Sono trascorsi quarant’anni da quando il Parlamento italiano votava una delle leggi più discusse e contestate nella storia repubblicana, la 194, che depenalizzava l’interruzione volontaria di gravidanza e metteva fine alla piaga dilagante -per quel tempo- dell’aborto clandestino. Un traguardo frutto di battaglie e di anni sanciti dal femminismo sotto lo slogan “l’utero è mio e lo gestisco io” , di scontri ideologici che mostravano un’Italia profondamente divisa in netto disaccordo con il pensiero della Chiesa cattolica. Si scrive 194/78 ma si legge legalità all’aborto, o meglio all’interruzione volontaria di gravidanza, riconoscendo l’assistenza ospedaliera pubblica in caso di interruzione. Una legge che tutelava le donne e le loro intime e personali scelte, ma che non si poneva come un mezzo di controllo delle nascite, tanto che potenziava nell’intento legislativo e finanziario la creazione di consultori territoriali nati già nel 1975, e all’epoca non ancora del tutto andati a regime, mentre, oggi difficilmente riescono, specie nella realtà del Sud Italia, a porsi come luogo privilegiato dove attuare interventi preventivi. Un lungo cammino portò a regolamentare l’aborto nel nostro Paese, fu solcato da sit-in, auto denunce, proteste, assemblee, donne che si sottoponevano ad aborti clandestini morendone. Nonostante la decisa condanna del mondo cattolico, le incertezze politiche, le critiche, nel giugno del 1978, la legge venne varata e da quel giorno anche negli ospedali italiani fu praticabile l’interruzione di gravidanza. Una legge contestatissima, oltre al referendum del 1981 sono stati 35 i ricorsi per incostituzionalità della 194. Un dato che ne fa una delle norme più contestate del paese. Una legge che sancì il passaggio dalla criminalità alla legalità. L’ultima relazione del Ministero della Salute sull’attuazione della legge, conferma che in Italia il ricorso all’interruzione di gravidanza è in continua diminuzione. Oggi, le IGV, come vengono denominate, si sono più che dimezzate dalle 87.639 del 2015, mentre nel 2016 sono state 84.926 le donne che vi hanno fatto ricorso. Da quarant’anni in Italia qualsiasi donna, entro i primi novanta giorni di gestazione, può richiedere l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) per motivi di salute, economici, sociali o familiari. La realtà di quarant’anni dopo, seppur caratterizzata da una riduzione di interventi d’aborto, il percorso è ancora lungo, una delle emergenze da affrontare è quello dell’obiezione di coscienza che specie al Sud coinvolge l’83,5% dei ginecologi. Sarebbe necessario, come sollevano da tempo diversi movimenti, favorire la pillola al posto dell’intervento chirurgico, privilegiando il Day Hospital ed evitando così un ricovero di tre giorni, risparmiando risorse da investire ai consultori, in campagne di contraccezione e nella promozione di una corretta informazione per tutti. Mentre, altre associazioni, come rileva la Coscioni, bisognerebbe favorire come priorità la pillola “RU 486” al posto dell’intervento chirurgico. Senza dubbio molto resta da fare in materia di prevenzione. Secondo i numeri forniti dalle regioni, risulta che le giovanissime, tra i 15 e i 20 anni, hanno scarsa informazione sui metodi contraccettivi e nella fase adolescenziale sono pochissimi i ragazzi che hanno rapporti sessuali consapevoli e protetti. Oltre agli ostacoli oggettivi all’esercizio di questo diritto, vi è poi il pesante fardello del giudizio di quanti non sono d’accordo con quello che la legge consente e ritengono che la vita dell’embrione valga quanto quella della donna. Il dissenso sull’argomento è anche cronaca di polemiche come i manifesti anti aborto, uno schiaffo alla libertà delle donne. Non solo manifesti, perché la campagna anticipata dall’hastag “#stopaborto” viaggia anche in rete, con l’intento di scuotere le coscienze ma senza dubbio in modo diretto e a gamba certo non tesa nell’ideologia della 194 del 78. Una diffusione di false informazioni, basandosi su assunti completamente infondati, accostare, il diritto delle donne a una violenza come il femminicidio è quanto di più grave possa essere fatto. Insomma, un conto è dire che si è contro l’aborto, un conto è sostenere che tutte le donne che interrompono la gravidanza sono colpevoli di femminicidio. Si gettano al vento campagne, propagande, lavoro sul campo che gli operatori del sociale fanno per supportare, aiutare le donne che intendono intraprendere un percorso di interruzione, perché decidere di interrompere una gravidanza non è una passeggiata, un modo facile per liberarsi velocemente di un fastidio. Al contrario rimane una scelta difficile a volte dolorosa, certo mai fatta in maniera avventata. È necessario che, su temi così delicati e dolorosi, nessuno spazio venga concesso alla mistificazione.
