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Da Cardito a Caivano, bambini vittime di violenze e soprusi. E le mamme?

untitledDifficile raccogliere i ricordi e la testimonianza cruda e drammatica della piccola Noemi, che sul volto porta ancora i lividi delle botte, quando le chiedono cosa le sia successo. Difficile, anche per il giudice di Napoli Nord, Antonio Santoro, che scrive “si fa fatica a giungere alla fine del verbale” del delitto di Cardito “tanto è l’orrore che vi è rappresentato”. Le pagine sono quelle dell’ordinanza che dispone il carcere per Tony Esobti Badre, l’uomo che ha ucciso a bastonate uno dei tre figli della sua compagna, Valentina, il piccolo Giuseppe di 6 anni appena, ferendo gravemente anche la sorellina Noemi, solo un anno più grande, sono come una finestra spalancata su luoghi oscuri e insondabili della violenza umana. Il quadro è quello di un uomo violento, aveva picchiato anche la compagna, calci, pugni, sputi in faccia – si legge- ma nessuno era intervenuto né lei aveva denunciato. Lei, la mamma dei tre piccoli, compagna di  Tony da sei mesi, una casa insieme, una vita, una quotidianità, forse non rosea, eppure è su di lei che in queste ore si concentrano dubbi, sospetti, mamme infuriate che dai social alle piazze pubbliche si chiedono come sia possibile assistere ed udire alle botte che un uomo perpetra sui propri figli e restare inermi. Ci si chiede come è possibile che per molte ore una mamma lasci agonizzante il proprio bambino massacrato dalle botte steso sul divano per ore, senza chiedere aiuto, senza chiamare i soccorsi. E l’interrogativo che tutti ci siamo posti: “Giuseppe poteva salvarsi?” Ombre e sospetti che si addossano sulla madre. Lo ribattezzarono “parco degli orrori”, periferia Nord di Napoli, Caivano, a seguito della morte di due bambini di 3 e 6 anni, precipitati nel vuoto dei piani alti dei palazzi. La scorsa estate i riflettori si sono riaccesi su Caivano per un nuovo caso di presunti abusi sessuali ai danni di una bambina di 4 anni, che sarebbe avvenuto proprio al Parco Verde. Anche qui le domande e gli interrogativi si susseguivano sulle mamme, sulla loro attenzione, sapevano o non sapevano? Girovagava, abbandonato in strada ad otto anni, ha esclamato “mamma non mi vuole più”. Era da solo, senza documenti, senza un giubbotto, con addosso un maglioncino di lana leggera. Non è mai andato a scuola, ora è in comunità. Riflettori puntanti ancora una volta sulla mamma. Riflettori puntanti in queste settimane, giorni ed ore sulla maternità, il dono-dicono essere- più bello della vita. Mamme, che però finiscono nel tritacarne mediatico e sociale, ma ancor di più nei giudizi di coscienza delle altre mamme. Credo, leggendo e spulciando i commenti in rete, che non ci sia cosa peggiore di una mamma che punti il dito contro un’altra mamma. Come se la maternità fosse perfezione. Come se fosse uno stemma omologato. Come se tutte nascessero con la vocazione di fare le mamme. La verità che mamme forse ci si sente davvero quando quel bambino è tra le tue braccia, quando sai che dipenderà da te, quando sai che ogni cosa che dirai o farai non sarà più la stessa, perché c’è un esserino al mondo che prenderà esempio. La violenza, qualunque essa sia, non si giustifica e non è questa la