Di lavoro e di caldo si muore davvero. La cronaca di questa estate ci restituisce sedici morti. Migranti stipati in furgone, morti nella tratta dai campi alle loro baracche. Ieri nuovo schianto nel Foggiano, morti dodici braccianti. Sabato un altro incidente in cui hanno perso la vita quattro vittime. Si indaga per verificare se fossero nelle mani dei caporali. Ombre e sospetti che riportano alla cronaca le morti sul lavoro che a causa delle temperature altissime portano i braccianti ad accasciarsi nei campi, nei cantieri e anche sui camion. Lo chiamano caporalato, ma si legge sfruttamento umano, che non conosce limiti e va combattuto, tutelando i diritti dei lavoratori, qualunque essi siano, qualsiasi sia la loro nazionalità, oltre ogni colore della pelle. Lavoratori, che prima di tutto sono esseri umani. Sono lavoratori invisibili per la legge che però assicurano manodopera nelle condizioni più disagiate e con paghe da fame. Secondo alcune stime sarebbero 400 mila in tutta Italia e la conta delle vittime dello sfruttamento rischia di rimanere parziale: le loro morti a volte passano in silenzio, altre volte rischiano di essere catalogate come incidenti stradali, perché spesso si ribaltano i pulmini carichi di lavoratori. Viaggiano in venti su mezzi omologati per nove e finiscono per essere contate come vittime della strada. Un fenomeno che non nasce oggi, ma si radica di anno in anno, anche perché le norme, sancite dalla legge 199/2016, che sanzionano il caporalato sono di difficile applicazione. Le aziende trattano direttamente con i caporali il prezzo della manodopera, i lavoratori vengono caricati su dei pulmini all’alba, per arrivare in campi di periferia, durante il viaggio qualcuno si addormenta e quando arriva a destinazione, scendendo i gradini del pulmino non sa neppure dove si trova. Uno o due euro per ogni cassetta di prodotti della terra, che vuol dire ore ed ore con la schiena piegata sotto il sole cocente. Così il sole del Sud per molti è sinonimo di vacanza ben riuscita, per altri si trasforma in una condanna quotidiana. Un’emergenza e le morti ci invitano a reagire ed in tempi brevi. Nell’estate del decreto dignità che vuole restituire, stando alle parole del suo ideatore il Ministro dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, dignità ai lavoratori, non possiamo e non dobbiamo girarci dall’altra parte dinanzi ad una realtà vera e disumana. Impegno ed intensità, proprio come si combatte da anni nel nostro paese la battaglia contro la criminalità organizzata, perché i caporali sono delinquenti. Nel frattempo in una delle estati più calde uomini e donne continuano a spaccarsi la schiena per pochi euro al giorno, rischiando ogni giorno di morire di caldo e di lavoro, una realtà che ci circonda: molti dei prodotti che acquistiamo al supermercato provengono da una filiera sporca, fatta di sfruttamento nei campi e grandi guadagni per le multinazionali dell’agricoltura. Eppure gli strumenti ci sono, basterebbe solo accoglierli in un’ottica di rispetto ed umanità. Il rispetto dei diritti umani, specialmente in campo lavorativo, permette il progresso economico, sociale e culturale. Il lavoro dignitoso, dunque, è proprio la chiave di volta, l’elemento essenziale capace di implementare uno sviluppo equo e sostenibile nel tempo. C’è bisogno di uno sforzo condiviso: da parte del lavoratore che deve superare le paure ed i timori e denunciare lo sfruttamento lavorativo, perché il silenzio di tutti rafforza ciò che puzza di illegale e disumano. Di recente è nata una campagna nazionale di Fai-Cisl, denominata “Sos caporalato”, un numero verde e spazi social dedicati a raccogliere le segnalazioni e le denunce di quanti lavorano in condizioni di sfruttamento e illegalità nell’agroalimentare. Le segnalazioni al numero verde 800-199-100 serviranno per un monitoraggio sull’evoluzione del fenomeno e consentiranno anche a dare voce a tante lavoratrici e tanti lavoratori vittime di caporalato. D’altra parte c’è bisogno di uno sforzo legislativo che garantisca dignità ai lavoratori, punendo il fenomeno con la certezza della pena. Puntando a creare una filiera agroalimentare controllata, tracciata e seguita.