(Articolo pubblicato per il mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)
Avrebbe dovuto portarla all’asilo nido, ieri mattina, invece è andato direttamente a lavoro, in un’azienda a San Piero a Grato nel pisano, sua figlia nemmeno un anno è morta in auto su quel seggiolino dove il papà l’aveva sistemata. Gesti di routine, dettati forse dalla quotidianità, comportamenti ripetuti sempre allo stesso modo, a provocare questa ennesima tragedia. Un genitore che non si accorge della sua bambina sul sedile posteriore, l’auto che si trasforma in una trappola incandescente. In questo caso, la prima a lanciare l’allarme è stata la madre, che come ogni pomeriggio era andata al nido a riprendere la piccola ma lei non c’era. Subito il peggio che si materializza: sono da poco passate le tre, quando arrivano i soccorsi ma è tutto inutile. Casi che si somigliano, l’anno scorso è accaduto ad Arezzo ad una mamma che dimenticò in auto la piccola di diciotto mesi. Purtroppo è lunga la catena di precedenti: Giulia, Jacopo, e tanti altri vittime della dimenticanza dei loro genitori. Parcheggiare e andare via convinti in buona fede di aver già lasciato i figli a scuola. E’ una parte della mente che tende a distaccarsi dalla realtà, gli esperti lo chiamano “blackout mentale” che può essere causato dallo stress, l’affaticamento, le pressioni emotive, la mancanza di sonno: sono diversi i fattori che possono incidere. Di fatti, c’è un dissociarsi da una serie di gesti, sempre gli stessi che si ripetono ogni giorno credendo di averli già compiuti. L’abbandono in auto è indipendente dallo sviluppo intellettivo, ma è da attribuire a cause come lo stress, che determina un’alterazione acuta della capacità di riflettere. Secondo gli esperti è possibile dimenticarsi il proprio figlio in auto. Ed è così che nascono proposte per evitare queste morti tutte uguali tra loro, come una legge che preveda l’obbligo di sistemi di allarme anti abbandono in auto. Alcuni esperti, suggeriscono, un metodo classico e non tecnologico per non dimenticare il figlio in auto, come quello di mettere sotto il seggiolino del bimbo il portafoglio o le chiavi di casa. Non è un metodo attendibile, perché la persona deve ricordarsi di prendere questi oggetti. Ma esistono applicazioni che grazie ad uno specifico algoritmo danno la sicurezza di aver consegnato il bambino. Resta però il miglior dispositivo il baby car alert, che quando si spegne il motore dell’auto ma il bimbo è sul seggiolino avverte con segnali sonori. Quando vi è il supporto sociale, affettivo, familiare che è presente, tangibile, il disagio emotivo dei genitori si attenua. Morti e storie sconcertati che danno però una chiave per comprenderle: ritualità, fretta, giornate incastrate al minuto, gesti ripetuti centinaia di volte l’anno che diventano naturali come l’ultimo gesto che si fa prima di andare a dormire, diventando spesso automatismi. Gesti meccanici. Ci sono momenti in cui siamo fisicamente con i nostri figli, ma con la testa ci troviamo già al passaggio successivo, quando li lasceremo a calcio come tutti i mercoledì, quando li lasceremo dalla nonna come tutti i giorni alle sei. Momenti in cui diciamo sì a loro domande che non abbiamo ascoltato, in cui controlliamo la posta sul cellulare mentre ci raccontano cosa hanno fatto a scuola. E poi ci sono momenti in cui siamo lì, attenti e con la testa sgombra, ma solo stanchi. Umani e fallibili. Vittime , tutti, di piccoli corto circuiti: una banale dimenticanza, il quaderno non comprato, il libro lasciato a casa, la tuta non lavata proprio il giorno in cui ha ginnastica a scuola. E poi ci sono i corto circuiti spaventosi. Ci sono i bambini dimenticati in macchina. La pioggia di insulti sul web diretti alla mamma, la domanda di tanti: “come ha fatto?” mentre il sospetto terribile cova pauroso nel cuore di ogni genitore, di poter dimenticare per qualche minuto, le uniche persone che un genitore per tutta la vita non dimentica: i propri figli.
