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I giovani al tempo del Coronavirus: isolamento, rifiuto alla Dad e dispersione scolastica

Didattica a distanza, vita sociale azzerata e impossibilità di costruire relazioni, di vedere posti nuovi, hanno caratterizzato la vita degli adolescenti negli ultimi undici mesi. Misure – seppur giuste- per contenere il contagio da covid-19, che però non risparmiano ripercussioni sulla psiche e nella vita di molti adolescenti, fase già di per sé complicata e caratterizzata da transizioni nuove e  più o meno complesse. Un momento storico che anche i più giovani non dimenticheranno facilmente, se non altro per i postumi che questo lascerà, anzitutto, le ripercussioni negative sulla loro capacità di socializzare, già di per sé mutata rispetto al passato, inclini più al dialogo virtuale che de visu, perdendosi il meglio degli incontri interpersonali. Ma anche il loro stato d’animo e l’umore ne risente, molti adolescenti, vivono momenti d’angoscia, ansia, smarrimento,difficoltà ad immaginare un domani; altri, invece, manifestano aggressività che si traduce anche in scatti d’ira, preoccupando molti genitori, che in alcuni casi sono arrivati a denunciare i figli minori attivando i servizi sociali, in altri invece, intraprendendo un percorso di psicoterapia per adolescenti. Fenomeni e comportamenti, che anche un recente rapporto di “Save the Children” riporta, rimarcando gli effetti di questo storico periodo sui giovanissimi d’oggi e sulle ripercussioni che questo potrà avere sul loro futuro. Diverse le fasi che hanno vissuto gli adolescenti, inizialmente stupore, provando anche un certo interesse nel provare a vivere un’esperienza diversa dal comune, provando anche a giovare degli effetti derivanti da una diminuzione dell’impegno scolastico. Poco dopo si è sviluppata una seconda fase che ha comportato il fatto che iniziassero a ritirarsi sempre di più in se stessi e in questa situazione di isolamento. Pur non sapendo dove e come saranno condotti domani, hanno chiaro il loro attuale stato d’animo, il loro stare male nel vivere. Una nuova dipendenza, nel frattempo rischia di prendere il sopravvento per i giovanissimi, l’uso continuo e smoderato dei social e dello smartphone: nella realtà virtuale gli adolescenti cercano la possibilità di gestire delle situazioni. Tensioni che si accumulano. Inoltre, non va tralasciato anche il pericolo che si sviluppino altre dipendenze dall’alcol, ad esempio. Seppur disagi che richiamano a delle preoccupazioni, la maggior parte degli adolescenti non ha però bisogno di una terapia psicologica clinica, devono essere i genitori i costruttori insieme ai figli della capacità di problem solving, risoluzione dei problemi, aiutandoli a lavorare sulle loro capacità e sulle loro potenzialità. Bisogna fornirgli uno sguardo esterno sulle loro risorse e insegnare loro a metterle in campo. Alto tasto dolente di questo sospeso periodo della vita degli studenti è la didattica a distanza, vissuta da molti bambini ed adolescenti con difficoltà, non da meno dai genitori. Il divario è palese. Molti genitori sono costretti ad andare a lavorare o restare a casa in modalità agile, senza riuscire a seguire e a prestare attenzione ai figli che devono seguire le lezioni online; dall’altra parte le famiglie numerose, ma anche quelle che vivono in case con spazi angusti e ristretti, dove non c’è spazio sufficiente e silenzio adeguato per ognuno dei figli che deve seguire la dad; ragazzini che vivono in zone in cui la connessione è lenta e difficile; genitori che rappresentano non poche difficoltà nel provare a gestire la dad, spesso si tratta di adulti che non hanno neppure la licenza media: impossibile demandargli anche l’istruzione dei loro figli, qualsiasi sia il grado scolastico che questi frequentino. La dispersione scolastica in Italia già prima della pandemia aveva numeri preoccupanti, rappresentati dal 30,6% degli oltre 11 milioni di studenti. Secondo l’indagine di Ipsos “i giovani ai tempi del Coronavirus”, per Save the Children, condotto tra gli studenti tra i 14 e i 18 anni, il 28% degli giovani intervistati ha dichiarato che dall’inizio della pandemia almeno un compagno di classe ha smesso di frequentare la scuola. Tra le cause principali delle assenze durante la Dad la difficoltà di connessione e la mancanza di concentrazione. Almeno 34 mila studenti delle superiori rischiano l’abbandono scolastico. La dispersione scolastica è un film dai sogni spezzati per i ragazzini. Alcuni comprendono che studiare sia l’unica possibilità per crearsi un futuro migliore, per essere partecipi del reale cambiamento della realtà in cui vivono, altri vivono nell’incertezza se studiare o meno, altri ancora abbandonano il percorso scolastico: il fatto che ci sia l’obbligo scolastico fino a sedici anni non li turba, e non turba neanche le loro famiglie (alcuni non sanno neanche che ci sia l’obbligo). Una regola imposta dal mondo che è intorno ai ragazzi, quel mondo in cui loro saranno i protagonisti, senza neppure rendersene conto. La scuola resta sempre il valore aggiunto, che può dare una chance di miglioramento, aiutando a realizzare i sogni ai ragazzi. Vale la pena ricordare a noi adulti, che l’abbandono scolastico ruba il futuro ai ragazzi, e spesso li consegna in altre mani. Consiglio la visione del film “la nostra strada” per ricordarci quanto i ragazzi abbandonano la scuola possano essere attratti dalla cultura dei favori anziché la cultura dei diritti.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Disturbi alimentari e pandemia, effetto limbo del covid sull’alimentazione

