giudice la positiva valutazione sull’utilità del programma in ambito penale. Inoltre è prevista la ritrattabilità del consenso a questi percorsi in qualsiasi momento. L’obiettivo primario della giustizia riparativa è quello di porre attenzione alle dimensioni umane e sociali che investono il crimine. Senza le quali la pena non è altro che una punizione. Al centro della mediazione ci sono le vittime. Non si può restituire ai violenti la possibilità di tornare all’interno della società senza passare dalla giustizia riparativa che mette al centro proprio le vittime. La chiave di tutto è la riparazione, dove per riparare si possono intendere molte cose, a cominciare dal fatto che l’autore ha compreso sino in fondo il disvalore del suo comportamento, eventualmente risarcisca il danno, arrivando all’interazione fra il reo e la vittima, o la sua famiglia. Il mediatore ha il compito anzitutto di scomporre un atto lesivo, cercando di capire cosa abbia prodotto e come lavorare con chi lo ha commesso. Il senso della giustizia riparativa è anzitutto consapevolezza da parte dell’autore del reato commesso, il quale con il supporto di un mediatore ha l’occasione di riparare il male che ha fatto, portando all’obiettivo di abbattere i fenomeni di recidiva. La logica di fondo è abbandonare il concetto che molti hanno “lasciarli dentro e buttare la chiave”, che rischia di non pagare, la sicurezza si potrebbe ottenere con le misure alternative. E’ solo se riusciamo ad avere una visione diversa e ad applicare un paradigma di giustizia innovativo, come avviene già in molti paesi europei, che forse si potrà restituire un autore alla società consapevole. La giustizia riparativa è “un paradigma che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo” (Howard Zehr). Si propone, quindi, l’obiettivo di ricostruire l’equilibrio spezzato tra la società, l’autore del reato e la vittima a causa proprio di una condotta illecita. L’autore del reato è supportato nella presa di coscienza dell’impatto provocato dall’azione illecita da lui compiuta sia nella vita della vittima sia nella società civile, ed è stimolato a porre rimedio alle conseguenze negative del suo comportamento; la vittima è aiutata a recuperare quella stabilità minata dalla sofferenza provocata dal reato; per quanto riguarda la società, si intende ripristinare la pace sociale, anche mediante il reinserimento dell’autore con lavori sociali e il risarcimento dei danni subiti. Un approccio, dunque, molto diverso da quello tradizionale, si tratta di abbandonare la logica della sola punizione del reato con il carcere e la vergogna. La giustizia riparativa è importante ricordare che non si applica solo al settore penale ma anche ai conflitti che si generano all’interno della comunità, della famiglia, della scuola o del lavoro. La giustizia riparativa è un orizzonte culturale che appoggia il rispetto, l’equità, l’inclusione e la partecipazione. Lo sforzo principale è quello di indirizzare il dolore di chi subisce il reato, il reo e la società su qualcosa di nuovo che nasca da esso. Qualcosa che non sia però odio e vergogna o ghettizzazione da parte della società. Gli episodi violenti verso i detenuti non sono nuovi e la società tende ad emarginarli, ciò non restituisce nulla. L’orizzonte culturale deve essere quello in cui ogni comunità diventi riparativa ciascuna per sé. Ce la faremo a cambiare il paradigma giudiziario e culturale in essere?

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Maltrattamento e abuso sui minori: un mondo sommerso che non emerge

