Dai “non autosufficienti” ai centri antiviolenza, i super tagli alle politiche sociali del governo

cropped-cropped-cropped-cropped-cropped-foto-per-copertina-blog.jpgIl governo Gentiloni mette mano alle politiche sociali con un drastico taglio sociale. Un doppio taglio sia al Fondo Politiche Sociali che al Fondo Non Autosufficienza in virtù dell’accordo fra Stato e Regioni. Vita indipendente, assistenza domiciliare, asili nido e servizi per la prima infanzia, misure di contrasto alla povertà, vengono meno. Mentre, diminuisce anche il Fondo per le politiche sociali che oggi tocca quota 5% delle risorse che erano state stanziate nel 2004, l’anno del massimo storico. Il taglio ormai è certo, resta però la speranza che il presidente del consiglio Paolo Gentiloni possa intervenire. I tagli sono più che mai sostanziali: il fondo nazionale per la non autosufficienza vedrà una sforbiciata di 50 milioni di euro, scendendo per il 2017 da 500 a 450 milioni, annullando così l’aumento che il Parlamento aveva promesso sul finire del 2016. Ne risente in modo peggiore anche il Fondo per le politiche sociali che dai 311,58 milioni stanziati nell’ottobre 2016 scende a 99,7 milioni di euro. Un taglio che sembra nascere dall’accordo Regioni e MeF, ma che vede scomparire molti servizi dei quali essenziali. I tagli vanificano di fatto il Fondo Non Autosufficienza nato con la legge 296/2006, destinato a “garantire l’attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni assistenziali da garantire su tutto il territorio nazionale con riguardo alle persone non autosufficienti.” La nozione di non autosufficienza fa riferimento allo stato di disabilità avanzato che non permette alle persone di svolgere le normali funzioni della vita quotidiana, necessitando di un supporto assistenziale, solitamente ne beneficiano anziani e disabili. Quindi, le risorse contenute nel FNA sono dirette a potenziare l’assistenza domiciliare, che crea la condizione affinché la persona possa continuare a vivere a casa propria, ma finanzia anche l’acquisto di servizi di cura e di assistenza, quando è svolto dai familiari o interventi complementari al percorso domiciliare – brevi ricoveri in strutture di sollievo. Il Fondo fornisce risorse di supporto a quelle già esistenti dalle Regioni e dagli enti locali e servono a coprire la parte sociale dell’assistenza sociosanitaria. I tagli ricadrebbero su tutte queste prestazioni che non potranno così più essere garantiti o in minima parte. Il ridimensionamento economico tocca anche il Fondo Politiche Sociali, previsto dalla legge 119/1997 e ridefinito dalla legge 328/2000. Il fondo stanzia finanziamenti per tutti gli interventi di assistenza alle persone e alle famiglie ma regge anche i finanziamenti ai Piani Sociali Regionali e Piani Sociali di Zona, che hanno il compito in ogni territorio di disegnare una rete integrata di servizi alla persona rivolti all’inclusione dei soggetti in difficoltà, o comunque all’innalzamento del livello di qualità della vita. Il Fondo riesce a finanziare una molteplicità di cose: servizi di cura delle persone, in particolare di cura dell’infanzia e degli anziani non autosufficienti, servizi e misure per favorire la permanenza al proprio domicilio, servizi per la prima infanzia, servizi territoriali comunitari, servizi residenziali per le fragilità, misure di inclusione sociale e di sostegno al reddito, interventi e servizi a contrasto della povertà e dell’esclusione sociale. Una parte del Fondo nazionale per le politiche sociali destinata al Ministero del lavoro e delle politiche sociali finanzia da anni un programma di prevenzione dell’allontanamento dei minorenni dalla famiglia di origine. La crisi spinge a tagliare, quindi a sottrarre servizi e diritti agli utenti, annullando ogni possibilità di aiuto, caricando ancor di più le famiglie e le persone in stato di difficoltà. Un cane che si morde la coda ma a farne le spese sono le famiglie e i soggetti in stato di bisogno in un Stato assente e carente di risorse finanziarie.

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I figli del femminicidio: una legge, ora li tutela

