Archivi categoria: E’ la vita bellezza

Siamo un Paese che resta in silenzio davanti ai soprusi. 

  Il vero male del nostro paese è l’omertà e la protezione. Siamo un Paese rassegnato al danno, al problema. Eppure spesso il danno ci viene recato direttamente. Restiamo in silenzio, immobili. È una storia che ogni volta si ripete: per paura, perché pensiamo che alcune persone siano “forti”, o perché si pensa che quella persona possa servirci, in quanto influente. Non esiste nulla di più influente di quello che noi abbiamo da dire, della nostra parola, della nostra opinione, della nostra denuncia. È tempo di capirlo. Se un medico sbaglia a leggere un semplice referto, ma l’anno dopo ti ritrovi con un male che nel tempo è solo peggiorato, bisogna rinfacciarglielo e dirlo, urlarlo. Affinché altri non passino il tuo stesso calvario. Restiamo in silenzio davanti ai colloqui in cui ci passano davanti i figli di papà, pensando che loro siano “più potenti”. Cosa è più forte il sapere, la cultura o una raccomandazione? Io continuerò a credere sempre al sapere e alla cultura, al profumo del sacrificio che poi mi porta dritta alla conquista con la schiena dritta e la testa in alto. Perché come mi disse di recente un gran professore, un grande medico:”Cammina con la schiena dritta e la testa in alto, perché tu non hai nulla di che scusarti e non devi dire:scusate se sono al mondo”. Io quel monito l’ho fatto mio,perché aveva colpito nel segno. Ogni giorno restiamo in silenzio seppur inquinano le nostre terre e lo vediamo con i nostri occhi, ma non vogliamo essere testimoni scomodi. Ogni giorno, iniziando da me, cerco di trovare “a pezz a color”-come dicono dalle mie parti, al collega che copia un articolo mio o di un mio collega e poi sbandiera la bandiera del “io non copio, sono la purezza del giornalismo”. O cerchiamo attenuanti, scuse perché un amico ci ha traditi o ci ha voltato le spalle nel momento del bisogno. È tempo di ribellarci ai soprusi, alle piccole minacce sotto un sorriso. Solo ribellandoci potremmo rendere questo Paese più “pulito”, più “fresco”, col vento della libertà e del cambiamento che torna nuovamente a soffiare.

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Laurea, il “pezzo di carta” ad una donna fa guadagnare il rispetto.Perchè?

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messDa qualche settimana ho terminato il mio percorso di studi universitari. Una vera traversata tra esami, ansie ed angosce. Ma alla fine è finita con l’ultimo 30 ed una tesi pronta ad essere discussa, poi sotto con il “post laurea” ed il futuro da costruire tra progetti e sogni. La notizia in famiglia si è fatta largo presto ed il passa parola, complici i social network non è tardato ad arrivare. E così tutti quelli che fino ad un attimo primo mi davano del “tu” hanno iniziato a darmi del “lei”, a concedermi di più la parola, ma soprattutto a rispettarmi come donna e come una donna che ha oltre un cuore ed un fisico, delle forme, anche una mente, un sapere. Le prime volte non avevo parole. In realtà le parole si fermano anche ora. Ma ciò che più mi chiedo è:” possibile che una donna per guadagnarsi il rispetto debba per forza avere un “pezzo di carta”?” Se fossi stata una qualunque ragazza, diplomata o con la classica “terza media”, non avrei avuto diritto al rispetto degli uomini, dei “dotti”, al diritto di parola e ancor di più di pensiero? Se fossi stata una qualunque ragazza senza un titolo non avrei avuto diritto a dire la mia?
Perché?
Perché siamo forse un paese di bigotti, di menti ancora ristrette: dove la donna è solo un corpo che sforna figli, spesso confinata in casa e con difficoltà riesce a farsi largo nel mondo del lavoro, dove ancora oggi è sottopagata rispetto agli uomini?
Perché?
Perché accade sempre alle donne?
Perché?
Perché non cambieremo mai?

