Quarant’anni fa nasceva la legge 194: l’aborto non era più reato. Cosa è cambiato ad oggi?

untitled 2Sono trascorsi quarant’anni da quando il Parlamento italiano votava una delle leggi più discusse e contestate nella storia repubblicana, la 194, che depenalizzava l’interruzione volontaria di gravidanza e metteva fine alla piaga dilagante -per quel tempo- dell’aborto clandestino. Un traguardo frutto di battaglie e di anni sanciti dal femminismo sotto lo slogan “l’utero è mio e lo gestisco io” , di scontri ideologici che mostravano un’Italia profondamente divisa in netto disaccordo con il pensiero della Chiesa cattolica. Si scrive 194/78 ma si legge legalità all’aborto, o meglio all’interruzione volontaria di gravidanza, riconoscendo l’assistenza ospedaliera pubblica in caso di interruzione. Una legge che tutelava le donne e le loro intime e personali scelte, ma che non si poneva come un mezzo di controllo delle nascite, tanto che potenziava nell’intento legislativo e finanziario la creazione di consultori territoriali nati già nel 1975, e all’epoca non ancora del tutto andati a regime, mentre, oggi difficilmente riescono, specie nella realtà del Sud Italia, a porsi come luogo privilegiato dove attuare interventi preventivi. Un lungo cammino portò a regolamentare l’aborto nel nostro Paese, fu solcato da sit-in, auto denunce, proteste, assemblee, donne che si sottoponevano ad aborti clandestini morendone. Nonostante la decisa condanna del mondo cattolico, le incertezze politiche, le critiche, nel giugno del 1978, la legge venne varata e da quel giorno anche negli ospedali italiani fu praticabile l’interruzione di gravidanza. Una legge contestatissima, oltre al referendum del 1981 sono stati 35 i ricorsi per incostituzionalità della 194. Un dato che ne fa una delle norme più contestate del paese. Una legge che sancì il passaggio dalla criminalità alla legalità. L’ultima relazione del Ministero della Salute sull’attuazione della legge, conferma che in Italia il ricorso all’interruzione di gravidanza è in continua diminuzione. Oggi, le IGV, come vengono denominate, si sono più che dimezzate dalle 87.639 del 2015, mentre nel 2016 sono state 84.926 le donne che vi hanno fatto ricorso. Da quarant’anni in Italia qualsiasi donna, entro i primi novanta giorni di gestazione, può richiedere l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) per motivi di salute, economici, sociali o familiari. La realtà di quarant’anni dopo, seppur caratterizzata da una riduzione di interventi d’aborto, il percorso è ancora lungo, una delle emergenze da affrontare è quello dell’obiezione di coscienza che specie al Sud coinvolge l’83,5% dei ginecologi. Sarebbe necessario, come sollevano da tempo diversi movimenti, favorire la pillola al posto dell’intervento chirurgico, privilegiando il Day Hospital ed evitando così un ricovero di tre giorni, risparmiando risorse da investire ai consultori, in campagne di contraccezione e nella promozione di una corretta informazione per tutti. Mentre, altre associazioni, come rileva la Coscioni, bisognerebbe favorire come priorità la pillola “RU 486” al posto dell’intervento chirurgico. Senza dubbio molto resta da fare in materia di prevenzione. Secondo i numeri forniti dalle regioni, risulta che le giovanissime, tra i 15 e i 20 anni, hanno scarsa informazione sui metodi contraccettivi e nella fase adolescenziale sono pochissimi i ragazzi che hanno rapporti sessuali consapevoli e protetti. Oltre agli ostacoli oggettivi all’esercizio di questo diritto, vi è poi il pesante fardello del giudizio di quanti non sono d’accordo con quello che la legge consente e ritengono che la vita dell’embrione valga quanto quella della donna. Il dissenso sull’argomento è anche cronaca di polemiche come i manifesti anti aborto, uno schiaffo alla libertà delle donne. Non solo manifesti, perché la campagna anticipata dall’hastag “#stopaborto” viaggia anche in rete, con l’intento di scuotere le coscienze ma senza dubbio in modo diretto e a gamba certo non tesa nell’ideologia della 194 del 78. Una diffusione di false informazioni, basandosi su assunti completamente infondati, accostare, il diritto delle donne a una violenza come il femminicidio è quanto di più grave possa essere fatto. Insomma, un conto è dire che si è contro l’aborto, un conto è sostenere che tutte le donne che interrompono la gravidanza sono colpevoli di femminicidio.  Si gettano al vento campagne, propagande, lavoro sul campo che gli operatori del sociale fanno per supportare, aiutare le donne che intendono intraprendere un percorso di interruzione, perché decidere di interrompere una gravidanza non è una passeggiata, un modo facile per liberarsi velocemente di un fastidio. Al contrario rimane una scelta difficile a volte dolorosa, certo mai fatta in maniera avventata. È necessario che, su temi così delicati e dolorosi, nessuno spazio venga concesso alla mistificazione.

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Bambini dimenticati in auto, il cervello dei genitori va in black out