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messTutele per gli orfani di femminicidio, la Camera, ha approvato la legge che tutela i figli rimasti privi di uno o entrambi i genitori a seguito di un crimine domestico. Lo spirito della norma si muove attorno alla certezza che la violenza familiare, gli omicidi domestici e i femminicidi sono un fenomeno diffuso in Italia e lo Stato ha il dovere di contrastare sia sul piano culturale che giudiziario, e le istituzioni devono guardare anche alle conseguenze che questi crimini determinano sui figli delle vittime. Come ha anche sottolineato nel suo intervento in aula la deputata del Partito Democratico, Marilena Fabbri. Proprio per tutelare gli orfani del femminicidio si è reso necessario mettere mano ad un aggiornamento del quadro giuridico e una nuova definizione degli interventi in grado di dare risposte serie, coerenti e in breve tempo, perché spesso questi bambini sono orfani tre volte: per la perdita di entrambi i genitori e per l’indifferenza dello Stato. Il provvedimento introduce nuove misure, come il patrocinio gratuito nel processo penale e nei procedimenti civili, l’assistenza medico-psicologica gratuita fin quando si rende necessaria, percorsi agevolati di studio, formazione ed inserimento lavorativo e la facoltà per i piccoli orfani di poter chiedere con procedura semplificata la modifica del proprio cognome. Norme che rappresentano un primo passo per lo Stato di stare accanto a questi “orfani speciali” che vivono una grande sofferenza, aiutandoli a continuare ad andare avanti mettendoli nelle condizioni di costruirsi un futuro. Ora il provvedimento passa al Senato. Terrore, tremori, fragilità. Poi lo scontro con la lenta e fredda burocrazia, è questa la vita dei orfani di femminicidio. Un incubo che investe le piccole vittime. Che fine fano? La cronaca li investe di attenzioni per qualche giorno: il pensiero corre al trauma indelebile di quel che è accaduto, si sprecano commenti ed indignazione. Poi, il buio. Un velo di oblio che negli ultimi anni è calato su 1.628 figli. Soltanto negli ultimi tre anni, stando ai dati sino al 2016: 417,180 minori dei quali: 52 sono stati testimoni dell’omicidio della madre da parte del padre, 18 sono stati uccisi insieme a lei. Nella metà dei casi tra le mura domestiche è entrata una pistola, un fucile, che ha fatto esplodere la quotidianità. Sono i dati che emergono da una ricerca finanziata dall’Unione Europea e condotta dalla Seconda Università degli studi di Napoli, con a capo la psicologa, Anna Costanza Baldry, che ha studiato il fenomeno insieme ad un équipe di psicologi dal 2011. Baldry, ha intervistato 143 di questi orfani: alcuni oggi sono adulti, hanno raccontato la loro storia da soli, con immense difficoltò, altri sono minorenni e sono stati accompagnati dai loro affidatari. I dati sono stati raccolti e presentati alla Camera, che ha redatto un documento di linee guida di intervento messo a disposizione dei servizi sociali, dei magistrati, insegnati e forze dell’ordine, con l’obiettivo di seguire un protocollo univoco e tempestivo. La ricerca fa emergere l’immenso bisogno da parte di questi bambini di attenzione e cura. Diritti che oggi le istituzioni gli negano. Si tratta di vittime che non possono contare sul supporto dei servizi. Così ci si scontra con un’Italia di battaglie sul bene superiore dei minori, dove protocolli e percorsi pensanti per chi sopravvive all’epidemia dei femminicidi – uno ogni tre giorni- non ne esistono, questi figli vengono dimenticati e l’anno successivo all’evento traumatico, quello decisivo, stando ai manuali di psicologia per evitare scelte estreme da parte loro, ci pensano nella maggioranza dei casi i nonni. Dolore al dolore, trauma su trauma, lutto su lutto. Montagne da scalare: i funerali, i processi la burocrazia, l’affidamento, le domande insistenti dei piccoli sui loro papà. Il papà non si cancella, lo stesso studio della dottoressa Baldry, riporta che spesso i bambini hanno chiesto del papà e le famiglie affidatarie non sanno gestire la situazione: in alcuni casi preferiscono attendere la maggiore età affinché  possano decidere da soli. Ma sei vittime su 10 spesso non riescono a reggere le lettere, gli incontri con quello che è stato l’assassino della mamma. Ci sono bambini che decidono per un incontro in carcere, mentre, le vittime adolescenti tendono a trovare delle giustificazioni all’inaudita violenza: lo stress, le liti. Lo studio, riporta anche, con molto stupore degli esperti, che in poche vittime scaturiscono psicopatologie particolari, mentre, il sentimento più esposto è la vergogna. Emerge anche che i piccoli si sentono diversi dagli altri, un vissuto ed un accaduto troppo ingombrante per loro, il non potersi sfogare pesa ancora di più, si ritrovano a vivere in una famiglia fatta di familiari che a loro volta ogni giorno in prima persona vivono il lutto. Nel caso dei maschi prevale il senso di colpa di non esser riuscito a salvare la propria mamma. Piccole vittime che si porteranno dentro un vissuto ed un dolore troppo grande che non possono vivere da soli, è ciò che stanno urlando ad un Stato sino ad ora assente e carente di servizi.

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Piccoli mafiosi, il destino scampato dei figli della camorra