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Lettera a mio nipote

Fiocco-Azzurro

Claudio,
tesoro di zia. Da qualche ora hai aperto i tuoi occhietti alla vita. Sei arrivato col vento di Dicembre, col freddo e le paure, le luci e la magia del Natale. Ma la magia più bella sei tu. Sei arrivato con la gioia e la felicità, con la vita e il futuro, con le novità e i sentimenti nuovi e puri da scoprire giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. Con te sarà sempre tutto una scoperta e una conquista. Sei e sarai la vita, il battito forte e irrefrenabile della vita, l’amore vero e puro, sincero e smisurato. Sei e sarai cuore e pensiero. Sarai notti in bianco e giorni da leone. Sarai la forza della vita. Sarai nostro, in un amore nuovo con l’emozione da vivere. Tesoro mio, grazie a te sono diventa zia. Vedi Claudio, le parole sono sempre state il mio forte. Le parole, piccolino mio, sono quel miracolo che mi consentono oggi di scriverti che sei parte di questo mondo pieno di splendore, ci sono anche le ombre, ma avrai tempo di conoscerle, ma tu ne hai aumento la meraviglia. E un giorno, quando sarai un bimbo più grande, leggerai queste righe e capirai il segreto delle parole. Come scrigni ti consegneranno intatto quel tesoro invisibile e meraviglioso che agisce sempre, nel silenzio e a distanza, e che si chiama amore. E’ la prima parola che ascolterai e imparerai Claudio, la prima che tutti noi abbiamo pronunciato pensando a te. Lo so che sono già la tua zia preferita, anche se la concorrenza è molto forte, ma non lo diciamo in giro, altrimenti poi tutti gli altri si ingelosiscono. Tesoro mio, in tutti questi mesi che eri nel grembo della tua forte, tenace e solare mamma Cristina, non appena io appoggiavo la mano per sentirti tu ti placavi, mai un calcio. Non ho mai sentito il calcio del mio nipotino. Ecco, piccolino mio, mi auguro che tu possa sempre stringere la mano della tua zia e trovare ciò che tu desideri. Piccolino mio, mi auguro e ti auguro che tu possa essere tassello del puzzle di una generazione che non si vuole far del male. Farai fatica, sarà difficile, incontrerai invidie, cattiverie. Sii gentile Claudio. Davvero. Non cedere alla fascinazione dell’aggressività, perché non diventerà potere. Aderisci ad un progetto, prendi posizione nella vita, lascia da qualche parte la tua firma (che non sia sui muri, altrimenti ci toccherà tutti pulire). Ho usato la parola “tutti”. Sì, piccolino, sei nato in una grande famiglia che da questa piccola provincia si incontra con Roma, con la famiglia Mariotti e si unisce a Bologna, lì dove c’è la tua casa, i tuoi genitori. Claudio, perdonaci se saremo troppo pesanti, saremo troppo e in tutto, ma sappi che l’amore non conosce la parola troppo.

Ben arrivato piccolo uomo!

Dormi bene. E quando ci vedremo, raccontami i tuoi sogni.

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Che cos’è l’amore?

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“L’Amore è una nebbia che scompare all’apparire della realtà.” Charles Bukowski

Una celebre frase che ricorre in un altrettanto celebre film made in france: “L’amore dura tre anni”, scritto e diretto da Frédéroc Beigbeder

Due frasi controcorrente. Due frasi opposte. Due frasi facce di una stessa medaglia: l’amore che per lo scrittore americano scopare e quello che ha un tempo del regista francese.

Ma cos’è realmente l’amore? Me lo sono chiesta qualche giorno fa, dopo lo sguardo penetrante e forte della donna che mi ha dato la vita e mi ha cresciuta: mia mamma. Dopo che lei con la sua saggezza, il suo sguardo di mamma ha capito che il mio cuore batteva più forte, che forse una leggera cotta mi attraversava. Ed ora che sono più grande, più matura, ora che vivo la vita da adulta, con lo studio, i progetti futuri, i miei sogni lei ha paura che l’amore non solo possa colpirmi e farmi male, ma possa annullarmi.

Ma cos’è l’amore? Quello dei miei genitori saldo e forte che dura da 32 anni ormai, che ha vissuto tanti ricordi, esperienze, sensazioni, alti e bassi, nevicate e primavere?

Vinicio Capossela direbbe: “Chiedilo al vento che sferza il suo lamento sulla ghiaia del viale del tramonto all’amaca gelata che ha perso il suo gazebo alla stagione andata all’ombra del lampione san scucì.”