img_0217Violenze, abusi, insulti. Ma, anche denutrizione, disabilità, danni psicologi permanenti: è il calvario delle piccole vittime dei casi di maltrattamento o abuso che ogni giorno, in silenzio si consuma nel nostro paese. Secondo una recente indagine realizzata da Telefono Azzurro in collaborazione con Doxa Kids, le violenze sui bambini e gli adolescenti sono sempre più diffuse. Accentuate dai rischi legati all’uso delle nuove tecnologie e dalla crisi economica, non vengono quasi mai denunciate. Nel 70% dei casi l’abuso si consuma fra le mura domestiche. Secondo l’OMS, l’Italia ha un indice di prevalenza di abusi e maltrattamenti del 9,5 per mille. Sono centomila i casi veri, presi in carico dai Servizi sociali. Non stime. Come prendere una grande città e riempirla di piccoli, e d’orrore. I casi maggiori al Sud Italia dove si registrano circa 273 casi di maltrattamento ogni mille minori, sui 155 del Nord. E dove, per via della difficoltà economica delle amministrazioni, i servizi sociali garantiscono sostegno alla metà dei bambini presi in carico dalle regioni settentrionali. Tra le violenze che colpiscono i piccoli la più frequente e all’apparenza la più innocua è la “trascuratezza”. È l’Organizzazione mondiale della sanità ad avere chiamato così l’assoluta incapacità da parte dei genitori di prendersi cura, materialmente e affettivamente, dei propri figli. E la trascuratezza è il mostro che nel 47% dei casi, nel nostro Paese, fa arrivare davanti ai giudici dei tribunali dei minori, e agli psicologi delle comunità protette, bimbi denutriti, con disabilità o ritardi acquisiti (fisici, linguistici, emotivi), incapaci di relazionarsi con gli altri. Scabroso quanto deprimente,  il fenomeno del maltrattamento o dell’abuso sui più piccoli ha radici storiche,  in passato i bambini venivano sacrificati agli dei, o vi era l’uccisione di bambini deformi o non desiderati ed era una pratica comunemente accettata e praticata. E’ nel ‘900 che si sviluppa la “cultura dell’infanzia” e si guarda alle violenze e negligenze ai danni dai minori. Si pose così attenzione alla famiglia maltrattante e abusante, alle sue caratteristiche e ai fattori di rischio, come ai fattori di protezione, al danno psicologico e fisico del bambino ed il modo meno traumatico per poterlo denunciare. E’ così che in ambito giudiziario vie ne accettata come prova il disegno, da sempre attività preferita dal bambino, ed è l’unico modo per far sì che il bambino esterni la violenza subita senza riviverla una seconda volta, evitando ulteriori traumi. Così viene introdotto in ambito giudiziario il reato di maltrattamento e abuso. Il codice penale italiano riconosce con la legge 66/1996 le “norme contro la violenza sessuale”, con tre ipotesi di reato: violenza sessuale, atti sessuali con minorenni, corruzione di minorenne. Un fenomeno in crescita, che spaventa, che dilaga. Un mondo sommerso che purtroppo non emerge, lo ha definito così il Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza della Regione Campania, Cesare Romano, qualche giorno fa, nell’ambito di una tavola rotonda dedicata al tema del maltrattamento e abuso sui minori. Il Garante ha esposto i dati di una ricerca condotta in vari comuni dalla Campania, Asl e ambiti territoriali, dove è emerso che ci sono duecento casi conclamati di abuso – “ma che in una proiezione statistica visto che era soltanto il 12% del campione arrivano facilmente a 300” – ha aggiunto. La tavola rotonda ha visto la partecipazione del pediatra, figura chiave e di congiunzione con le famiglie e Romano ha sottolineato l’importanza della formazione sui nuovi studenti di medicina ma anche la creazione di una rete di professionisti. Aspetto importante per Romano è quello sociale: “la formazione – ha detto -si fa nelle zone dove maggiormente emerge questo fenomeno, sicuramente si fa con un sostegno alla famiglia, si fa con interventi per i bambini e per le famiglie disagiate e nelle zone degradate”.  Secondo la legge 184/83 tutti i Pubblici Ufficiali e gli operatori incaricati di Pubblico Servizio, sono tenuti a segnalare all’Autorità giudiziaria minorile le situazioni di pregiudizio, di disagio e di abbandono morale o materiale a carico dei minori. Assumono la qualifica di pubblici ufficiali: gli assistenti sociali, i medici, gli insegnati, gli psicologici, i quali, nel caso di ritardo od omissione di segnalazione o di denuncia all’autorità giudiziaria, si renderebbero responsabili, dei reati di “omissione di denuncia”. Ma in una logica di tutela del minore bisognerebbe andare oltre la denuncia, bisognerebbe attivare sin da subito tutte le misure atte alla protezione del bambino, già dalla presa in carico dai Servizi Sociale, spesso ciò non avviene, sia perché l’intervento degli assistenti sociali avviene dopo molto tempo dalla segnalazione, causato di assistenti sociali che non riescono a fronteggiare le segnalazioni ed il lavoro quotidiano, sia perché i comuni spesso non hanno la possibilità economica di collocare al di fuori della famiglia dove avvengono gli episodi di maltrattamento e abuso, i bambini. Per cui il fenomeno si scontra con la mancanza di personale e di servizi, questo non fa nascere attorno al minore vittima una rete di persone familiari e professionali ma anche di servizi atti a supportarlo e ad aiutarlo a rielaborare quanto subito per creare un adulto più sereno e meno problematico.