Ponti tra la Chiesa e la strada” è la metafora di un’affermazione di Giovanni Paolo II, utilizzata per definire gli oratori, generatori di speranza e di sociale, luogo della socializzazione, del gioco e dello svago, negli anni di generazioni ne sono passate per gli oratori. Giovani di un tempo che intorno ai 13-14 anni trascorrevano i pomeriggi in oratorio ad ascoltare il curato che faceva lezioni di buona politica, insegnava ad osservare il quartiere e a farsi carico dei problemi degli altri, educando alla partecipazione. E’ quella che don Bosco definiva come la formazione “dell’onesto cittadino e del buon cristiano”. Oratori generatori di valori socio-educativi che insieme alle altre agenzie educative del territorio contribuisce a creare la rete educativa a favore delle giovani generazioni lì presenti. Un ruolo accantonato e dimenticato per troppo tempo, quello degli oratori, che in rete con le agenzie educative diventa risorsa per tanti giovani, ma è in atto una rinascita in un’ottica di contrasto alla povertà educativa degli oratori italiani: sono poco più di 8.000 gli oratori censiti in Italia, in una tradizione che si tramanda in Italia da oltre 450 anni, dai tempi di San Filippo Neri nella Roma del ‘500.. In questi secoli l’oratorio ha saputo adattarsi alle esigenze dei tempi restando sempre nell’alveo dell’educazione oltre che della formazione cristiana dei giovani. Come tutte le realtà, anche quella degli oratori risente fortemente dei cambiamenti che sta vivendo la società italiana. Due i caratteri di novità: la presenza di molti ragazzi, figli di famiglie immigrate, che provengono da altre culture, da altre confessioni cristiane e da altre religioni, che sono accolti all’interno di una stessa precisa identità: i giovani che crescono all’interno dell’oratorio, trovano un luogo che educa ad abitare. Un altro aspetto è legato all’attuale crisi. L’oratorio in sé non è legato all’attività economica, per cui non risente direttamente della crisi, ma la domanda da parte della famiglia è fortissima. L’economia fiorente ha spinto negli anni le famiglie ad uscire dai confini dell’oratorio per le attività di sport, musica, potendo garantire ai loro figli proposte più ampie, ma ciò che mancava era un’educazione integrale. Oggi, invece, i genitori si sono accorti che i loro figli sanno fare tante cose, ma fanno fatica a vivere. Da qui lo sguardo verso l’oratorio, dove ci sono attività nuove, ristrutturate, ma c’è soprattutto l’attenzione alla persona, alla sua creatività, alla sua libera espressività. Cresce, dunque, nelle famiglie l’esigenza di uno spazio a misura di una crescita integrale dei ragazzi. E così a nuova vita nasce l’oratorio che si propone a contrasto alla povertà educativa, una delle attività offerte è quella del doposcuola, secondo i dati la media nazionale è dell’ 83%, più al nord e meno al Sud col 74%. Un servizio che si fonda molto sui volontari. Giovani che aiutano altri giovani. Un doposcuola che si modella alle esigenze: dalla semplice spiegazione dei compiti alla formula dell’integrazione che si unisce alla socializzazione, alle attività sportive e al disegno, cercando di far esprimere tutte le arti espressive: teatro, danza, canto, musica. In alcuni oratori si organizzano corsi di cucina e tra farina che vola e biscotti da fare nella semplicità nascono legami d’affetto e d’amicizia, conoscendo la normalità e la semplicità dei gesti e dello stare insieme. Ma, l’oratorio offre anche per gli adolescenti e i giovani l’occasione di mettersi al servizio in attività di animazione ludica e formativa per i più piccoli, i cui momenti di maggiore attrazione