Io me lo sono chiesta, ci ho pensato a lungo, pensando anche ad una persona a cui associo l’amore, forse perché ora vedo solo quella di persona, forse perché vedo lo specchio dell’amore dei miei genitori.

Ma a parole mie, l’amore è una casa calda, accogliente, casa tua. Una casa che hai costruito giorno dopo giorno, mattone su mattone, sacrificio su sacrificio. Il tuo angolo, il tuo spazio, il tuo mondo. L’amore è abbracciare la persona che stimi e che hai scelto. L’amore è fidarsi, volersi bene. L’amore è osare, sì osare, prendere scelte controcorrenti, quelle che non si aspetta nessuno ma che prendi, forse stupendo anche te stesso. L’amore è quando ti assumi le responsabilità. L’amore è quando ami e basta. L’amore è quando ridi anche senza motivo, quando apri gli occhi e c’è il sole. L’amore è quando hai voglia di sentire una persona, abbracciarla, viverla. L’amore è quando è lontano ma vicino nel cuore e nel pensiero.

Non esistono amori impossibili se non impariamo ad amare noi stessi, non impariamo a conoscere per primi noi l’amore che è misto anche alla follia.

Ecco questo è l’amore secondo me.

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JFK L’uomo che segnò l’America

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Un venerdì. Dallas,22 Novembre 1963, l’America e il mondo furono costretti a fermarsi e a piangere di fronte alla salma di John Kennedy, che cadde sotto i colpi a morte di tre proiettili sparati da Lee Harvey Osward, benchè il mandate rimarrà oscuro per tutta la vita. Osward, che secondo molti, aveva un unico peccato quello di essere convintamente comunista e filocastrista in piena Guerra Fredda.

Jokn Kennedy è stato il più celebre e amato presidente degli Stati Uniti d’America. Ancora oggi rimane la sua eredità, i suoi sogni, le sue speranze, i suoi insegnamenti, il suo progetto politico e soprattutto l’idea di aprirsi ad una “nuova frontiera”, che rimase solo un sogno mai realizzato.

Carattere deciso e personalità forte. Un uomo d’altri tempi per una politica nuova che potesse guardare al futuro per una nazione davvero giovane nello spirito. Un uomo che strizzava l’occhio ai conservatori di ogni ordine e grado, inviso alla mafia e a coloro che, fino a quel momento, avevano prosperato sulla segregazione razziale dei neri, sull’esclusione e l’emarginazione sociale dei più deboli, sul dolore e la sofferenza degli ultimi, di chi non era in grado di difendersi, di chi, spercie per il colore della propria pelle, non faceva mai notizia se non in negativo.

Famoso un suo celebre discorso datato 1963: “Se un americano, a causa della sua pelle scura, non può mangiare in un ristorante aperto al pubblico, se non può mandare i suoi figli alla scuola pubblica migliore, se non può votare per i pubblici funzionari che lo rappresenteranno, se, in breve, non può condurre la vita piena e libera che tutti noi desideriamo, chi tra noi sarebbe felice di condividere con lui il colore della pelle e prendere il suo posto? Chi tra noi si accontenterebbe del consiglio di portare pazienza e aspettare?”

Due mesi dopo Martin Luter King pronuncerà la celebre frase “I have a dream” e la battaglia per i diritti dei neri e delle minoranze sarebbe entrata a pieno titolo nell’agenda politica di tutti i paesi, ma Kennedy aveva già preparato il terreno, sfidando un esponente del suo stesso partito George Wallace, governatore dell’Alabama e segregazionista convinto, per consentire a James Meredith, studente di colore, di entrare all’università e frequentare le lezioni.

Kennedy era l’ottimismo che ha ispirato un’intera generazione e ha ridato fiducia a un popolo intero. In un momento di crisi dovuto al timore di una nuova guerra, Kennedy dà vita a una nuova stagione di speranza.

Un presidente mai dimenticato.

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Il bambino cattivo

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Una fiction,sembrava solo apparentemente una fiction targata Pupi Avati,quella andata in onda ieri sera su Rai1,eppure ci ha portati ad esplorare un mondo parallelo,attiguo al nostro:l’infanzia abbandonata.