img_0217Mani piccole e veloci che confezionano dosi di droga, le mani dei bambini usati come pusher. A 8 anni confezionano le dosi. A 12 già spacciano. Sono i bambini usati dalla camorra per gestire il mercato della droga. Accade a Napoli, dove qualche settimana fa i carabinieri hanno arrestato 45 persone affiliate al clan Elia. Figli della criminalità organizzata, bambini a cui l’infanzia viene negata: sparano, maneggiano la droga, interpretano il ruolo di piccoli boss. Per questo i giudici del tribunale per i minorenni spesso decidono di allontanarli dalle famiglie criminali. Togliendoli ai padri – padrini per offrirgli un’alternativa alla vita che gli adulti hanno scelto per loro. Allontanare un figlio dai suoi genitori, anche peggiori, non è mai una soluzione indolore. Lasciarlo, però, in balia di una famiglia che di mestiere confeziona pacchi di eroina, significa arrendersi alle leggi della malavita, compreso testimone alla successione nell’attività criminale. E’ in questo stretto corridoio tra due limiti opposti che i giudici decidono per l’allontanamento dei figli ancora minorenni dalle famiglie criminali. “Contesto pregiudizievole”, via i figli ai bossi della camorra di Napoli. A distanza di un mese dall’arresto dei 45 affiliati al clan Elia, i giudici hanno sottratto i figli alla responsabilità genitoriale. Il Tribunale dei minorenni di Napoli, ha disposto per loro l’accompagnamento in case famiglie in diverse regioni d’Italia, comunque fuori dai confini della regione Campania. I bambini erano impiegati totalmente nella piazza di spaccio, alcuni di loro non andavano a scuola ed erano già stati segnalati ai servizi sociali. I giudici dei minorenni hanno deciso che quello non era l’ambiente giusto per crescere e hanno allontanato i ragazzini. Restare nelle loro abitazioni, hanno scritto i giudici “affidati alla cure delle rispettive famiglie, significherebbe farli restare in un contesto che è stato per loro gravemente pregiudizievole”. Non solo: i bambini prendevano parte al confezionamento e allo spaccio delle dosi delle sostanze stupefacenti, per loro scatta anche il divieto assoluto di intrattenere rapporti con la propria famiglia, perché – scrivono i giudici- è necessario recidere i deleteri legami ambientali che hanno già potenzialmente compromesso l’equilibrio sviluppo dei minori”. Un provvedimento storico quello adottato dal tribunale per i minorenni di Napoli. Un provvedimento simile si era verificato già lo scorso anno a Reggio Calabria, dove i giudici hanno iniziato a sperimentare questo nuovo strumento per la lotta alla criminalità. I dati dicono che sarebbero già ottanta i bambini sottratti alla ‘ndrangheta, sempre rispettando il diritto e applicando la legge, senza forzature o scorciatoie. In effetti, gli strumenti offerti dalle norme sono diversi. Consultando il codice penale, questo consente di allontanare un minore dalla propria famiglia in caso di abusi sessuali, con una piccola riforma, l’articolo è stato esteso anche ai maltrattamenti. Ecco che in Calabria ne hanno fatto tesoro: il minore, figlio di un boss, a cui gli viene insegnato a sparare, può essere considerato un bambino “maltrattato” e allontanato dalla sua famiglia, fino alla decadenza della responsabilità genitoriale (ex patria potestà). Un secondo strumento legislativo che risale addirittura all’Italia monarchica, colpisce i “comportamenti irregolari”, anche se non costituiscono un vero e proprio reato specifico. Ai minori al disotto dei 14 anni non gli può essere imputato nulla, ma è prevista l’applicazione di particolari misure di sicurezza. In tutti i casi, una volta sottratti ai boss, con mogli loro complici, i figli dei criminali vanno in una comunità, in una casa famiglia, in un servizio sociale sul territorio, gestito dal comune, o in un servizio sociale che fa capo al ministero della Giustizia. Un primo passo che li allontana dal crimine, dal destino segnato che da adulti inevitabilmente li porta al carcere e al regime del 41 bis. Il distacco dalla famiglia è una strategia iniziale che và però seguita passo dopo passo, si tratta di bambini che si ritrovano lontano dal loro solito contesto, dai loro genitori, di bambini che si sentiranno forti o spaesati, che andranno supportati dagli psicologi, ma anche educatori, sarà compito dell’assistente sociale trovare per loro una soluzione a lungo termine e duratura, che abbia senso di famiglia, di accudimento, di indirizzo educativo. L’obiettivo primario dovrebbe essere ancor prima di drastiche misure: sconfiggere e contrastare la cultura della prepotenza e della sopraffazione, che dilaga non solo nelle case dei camorristi. La partita della prevenzione si gioca non nelle aule dei tribunali ma sul territorio, dove si è fragilissimi. I territori fanno i conti con la carenza di assistenti sociali nei comuni, che ricevono segnalazioni, ma non hanno le forze, gli strumenti, il tempo, per cercare di approfondirle, seguirle e speso non riescono ad impedire la crescita criminale di un minorenne. Una crescita che prevede una sorta di percorso fatto di tappe: prima la consegna a domicilio di una busta con la richiesta del pizzo o con una dose di eroina, poi l’attentato incendiario o l’avvertimento dimostrativo, e infine la lezione, armi in mano, per diventare uno spietato killer. Tutto in famiglia. 

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Napoli, un mare di design al Nauticsud 2017

20170219_165139.jpgIn uno dei luoghi più suggestivi della Campania, Napoli, la città più grande d’Italia, nonché una delle più famose del Mediterraneo. Sede di un grande e prestigioso porto commerciale, conosciuta per le scogliere e le spiagge della riviera di Chiaia e Mergellina, per gli storici lidi di Posillipo, per la grande spiaggia di Coroglio- Bagnoli, Napoli, rilancia il salone Nauticsud. Dopo una sospensione durata quattro anni, la fiera storica dell’ente partenopeo riparte e con grande successo di pubblico: nel primo week end, oltre 14 mila persone hanno fatto tappa alla Mostra d’Oltremare di Napoli. La nautica si lascia alle spalle la tempesta ed il Nauticsud rilancia il settore. Dall’acquascooter agli yatch, passando per i nuovi gommoni ad alta tecnologia, sposando design ed eleganza.