Riusciremo a rendere dignitoso ed umano il lavoro?
(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)
Una mamma dimentica la figlia di diciotto mesi in auto e va a lavorare. Dopo ore in macchina, sotto al sole, la piccola è morta. La tragedia si è consumata ieri a Castelfranco nell’Arentino. La donna, impiegata al Comune è stata ascoltata dai Carabinieri e dal magistrato, ha raccontato di essere partita di casa come ogni giorno per accompagnare la figlia all’asilo e poi andare a lavoro. Probabilmente la piccola si era addormentata ed è rimasta sotto al sole coi finestrini chiusi. Intrappolata nell’abitacolo rovente. Un passante accortosi della bimba in auto ha chiamato i soccorsi ma ormai la piccola era già in arresto cardiaco. Purtroppo è lunga la catena di precedenti: Giulia, Jacopo, e tanti altri vittime della dimenticanza dei loro genitori. Parcheggiare e andare via convinti in buona fede di aver già lasciato i figli a scuola. E’ una parte della mente che tende a distaccarsi dalla realtà, gli esperti lo chiamano “blackout mentale” che può essere causato dallo stress, l’affaticamento, le pressioni emotive, la mancanza di sonno: sono diversi i fattori che possono incidere. Di fatti, c’è un dissociarsi da una serie di gesti, sempre gli stessi che si ripetono ogni giorno credendo di averli già compiuti. L’abbandono in auto è indipendente dallo sviluppo intellettivo, ma è da attribuire a cause come lo stress, che determina un’alterazione acuta della capacità di riflettere. Secondo gli esperti è possibile dimenticarsi il proprio figlio in auto. Ed è così che nascono proposte per evitare queste morti tutte uguali tra loro, come una legge che preveda l’obbligo di sistemi di allarme anti abbandono in auto. Alcuni esperti, suggeriscono, un metodo classico e non tecnologico per non dimenticare il figlio in auto, come quello di mettere sotto il seggiolino del bimbo il portafoglio o le chiavi di casa. Non è un metodo attendibile, perché la persona deve ricordarsi di prendere questi oggetti. Ma esistono applicazioni che grazie ad uno specifico algoritmo danno la sicurezza di aver consegnato il bambino. Resta però il miglior dispositivo il baby car alert, che quando si spegne il motore dell’auto ma il bimbo è sul seggiolino avverte con segnali sonori. Quando vi è il supporto sociale, affettivo, familiare che è presente, tangibile, il disagio emotivo dei genitori si attenua. Morti e storie sconcertati che danno però una chiave per comprenderle: ritualità, fretta, giornate incastrate al minuto, gesti ripetuti centinaia di volte l’anno che diventano naturali come l’ultimo gesto che si fa prima di andare a dormire, diventando spesso automatismi. Gesti meccanici. Ci sono momenti in cui siamo fisicamente con i nostri figli, ma con la testa ci troviamo già al passaggio successivo, quando li lasceremo a calcio come tutti i mercoledì, quando li lasceremo dalla nonna come tutti i giorni alle sei. Momenti in cui diciamo sì a loro domande che non abbiamo ascoltato, in cui controlliamo la posta sul cellulare mentre ci raccontano cosa hanno fatto a scuola. E poi ci sono momenti in cui siamo lì, attenti e con la testa sgombra, ma solo stanchi. Umani e fallibili. Vittime , tutti, di piccoli corto circuiti: una banale dimenticanza, il quaderno non comprato, il libro lasciato a casa, la tuta non lavata proprio il giorno in cui ha ginnastica a scuola. E poi ci sono i corto circuiti spaventosi. Ci sono i bambini dimenticati in macchina. La pioggia di insulti sul web diretti alla mamma, la domanda di tanti: “come ha fatto?” mentre il sospetto terribile cova pauroso nel cuore di ogni genitore, di poter dimenticare per qualche minuto, le uniche persone che un genitore per tutta la vita non dimentica: i propri figli.