Brando,11 anni,con una mamma affetta da problemi psichici a cui fa seguito la separazione dei suoi genitori,viene rifiutato dal papà e dai nonni materni,per lui la vita in una casa famiglia. Le conseguenze per la sua fragile personalità saranno drammatiche e sconvolgeranno completamente la sua sfera affettiva. Risponde alla mancanza di affetto col silenzio,talvolta l’aggressività,le parole monosillabe e diventa per tutti “il bambino cattivo”,rifiutato e lasciato solo. Per Brando si aprono le porta di una casa famiglia. Qui il ragazzino vivrà una situazione ancor più drammatica con una serie di colpi di scena continui.

Brando conosce l’abbandono, la solitudine e la mancanza di affetto. Vivrà un contrasto con se stesso e col mondo. Rifiuta l’affetto e il calore della casa famiglia e quello di una coppia che rimasta vedova del proprio bambino decide di conoscere Brando, che in un primo momento rifiuta questa conoscenza per poi approfondirla e scoprirne un mondo nuovo e fatto di amore e affetto.

La messa in onda della fiction è avvenuta in concomitanza della Giornata Internazionale dell’Infanzia e dell’Adolescenza, perché ogni bambino ha diritto ad essere un bambino, ha diritto alla spensieratezza, alla gioia.

Brando è l’esempio di molti bambini,di molti ragazzi.I figli vanno ascoltati,compresi,capiti,ma soprattutto amati.Essere genitori non è un mestiere,è vita.I figli non sono un oggetto che prendi,lasci,posi come e quando vuoi e li riprendi e li coinvolgi nella tua vita quando vuoi,i figli ci sono sempre dal primo giorno.I figli hanno bisogno di spiegazioni,di attenzioni e di tempo.Vanno interpretati i suoi sorrisi ma anche e soprattutto i suoi silenzi,la sua aggressività,il suo pianto.Non lo dimentichiamo e non mi stancherò mai di dirlo.

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Laureato grazie agli accendini. La straordinaria storia di Rachid.

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Agosto 1999, la vecchia Golf dei fratelli di Rachid mangia la strada, attraversa lo stretto di Gibilterra, corre lungo le autostrade del Sud della Spagna affollate di turisti, raggiunge il golfo di Marsiglia e supera la frontiera di Ventimiglia prima di puntare dritto su Torino. E’ il viaggio di Rachid e dei suoi fratelli che non sono riusciti ad adattarsi a Kourigba. La loro famiglia, padre, madre e sette fratelli, viveva di agricoltura e di allevamento. Troppo poco per mantenere una famiglia.

Rachid arriva in Italia, ha molti sogni e tante speranze. Si stabilisce ed è uno dei tanti immigrati che frequenta uno dei politecnici più ambiti d’Italia: il politecnico di Torino. Arrivano da tutto il mondo ma pochi vivono di espedienti come lui. Rachid per mantenersi vende accendini nella Torino affollata.
Rachid per il suo sogno assorbe tutto il pomeriggio il veleno dell’Italia incazzata e alla sera a casa torna per studiare geometria ed analisi. La sua quotidianità si divide tra l’aula magna del Politecnico e i portici del centro di Torino. Happy end quel ragazzo che vendeva accendini in strada per pagarsi gli studi oggi è dottore in ingegneria.

Una storia felice ma altrettanto difficile. Rachid ha subito il razzismo e la violenza, che ha lasciato un segno sul suo volto. All’altezza del sopracciglio ha un taglio, colpa di un pugno sferratogli da un gruppo di giovani razzisti. Ma Rachid non si abbatte, prende d’esempio il grafene, simbolo anche della sua laurea. “Quando capita qualcosa di brutto devi cercare l’aspetto positivo, fare un reset e ricominciare da capo. E’ la regola del grafene- dice- adattarsi per diventare più resistenti”.

Rachid ha raggiunto un primo traguardo, è dottore in ingegneria con una laurea triennale ma un altro traguardo lo attende: la laurea magistrale e per quella ci vogliono ancora due anni di studio e molti altri accendini. Rachid spera che non sia così ma spera in un ulteriore salto sociale, spera ci sia uno studio di ingegneria che possa farlo lavorare. Perché di quello non ha paura. Ha voglia, grinta e sapere da vendere. Lui che per due anni, nonostante lo studio di notte, ha portato a casa ottimi voti e due borse di studio.