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C’è tutto il meglio della nautica italiana alla quarantaquattresima edizione del Nauticsud 2017, che alla Mostra d’Oltremare partenopea è pronta ad accogliere tra professionalità e brand di successo appassionati ed esperti del settore fino al 26 febbraio: 400 le imbarcazioni in esposizione in un’area di circa 300 mila metri quadrati, in cui c’è tutto l’indotto, dagli accessori agli arrendi, per un settore che certo non è di nicchia, perché i dati confermano una ripresa del comparto del circa 1,7% del Pil nazionale e registra circa 3 miliardi di euro di fatturato, di cui il 67% ottenuto sui mercati esteri. Cresce la cantieristica, migliora il mercato interno, tirano un sospiro di sollievo gli armatori: per la prima volta aumentano i contratti di leasing. Napoli, dunque, si conferma madrina del mare e della nautica, diventando capitale europea del settore nautico, trovando nello storico marchio della Mostra d’Oltremare la sua migliore vetrina. In pochi giorni di esposizione il Nauticsud ha riconquistato una dimensione nazionale di primo piano. Molte le novità in esposizione per l’edizione 2017. Il cantiere “Salpa” che presenta la doppia versione del 23 piedi fuoribordo ed entro bordo per il campeggio nautico, mentre, “Gagliotta” , presenta il gioiello di casa: la nuova linea Lobster, dal 35 ai 42 e 48 già in fase di realizzazione. Presente anche il brand “Fiart” con gli ultimi modelli di ritorno dalle fiere estere, mente, “Italiamarine” presenta in anteprima nazionale Sanremo24, presentato già a Parigi con grande successo. Per i gommonauti c’è la partecipazione in grande stile, di MV Marine, che presenta gommoni tecnologicamente innovatici, più veloci e con meno consumi. Al Nauticsud presenta una gamma evolutiva di battelli pneumatici: Mito 31, Vesevus 35 e Mito 45. Le unità pesano il 30% in meno della media, riducendo consumi ed emissioni a vantaggio del costo di esercizio e dell’ambiente. Sobrio ed elegante il design, i materiali impiegati sono di alta qualità, le carene sono apprezzate per la navigazione sempre morbida ed asciutta. Studio e sperimentazione in collaborazione con la facoltà di ingegneria navale dell’università Federico II di Napoli, hanno permesso in sintonia ai raid estremi, alla leggerezza dei manufatti, di garantire dei gommoni tra i migliori in termini di consumi. MV Marine si conferma anche per gli ottimi materiali, per la qualità costruttiva e per l’uso degli accessori utilizzati di risparmiare nel tempo sui costi di manutenzione. Caratteristiche che hanno permesso a MV Marine di conquistare il mercato europeo ed americano. Il Centro Nautico Marinelli  esporrà in anteprima assoluta il nuovo modello di gommoni Luxury 5,80, Performance Mare i marchi Yamaha con tutta la gamma, tra cui i nuovi F100F e F25G Aquabat. Non manca l’indotto tra cui la “Soft Marine”, leader nelle tappezzerie, oggi leader del settore dei superyatch. Per gli amanti degli yatch c’è “Rio Yacht” che torna nella città di Napoli con i suoi tre gioielli Espera, Paranà e Colorado. Tornato nella fascia alta del mercato, Rio, si è specializzato nella produzione di barche di lunghezza compresa tra i 10 ed i 20 metri, creando scafi contemporanei, innovativi nel design e nei contenuti. Uno dei gioielli da sogno è “Colorado 44”, 14 metri, un soffitto scorrevole in cristallo, con una motorizzazione in linea d’asse con motori Cummins QSB 6.7 che permettono velocità brillanti e consumi moderati. Eccellenze, brand di successo, professionalità, competenza, ampia scelta tra barche, gommoni, yatch, il Nauticsud sposa la tecnologia moderna, nuovi sistemi per la gestione delle fonti energetiche di bordo, comprese quelle rinnovabili, con progetti che abbinano l’elettronica e la potenza. Insomma, una risalita del settore nautico che fa ben sperare per il futuro, con una sensazione di rinascita per la nautica.

Articolo pubblicato su “il denaro” versione in Pdf. 16997790_1864340503855142_8679133938714517936_n20170219_195706.jpg

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Parto anonimo, per la Cassazione il figlio può cercare la madre

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messCon la maggiore età, il figlio di una madre che ha voluto partorire in totale anonimato ha il diritto di andare a cercarla. Lo ha stabilito di recente la Corte di Cassazione. I giudici sono intervenuti su un argomento al quanto delicato, sulla quale si sta discutendo da quattro anni, da quando la Corte Costituzionale nel 2013, aveva dichiarato illegittime le norme che impediscono, per motivi di privacy di risalire ed interpellare la mamma biologica. E’ da allora che si aspetta l’intervento del legislatore. I lavori sono iniziati dopo che alla procura della Cassazione era arrivata una richiesta di chiarimento dell’Associazione dei magistrati per minorenni e la famiglia, il primo presidente Giovanni Canzio aveva chiesto un pronunciamento alle Sezioni Unite, vista la particolare rilevanza della questione. Prima della pronuncia della Cassazione, i tribunali avevano deciso in modi del tutto diversi, in molti tribunali era stata respinta la richiesta di interpello perché in attesa dell’intervento del legislatore per dare corso alla richiesta del figlio, che il giudice interpelli in via riservata la madre naturale facendole presente la sua volontà di non essere nominata. In tribunali come Trieste, Piemonte e Valle d’Aosta è stata concessa la possibilità di interpello riservato anche senza la legge in forza dei principi dettati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e per effetto della sentenza di illegittimità costituzionale de 2013. La sentenza di Cassazione sgombra il campo da tante ipotesi e scelte diverse, infatti, si legge che, nonostante “il legislatore non abbia ancora introdotto la disciplina procedimentale attuativa”, c’è “la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini e di accedere alla propria storia parentale, di interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione.” Stando i dati forniti nello scorso anno dal tribunale per i minori di Roma, su quindici istanze presentate prima della pronuncia della Cassazione, di figli che hanno chiesto alle madri di rimuovere l’anonimato, tredici donne hanno accettato e due hanno detto di no. Libertà di scelta. Il verdetto colma il vuoto normativo ma colma anche il desiderio di tanti bambini, oggi uomini e donne che nonostante una famiglia adottiva solida e amorevole, nonostante la loro età adulta ed il percorso di vita, sentono un vuoto che risale alle loro origini, un vuoto fatto di domande che cercano una risposta, un vuoto che vuole ricercare il volto di quella mamma che li ha messi al mondo. Una sentenza che fa gioire anche tante “mamme anonime”, che finalmente potranno far cadere quel velo segreto, felici di poter ritrovare i figli abbandonati, mentre, altre mamme decideranno di rimanere “mamme segrete”, preferendo il ricordo della nascita ed il dolore, nella maggior parte dei casi, dell’abbandono, facendo sì che molte buste, con i dati del dramma dell’abbandono, restino di nuovo blindate. Per sempre. Nei cassetti di un tribunale.