è l’estate con gli immancabile campeggi. Vanno anche considerate le gite in cui si fonde l’aspetto ricreativo, culturale ed ecologico-ambientale, un insieme di elementi che aiutano il giovane a crescere in una dimensione culturale che non aveva mai conosciuto né considerato. Inoltre, l’oratorio organizza fiere o piccole vendite, che coinvolge i più giovani verso le attività caritatevoli e di volontariato, facendogli conoscere il valore dell’aiuto all’altro. L’oratorio è stanze, biliardino, cortili e campi da gioco, dove correre e sorridere agli altri, ma non è solo struttura è anche e soprattutto persone, generazioni diverse che si incontrano, ragazzini ed animatori poco più grandi loro, gli educatori, i genitori che vanno coinvolti nelle attività e nel dialogo educativo, perché l’oratorio non è un luogo ad ore per i genitori che lasciano i figli con la certezza che siano al sicuro, ma l’oratorio è il luogo educativo aperto alla collaborazione e al confronto con tutti. “La più grande palestra di umanità e di relazioni umane che si possa immaginare”, la definisce Don Michele Falabretti, responsabile nazionale pastorale giovanile della Chiesa Italiana. Relazioni umane vere, sincere, che uniscono e non dividono, che si fondono nell’ascolto e nell’empatia dell’altro, incontrando il dialogo e la diversità culturale, fisica, morale, educativa, che si realizza in ricchezza per i più giovani. E poi l’adulto che come tale deve insegnare ed il minore che deve crescere assumendosi le responsabilità delle sue azioni consapevole che è l’erede del futuro e di una comunità educante che sarà tramanda di generazione in generazione. Che l’oratorio possa diventare generatore di speranza e di futuro per i più giovani?
Da Torino a Roma, scendendo sino alla punta dello stivale, Catania. I registrati dell’anagrafe dei comuni italiani iscrivono la nascita dei figli di genitori dello stesso sesso. Dalla sindaca Appendino alla pantastellata Raggi, al sindaco catanese, si procede a trascrivere i certificati di nascita stranieri di figli di coppie omosessuali senza che sia intervenuto un Tribunale con un sua ordinanza. Pioniere, a dirla tutta, era stato l’ex sindaco di Roma, Ignazio Marino, nel 2015 che aveva provveduto alla trascrizione all’anagrafe capitolina senza una sentenza. Le due mamme romane, tornate in patria dopo la nascita del bimbo in Argentina, avevano presentato domanda al comune di Roma perché questa trascrizione venisse riconosciuta anche in Italia. Decisione che aveva provocato spaccature politiche e diviso il Paese. Ma erano state la Corte d’Appello di Trento prima, di Roma dopo, a emettere sentenze favorevoli al riconoscimento di genitori dello stesso sesso. Una decisione coraggiosa dal punto di vista politico ed innovativa sotto l’aspetto giuridico che apre le porte degli uffici anagrafi dei comuni alle famiglie arcobaleno. Un excursus sociale che nasce dalle coppie same sex a cui era data la possibilità dell’adozione cosiddetta “mite”, non una vera e propria adozione ma qualcosa che si avvicina, oppure avevano la facoltà di trascrivere gli atti di nascita nei paesi in cui il sesso dei genitori non veniva considerato, come in Spagna, o ancora facoltà di trascrivere sentenze straniere di adozione. Ma nel silenzio politico, la magistratura, ha riletto le norme del diritto interno alla luce dei principi del diritto internazione, facendosi carico negli ultimi anni di trovare soluzioni che tutelassero i figli delle coppie arcobaleno evitando di discriminarli. Sino ad oggi, con la decisione di comuni di superare le soluzioni di ripiego e permettere ad un bambino, nato in una