untitledAvrebbe dovuto portarla all’asilo nido, ieri mattina, invece è andato direttamente a lavoro, in un’azienda a San Piero a Grato nel pisano, sua figlia nemmeno un anno è morta in auto su quel seggiolino dove il papà l’aveva sistemata. Gesti di routine, dettati  forse dalla quotidianità, comportamenti ripetuti sempre allo stesso modo, a provocare questa ennesima tragedia. Un genitore che non si accorge della sua bambina sul sedile posteriore, l’auto che si trasforma in una trappola incandescente. In questo caso, la prima a lanciare l’allarme è stata la madre, che come ogni pomeriggio era andata al nido a riprendere la piccola ma lei non c’era. Subito il peggio che si materializza: sono da poco passate le tre, quando arrivano i soccorsi ma è tutto inutile. Casi che si somigliano, l’anno scorso è accaduto ad Arezzo ad una mamma che dimenticò in auto la piccola di diciotto mesi. Purtroppo è lunga la catena di precedenti: Giulia, Jacopo, e tanti altri vittime della dimenticanza dei loro genitori. Parcheggiare e andare via convinti in buona fede di aver già lasciato i figli a scuola. E’ una parte della mente che tende a distaccarsi dalla realtà, gli esperti lo chiamano “blackout mentale” che può essere causato dallo stress, l’affaticamento, le pressioni emotive, la mancanza di sonno: sono diversi i fattori che possono incidere. Di fatti, c’è un dissociarsi da una serie di gesti, sempre gli stessi che si ripetono ogni giorno credendo di averli già compiuti. L’abbandono in auto è indipendente dallo sviluppo intellettivo, ma è da attribuire a cause come lo stress, che determina un’alterazione acuta della capacità di riflettere. Secondo gli esperti è possibile dimenticarsi il proprio figlio in auto. Ed è così che nascono proposte per evitare queste morti tutte uguali tra loro, come una legge che preveda l’obbligo di sistemi di allarme anti abbandono in auto. Alcuni esperti, suggeriscono, un metodo classico e non tecnologico per non dimenticare il figlio in auto, come quello di mettere sotto il seggiolino del bimbo il portafoglio o le chiavi di casa. Non è un metodo attendibile, perché la persona deve ricordarsi di prendere questi oggetti. Ma esistono applicazioni che grazie ad uno specifico algoritmo danno la sicurezza di aver consegnato il bambino. Resta però il miglior dispositivo il baby car alert, che quando si spegne il motore dell’auto ma il bimbo è sul seggiolino avverte con segnali sonori. Quando vi è il supporto sociale, affettivo, familiare che è presente, tangibile, il disagio emotivo dei genitori si attenua. Morti e storie sconcertati che danno però una chiave per comprenderle: ritualità, fretta, giornate incastrate al minuto, gesti ripetuti centinaia di volte l’anno che diventano naturali come l’ultimo gesto che si fa prima di andare a dormire, diventando spesso automatismi. Gesti meccanici. Ci sono momenti in cui siamo fisicamente con i nostri figli, ma con la testa ci troviamo già al passaggio successivo, quando li lasceremo a calcio come tutti i mercoledì, quando li lasceremo dalla nonna come tutti i giorni alle sei. Momenti in cui diciamo sì a loro domande che non abbiamo ascoltato, in cui controlliamo la posta sul cellulare mentre ci raccontano cosa hanno fatto a scuola. E poi ci sono momenti in cui siamo lì, attenti e con la testa sgombra, ma solo stanchi. Umani e fallibili. Vittime , tutti, di piccoli corto circuiti: una banale dimenticanza, il quaderno non comprato, il libro lasciato a casa, la tuta non lavata proprio il giorno in cui ha ginnastica a scuola.  E poi ci sono i corto circuiti spaventosi. Ci sono i bambini dimenticati in macchina. La pioggia di insulti sul web diretti alla mamma, la domanda di tanti: “come ha fatto?” mentre il sospetto terribile cova pauroso nel cuore di ogni genitore, di poter dimenticare per qualche minuto, le uniche persone che un genitore per tutta la vita non dimentica: i propri figli.

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Generatori di speranza: il ruolo e le sfide sociali degli oratori di oggi

cropped-foto-per-copertina-blog.jpgPonti tra la Chiesa e la strada” è la metafora di un’affermazione di Giovanni Paolo II, utilizzata per definire gli oratori, generatori di speranza e di sociale, luogo della socializzazione, del gioco e dello svago, negli anni di generazioni ne sono passate per gli oratori. Giovani di un tempo che intorno ai 13-14 anni trascorrevano i pomeriggi in oratorio ad ascoltare il curato che faceva lezioni di buona politica, insegnava ad osservare il quartiere e a farsi carico dei problemi degli altri, educando alla partecipazione. E’ quella che don Bosco definiva come la formazione “dell’onesto cittadino e del buon cristiano”. Oratori generatori di valori socio-educativi che insieme alle altre agenzie educative del territorio contribuisce a creare la rete educativa a favore delle giovani generazioni lì presenti. Un ruolo accantonato e dimenticato per troppo tempo, quello degli oratori, che in rete con le agenzie educative diventa risorsa per tanti giovani, ma è in atto una rinascita in un’ottica di contrasto alla povertà educativa degli oratori italiani: sono poco più di 8.000 gli oratori censiti in Italia, in una tradizione che si tramanda in Italia da oltre 450 anni, dai tempi di San Filippo Neri nella Roma del ‘500.. In questi secoli l’oratorio ha saputo adattarsi alle esigenze dei tempi restando sempre nell’alveo dell’educazione oltre che della formazione cristiana dei giovani. Come tutte le realtà, anche quella degli oratori risente fortemente dei cambiamenti che sta vivendo la società italiana. Due i caratteri di novità: la presenza di molti ragazzi, figli di famiglie immigrate, che provengono da altre culture, da altre confessioni cristiane e da altre religioni, che sono accolti all’interno di una stessa precisa identità: i giovani che crescono all’interno dell’oratorio, trovano un luogo che educa ad abitare. Un altro aspetto è legato all’attuale crisi. L’oratorio in sé non è legato all’attività economica, per cui non risente direttamente della crisi, ma la domanda da parte della famiglia è fortissima. L’economia fiorente ha spinto negli anni le famiglie ad uscire dai confini dell’oratorio per le attività di sport, musica, potendo garantire ai loro figli proposte più ampie, ma ciò che mancava era un’educazione integrale. Oggi, invece, i genitori si sono accorti che i loro figli sanno fare tante cose, ma fanno fatica a vivere. Da qui lo sguardo verso l’oratorio, dove ci sono attività nuove, ristrutturate, ma c’è soprattutto l’attenzione alla persona, alla sua creatività, alla sua libera espressività. Cresce, dunque, nelle famiglie l’esigenza di uno spazio a misura di una crescita integrale dei ragazzi. E così a nuova vita nasce l’oratorio che si propone a contrasto alla povertà educativa, una delle attività offerte è quella del doposcuola, secondo i dati la media nazionale è dell’ 83%, più al nord e meno al Sud col 74%. Un servizio che si fonda molto sui volontari. Giovani che aiutano altri giovani. Un doposcuola che si modella alle esigenze: dalla semplice spiegazione dei compiti alla formula dell’integrazione che si unisce alla socializzazione, alle attività sportive e al disegno, cercando di far esprimere tutte le arti espressive: teatro, danza, canto, musica. In alcuni oratori si organizzano corsi di cucina e tra farina che vola e biscotti da fare nella semplicità nascono legami d’affetto e d’amicizia, conoscendo la normalità e la semplicità dei gesti e dello stare insieme. Ma, l’oratorio offre anche per gli adolescenti e i giovani l’occasione di mettersi al servizio in attività di animazione ludica e formativa per i più piccoli, i cui momenti di maggiore attrazione è l’estate con gli immancabile campeggi. Vanno anche considerate le gite in cui si fonde l’aspetto ricreativo, culturale ed ecologico-ambientale, un insieme di elementi che aiutano il giovane a crescere in una dimensione culturale che non aveva mai conosciuto né considerato. Inoltre, l’oratorio organizza fiere o piccole vendite, che coinvolge i più giovani verso le attività caritatevoli e di volontariato, facendogli conoscere il valore dell’aiuto all’altro. L’oratorio è stanze, biliardino, cortili e campi da gioco, dove correre e sorridere agli altri, ma non è solo struttura è anche e soprattutto persone, generazioni diverse che si incontrano, ragazzini ed animatori poco più grandi loro, gli educatori, i genitori che vanno coinvolti nelle attività e nel dialogo educativo, perché l’oratorio non è un luogo ad ore per i genitori che lasciano i figli con la certezza che siano al sicuro, ma l’oratorio è il luogo educativo aperto alla collaborazione e al confronto con tutti. “La più grande palestra di umanità e di relazioni umane che si possa immaginare”, la definisce Don Michele Falabretti, responsabile nazionale pastorale giovanile della Chiesa Italiana. Relazioni umane vere, sincere, che uniscono e non dividono, che si fondono nell’ascolto e nell’empatia dell’altro, incontrando il dialogo e la diversità culturale, fisica, morale, educativa, che si realizza in ricchezza per i più giovani. E poi l’adulto che come tale deve insegnare ed il minore che deve crescere assumendosi le responsabilità delle sue azioni consapevole che è l’erede del futuro e di una comunità educante che sarà tramanda di generazione in generazione. Che l’oratorio possa diventare generatore di speranza e di futuro per i più giovani?