 

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L’Italia, il paese dei comuni sciolti per mafia. La metà si trova in Campania

IMG_0217Poche righe: tre per l’esattezza nel comunicato stampa di resoconto della seduta venerdì mattina (27/01/2017) del Consiglio dei Ministri. Poche parole che sanciscono l’epilogo della lunga vicenda giudiziaria e dell’esperienza politica di Pasquale Aliberti, sindaco di Scafati. Il Consiglio dei Ministri ha deciso di sciogliere per infiltrazioni mafiose il consiglio comunale di Scafati. Il provvedimento che da Roma approda nella cittadina salernitana è solo l’ennesimo che sancisce un’Italia sciolta per mafia. Un paese dai Comuni sciolti per collusione con la criminalità organizzata. Dal 1991 anno in cui fu approvata dal Parlamento italiano la legge 221, sono 258 i comuni sciolti per mafia, per una media di uno ogni mese. Da circa un quarto di secolo ogni mese un municipio viene commissariato per infiltrazioni della criminalità organizzata, è questa la fotografia dei comuni italiani dal 1991, anno in cui è stata introdotta la speciale legge che prevede il commissariamento per i comuni in cui viene accertata l’infiltrazione della criminalità. Spulciando l’elenco dei comuni sciolti per mafia, si passa dai piccoli municipi ai comuni come Reggio Calabria, che detiene il triste record. La legge sullo scioglimento delle amministrazioni “a rischio infiltrazioni mafiose” non ha fatto sconti, e dal 1991 al 2014, nella sola Calabria, tra giunte e consigli mandati a casa su richiesta delle prefetture calabresi sono state 79. La Calabria si pone al secondo posto tre le regioni italiane nella quale la legge è stata applicata, con una situazione leggermente migliore in Campania e leggermente peggiore della Sicilia. L’ultimo caso in ordine di tempo è quello di Platì, comunità dell’entroterra della locride, dove nessuno vuole fare più il sindaco convinto che il comune sarebbe comunque sciolto per mafia a causa della nomea dovuta all’elevata densità mafiosa o delle parentele scomode. Di fatti, a Platì, tranne qualche piccola parentesi, dal 2003 non c’è un’amministrazione, a poco sono servite le elezioni della scorsa primavera. Nessuna lista si è presentata alla competizione elettorale. Con dati alla mano, si nota, come dall’entrata in vigore della legge sono oltre 4 mila gli scioglimenti “ordinari” , municipi che per vari motivi hanno interrotto la loro attività in via ordinaria, per dimissioni dei consiglieri, mozioni di sfiducia, o tutto ciò che prevede l’articolo 141 del testo unico sugli enti locali. Ma tornando alla legge, il risultato della sua applicazione è impressionante: 175 enti sciolti ogni anno, vale a dire un comune commissariato ogni due giorni. Ma nella lista dei comuni sciolti per infiltrazioni, la metà si trova nella sola Campania. Gli ultimi in ordine di tempo sono Boscoreale e Brusciano, per sospette infiltrazioni e condizionamenti della criminalità organizzata. Dal 1991 anno dopo anno, decreto dopo decreto, la Campania ha iniziato a collezionare il triste primato del maggior numero di amministrazioni colpite da questa nuova arma nella lotta alla criminalità organizzata. Dal 1991 circa la metà, 44,3% dei provvedimenti di scioglimento adottati in Italia, hanno interessato enti campani, cinquantanove in tutto, dodici dei quali nel corso degli anni sono stati sciolti ben due volte. Località essenzialmente concentrate sono tra la provincia di Napoli e Caserta. Quasi mezzo milione di abitanti, risiede nel territorio di comuni campani attualmente commissariati.

 

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Il dramma dei bimbi del Rigopiano: cosa succede ora ai piccoli orfani