coppia omogenitoriale, di essere identico al suo compagno di banco, figlio di due genitori eterosessuali. La parola fine ancora non è scritta, anzi, è tutto ancora aperto, la registrazione potrebbe essere impugnata davanti al giudice, in quanto nel nostro ordinamento, i genitori sono sempre un uomo ed una donna. Eppure non ci sono nell’ordinamento italiano norme che regolino l’iscrizione all’anagrafe di figli di genitori dello stesso sesso. Mancano però anche i divieti costituzionali. E’ in questo spazio che si sono inseriti i tentativi, riusciti già dai comuni, di iscrivere i figli di genitori omosessuali. Durante l’approvazione della legge sulle unioni civili si era aperto uno spiraglio con la proposta della stepchild adoption, l’adozione da parte del coniuge, che poi era stata accantonata dal Parlamento tra le polemiche. Insistono, intanto le sentenze del tribunale di Trento, della Corte d’Appello, e anche della Cassazione. Il tratto comune è quello che in assenza di una legislazione, i tribunali costringano i comuni ad effettuare la registrazione in forza del fatto che non esiste un divieto generale nella Costituzione. Insomma, ci sono ancora nuvole sopra l’arcobaleno. Oltre l’aspetto legislativo e giurisprudenziale che andrà chiarito anche oltrepassando le ideologie e le opinioni personali e politiche, resta un passo storico e civile che alcuni comuni hanno deciso di compiere, un passo che sarà storia personale di questi bambini, connotando un’evoluzione ideologica: negli anni settanta, i bambini di genitori divorziati, erano visti come figli di un peccato, nelle scuole religiose di pregava anche e soprattutto per loro, perché si diceva privi di una guida solida e comune. Oggi, invece, che la nostra società convive quasi come fosse abitudine e consuetudine a genitori separati e figli divisi nei giorni e durante le feste, siamo a confronto coi figli di genitori omosessuali e di bambini che presto andranno a scuola e si confronteranno con i pregiudizi di adulti e bambini. Infatti, secondo la comunità scientifica internazionale, all’unanimità, ha riferito come un bambino figlio di genitori dello stesso sesso rischia di ammalarsi più dei figli di una famiglia tradizionale, la malattia connessa ai bambini arcobaleno è quella del “minority stress”, ossia il “bullismo” che l’ambiente può attivare contro questi piccoli soggetti. La condizione di stress di natura cronica che caratterizza la vita di determinate persone – si legge nella ricerca dell’Università di Napoli Federico II – le cui differenze sono oggetto di stigma (o che, comunque, sono considerate come negative all’interno di un determinato gruppo sociale o ambiente socio-culturale), prende il nome di minority stress. Tale forma di stress può colpire alcune minoranze come, ad esempio, quelle sessuali oppure quelle composte da insiemi di persone che possiedono determinate caratteristiche.” Sotto l’aspetto della conoscenza della propria condizione, bambini arcobaleno, si basa prevalentemente sulle informazioni e sui modelli che vengono veicolati dai media, senza il sostegno di adulti comprensivi, in quanto sono pochi coloro che sono informati e formati sulle famiglie omogenitoriali. Il confronto con i pari, con altre coppie omosessuali, avviene solo successivamente. Ecco che la condizione di stress prolungato, derivato dal pregiudizio e dalla discriminazione, diventa una fonte significativa e influente sulla salute mentale, soprattutto se si percepiscono determinati contesti sociali come ostili, avversi o indifferenti. Insomma, abbiamo bisogno ancora di compiere molti passi normativi ma anche ideologici e di supporto.