Mancanza d’appetito, leggera nausea, rifiuto verso uno dei piaceri della vita: la tavola imbandita di cibo, dall’altra parte chi del cibo ne ha fatto occasione gradita, con spuntini in ogni momento, pasti abbandonati e ricchi. Il coronavirus ha disorientato molti ed ha avuto non poche ripercussioni sull’alimentazione di tanti. La crisi sanitaria ha acuito i disturbi del comportamento alimentare: allo stress e all’ansia della situazione sociale si sono aggiunte le difficoltà di accedere al sistema sanitario. I medici avvertono un ritardo a causa della saturazione del sistema, con ricadute e più gravi condizioni cliniche per chi soffre di disturbi alimentari. La metà delle nuove segnalazioni riguarda la bulimia nervosa. E da marzo sono quintuplicate le chiamate al numero verde Sos disturbi alimentari. L’età si è abbassata 10-11 anni e c’è una maggiore diffusione del disturbo nella popolazione maschile. Il 50% dei nuovi casi diagnosticati riguarda la bulimia nervosa, caratterizzata da abbuffate seguite poi da episodi di vomito o utilizzo di lassativi per liberarsi dell’eccesso di cibo ingerito, spesso accompagnato dall’utilizzo di droghe, con disturbi della condotta sessuale e della personalità. In molti, invece, fanno i conti con l’anoressia nervosa, che si manifesta con l’ossessione per il proprio peso corporeo e restrizione dell’assunzione di cibo, e binge-eating, cioè abbuffate di cibo non seguite da pratiche di eliminazione come con la bulimia. L’aggravarsi dei disturbi alimentari durante il lockdown ha un’origine post-traumatica. La privazione dagli amici, l’impossibilità di alcuni riti specifici, l’impossibilità di fare sport che accresce la paura di ingrassare, le difficoltà economiche delle famiglie, il peggioramento di relazioni già difficili con i genitori, sono espressioni di un disagio. La paura del cibo è paura nel mondo. Ad esser maggiormente colpiti dai disturbi alimentari sono i giovanissimi, ma anche gli adulti ne soffrono, alcuni col tempo sono diventati bravi nel nasconderlo, ma col lockdown per tanti è stato difficile celarlo ai propri familiari. Il clima di paura vissuto dall’adulto, dalla famiglia, avvertito anche nelle telefonate e videochiamate tra i familiari, unitamente alle tante preoccupazioni per la salute e per il lavoro, hanno sottoposto molti ad uno stress continuo e a tratti insostenibile. Il cibo in questo periodo l’ha fatta da padrona in molte famiglie ed ha assunto un nuovo peso nelle nostre giornate. C’è chi ne ha riscoperto il valore e la bellezza di prepararlo per sé e per gli altri, ma anche chi ha dovuto fare i conti con il fondo da toccare a causa del cibo: rifiutandolo o avvertendo l’acuirsi dei disturbi alimentari, chi ne ha fatto un valore troppo aggiunto o ponendosi la domanda “mi andrà tutto stretto dopo?” Insomma, abbiamo scoperto il cibo e tutto quello ad esso collegato, che talvolta ha ripercussioni sociali e psicologiche.