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messErano lì coi loro genitori per qualche giorno di vacanza, guardavano la neve bianca candida e ai loro occhi era lo spettacolo della natura, il freddo era l’occasione imperdibile per vederne scendere più e più, morbida e avvolgente. Edoardo, Samuel e i fratellini Parete, Gianfilippo e Ludovica: sono questi i nomi dei bambini dell’hotel Rigopiano. Per loro si è rinnovato il miracolo della vita, seppur resta difficile parlare di miracolo, se non altro considerati tutti i dispersi e il bilancio delle vittime, per loro questo è un vero miracolo. Nei loro occhi restano le immagini della tragedia, la loro vita resterà accumunata a questa tragedia: sono rimasti intrappolati tra la neve e le macerie, il loro rifugio è stata la bolla d’aria che li ha protetti sino all’arrivo dei soccorritori, che con tenacia ed esperienza hanno lavorato contro ogni avversità climatica, aiutando i piccoli dell’hotel Rigopiano a “rinascere”, passando attraverso un buco scavato dal ghiaccio. Le braccia dei soccorritori hanno ricordato ai bambini le braccia di mamma e papà con un’immensa voglia di abbracciare i loro genitori. Drammaticamente non a tutti i bambini dell’hotel Rigopiano è toccata la fortuna di riabbracciare i loro genitori. La famiglia Parete si è riunita in ospedale, nella stessa stanza. Mentre, il piccolo Edoardo ha dovuto fare i conti con la tragica notizia della morte dei suoi genitori. Dopo la battaglia contro la morte, il piccolo dovrà ora combattere contro la solitudine, il ricordo, il rimpianto di essere rimasto solo improvvisamente. Rimasto solo dopo la vacanza anche il piccolo Samuel, i suoi genitori dapprima dispersi sono stati ritrovati senza vita in quel cumolo di macerie e neve. Oggi i piccoli dell’hotel Rigopiano stanno fisicamente bene, hanno superato quella leggera ipotermia, ma sono psicologicamente provati. Difficilmente i bambini piccoli riescono ad inquadrare e a metabolizzare velocemente un evento tanto traumatico, nella disperazione iniziale, sopraffatti dalla paura, potrebbero crearsi un mondo tutto loro in cui trovare conforto. Dimenticare per loro sarà difficile. Per loro comincia ora il momento più difficile, supportati da un’equipe di psicologi che accompagneranno i bambini nell’elaborazione del lutto e del dolore, cercando di accantonare i ricordi del buio e delle macerie miste alla neve e al gelo. Sarà, invece, compito degli assistenti sociali, supportati dai psicologi trovare una famiglia ai piccoli, si cercherà tra i familiari più stretti: i nonni o si opterà per gli zii, in base alla disponibilità e al legame affettivo esistenti prima della tragedia. Si cercherà di poter assicurare a questi bambini la continuità affettiva, l’appoggio emotivo e la stabilità di una famiglia che dia loro un indirizzo ed un insegnamento, ma che li aiuti ad elaborare il lutto, esternandolo anche: aiutati dalle famiglie e dagli esperti del settore. Un’assistenza che deve prolungarsi nel tempo, affinché eviti lo sviluppo di disturbi da stress post traumatico che potrebbero portare, ad esempio per i bambini rimasti orfani ad un isolamento sociale. Il primo approccio servirà ad evitare la cronicizzazione degli effetti del trauma, cercando di bypassare lo stress post traumatico. Ovviamente c’è già un’equipe di psicologi a lavoro sull’effetto immediato, il problema sarà il post, il non lasciarli soli a distanza di tempo dall’evento. Nel caso dei bimbi rimasti soli ed orfani, l’assistenza post evento diventa alquanto importante e necessaria, un’assistenza anche per chi si prenderà cura di loro, un sostegno alle funzioni genitoriali, supportati dagli assistenti sociali. Il supporto ai bambini dell’hotel Rigopiano è alquanto complesso, non ci sono solo bambini che hanno perso i genitori, ma i piccoli di Rigopiano hanno vissuto per giorni in un cunicolo al buio e al freddo. L’intervento e le possibili conseguenze dipendono dall’ambiente che verrà costruito intorno a loro, il rischio è che diventino anaffettivi, che abbiano difficoltà ad esprimere affetto, tendendo a isolarsi. C’è da dire che i bambini hanno una grande capacità di recupero. Per i sopravvissuti, c’è anche il rischio di vivere un vero e proprio senso di colpa, di essere sopravvissuto a discapito di persone che invece non ce l’hanno fatta, che nasce dal pensiero di non aver fatto di tutto per poter salvare quelle persone, per poterle aiutare. Anche in questo caso il sostegno psicologico deve essere mirato e sostenuto nel tempo.

(Articolo pubblicato su “ildenaro.it”)

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Disabilità. Caregiver familiari, il riconoscimento è un diritto