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Pazienti oncologici, pratiche più veloci per il riconoscimento dell’invalidità

untitledPrimo e storico accordo in Italia stipulato tra Regione, Inps e Ifo che accorcerà i tempi dei controlli volti al riconoscimento dell’invalidità per i pazienti oncologici. La svolta parte dal Lazio. Da cinque controlli per ottenere il riconoscimento dell’invalidità a uno solo, con uno specialista oncologo che farà la diagnosi e compilerà “il certificato introduttivo” da portare all’Inps. L’obiettivo è quello di sveltire le pratiche per i malati di tumore. L’accordo porta la firma del presidente della regione Lazio, Nicola Zingaretti, quello dell’Inps, Tito Boeri e quello dell’Ifo (Istituto Fisioterapici Ospitalieri) , Francesco Ripa di Meana. Il protocollo siglato avrà durato di diciotto mesi e per lo specialista sarà possibile acquisire fin da subito, già durante il ricovero ola cura presso le strutture sanitarie, tutti gli elementi necessari alla valutazione medico legale, evitando al malato eventuali ulteriori esami e accertamenti. Sarà il medico stesso ad avviare le pratiche per il riconoscimento dell’invalidità. I tempi d’attesa si ridurranno e l’Inps garantirà tempi certi e più veloci con la scomparsa dei verbali cartacei e la digitalizzazione delle procedure. Il nuovo processo, prevede che si abbattano anche i costi, perché il “certificato introduttivo” non dovrà più essere pagato, abolendo così il pagamento della tariffa al medico di base che si aggirava tra i 60 ed i 100 euro. Le procedure si standerizzano e non ci saranno valutazioni diverse rispetto a quelle medico-scientifiche. Il modello per il momento varrà solo per la regione Lazio, che tra le altre cose ha introdotto importanti novità che riguardano i pazienti oncologici, infatti, è tra le prime regioni ad adottare il modello del “breast unit” per assicurare una maggiore assistenza per i pazienti malati di tumore al seno. Il presidente Zingaretti ha anche approvato il regolamento del registro tumori per una maggiore prevenzione ed infine sono stati adottati anche strumenti tecnologici aggiornamenti innovativi denominati “protonc4life”, uno dei più grandi progetti italiani per le cure oncologiche che vedrà protagonista l’Ifo insieme all’ospedale Gemelli. Un leggero frastornamento, la disperazione, l’ansia, il terrore in notti che passano insonni perché preda della paura, la diagnosi di tumore si riversa come un tornado, mettendoci di fronte a sentimenti e paure più grandi di noi. Come restare “a galla” in una situazione così difficile? E come comportarsi con una persona cara che si ammala? Certo molto dipende dal carattere dei singoli individui, ma sono moltissimi – la stragrande maggioranza- i pazienti ed i familiari che attraversano periodi più o meno lunghi di ansia, depressione, tristezza, paura dopo aver ricevuto la notizia di un tumore. Banale e persino poco scientifico, ma è una verità provata da molti studi e soprattutto dall’esperienza di migliaia di pazienti: il tempo che passa è un prezioso alleato. Utile a smussare gli angoli, le asperità del primo momento legate al trauma della diagnosi. In sostanza, lo shock iniziale è come una ferita nell’anima: col passare dei giorni può rimarginarsi oppure rischia di peggiorare. La regola numero uno per amici e familiari disorientati dalla malattia che cambia la vita di chi si ama, è quello di ascoltare, lasciare che il malato si esprima e non si tenga tutto dentro. Minimizzare è controproducente, molto più efficace è un atteggiamento rassicurante e d’incoraggiamento. La malattia arriva d’improvviso a scombussolare i piani della vita. Il cancro è una cicatrice nell’anima. Ruba la salute, spesso la dignità, la fiducia in se stessi, la percezione di sé nel mondo. E negli ospedali esiste una vita, esistono uomini e donne che malgrado tutto continuano ad essere madri, padri, mogli, mariti o figli. Riescono a collocare nell’agenda della vita l’appuntamento per la chemioterapia fra una lavatrice o la partita di calcetto del proprio figlio. Sono uomini e donne coraggiosi e bellissimi. Ma quegli ambienti sono carichi di speranza, di dolore e di solitudine. Ma se tra i cunicoli degli ospedali, le paure, le problematiche varie si inserisce una burocrazia più umana, meno lenta, più veloce, tendendo la mano al paziente si crea una relazione con il cittadino e l’azione intrapresa dalla regione Lazio, rendono lo Stato amico del cittadino, semplificandogli la vita, ponendosi come una innovazione sanitaria che, speriamo, possa essere ampliata, considerando, così come ha fanno notare dall’Inps, che la platea di soggetti che richiede l’invalidità civile per malattie oncologiche si attesta intorno al 28%. In questo modo si velocizzano le pratiche e si riducono gli oneri per le famiglie con la possibilità anche di anticipare la concessione della legge 104/92, ovvero la possibilità delle famiglie di poter assistere in modo adeguato il malato. Tito Boeri, presidente dell’Inps, fa sapere che ci sono altre regioni che hanno deciso di accentrare i controlli presso l’Inps come la Basilicata, la Calabria e forse in tempi brevi anche la Campania. Questa esperienza richiama la sperimentazione già in atto in alcuni ospedali pediatrici che sembrerebbe andare bene. Insomma, sembra che la burocrazia stia andando verso un processo di umanizzazione e di rispetto della malattia.