(Articolo pubblicato su “ildenaro.it”)

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Accattonaggio: un esercito di minori all’angolo delle strade

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messCon la mano tesa, percorrono le strade del nostro paese. Accovacciati a terra come stracci o vagabondi tra le auto in sosta. Sono loro, il popolo degli indigenti, dei reietti. E’ la dura legge della sopravvivenza di molti bambini, costretti a chiedere l’elemosina ai semafori o sul sacrato delle chiese. Capita di incontrarli sui bus urbani, in stazione, tra le bancarelle dei mercati rionali. Scene quotidiane di un’ infanzia negata. Un bicchiere di plastica da riempire e qualche santino per fare presa sulla carità cristiana e sulla generosità dei passanti durante le ore convulse dello shopping. Molti di questi bambini presidiano gli ingressi di bar, tavole calde e supermercati affermando di “aver fame”, ma in realtà accettano solo monete. Il passante di turno che si offre di comprare sul momento qualcosa da mangiare non è particolarmente gradito. Non è un mistero che tutto ciò rientri nella severa logica familiare: portare a casa più denaro possibile. Un passaggio antico quanto il mondo, l’elemosina, un tempo, veniva indentificata con il nome di “questua”: che, secondo la tradizione cristiana, indicava l’andare di porta in porta a elemosinare offerte, in particolare cibo o denaro. Oggi, a distanza di millenni, la prassi non ha modificato il suo significato, ma ha tramutato il nome in altro: accattonaggio. Con l’avvento della crisi economica, che ha portato molte famiglie a fare i conti con le difficoltà economiche, specie famiglie già indigenti ed in difficoltà, come i rom, gli extracomunitari, che per sopravvivere ricorrono all’elemosina o vendere piccoli oggetti. All’angolo delle strade vi è un vero e proprio esercito di minori. Il fenomeno dell’accattonaggio minorile ha subito un’impennata a ridosso degli anni ’80, fenomeno partito dai minori slavi sbarcati sulle nostre coste. Ad oggi, accanto a queste 3-4mila presenze sul territorio nazionale, si sono aggiunti fanciulli provenienti dal nord Africa e dall’Albania, sempre più vittime di organizzazioni dedite all’immigrazione clandestina. Bambini che così vengono sottratti all’infanzia, al gioco, all’istruzione, ad una vita di opportunità, di sapere e di occasioni. Ad oggi, l’accattonaggio è un reato penale, l’art. 670 del codice penale, prevede la reclusione fino a tre mesi per chiunque elemosini denaro in luogo pubblico. Una sentenza del 1995 ha fatto una distinzione tra le diverse forme di accattonaggio. Pertanto, se la richiesta di denaro è legittimata da “umana solidarietà”, se fa “leva sul sentimento di umana carità” e se “non intacca né l’ordine pubblico né la pubblica tranquillità”, allora essa è lecita. Quindi, distinguere un tipo di accattonaggio da un altro diventa una cosa molto complessa, soprattutto se non si è nelle condizioni di valutare quale sia il limite per  la “reale povertà” o di prevedere l’utilizzo finale del denaro richiesto, ossia se poi questo viene utilizzato per l’acquisto di alcool, droga o altri beni non legati ad uso di primaria necessità. E i bambini lungo le strade che chiedono l’elemosina? Anche in questo caso, con la sentenza n. 44516/2008, la cassazione ha stabilito che una madre Rom che portava i bambini a mendicare al semaforo era stata assolta dall’accusa di “riduzione in schiavitù”. Infatti, l’accattonaggio con minori rom al seguito non è necessariamente una forma di maltrattamento o sfruttamento di minori. In pratica, secondo la sentenza, anche i bimbi rom chiedendo l’elemosina (per sopravvivere) contribuiscono all’economia familiare. In altre parole, i giudici non hanno autorizzato la “questua” dei rom con i minori al seguito, hanno invece contestato l’equazione: elemosina sta a rom come sfruttamento di bambini sta a schiavitù.
Il fenomeno è complesso quanto complicato: molti di questi bambini rappresenta per i genitori una fonte economica. Un fatto che scandalizza noi, non le loro famiglie. Credo che ci vorrà molto tempo, forse un equivalente economico da offrire e un grande lavoro di approfondimento, per venire a capo del problema Ma ci si scontra con la carenza di assistenti sociali che possano vigilare, segnalare in tempo ai Tribunali, ancor di più garantire servizi e benefici economici alle famiglie. Così, se il contrasto alla mendicità non è supportato da adeguati strumenti di reinserimento nella società, si rischia semplicemente di cadere in azioni repressive. Eppure il principio ispiratore è la legge 285 del ’97 che è il principale strumento di attuazione della Convenzione internazionale dei Diritti dell’Infanzia, ratificata da quasi tutti paesi del mondo. Essa invita Comuni, singoli o associati, a promuovere condizioni di vita dirette a garantire a tutti i bambini e le bambine, una crescita equilibrata e dignitosa. Sembra un difficile cammino che il nostro paese non ha ancora compiuto per salvare dagli angoli della strada e restituirli all’infanzia questi bambini.

(Articolo pubblicato su: “il denaro.it)

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