Dopo un lungo periodo di immobilità, il 24 gennaio scorso, è ripreso l’iter parlamentare di tre decreti legge che riconoscano la figura del caregiver familiare. Contributi per il lavoro di cura, prepensionamento, un’assicurazione per consentire al caregiver stesso di curarsi, sono al centro della proposta di legge. I caregiver, dunque, vanno verso il loro primo riconoscimento giuridico in Italia. I tre disegni di legge mirano a dare il riconoscimento a quell’enorme lavoro da di cura prestato da un familiare a chi necessita di cure ed assistenze continue, con perizia e con amore. Tre i testi al vaglio dei senatori, il primo sulle misure a favore di persone che forniscono assistenza a parenti e affini anziani, segue quello sulle norme per il riconoscimento ed il sostegno del caregiver familiare, infine, la legge quadro nazionale per il riconoscimento e la valorizzazione del caregiver familiare. Un passo importantissimo, gridano soddisfatti dal Coordinamento Nazionale Famiglie Disabili, che è stato possibile grazie alla partecipazione collettiva della società civile alla campagna “#unaleggesubito”.
Chi è il caregiver? Il caregiver è un familiare, un parente stretto o un amico vicino, che nel tempo stabilisce una relazione, un legame affettivo e di cura con il soggetto che necessita di cure ed assistenza continua, dovuta alla sua disabilità, al suo stato di malattia. Il caregiver spesso deve ridisegnare la sua vita privata, i suoi rapporti con l’esterno, gestendo diversamente il suo tempo libero, i suoi orari, i suoi rapporti lavorativi e familiari. Si dedica per gran parte della giornata, a volte anche di notte, alla cura e all’assistenza del soggetto bisognoso. Si crea un rapporto solido e duratura con la persona che si accudisce, ma per il caregiver c’è il rischio di un isolamento dagli stessi rapporti familiari, spesso il lavoro di cura, li spinge a lasciare il loro lavoro, portandoli ad un rapporto a due: caregiver e soggetto da aver cura. Gli effetti del lavoro del caregiver si producono nel tempo sia a livello psicologico: veder soffrire chi si ama non è facile, sia a livello fisico: perché le forze vengono meno e si va incontro agli anni che passano.
Una legge…. Il decreto diventa importante perché guarda la disabilità oltre un business, guardando ad una realtà enorme fatta di persone che con amore si prendono quotidianamente cura dei propri cari disabili o ammalati, sostituendosi di fatto allo Stato che con i suoi continui tagli al welfare, non riesce più a garantire assistenza. L’Italia è l’unico paese in Europa a non aver legiferato in merito. La sola legge “dopo di noi” non basta, è circoscritta alle persone con disabilità dopo la morte della famiglia per collocarli in una struttura che riproduce l’ambiente familiare anche se, di fatto, familiare non è.
La proposte nel dettaglio: Nelle proposte al vaglio del Parlamento si mira a garantire tre forme di tutela. La prima di tipo previdenziale, si vuole riconoscere il lavoro di cura, anche a livello previdenziale. Chi ha lavorato e nel frattempo ha anche svolto un lavoro di cura, si vede riconosciuto quel lavoro, nel senso che si contributi previdenziali da lavoro si sommano anche i contributi per il lavoro di cura, a carico dello Stato. L’ipotesi è che ogni 5 anni di lavoro di cura ne venga riconosciuto uno di contributi previdenziali a carico dello Stato e la somma di questi contributi ovviamente consente di andare in pensione prima. La legge però riconosce i contributi anche per il caregiver familiare che è stato costretto a lasciare il lavoro o a fare un part time o che mai ha potuto lavorare. La seconda proposta è una tutela assicurativa, ovvero, che lo Stato riconosca il diritto alla salute, che copra le vacanze assistenziali. Non è pensabile che un caregiver non possa ricoverarsi né curarsi a casa propria per delle sue difficoltà, perché non può abbandonare il proprio congiunto non autosufficiente. La terza tutela è la richiesta di riconoscimento delle malattie professionali: le badanti, che fanno assistenza per lavoro, 8 ore al giorno, hanno un riconoscimento delle malattie professionali, legate ad esempio al sollevare la persona allettata. Il caregiver familiare lo fa H24, ma non ha nulla. Un caregiver che deve sottoporsi ad un esame diagnostico deve pagare il ticket sanitario, mentre, una badante non lo paga.
Quanti sono i caregiver? Non essendoci ad oggi un riconoscimento giuridico, non esiste neanche una quantificazione numerica sui caregiver. Ci sono delle stime Istat sulle persone con disabilità, ma alla persona con disabilità non corrisponde per forza di cose un caregiver familiare prevalente. E anche facendo riferimento ai dati INPS, è impossibile dire quanti di queste persone con disabilità sono in una condizione di non autosufficienza tale da avere la necessità di un caregiver familiare H24, perché la classificazione della disabilitò che abbiamo in Italia mette un po’ tutti nello stesso calderone. Quindi è impensabile fare una quantificazione. Proprio la mancanza di una platea finale destinataria della legge, potrebbe essere un intralcio per l’approvazione ed il riconoscimento giuridico del caregiver familiare, ma dal Coordinamento nazionale fanno sapere che è possibile procedere, paragonando anche la legge sulla pensione di reversibilità per le coppie di fatto, la legge uscì dal Parlamento senza una platea e senza la copertura.
Insomma, bisogna andare oltre ostacoli e scuse per riconoscere un ruolo alquanto importante e amorevole che da troppo tempo avviene in silenzio e senza alcun riconoscimento da parte dello Stato.

(Articolo pubblicato su “ildenaro.it”) 