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Figli di genitori dello stesso sesso, sì all’iscrizione anagrafica

IMG_0217Da Torino a Roma, scendendo sino alla punta dello stivale, Catania. I registrati dell’anagrafe dei comuni italiani iscrivono la nascita dei figli di genitori dello stesso sesso. Dalla sindaca Appendino alla pantastellata Raggi, al sindaco catanese, si procede a trascrivere i certificati di nascita stranieri di figli di coppie omosessuali senza che sia intervenuto un Tribunale con un sua ordinanza. Pioniere, a dirla tutta, era stato l’ex sindaco di Roma, Ignazio Marino, nel 2015 che aveva provveduto alla trascrizione all’anagrafe capitolina senza una sentenza. Le due mamme romane, tornate in patria dopo la nascita del bimbo in Argentina, avevano presentato domanda al comune di Roma perché questa trascrizione venisse riconosciuta anche in Italia. Decisione che aveva provocato spaccature politiche e diviso il Paese. Ma erano state la Corte d’Appello di Trento prima, di Roma dopo, a emettere sentenze favorevoli al riconoscimento di genitori dello stesso sesso. Una decisione coraggiosa dal punto di vista politico ed innovativa sotto l’aspetto giuridico che apre le porte degli uffici anagrafi dei comuni alle famiglie arcobaleno. Un excursus sociale che nasce dalle coppie same sex a cui era data la possibilità dell’adozione cosiddetta “mite”, non una vera e propria adozione ma qualcosa che si avvicina, oppure avevano la facoltà di trascrivere gli atti di nascita nei paesi in cui il sesso dei genitori non veniva considerato, come in Spagna, o ancora facoltà di trascrivere sentenze straniere di adozione. Ma nel silenzio politico, la magistratura, ha riletto le norme del diritto interno alla luce dei principi del diritto internazione, facendosi carico negli ultimi anni di trovare soluzioni che tutelassero i figli delle coppie arcobaleno evitando di discriminarli. Sino ad oggi, con la decisione di comuni di superare le soluzioni di ripiego e permettere ad un bambino, nato in una coppia omogenitoriale, di essere identico al suo compagno di banco, figlio di due genitori eterosessuali. La parola fine ancora non è scritta, anzi, è tutto ancora aperto, la registrazione potrebbe essere impugnata davanti al giudice, in quanto nel nostro ordinamento, i genitori sono sempre un uomo ed una donna. Eppure non ci sono nell’ordinamento italiano norme che regolino l’iscrizione all’anagrafe di figli di genitori dello stesso sesso. Mancano però anche i divieti costituzionali. E’ in questo spazio che si sono inseriti i tentativi, riusciti già dai comuni, di iscrivere i figli di genitori omosessuali. Durante l’approvazione della legge sulle unioni civili si era aperto uno spiraglio con la proposta della stepchild adoption, l’adozione da parte del coniuge, che poi era stata accantonata dal Parlamento tra le polemiche. Insistono, intanto le sentenze del tribunale di Trento, della Corte d’Appello, e anche della Cassazione. Il tratto comune è quello che in assenza di una legislazione, i tribunali costringano i comuni ad effettuare la registrazione in forza del fatto che non esiste un divieto generale nella Costituzione. Insomma, ci sono ancora nuvole sopra l’arcobaleno. Oltre l’aspetto legislativo e giurisprudenziale che andrà chiarito anche oltrepassando le ideologie e le opinioni personali e politiche, resta un passo storico e civile che alcuni comuni hanno deciso di compiere, un passo che sarà storia personale di questi bambini, connotando un’evoluzione ideologica: negli anni settanta, i bambini di genitori divorziati, erano visti come figli di un peccato, nelle scuole religiose di pregava anche e soprattutto per loro, perché si diceva privi di una guida solida e comune. Oggi, invece, che la nostra società convive quasi come fosse abitudine e consuetudine a genitori separati e figli divisi nei giorni e durante le feste, siamo a confronto coi figli di genitori omosessuali e di bambini che presto andranno a scuola e si confronteranno con i pregiudizi di adulti e bambini. Infatti, secondo la comunità scientifica internazionale, all’unanimità, ha riferito come un bambino figlio di genitori dello stesso sesso rischia di ammalarsi più dei figli di una famiglia tradizionale, la malattia connessa ai bambini arcobaleno è quella del “minority stress”, ossia il “bullismo” che l’ambiente può attivare contro questi piccoli soggetti. La condizione di stress di natura cronica che caratterizza la vita di determinate persone – si legge nella ricerca dell’Università di Napoli Federico II – le cui differenze sono oggetto di stigma (o che, comunque, sono considerate come negative all’interno di un determinato gruppo sociale o ambiente socio-culturale), prende il nome di minority stress. Tale forma di stress può colpire alcune minoranze come, ad esempio, quelle sessuali oppure quelle composte da insiemi di persone che possiedono determinate caratteristiche.” Sotto l’aspetto della conoscenza della propria condizione, bambini arcobaleno, si basa prevalentemente sulle informazioni e sui modelli che vengono veicolati dai media, senza il sostegno di adulti comprensivi, in quanto sono pochi coloro che sono informati e formati sulle famiglie omogenitoriali. Il confronto con i pari, con altre coppie omosessuali, avviene solo successivamente. Ecco che la condizione di stress prolungato, derivato dal pregiudizio e dalla discriminazione, diventa una fonte significativa e influente sulla salute mentale, soprattutto se si percepiscono determinati contesti sociali come ostili, avversi o indifferenti. Insomma, abbiamo bisogno ancora di compiere molti passi normativi ma anche ideologici e di supporto.