16 anni uno, 15 anni l’altro, Alex e Francesco frequentavano la stesa scuola ed erano anche amici su Facebook. L’altra sera, Alex al culmine di un litigio ha preso la pistola del nonno e ha ucciso Francesco, dopo l’omicidio il quindicenne si è recato alla caserma dei Carabinieri di Mileto, in Calabria per costituirsi. Dai Carabinieri e dalla Procura dei Minori di Catanzaro, che indagano emergono pochi dettagli. Testimoni avrebbero raccontato di un litigio tra i due ragazzi, qualche spintone, parolacce, forse per una fidanzatina contesa, poi i due si sarebbero dati appuntamento per chiarire il litigio in aperta campagna, qui Alex ha esploso all’indirizzo di Francesco tre colpi di pistola. L’assassino è figlio di un noto pregiudicato della zona. Il padre e il fratello pochi mesi fa erano stati arrestati con l’accusa di traffico internazionale di stupefacenti. La vittima, invece, viene raccontata come un ragazzo mite e buono. Un delitto brutale che riporta alla luce la violenza e la cattiveria che i giovani d’oggi covano dentro sino ad esplodere in atti eclatanti. Adolescenti o poco più che si sentono già adulti, offesi nel loro onore che và difeso, anche con un’arma da fuoco. Giovani violenti e pericolosi. Alex e Francesco due ragazzi diversi nella personalità e nel carattere, supportati anche da famiglie diverse. Alex è cresciuto nella guerra di mafia, in un clima in cui ha normalizzato nel tempo la violenza quale mezzo di risoluzione delle diatribe anche più futili. Un esempio che spesso è preso anche dalla società moderna e non solo da famiglie mafiose. Ciò che sconvolge in questa vicenda è la facilità a reperire e ad utilizzare un’arma da fuoco, oggetto facile nelle famiglie criminali, ciò assume contorni gravi e preoccupanti. I minori vanno tutelati e protetti, non è infatti difficile pensare all’allontanamento dei minori da contesti familiari mafiosi come rimedio preventivo e la Calabria ne è un esempio, grazie anche alla collaborazione e alle richieste di madri coraggiose che vogliono porre in salvo i propri figli, preservandoli da un futuro già scritto che inneggia alla cultura della morte e non della vita. Alex ora sarà affidato ad un carcere minorile, che accoglie ragazzi dai quattordici anni in su che devono essere custoditi in istituti di pena, se condannati alla reclusione per aver compiuto un reato. Si tratta di una prigione speciale, in quanto non si ha contatti con detenuti adulti e si tratta di condizioni meno severe e programmi specifici per i ragazzi. Sono controllati dai Centri di Giustizia Minorile. Il filo conduttore del procedimento minorile, dunque, è rappresentato dalla finalità educativa del minore: in quest’ottica, infatti, sono predisposti gli accertamenti sulla personalità del minore, finalizzati ad una idonea risposta alla condotta deviante dello stesso, comprensiva della valutazione della sua personalità e del contesto di provenienza. Minori e reati costituiscono oggi un’emergenza educativa. Dal punto di vista del Tribunale, il giovane dev’essere messo senz’altro nelle condizioni di comprendere cosa e perché ha sbagliato e di riflettere su quali conseguenze comporta il reato commesso, sia per lui che per la vittima. La “filosofia” dell’intervento prevede la messa in campo di validi strumenti per tentare un recupero del minore cosiddetto deviante, agevolando invece la possibilità di una rapida fuoriuscita dal circuito penale per coloro che non presentano gravi deviazioni nel percorso di crescita e socializzazione. Importante è anche la rieducazione che passa attraverso una buona cooperazione ed un ottimo lavoro di rete. Una misura largamente utilizzata in tema di rieducazione è la messa alla prova, che comporta una sospensione del processo, che, quando hanno un esito positivo, portano all’estinzione del reato. Si tratta dell’istituto più innovativo ed originale previsto dal codice processuale minorile e rientra tra quelli diretti ad evitare la condanna e, di conseguenza, l’esecuzione della pena detentiva. In altri casi è possibile che gli assistenti sociali coadiuvati anche dagli psicologi che seguono il ragazzo detenuto, delineano un progetto di rieducazione personalizzato che tenga conto delle sue attitudini, della sua curiosità, passando anche attraverso “cosa voglio fare da grande”. Ai giovani detenuti và data la speranza di una vita sì segnata ma anche di un cambiamento possibile solo con l’impegno e con le alternative della nostra società.


