Tragico, disumano, scomodo persino da concepire, inimmaginabile. Eppure il dramma dei giovani adolescenti che arrivano a togliersi la vita è una vera emergenza sociale. La cronaca degli ultimi tempi è un susseguirsi di notizie che riportano la morte tragica di ragazzini poco più che adolescenti che hanno deciso di togliersi la vita. Con loro svanisce il senso della vita dei genitori, l’illusione si essere una famiglia normale e serena. In loro la domanda più dolorosa “come ha potuto fare un gesto del genere?” Purtroppo, quel gesto non è così raro. In Italia, secondo le statistiche, lo compiono circa 500 giovani ogni anno. Per uno che ve ne riesce, ci sono circa quattro o cinque tentativi sventati. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il suicidio è la seconda causa di morte in Europa nella fascia d’età tra i 15 e i 29 anni, segue poi la morte per incidente stradale.
Un paradosso delle società occidentali: cresce la qualità della vita, si accarezza il benessere ma non diminuisce il numero di chi decide di togliersi la vita. Il problema è l’inafferrabile solitudine dei figli. Il salto nel vuoto di ogni giorno. Da genitori si può sbagliare per amore, ma sbagliare per amore non cancella l’errore. I genitori spesso cercano tra le cose dei figli, la paura più grande dell’ultimo decennio è l’hashish, alcuni di questi chiamano i carabinieri, per risolvere alla radice il problema generato dalla scoperta e può apparire un atto di coraggio. Forse lo è, forse però no. Un gesto, a volte dettato dalla disperazione. Ma dietro lo sballo o la chiusura totale del figlio c’è la solitudine. C’è il silenzio lancinante. Il dialogo oramai divenuto impossibile con la generazione di oggi. Il silenzio delle chat, gli smartphone, l’aver dimenticato di guardarsi negli occhi quando si parla, di non avere un adulto di riferimento con il quale confidarsi. La mente di un adolescente è un universo a sé. Il mondo a volte può ferire, travolgere, agitare una coscienza. I genitori sono avvolti in un amore permissivo che impedisce di guardare nel cuore dei propri figli. Le canne, saranno pure un problema ma la morte come auto-punizione inflittasi è del tutto sproporzionata. I campanelli d’allarme ci sono. Ma spesso vengono sottovalutati. Di morte non se ne parla, ancor di più di suicidio, in famiglia come a scuola, è ancora considerato un tabù. Bisogna imparare a parlarne e ad ascoltare. Se l’adolescente fa capire di avere intenzione di togliersi la vita, bisogna prendere seriamente il suo messaggio ed intervenire. Alcuni adulti credono che di certi argomenti sia meglio non parlarne per non istigare, ma le ricerche dimostrano che non è così. Affrontare l’argomento in modo diretto e dare ascolto alle voci dei ragazzi è esattamente quello che bisogna fare. Un adolescente su due ha pensieri suicidi. L’adolescenza è un periodo difficile, se non si percepiscono prospettive e speranza per il futuro, ma si avvertono ostacoli e difficoltà, che a quell’età appaiono insormontabili, si può decidere di voler scomparire. L’adolescenza è il passaggio alla vita ed è il momento in cui si prende consapevolezza della difficoltà della vita. I fattori scatenanti possono essere i conflitti con i genitori, brutti voti scolastici, il cyberbullismo. Bisogna fare attenzione e coglierli come segnali non solo l’annuncio da parte del ragazzino di volersi suicidare, ma anche quando mostrano eccessiva tristezza, chiusura, quando provano a scappare di casa. A quel punto tocca all’adulto cercare il dialogo e affrontare il problema e talvolta farlo anche con uno psicoterapeuta in grado di ascoltare dapprima l’adolescente e poi la famiglia, in grado di ricongiungere un dialogo familiare inesistente o perso. Le famiglie però faticano a chiedere aiuto, perché c’è ancora un pesante stigma sociale intorno alla sofferenza mentale. L’adulto deve essere in grado di andare oltre le proprie idee e i propri preconcetti, e prendere sul serio il figlio, ricalibrare le reazioni in base al problema del suo ragazzo prima che sia troppo tardi. I genitori non sono responsabili del male di vivere dei figli. Anzi, se adeguatamente supportati da uno psicoterapeuta la famiglia è una risorsa preziosa per questi ragazzi.