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Baby detenuto in permesso premio non rientra a Nisida. Come funzionano le carceri per minori?

untitled 2Aveva ottenuto un permesso premio ma, allo scadere del beneficio, non ha fatto rientro nel carcere minorile di Nisida, dove era ristretto, facendo perdere le sue tracce. Si tratta di evasione, che avrà delle ripercussioni se il giovani non si costituirà. Incoscienti e spietati. Senza mai provare rimorso, né assumersi responsabilità alcuna. Giovanissimi, ancora bambini ma giocano con la vita e con la morte. Il pericolo, l’escalation di violenza gli provoca un brivido, in alcuni casi gli mette adrenalina. Furti, rapine, scappio e nella peggiore delle ipotesi omicidi, li affascina. Sono l’esercito tecnicamente dei bambini, che rifiutano le regole ed arrivano a compiere gesti terribili e senza senso con una leggerezza tale che anche davanti alle conseguenze non riescono a comprenderne la gravità. Così da fanciulli o poco più si ritrovano dietro le sbarre di uno dei diciannove penitenziari minorili presenti in Italia, che ospitano detenuti dai 14 ai 18 anni e fino ai 25 anni se il reato è stato commesso prima del raggiungimento della pena. Un carcere minorile non è un carcere per adulti, un istituto di pena per minori è un mondo diverso: dalle procedure d’ingresso per i visitatori alla storia professionale degli operatori, dall’iconografia carceraria alla sensibilità istituzionale, dai bisogni pedagogici e di salute ai diritti, dalle relazioni tra detenuti a quelle con lo staff, dai controlli alle attività consentite. Nell’ambito della giustizia minorile la carcerazione è fortemente residuale. I numeri dei ragazzi detenuti sono bassi. I minorenni sono meno di duecento, gli adulti tra i 18-25 anni, meno di trecento. Questo permette progettualità innovative e un’attenzione educativa individuale che non può essere paragonata alla burocratizzata vita carceraria degli adulti, afflitta da numeri che rendono i detenuti un numero agli occhi degli operatori. Così accade che negli istituti penitenziari per minori il direttore conosca singolarmente ogni giovane detenuto e gli operatori prendono i carico i destini individuali dei ragazzi con empatia, sapendo distinguere i comportamenti e gli atteggiamenti, lavorando su questo. La giustizia penale minorile consente la sperimentazione di percorsi e di pene alternative a quella carceraria, e ciò parte dal reato che ha portato alla detenzione. Si tende a categorizzarlo in quattro ampi insiemi: coloro che hanno commesso reati gravissimi contro la persona o di particolare rilevanza sociale; ragazzi immigrati privi di figure significative all’esterno; detenuti pluri-recidivi con stili di vita non legali; detenuti affetti da atteggiamenti oppositivi. Una composizione socio-penale, sulla quale gli operatori dovranno quotidianamente lavorare con attenzione psicologica e pedagogica elevata. Vanno, dunque, evitate semplificazioni trattamentali. In tutti gli istituti si prova ad evitare la vita comune tra minori e giovani adulti, una divisione che in alcuni casi è rigorosa, come avviene a Torino, perché gli adulti sono gestibili, conoscono i meccanismi del carcere, mentre i minori sarebbero un concentrato di rabbia, ormoni e vite complicate. In un istituto penitenziario per minori lo sguardo cade sui ragazzi e sul personale, a volte è difficile distinguere gli uni dagli altri. I poliziotti, ad eccezione del comandante di reparto, non indossano la divisa. La presenza di giovani agenti in borghese è sinonimo di vicinanza e di non stigmatizzazione carceraria che ha effetti benefici. Sparsi per l’Italia sono ristretti ragazzini che hanno alle spalle storie di autentica criminalità, come per i minori autoctoni ristretti al Fornelli di Bari, a Catanzaro, a Nisida o nei penitenziari minorili siciliani, va rotto il circolo vizioso del rapporto con l’istituzione. Dovrà presentarsi dolce, mite, accogliente, ma anche ferma e moralmente irreprensibile. Un poliziotto senza divisa accorcia le distanze, ma l’autorevolezza, la determinazione e la coerenza contano in un rapporto con un ragazzo in via di formazione. Per funzionare al meglio, la giustizia minorile deve costruire ponti e alleanze con gli attori: associazionismo, scuole, enti no profit. E’ importante stimolare nelle carceri minorili corsi di formazione professionali, decisivi per i ragazzi in crescita. Un attore decisivo per il destino dei ragazzi reclusi è il variegato mondo del terzo settore, dell’associazionismo e della cooperazione sociale. La sua creatività può fare tantissimo. Dal teatro in carcere ai laboratori di cucina e pasticceria, passando per laboratori di grafica e scultura, sono irrinunciabili nella fase della crescita. Ma gli istituti penitenziari minorili italiani fanno i conti con le carenze e le problematiche, iniziando da operatori precari, che rischiano di andare via lasciando un percorso di aiuto iniziato e condiviso, ed il cambiamento dell’operatore nel minore non genera sicurezza, anzi rischia di far fallire il percorso già avviato. Anche un tempo non prestabilito, non aiuta. Un limite alle possibilità di organizzare del tempo in carcere è dato dal breve periodo di permanenza del ragazzo e ciò risulta impossibile prendere i giovani seriamente in carico. Anche l’edilizia penitenziaria non aiuta. Strutture brutte, fatiscenti, nate da posti dismessi. Una pratica ancora ricorrente è purtroppo quella dei continui trasferimenti dei ragazzi ritenuti difficili. Troppo spesso vengono trattati come fossero pacchi. Il sistema penitenziario minorile pur avendo delle carenze risulta maggiormente organizzato rispetto a quello degli adulti. Ha una sua identità pedagogica, ma deve andare ancora oltre. Non deve farsi affascinare dai metodi approssimativi del sistema degli adulti. Deve rinunciare del tutto alle asprezze, all’isolamento punitivo. Deve riuscire a puntare su due sole parole chiave: prevenzione ed educazione, certo deve anche confrontarsi con i fallimenti ed interrogarsi perché in un permesso premio il minore possa non rientrare più: è solo il modo per essere un recidivo o c’è un malessere non compreso?