sede, ma poniamoci qualche domanda, capiamo queste mamme prime di giudicarle e ammettiamo che forse qualcuna non si senta realmente mamma e che quel bambino di otto anni che vagava magari era sulla strada – e ce lo auguriamo- di una famiglia, di calore umano e genitoriale. Prima di essere mamme, sono donne, donne che hanno un vissuto, storie familiari difficili, spesso quella maternità è fuga dalla realtà e così – ve lo assicuro, anche per lavoro- queste donne poco più che bambine mettono al mondo un altro essere umano, il loro figlio. Inizialmente, si fatica a comprendere chi sia il bambino tra i due, quali strumenti, quali valori, quale educazione riesca a trasmettere una poco più che bambina con i suoi drammi e i suoi lutti interiori umani ad un altro essere umano. Oggi, Valentina ed il papà biologico dei bimbi hanno la potestà genitoriale sospesa. Ma un genitore resta tale nell’animo. Valentina è nei discorsi di molti, specie delle mamme. Probabilmente Valentina, dovrà chiarire ai magistrati come e se ha tentato di soccorrere i suoi bambini. E’ però, non dimentichiamocelo, una donna che ha visto morire il figlio. Su di lei pesano gravidanze giovanissime, il carico di un matrimonio naufragato, i figli da crescere, il tentativo di rifarsi una vita, fallito, perché aveva incontrato un compagno violento e vigliacco. Certo, lascia sconcerti come le donne non chiedano aiuto, come non si ribellino alla violenza subita e a quella che quasi quotidianamente vivono i propri figli. Per anni, ognuno, dai propri canali e secondo le proprie competenze professionali, ha invitato, invocato, esortato le donne a denunciare i propri compagni violenti, se non altro farlo per i propri figli, per restituirgli dignità ed un modello familiare idoneo. E spesso, la molla della denuncia di una donna, erano proprio i figli: denunciare per loro. Diventavano forza di una donna. E oggi? Oggi, le donne subiscono, assistono persino alla violenza sui propri figli e restano inermi e paralizzate. Certo, lo shock, naturale ed umano, ma lo shock dura un episodio, dura frazione di minuti, la violenza perpetrata a lungo diventa orrore, diventa gabbia, ed è possibile che una donna, una madre non riesca a rendersene conto? Ecco, forse, la rabbia che le donne oggi nutrono verso Valentina, verso le mamme che sanno e tacciono, verso quelle mamme che in queste ore stanno dimostrando l’anti mammismo, è proprio non reagire davanti alla violenza sui propri figli. Inconcepibile, vero, ma sta accadendo e bisogna fermarlo. Le donne rimangono vittime della spirale di violenza, soggiogate psicologicamente. Hanno paura ma non reagiscono e i commenti, la rete, le parole delle altre donne agguerrite ed arrabbiate non aiutano. Bisogna invocare a denunciare, senza puntare il dito, ma supportare. Invocarle a chiedere aiuto, creando una rete di operatori e di servizi che supporti le donne. Ma, permettetemi di dire che nessuno è giudice morale di nessun altro, comprendiamo che esistono realtà dove la povertà e il degrado sociale come a Cardito la fanno da padroni, e iniziamo a tendere lo sguardo, anche al vicino di casa, perché di famiglie e di donne come Valentina ne sono piene le periferie d’Italia. E forse anche accanto casa nostra, mentre sembra che la vita scorra in modo naturale.