Aborto in Italia, quella 194/78 da rivedere per tutelare un diritto

Arrivò nel 1978, contrastata fortemente dalla Chiesa cattolica, che riconosce il diritto alla vita sin dalla procreazione, mentre gioivano i movimenti femministi, per una conquista, un diritto tutto femminile, la legge sull’aborto (194/78). La legge garantisce all’articolo 4 il diritto delle donne a interrompere volontariamente la gravidanza e all’articolo 9 prevede il diritto per i medici e il personale ausiliario di non prendere parte all’intervento di interruzione di gravidanza, se abbiano sollevato obiezione di coscienza. La norma prevede però anche l’obbligo di espletare il servizio, sia per le case di cura che per le strutture sanitarie, in caso di emergenza e di pericolo di vita della donna, in questo caso il personale sanitario non può invocare l’obiezione di coscienza. Queste direttive però, come hanno dimostrato i recenti casi di cronaca, non sempre vengono applicate, e molti parlamentari ed attivisti per i diritti all’autodeterminazione delle donne, il problema è dovuto all’alta percentuale di medici obiettori. La dimostrazione arriva dai due ricorsi presentati dall’organizzazione internazionale non governativa InternationalPlanned Parenthood Federation European Network e da Laiga (Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge 194/78), e dalla Cgil, che sono stati accolti dal Comitato Europeo sui diritti sociali del Consiglio d’Europa. L’autorità europea ha condannato in un primo tempo l’Italia per la difficoltà di applicazione della legge per le donne e anche per le condizioni in cui deve lavorare la minoranza di medici non obiettori, smorzando in seguito il parere solo dopo aver avuto dal ministero le controdeduzioni sull’argomento. Il ministero della salute Beatrice Lorenzin aveva rassicurato la Corte e il Parlamento sulla situazione dell’Italia, rispondendo alle accuse e fornendo dati che segnalavano un calo di aborti negli ultimi trent’anni e una diminuzione di non obiettori di 117 unità. Un diritto che va garantito oltre i dati, a ribadirlo è anche Marilisa D’Amico, l’avvocato che ha presentato i reclami in Europa, nel nostro paese questo diritto non è sempre assicurato, tuona l’avvocatessa. Non basta dunque il numero di aborti dichiarati per dire che l’emergenza non esiste, ma secondo le voci critiche il ministero dovrebbe intraprendere azioni concrete e cominciare a verificare struttura per struttura la presenza di obiettori e la possibilità effettiva di eseguire un aborto. Così la 194 risulta carente e fioccano le proposte di modifica. Sono di queste settimane le proposte di modifica depositate dai diversi partiti. Una di queste è quella presentata dai deputati di Alternativa libera-Possibile a febbraio 2016 e vede tra i primi firmatari Beatrice BrignoneeGiuseppe Civati. La proposta ha l’obiettivo di portare a “un migliore bilanciamento tra il legittimo esercizio dell’obiezione di coscienza e l’altrettanto legittimo ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza” garantendo che una percentuale di almeno il 50%del personale sanitario e ausiliario degli enti ospedalieri e delle case di cura autorizzate non sia obiettore, e istituendo un numero di telefono gratuito che informi i cittadini sulle modalità di applicazione della legge. Il senatore Maurizio Romani, ex Movimento 5 stelle ora passato al gruppo misto con Idv e primo firmatario di un’altra proposta di modifica della 194, si spinge oltre affermando che nelle strutture la percentuale di personale medico non obiettore dovrebbe essere del70%, ossia il contrario di quanto avviene attualmente. Dalle stesse critiche parte anche l’iniziativa della deputata del Pd Giuditta Pini, con una proposta che va nella medesima direzione: prevede che per diventare direttore di una struttura sanitaria e di un dipartimento o per presiedere policlinici sia necessario non essere obiettori né esserlo stati nei 24 mesi precedenti. Solo in questo modo, secondo Pini, si avrebbe la certezza dell’applicazione dellanorma sull’aborto. Le proposte ci sono e sono chieste a gran voce, ma il problema è che arrivare a un cambiamento rappresenta anche un rischio: c’è chi contrasta la modifica, chi teme invece che possa portare ad un passo indietro invece che a un miglioramento. Bisogna, in Italia, confrontarsi con la politica ma anche con le associazioni ed i movimenti pro vita, e soprattutto con l’influenza della Chiesa cattolica. Forse basterebbe sforzarsi nell’applicare la legge, ciò significherebbe iniziare a rispettare il diritto delle donne, sancito appunto dalla legge.

(Articolo pubblicato su “ildenaro.it”) 

Caos ospedali, l’odissea dell’Umberto I di Nocera Inferiore

I pronto soccorso italiani nella bufera. Mentre il “caso Nola” rimbalza alla cronaca, dove i pazienti venivano soccorsi a terra su coperte e traverse, e i preoccupanti dati della commissione parlamentare sugli errori sanitari sono il fronte più grave e visibile della situazione, la realtà è anche composta da centinaia se non migliaia di piccoli disservizi, di enormi attese, di poco personale, di malati e familiari non sostenuti dai sanitari come la situazione di disagio che vivono meriterebbe. Code interminabili, barelle in corridoio, ambulanze in coda per l’accettazione, medici e infermieri estenuati da turni lunghissimi e pazienti insoddisfatti. Accade all’Umberto I di Nocera Inferiore, l’unico ospedale della zona ad avere un pronto soccorso, nosocomio che ogni giorno vanta decine di accessi. Luci ed ombre, carenze ed eccellenze che si intrecciano in un groviglio complesso per l’ospedale nocerino. Si comincia dal 118 che viaggia con mezzi obsoleti e personale sottodimensionato rispetto alle piante organiche. Spesso sui mezzi di soccorso manca la lettiga o le lenzuola, che vengono richieste ai familiari nel momento in cui viene prelevato il paziente. Quando si accede al pronto soccorso del nosocomio nocerino si ha l’impressione di essere in un campo da guerra, caos, familiari ovunque, malati lasciati sulle barelle o sulle sedie a rotelle, pochi medici e altrettanti infermieri, una continua emergenza, che spesso li costringe a dimettere il paziente senza neanche un esame diagnostico ed una diagnosi, capita che alcuni pazienti vengono soccorsi perché proprio al pronto soccorso hanno delle crisi o ulteriori malesseri. Decine di barelle, un groviglio di barelle. E decine di anziani in sofferenza d attendere ore ed ore che qualcuno dia un cenno a loro a ai parenti che li assistono. I medici sono sotto stress con turni massacranti ed un bacino d’utenza troppo ampio per un personale ridotto. I reparti sono stracolmi, spesso è impossibile ricoverare i pazienti all’ospedale di Nocera, difficile a volte trovare posto in un altro ospedale. Le stanze dei reparti sono piene di pazienti, che a volte restano in barella, a terra si ritrova sangue o comunque poco igiene, che spinge i familiari dei degenti a pulire da soli, spesso mancano lenzuola pulite costringendo l’ammalato a restare sporco dopo essersi sentito male o a portarle da casa. Nel primo pomeriggio, durante l’orario delle visite, è semplice intrufolarsi e ascoltare le lamentele dei familiari degli ammalati che ringraziano per il semplice fatto di aver rivolto loro la parola in una struttura che li tratta come numeri e nulla più. I pazienti diventano numeri e la mole di lavoro, le emergenze, spesso portano i medici a non riuscire a seguire i pazienti, che restano sofferenti e bisognosi di cure. Le conseguenze ricadono sugli ammalati. Una situazione insostenibile, sia per il personale sanitario che per gli ammalati, provocata da una burocrazia sorda alle reali necessità dei cittadini.

(Articolo pubblicato su “ildenaro.it”)