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Bullismo. Le aule scolastiche diventano un ring, mentre i genitori sono sempre meno autorevoli

untitledRagazzi che minacciano gli insegnati, adolescenti che bullizzano in una continua pressione psicologica i compagni di scuola, ragazzini che mettono in atto comportamenti aggressivi verso i loro coetanei e gli insegnati. Volano insulti, calunnie, minacce, frasi pesanti che mettono in difficoltà i ragazzi presi di mira, che spesso si ritrovano isolati. Si chiama bullismo, si legge guerra feroce ai coetanei e all’istituzione scolastica. Il fenomeno è in costante aumento. Se ne parla nei consigli di istituto. I docenti, in classe, devono fare i conti con le liti innescate dagli insulti in rete e con la strafottenza degli alunni, che rinnegano l’autorità ricoperta dal professore. Studenti contro professori, così le classi diventano un ring. Da Nord a Sud, un’escalation di aggressioni ai docenti. Umiliazioni, fucine di bulli minorenni, studenti che iniziano i loro show irridenti mentre l’insegnante spiega: pernacchie, rumori, applausi. Ragazzi che fanno gruppo, sghignazzano e incitano, e spesso si protrae per giorni. Ragazzini che picchiano in branco insegnanti over, genitori che assalgono professori perché stavano educando i loro figli al vivere in comunità. La cronaca di questi ultimi giorni è ormai un bollettino da guerra. Violenza fisica, violenza verbale e violenza via etere. Un atteggiamento che i bulli manifestano in classe ma che nasce tra le mura domestiche. La famiglia è cambiata, ha perso la sua autorevolezza. I genitori sono di corsa, hanno poco tempo da dedicare ai propri figli e spesso per compensare questa carenza, tendono ad assecondarli, a concedergli il capriccio del momento, assumendo un ruolo paritario coi loro figli, perché credono sia giusto una relazione pari, ma non è così. Ai ragazzini di oggi, adulti del domani, servono regole chiare e confini stabiliti con ruoli ben definiti per costruire una relazione autorevole. La famiglia ha il compito di trasmettere il rispetto verso la scuola e gli insegnanti. Se la scuola punisce un ragazzo, è dovere dei suoi familiari capire cosa sia successo, confrontandosi e cercando soluzioni educative e riparative con gli insegnanti. Assistiamo, invece, oggi ad una colpevolizzazione costante della scuola. Un atteggiamento che svilisce il ruolo degli insegnanti, deresponsabilizzando i ragazzi, innescando un circolo vizioso, che non aiuta la crescita dei ragazzi e lo sviluppo dei giovani. Eppure un tempo insegnati e genitori erano le autorità più temute dai ragazzini. Ad oggi, anche la scuola, vive una crisi, che rischia di far fallire il compito fondamentale della scuola che è quello di contribuire alla promozione e allo sviluppo della personalità e all’identità degli studenti, e ciò perché la scuola con fatica segue le trasformazioni sociali ed i problemi sempre più complessi dei ragazzi. Le nuove generazioni hanno bisogno di avere spazi di identità reali che li facciano esulare da quelli virtuali: hanno bisogno di esempi di adulti, da seguire come modello per le proprie aspirazioni. Ma hanno bisogno di confrontarsi anche con le conseguenze delle loro azioni e dei loro comportamenti. La scuola ha il compito anche di ricucire il rapporto con la famiglia, attraverso momenti costanti di confronto e di coinvolgimento nella vita e nei problemi, in funzione del benessere e della crescita dei ragazzi. Incattiviti, feroci, in preda a raptus di rabbia e di onnipotenza, feriscono nel fisico e nell’animo i loro coetanei o insultano violentemente gli insegnanti, deliri di onnipotenza che vengono ripresi da un cellulare, autodenunciandosi in rete. In alcune scuole, su proposta del ministro dell’Istruzione Fedeli, si sta optando per la bocciatura, ma basta da sola? Credo, si rischi di inasprire ancora di più il bullo, creando anche un effetto recidiva, innescando in lui anche la voglia di farsi “giustizia” contro quella discriminazione. La sola bocciatura non basta se davvero si vuole recuperare la sua condotta ed anche il bullo, ci vogliono punizioni socialmente utili, che la stessa scuola vent’anni fa ha inventato e sperimentato. Ritornano utili due volte: anzitutto perché sono aggiuntive e non privative. Non si viene solo sospesi. Il principio è: hai sbagliato ma continui a fare ciò che dovresti fare a scuola ma viene stabilita una punizione, in un piano educativo che i genitori devono condividere e sottoscrivere. Diventa utile perché il ragazzino che ancora non ha ben chiare le dinamiche della vita e dell’animo, si ritrova ad aiutare chi è in situazioni di fragilità, magari proprio i ragazzi con qualche definiti che fino al giorno prima deridevano. Diventa una testimonianza di vita, costringe chi la subisce ad essere soggetto attivo. Le punizioni extrascolastiche funzionano ma non sono e non possono diventare slogan o pubblicità contro il bullismo, perderebbero la loro funzione rieducativa, seppur in senso lato potrebbe diventare d’esempio per gli altri. Di certo è che i ragazzi d’oggi hanno bisogno di tornare alla realtà, al sociale che è fatto di sofferenza, di storie, di rinascita, di vita vera e vissuta, che certo non è in uno smartphone in chat o in forum di videogiochi, ecco perché la punizione sociale è un ritorno alla vita vera.

(Pubblicato per il mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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Famiglie con un solo genitore: perché la povertà è dietro l’angolo