Rachid è il velocista di una staffetta sociale, il rugbista che i compagni sollevano perché possa salire in cielo per catturare il pallone. Dentro di lui c’è la forza di chi non molla mai e continua a crederci. Dietro di lui c’è un lavoro di gruppo, diviso tra l’Italia e il Marocco, tra i suoi accendini e i fazzoletti di carta che i fratelli vendono nel centro storico e il piccolo terreno in Marocco che i suoi genitori umilmente continuano a coltivare. Tutti hanno puntato su di lui, lui che oggi li ringrazia.
Una storia a lieto fine che ci insegna molto.

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Caterina

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La bellezza della vita. Il sorriso giovane e innocente. L’ebrezza del tempo migliore. La vita di Caterina Socci, giovane studentessa ad un passo dalla tesi di laurea. La sua vita si ferma nel settembre del 2009, per un inespiegabile arresto cardiaco, che la porta in coma.

Tutto sembra perduto, resta solo la fede, il grido di preghiera che coinvolge come un mare le persone. E miracolosamente Caterina si risveglia dal coma. Ma la gioia che riempie i cuori e il sorriso di Caterina, per questo miracolo, viene messa alla prova dall’enormità di problemi che la ragazza si ritroverà ad affrontare. Prima su tutte la riabilitazione.

Caterina spende tutta l’energia che ha e intraprende il suo cammino verso la vita supportata dalla fede. Un cammino duro che travolgerà anche il padre, Antonio Socci, giornalista e scrittore, che scopre la bellezza di un mondo sconosciuto, eroico e affascinante, fatto perlopiù da giovani che non mollano, tenaci come non mai, tanto che l’autore parla della “meglio gioventù”.

Il dramma della giovane donna è raccontato da un uomo, un giornalista, uno scrittore, un padre, il suo. Antonio Socci, nel suo libro “Caterina.Diario di un padre nella tempesta”, descrive le tappe della tragedia che ha colpito sua figlia Caterina. Dalla sera dell’incidente alle prime faticosissime parole.
Caterina, nella sua agenda, al giorno 24 settembre, aveva scritto “LAUREA”, a caratteri cubitali con disegni festosi attorno. Dopo anni di studio, di sacrificio, il suo bel traguardo. Meritato. Poi l’inespiegabile arresto cardiaco che ferma la vita di Caterina e quella della sua famiglia.

Il cuore di Caterina si ferma, si irrigidisce. Poi il risveglio, quando le speranze erano vane per un cuore che si era fermato per troppo tempo. Un cuore che riprende a battere. Ne scaturisce una lunga lettera in cui Antonio Socci, cristiano controcorrente, scrive alla figlia per accompagnare la rinascita, ma anche per raccontare il miracolo che una giovinezza piena di fede può compiere.

“Abbiamo bisogno di uomini e donne indomiti” scrive Socci “che ci mostrano che non si deve aver paura del cammino della vita, delle sue fatiche e delle sue prove. Perché è questo brevissimo cammino che ci fa guadagnare la felicità per sempre.”

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Professione genitore!