(Articolo pubblicato per il mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Minori, testimoni silenziosi della violenza domestica. Vittime di “stress post- traumatico”

untitledAlmeno 400 mila bambini sono vittime silenziose e sofferenti di violenza assistita. Testimoni diretti o indiretti dei maltrattamenti in casa nei confronti delle loro mamme, quasi sempre per mano dell’uomo, sono i numeri contenuti nel dossier di “Save the Children”, più di 1,4 milioni le madri vittime di violenza domestica nella loro vita. Testimoni innocenti e silenziosi dinanzi alla violenza ingiustificata ed inaudita che gli uomini scaricano contro le donne. Il femminicidio non significa solo donne uccise. Purtroppo. Per ogni donna uccisa, spesso c’è anche un bambino che non può più chiamarla mamma. Negli ultimi decenni dal 2007 al 2017, l’Istat ha calcolato in 1.600 il numero degli orfani di femminicidio, 417 solo dal 2014. Molti di loro testimoni della violenza subita dalla madre o addirittura spettatori dell’uccisione da parte del compagno. Bambini che devono riuscire a fronteggiare e convivere con quelle profonde cicatrici che scenari del genere lasciano, ma soprattutto al trauma continuo della violenza nei confronti della loro mamma, restando paralizzati ed inermi dinanzi alle botte, alle urla, ai pianti delle loro mamme. Secondo i dati, forniti qualche giorno fa da “Save the Children”, tra le donne che hanno subito una qualche forma di violenza più di una su dieci ha temuto per la propria vita o quella dei propri figli e in quasi la metà dei casi i loro bambini hanno assistito ai maltrattamenti. Il dossier sottolinea l’urgenza di una strategia per contrastare questo tipo di violenza. Infatti, Save the Children, ha fatto partire nei giorni scorsi, un’iniziativa di sensibilizzazione denominata “abbattiamo il muro del silenzio” per accendere i riflettori su quella che possiamo definire una piaga invisibile che ha conseguenze devastanti sulla vita dei minori. Così a Roma, a Palazzo Merulana, è stata esposta un’installazione “immersiva”: “la stanza di Alessandro” per provare in prima persona il dramma che tanti bambini quotidianamente vivono. Lo sguardo di un figlio non è mai indifferente a quello che succede tra i genitori dentro casa. Ma il sistema giuridico italiano lo contempla di striscio, infatti, la violenza in presenza dei minorenni non costituisce reato. Al massimo è un’aggravante, come stabilisce la nuova legge sul femminicidio. Eppure un genitore violento sotto lo sguardo innocente dei propri figli provoca danni alla loro crescita psichica ed emotiva. Crescono covando rabbia, hanno disturbi psicosomatici: dal mal di testa al mal di pancia, ansia, spesso sono aggressivi con i loro coetanei e diffidenti con gli adulti, vivono con la paura addosso. Tutte reazioni ansiose, generate dallo stress post-traumatico. Il rischio che si corre è che da adulti riproducano lo stesso modello familiare, passando così da vittime ad autori di molestie. Ecco perché nel momento in cui si aiuta la madre vittima di gesti violenti, bisogna supportare anche il bambino che ha assistito al vissuto traumatico attraverso un nuovo percorso relazionale. Un impegno non scontato. Spesso, i tribunali per i minori, dispongono il sostegno psicologico ai figli solo se hanno ricevuto in prima persona violenze. Ciò significa che ancora non sono riconosciuti i danni gravi subiti come spettatori di aggressioni fisiche o anche di molestie psicologiche. Il quadro, dunque, peggiora. I servizi sociali, hanno il compito di garantire un legame genitoriale con il minore, ma quando il bambino è terrorizzato dal padre, si rischia solo una forzatura contro il suo volere. E’ importante, dunque, che il silenzio innocente dei bambini, diventi voce che guidi a percorsi ludo pedagogici attraverso attività ricreative, come la produzione di oggetti, scrittura di una storia mettendola in scena, cineforum, accudimento di un animale e la coltivazione di un orto insieme alle madri. Lo scopo è spezzare le catene del passato, guardando la futuro, istaurando un nuovo legame tra madre e figlio. Madri che impareranno a prendersi cura dei figli, prima erano impegnate a sopravvivere, garantendo loro le cure primarie, trascurando tutto il resto. Mentre, i bambini impareranno ad esprimere il loro mondo interiore, con le parole riporteranno i sentimento e chiederanno aiuto non più con la forza ma con la gentilezza ed il rispetto verso gli adulti. Un percorso che necessita anche del supporto e del sostegno psicoterapico, che tra l’altro necessita anche dell’autorizzazione del padre e spesso non si ottiene, nonostante si intraprenda un percorso di mediazione con lui. Progetti ludico pedagogici, sono stati attuati già in Italia e con ottimi risultati, ma si scontrano con la carenza di fondi e di strutture idonee, perché in Italia non c’è solo un vuoto normativo, ma una totale assenza di ascolto al fenomeno. Che questi nuovi dati che sottolineano un quadro di emergenza siano la molla per potenziare politiche sociali che guardino al fenomeno e ascoltino l’innocenza dei più piccoli? La speranza, quella c’è!

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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