untitledSono 893 mila le madri sole con i figli minori in una situazione economica critica. A dirlo sono i dati Istat. In Italia nel biennio 2015-2016, si stima che in media i nuclei familiari monogenitore in cui è presente almeno un figlio minore siano pari a 1 milione 34 mila. Un fenomeno in crescita. Più della metà delle madri sole non può sostenere una spesa prevista di 800 euro e neanche una settimana di vacanza. Quasi una su cinque è in ritardo nel pagamento delle bollette, affitto e mutuo. Altrettante non possono riscaldare adeguatamente l’abitazione. Le madri sole lavorano fuori casa più tempo rispetto alle madri in coppia, si stima 47 minuti in più al giorno e dedicano meno tempo al lavoro familiare, 37 minuti in meno. I livelli di soddisfazione sono sempre inferiori a quelli delle madri in coppia per tutte le dimensioni della vita e in particolare per le condizioni economiche. Cambia di poco la condizione dei padri soli, hanno meno figli e più grandi di età. Matrigna, patrigni, figliastra, multiparentale e chi più ne ha ne aggiunta. L’Italia ormai fa i conti con la famiglia monogenitoriale o allargata e lo slalom degli affetti. Oggi sono 2,7 milioni gli italiani che vivono in famiglie cosiddette ricostituite, e con le nuove compagne “le matrigne” , che da sempre non hanno mai goduto di buona fama: d’altronde è la donna che prende il posto della madre, e con loro bisogna fare i conti. In Italia, dice l’Istat sono 893 mila le famiglie al secondo giro di prova con nuovi partner al fianco. Venticinque anni fa, nel 1993, non arrivavano a 600 mila. La famiglia tradizionale ha lasciato il posto a nuove famiglie, ormai, la famiglia tradizionale non è più un modello prevalente – secondo l’Istat- neanche nel Mezzogiorno d’Italia. Monogenitori per un periodo di transizione, poi nella maggior parte dei casi si diventa bifamiglie con bigenitori ed i figli possono trovarsi fino a quattro figure genitoriali. Un fenomeno sociologico che ci porta a genitori costretti a negoziare più di un tempo, figli che devono dividersi tra otto nonni per scoprire che quello con cui sono affini è quello acquisito. Si apre così la strada a quelle famiglie definite dal sociologo Pierpaolo Donati, “famiglie liquide”. In Italia, la famiglia normocostituita: da mamma, papà e due figli in media, è ormai una minoranza, non si tocca neppure la soglia del quaranta percento totale. L’altro sessanta percento ha forme più svariate: si può crescere con una mamma single, o con papà single, in una coppia dove uno dei genitori naturali si è sostituito ad un nuovo partner. O in una casa con due genitori dello stesso sesso: due mamme o due papà. Sono ancora però le donne a reggere le sorti della famiglia, anche se subentrano a matrimoni troppi brevi, a relazioni finite male e si trovano ad educare bambini piccoli, che a volte a malapena parlano. E fanno persino fatica a trovare loro un nome appropriato alla situazione. Forse un tempo di mamma ce n’era una sola, ma oggi non è più così. La partita si gioca tra la mamma biologica e la nuova compagna del papà, e se le due si alleano, diventano esempio di crescita specie nell’adolescenza. Il problema però sussiste nel nuovo lessico familiare che è parte centrale del cambiamento. Mancano le parole, i figli stessi non sanno come chiamare o definire i nuovi compagni dei genitori e questo secondo i più recenti studi anglosassoni, sarebbe l’origine della fragilità di questi nuclei ricomposti. La famiglia con lo stesso cognome non c’è più. Non sono chiari i diritti e i doveri dei genitori e delle nuove figure che subentrano. Se un ragazzo ha un incidente, il compagno della madre, che magari lo ha cresciuto, non può dare neanche il consenso per un’operazione d’urgenza. Eppure le nuove compagne si ritrovano a vivere delle vere e proprie vie crucis, a Roma e Milano sono nati i “club della matrigne”: donne che si confrontano e si scambiano consigli, perché credevano che un uomo divorziato fosse un uomo libero ed invece si sono ritrovate a figli che remano contro, ex mogli pronte a calunniare, il compagno pronto a fingersi morto pur di affrontare la situazione. Perché di certo le famiglie si ricostituiscono ma i legami non si possono spezzare. E’ dura la vita delle “matrigne” di oggi: quasi tutte soffrono della sindrome “da prima moglie” sulla supremazia della donna che è venuta prima, devono sopportare le foto dell’ex nuova che le suocere hanno ancora in salone e si sognano di partecipare al saggio di danza della scuola, ma quel posto spetta alla vera mamma. Ma è dura anche la vita dei figli che si trovano un’estranea che gli fa da mamma e la crisi dei modelli tradizionali non è indolore, la liquefazione come viene definita in sociologia, fa emergere comportamenti a rischio, specie nell’adolescenza. Quando il nuovo compagno non pretende di avere un ruolo paterno o materno ma solo di un adulto di riferimento, le cose vanno meglio. Di certo i bambini d’oggi fanno i conti con la sessualità dei genitori, ciò che prima non avveniva. Per generazioni venivano visti come assessuati, oggi, invece, i bambini si trovano a cercare nuove spiegazioni. La famiglia borghese di un noto film di Ettore Scola non esiste più, neanche quella da pubblicità, cambiano gli affetti, cambiano i termini, c’è chi dice meglio così, più crescono le figure di riferimento e più affetto avranno i figli, c’è chi invece è terrorizzato da tanto cambiamento, di certo è che la transazione familiare è in atto e con sé porta tutte le problematiche del caso.

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Corte Europea, il ricongiungimento familiare per minori stranieri è possibile dopo 18 anni

untitledUn minore straniero non accompagnato che diventa maggiorenne nel corso della procedura di asilo conserva il suo diritto al ricongiungimento familiare. Lo sancisce una sentenza della Corte europea di giustizia a partire dal caso di una ragazza eritrea arrivata nei Paesi Bassi quando era ancora minorenne. Chiesto il ricongiungimento con i familiari, la sua domanda fu respinta perché nel frattempo era diventata maggiorenne, sottoposta la questione pregiudiziale dal Tribunale dell’Aia alla Corte europea, questa ha sentenziato che vale l’età di ingresso nel paese dell’ Unione Europea, non l’età al momento del riconoscimento dell’asilo. La sentenza, prevede, che la domanda di ricongiungimento familiare deve tuttavia essere presentata entro un termine ragionevole, in linea di principio di tre mesi a decorrere dal giorno in cui al minore interessato è stato riconosciuto lo status di rifugiato. Nella sua sentenza, la Corte, qualifica come “minori” i cittadini di Paesi non Ue e gli apolidi che hanno un’età inferiore ai 18 anni al momento del loro ingresso in uno Stato membro della comunità europea e della presentazione della loro domanda di asilo in tale Stato, e che nel corso della procedura di asilo diventano maggiorenni ed ottengono in seguito il riconoscimento dello statu di rifugiato. Infatti, come ricorda la Corte, la direttiva prevede per i rifugiati condizioni più favorevoli per l’esercizio del diritto di ricongiungimento familiare in considerazione delle ragioni che hanno costretto queste persone a fuggire dal loro paese, condizioni come la guerra, le persecuzioni religiosi, che impediscono il loro vivere quotidiano ed una vita familiare normale. In particolare, i rifugiati minori non accompagnati dispongono del diritto di ricongiungimento che è sottoposto alla discrezionalità dello stato membro. La direttiva nel suo non indica espressamente sino a quale momento un rifugiato debba essere minore per poter beneficiare del diritto al ricongiungimento familiare, per cui la Corte ha deciso che la determinazione di questo momento non può essere lasciata alla discrezionalità di ciascun stato membro. Scappano da guerre, carestie, persecuzioni religiose, fame o schiavitù. E scappano soli. I documenti ufficiali del Ministero del lavoro, le cifre dicono che in Italia i minori stranieri non accompagnati censiti al dicembre 2016 sono 17.373, di cui 6.561 considerati “irreperibili”. Un numero in netto aumento stando alle cifre del 2017, dove nei primi mesi dello scorso anno si registravano 16.348 MSNA, seguendo la sigla dei documenti ufficiali. I minori non accompagnati tra il 2011 e il 2016 costituiscono il dieci percento di tutti gli arrivi complessivi dei rifugiati in Italia. Una numero che fa rabbrividire considerato che spesso sono bambini che da soli hanno affrontato un viaggio pericoloso e spesso mortale, in condizioni disumane anche per un adulto. Sfidano le onde del mare, la paura, scappando dai loro paesi d’origine, spesso perdono i loro genitori durante il viaggio, cadendo nelle mani di sfruttatori e trafficanti. I bambini ed i ragazzi che toccano terra in Italia, hanno le spalle storie di abusi e violenze, anche prima che affrontassero la traversata del mare. In un documento pubblicato da “Save the Children” si legge di storie di torture, soprusi, stupri, privazioni di acqua e di cibo, lunghi viaggi in piedi o in condizioni impossibili. La traversata del mare è solo la parte finale di un lunghissimo incubo per questi bambini. Stando ai dati del Ministero del lavoro, questi bambini provengono dalla Gambia, segue l’Egitto, l’Albania, sino a alla Somalia, passando per Costa d’Avorio, Eritrea. Paesi in crisi profonda, o dilaniati dalla guerra o da regimi crudeli. Sul territorio italiano sono ospitati soprattutto in Sicilia, Calabria, Emilia Romagna, Lombardia e Lazio. I minori arrivati in Italia non possono essere rimpatriati, deve essere garantito loro il diritto all’istruzione e all’assistenza sanitaria, con l’accesso al sistema di protezione dei rifugiati. In loro lo sguardo alle loro origini, alla loro famiglia rimasta tra la guerra e la paura, così il ricongiungimento familiare diventa la luce infondo ad un tunnel fatto di speranza e di soprusi, di sacrifici che sanno di ripartenza sul territorio italiano. E se fino a qualche tempo fa la norma sul ricongiungimento familiare era affidata all’interpretazione e alla discrezionalità dello stato membro che ospitava il minore straniero non accompagnato ed in alcuni casi i ricongiungimenti non avvenivano perché la richiesta era stata formulata al raggiungimento della maggiore età, la Corta ha stabilito che per il ricongiungimento familiare vale l’età al momento dell’ingresso nel Paese ospite. Una sentenza che farà tornare il sorriso e l’emozione a molti minori stranieri non accompagnati e alle loro famiglie lontane.