Professione genitore. Il mestiere più antico del mondo e il più difficile di tutti. A poche ore dall’arrivo del Royal baby inglese preferisco parlare dell’essere genitori, un compito non semplice e carico di energia e adrenalina.
Genitori non si nasce, genitori si diventa, a volte per scelta, a volte per caso. Comunque la verità è una sola: genitori si impara ad “esserlo”. I genitori sono prima di tutto una coppia. I figli arrivano dopo, ma senza genitori tranquilli e appagati non ci sono figli felici. Dopo la nascita dei figli, nonostante le fatiche del parto e la nuova realtà in cui si è catapultati, le energie che circolano tra le parti sono davvero molto positive. Proteggersi e ricaricarsi, basta non dimenticarlo, basta non impigrirsi, basta semplicemente desiderarlo. Essere genitori è un compito difficile. Un genitore ha il compito di proteggere, nutrire, coccolare, istruire e soprattutto educare. Educare significa aiutare un individuo a crescere e a sviluppare le sue potenzialità che gli permetteranno di diventare autonomo e indipendente. I genitori non forniscono istruzioni di vita, trasmettono un esempio concreto, un modello esistenziale che rappresenterà una fondamentale base di partenza per la vita dei figli. Per questo, spesso, il genitore sente il bisogno di un sostegno che lo aiuti nel mai semplice ruolo educativo. Ma attenzione a come e a cosa si cerca. Le risposte non sempre funzionano se si ottengono da fonti di informazione che generalizzano. Gli enunciati pedagogici sono quasi sempre aulici e molto piacevoli da ascoltare, ma la realtà della famiglia è molto particolare e le esigenze ad essa correllate sono uniche che richiedono risposte contesuali tarate proprio su quella specificità. La famiglia è tuttavia un contenitore di energie. In un momento di crisi la famiglia ha un ruolo importante, di protezione e ricarica. E’ quindi importante conferirle il giusto valore e assicurarsi che tutti i componenti ne siano consapevoli. Incontrarsi intorno alla tavola almeno una volta al giorno o cercare un momento durante la settimana per fare il punto sulle reciproche vite, scambiandosi notizie sulla scuola, lo sport, gli amici, gli impegni, i gossip, i pettegolezzi sono i benvenuti ed hanno lo scopo di parlare, di parlarsi.
Il genitore talvolta è modello. Alla sera, dopo il bacino della buonanotte. Ma un genitore deve porsi delle domande:
-Sono sufficientemente presente nella vita di mio figlio? Ricordate che la quantità del tempo è importante ma la qualità lo è ancor di più.
-Riesco ad essere in ascolto? Ascoltare è una condizione emotiva. Per connettervi con i vostri figli è necessario andare oltre le parole, osservarne i comportamenti.
-Posso accettare le sue scelte? Il modo in cui è organizzata la sua vita non sempre corrisponde alle proizioni dei vostri desideri, ma è la sua vita..
-Quando incide la mia presenza sulle sue scelte? Quanto di vostro c’è nell’organizzazione della sua vita ma che non necessariamente gli appartiene.
-Mio figlio è felice?
Un figlio ha bisogno dei suoi spazi, della sua libertà. Ha bisogno di cadere per imparare dai suoi errori. Accettare l’errore del proprio figlio è un passo in avanti, seppur difficile. Solo così si avranno figli responsabili ed adulti, grazie anche all’aiuto dei genitori.

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Handicap.Il diritto di esistere

Prendere un mezzo pubblico, andare in edicola, entrare in libreria, in farmacia. Azioni banali della vita quotidiana, che diventano troppo spesso un percorso ad ostacoli per una persona disabile. Da Nord a Sud dell’Italia la scena che si ripete è sempre la stessa. Una persona in carrozzina alla fermata dell’autobus, o pronto ad attraversare le strisce pedonali. Si vede tra i passeggeri in attesa. Eppure, molti autisti fanno finta che non esista. E tirano dritto, magari accellerando. A poco servono i loghi ai lati delle portiere centrali del bus, che indicano la dotazione di ausiliari per disabili. Dovrebbe esserci una pedana, che all’occorenza scenda giù dalla porta centrale, per consentire l’accesso a carrozzine e passeggini. Spesso, troppe volte non c’è. E quando c’è non funziona. Ed il passeggero, rimane a terra. Barriere continue. Ogni passo un ostacolo, un impedimento. Dai luoghi di culto ai luoghi pubblici. Per andare in un negozio qualunque per acquistare anche il più banale degli oggetti. Dal centro alle periferie delle nostre città, barriere ovunque. Diritti negati, violati, cancellati. Eppure svolgere azioni semplici fa parte della quotidianità di ognuno, nessuno escluso. Davanti alle innumerevoli barriere architettoniche che si trovano ovunque dalle gallerie, agli scivoli, passando per i semafori, dovrebbe assalirci un senso di impotenza e di indignazione. Non è possibile che in molti debbano guardare i gradi delle metro o di un museo come ad un’impresa eroica. Un’emozione prende il posto di un’altra. Anzicché l’impotenza è arrivata la rabbia. Siamo un paese civile e talvolta ci dimentichiamo dei diritti quelli semplici e banali che sono diritti di tutti, nessuno escluso. Non dimentichiamoci il diritto di esistere, di una vita fatti di ostacoli.

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