(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)
Il battito che non si sente più. La vita che è dentro si ferma. Il silenzio. Lo choc. Il vuoto d’improvviso, dopo nove mesi trascorsi nel limbo della beatitudine. Succede tutto in pochi istanti, la rottura della acque, la corsa affannosa in ospedale, le complicazioni durante il parto, e poi il silenzio assordante, che resta vuoto generando una spirale di dolore, sofferenza e lacrime. Bambini che non ci sono più prima ancora di assaporare la vita. Ma sono esistiti e meritano un’identità nella memoria dei genitori e della società. Lo chiamano “lutto perinatale. E’ un fenomeno quasi sconosciuto alla cronaca ma che accomuna più di due mila genitori l’anno nel nostro Paese. Ogni giorno, in Italia, secondo i dati più recenti, muoiono sei bambini di cui tre in periodo perinatale, cioè tra la ventiduesima settimana di gestazione ed i primi tre giorni di vita. A livello mondiale le morti in utero riguarda ogni anno tre milioni di bambini e le loro famiglie. Un lutto vasto e che spesso resta nel trauma di chi lo vive o lo ha vissuto, e cioè nel ricordo delle mamme e dei padri mancati. Negli ospedali i medici e le ostetriche nella stragrande maggioranza dei casi non hanno il tempo di seguire il “singolo” caso, e la morte resta un terribile lutto personale inascoltato, incompreso, difficile da metabolizzare, e se i medici vedono la morte neonatale come una casistica o letteratura scientifica da confrontare e studiare. “Fuori”, a casa, amici e parenti non riescono e non possono fornire il giusto supporto per la trasformazione del dolore, che ci si riduce a frasi di circostanza, ad un abbraccio ricco di tristezza e di pianto, perché chi è intorno spera che si possa dimenticare e presto. “The show must go on” la vita va avanti. Forse per gli altri, ma un neo genitore che si trova ad affrontare il terribile lutto della perdita di un figlio ancora in fasce o di una gravidanza che ha portato alla luce un neonato morto, non potrà mai dimenticare, almeno non così facilmente o con leggerezza. C’è bisogno di parlare di lei o di lui. C’è bisogno di tradurre il dolore in qualcosa di significativo per la propria vita, proprio perché non è e non sarà più la stessa di prima. Per non dimenticare e per abbracciare ed unire le famiglie che vivono un simile lutto, il 15 Ottobre di ogni anno, seppur molto in sordina, si celebra il Babyloss Awareness Day, la giornata mondiale della consapevolezza sul lutto in gravidanza e dopo la nascita. Nelle grandi città, da Roma a Milano, si svolgono momenti di sensibilizzazione, formazione e commemorazione, per unire le famiglie ed i medici in nome di quei bambini che non ci sono più. Un lutto da solo non può essere affrontato, i neo genitori, hanno bisogno di un aiuto psicologico per risollevarsi ed eventualmente nel corso della vita riaffrontare una nuova gravidanza. L’associazione “CiaoLapo” dal 2007 forma e prepara volontari in tutte le città. Perché i genitori hanno bisogno di ritrovare un giusto equilibrio tra ciò che sembrava perso e ciò che ritrovano. Perché solo col giusto supporto, accompagnato dall’empatia, è possibile far pace con un pezzo della propria esistenza, dando strumenti per aiutare le donne che sfuggono ad ogni contatto dopo questo dolore. Ci sono dolori che lacerano, sembrano ferite immense, soprattutto nel cuore e nella vita dei genitori, che hanno atteso e sognato l’arrivo della nuova vita e che in un attimo si ritrovano di fronte allo choc, allo sconforto, alla rabbia, al dolore, alla vita beffarda e nemica, impossibile pensare di poter sopravvivere da soli in un mare così immenso di dolore, nessuno si salva da solo e se supportato dagli esperti e dalla famiglia quel dolore viene trasformato in sopravvivenza, e non pensate che si possa cancellare, semplicemente riviverlo e lasciarlo nell’angolo del cuore come un ricordo doloroso ma affrontato, così da potersi stringere a braccia affettuose e alla vita che nonostante sia beffarda e forse cattiva continua e merita di esser vissuta in nome anche di chi per nove mesi attendeva di viverla. Non dimentichiamo o accantoniamo il dolore di questi genitori, significherebbe lasciarli da soli e dimenticare anche i piccoli esseri umani che non ci sono più, il loro ricordo passa prima di tutto all’aiuto, ai mezzi, alle reti che riusciremo a creare e a dare ai loro genitori.