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Lunga vita agli anziani, arriva il co-housing: la coabitazione tra nonni

untitled 2Coinquilino, roomate o compagno di stanza sono ormai termini in disuso: oggi la parola d’ordine è co-housing. Si tratta di qualcosa di più della semplice condivisione di un appartamento: spesso si creano degli spazi comuni, all’interno dei condomini, dove poter non solo trascorrere del tempo insieme, ma persino realizzare attività che siano di aiuto per gli altri. Nelle grandi città italiane, ad esempio, ci sono i primi condomini dove, in apposite aree comuni, qualcuno si occupa di tenere i figli propri e quelli degli altri, mentre altri si occupano di andare a fare la spesa per tutti. Il co-housing, che sta cambiando, costringendo gli architetti a rivedere le concezioni di living tradizionali, arriva come antidoto della solitudine degli anziani, creando uno spazio di coabitazione. Chiacchierano, coltivano i propri hobby, raccontano aneddoti della propria gioventù, e soprattutto si “fanno compagnia”, ascoltati dai più giovani e da quelli che ormai considerano dei veri e propri familiari nonostante non ci sia alcun vincolo di parentela. Una convivenza che abbatte i costi, ma anche la solitudine ed i rischi legati alla terza età, come le truffe e gli incidenti domestici. Non solo. Gli anziani sono datati, se richiesto dai familiari, anche di gps per poter essere rintracciati, se fuori casa, in caso di perdita di senso dell’orientamento. L’esperienza del co-housing, parola inglese che ha sostituito in Italia il vecchio concetto di “convivenza” tra i coinquilini, nasce in Danimarca negli anni ’60. Oggi è diffuso in tutto il mondo: dalla Svezia, al Giappone, passando per la Francia e gli Stati Uniti. Anche in Italia ormai ha preso piede, affermandosi soprattutto nella terza età. Non una casa di riposo o di cura, ma un appartamento dove gli anziani convivono, in alcune co-housing, come ad Acerra in provincia di Napoli, vi sono degli operatori socio-sanitari, una cuoca ed uno psicologa che li aiutano nella coabitazione. In questi casi, nessuno indossa un camice e si rivolgono agli ospiti chiamandoli “nonni”, in modo da farli stare a proprio agio in un ambiente nuovo. La coabitazione tra nonni lascia alle spalle la solitudine, così come i problemi legati alla gestione economica di un appartamento, che molti, ormai non possono permettersi. In Italia la popolazione anziana è pari a 2 milioni e 300 mila persone sopra i 75 anni che vivono da sole in case di proprietà con quattro o più stanze. Il progressivo aumento della popolazione anziana comporta la necessità di individuare sistemi di sostegno all’invecchiamento attivo. Così si fa largo il co-housing per nonni, in alcune realtà convivono anziani e non. Gli anziani soli con case grandi ospitano i più giovani: studenti fuori sede, o semplicemente loro coetanei in difficoltà economica, ospitandoli a modici prezzi. In cambio però devono collaborare nei lavori domestici, nel pagamento delle utenze e farsi compagnia a vicenda. Una realtà che si sta diffondendo piano piano con le paure e le diffidenze del caso anche in Italia incontrando vantaggi e svantaggi. I vantaggi sono molteplici. Non solo possibilità per gli anziani di vivere in un ambiente più stimolante di una casa di riposo, ma anche un’innovazione dei servizi di cura, grazie all’aiuto reciproco “co-care” che permette di risolvere con facilità alcuni problemi assistenziali non gravi. Il co-hounsing è anche la soluzione più economica: anche per aggregare la domanda di servizi. D’altra parte la difficoltà del vivere comune, soprattutto per gli anziani, sta nel dover condividere i propri spazi, ma è solo questione di abitudine. Che il co-housing funzioni in Europa e anche in alcune zone d’Italia e che sia una valida alternativa è fuori dubbio, ma sarebbe anche opportuno che tutti noi ci impegnassimo a riformulare la società, imparando a non misurare il tempo in base alla produttività, ritagliandoci tempo per la condivisione proprio con gli anziani e riconoscendone il valore sociale, umano e storico. Perché ciò avvenga, occorre tempo, disponibilità a mettere in discussione la propria vita, stabilendo nuove scale di valori e nuove priorità. Un compito non semplice, che se ci impegnassimo un po’ forse riusciremmo a raggiungere o quantomeno a cercare di perseguire. Bastano piccoli gesti quotidiani e piccole importanti attenzioni ai nostri nonni.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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