E’ possibile però chiedere aiuto quando ci si rende conto che si vive un disturbo alimentare o questo si sia acuito, è possibile consultare il sito www.disturbialimentarionline.it per una mappa delle strutture e delle associazioni più vicine. Nel frattempo ho voluto approfondire l’argomento alimentazione nelle sue sfaccettature con la biologa molecolare e nutrizionista specializzata in nutrizione umana e oncologica Giusy Colaps.

  1. Il cibo sta forse assumendo un nuovo peso nelle nostre giornate: dal #andràtuttostretto per chi si è dato alla cucina a chi vive l’esperienza di un disturbo alimentare

un periodo molto particolare, dove passiamo molto tempo con noi stessi e si amplificano le nostre angosce e insoddisfazioni. Sicuramente la casa per antonomasia è sinonimo di cibo, perché la maggior parte dei pasti li consumiamo a casa, come anche i pranzi di famiglia, i cenoni e quant’altro. Fin qui tutto bene, perché il rischio maggiore è di mettere qualche chilo in più, che successivamente con una buona volontà e tra una buona alimentazione e l’attività fisica si recupera il proprio peso forma. Ma il problema nasce nel momento in cui ci sono già delle difficoltà e, rimanendo rinchiusi in casa, si accentuano i pensieri e il frigorifero diventa “la via” più a portata di mano per compensare le forti emozioni. Personalmente, in questa situazione, consiglio di vedere il lato positivo: anche se si è costretti a vivere a tu per tu con i propri problemi, quasi da sentirsi schiacciati, “rincorsi” per casa, consiglio di fermarsi e affrontarli. Come? Rivolgendosi a degli specialisti, per vivere al meglio la “convivenza forzata”, e intraprendere un percorso-psico-nutrizionale, senza aspettare che le cattive abitudini si cronicizzino.

  1. Quando è tempo di rivolgersi ad uno specialista: quali sono i campanelli d’allarme?

Di campanelli d’allarme ce ne sono un bel po’ e prima si sentono, minore è il rischio di incappare in danni gravi per l’organismo o, addirittura, salvare la vita di chi ne soffre. Quindi occorre fare attenzione ad ogni minimo campanello d’allarme per non compromettere la qualità della vita. Quali sono? Per esempio la paura di mettere peso, un calo o un incremento esagerato del proprio peso, difficoltà a mangiare con gli altri, paura di non riuscire a rispettare sempre le proprie abitudini rigide, eccessiva attività fisica solo con lo scopo di bruciare le calorie ingerite. Diciamo che ce ne sono un bel po’, ovviamente vanno considerati alla luce della storia della persona. Il problema principale è che i disturbi dell’alimentazione sono subdoli, perché chi ne soffre tende a nasconderli e non ne ha piena consapevolezza.

  1. Quali sono i consigli per un’alimentazione sana in tempo di pandemia?

La pandemia ha cambiato molto le nostre abitudini alimentari, basta pensare che prima si aveva pochissimo tempo per preparare un pasto e, per rifocillarsi, spesso, si consumavano pasti frugali e confezionati. Oggi, invece, si ha molto più tempo e bisogna utilizzarlo al meglio. Prima ci si lamentava che non c’era tempo, ora non ci sono scuse e possiamo migliorare le nostre abitudini. Un consiglio che posso suggerire, oltre a dedicarsi ai propri hobby compatibili con la “clausura”, è di dedicare tempo alla prima colazione e, se in casa abitano più persone, farla tutti insieme per condividere questo importante pasto della giornata. Bisogna aumentare il consumo degli alimenti indispensabili alla nostra dieta, come per esempio vegetali, frutta, cereali integrali e legumi, che a volte, per motivi di tempo non si preparano spesso. Se cucinare ti rilassa ed è il tuo hobby preferito, ti consiglio di preparare pietanze con pochi grassi e poco sale e di sperimentare nuove ricette con ingredienti leggeri e salutari. Insomma, questo periodo va visto come un modo per resettare le cattive abitudini e introdurne delle nuove e più salutari, e con l’aiuto degli specialisti, nutrizionista e psicologo, sarà più semplice adattarsi al nuovo stile alimentare.  CARPE DIEM!

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Gli effetti collaterali del Covid: un mucchio di notizie che incidono sulla psiche e sul sociale

Dagli altoparlanti dei centri commerciali, alle radio che in filo diffusione aggiornano e raccontano un mondo nelle mani di un virus che per quanto sconosciuto stronca vite e infonde terrore, ai telegiornali con titoli ad effetto, passando per i social network: sempre più cruciali durante l’attuale emergenza sanitaria globale. Le reti sociali, per altro, sono divenute uno dei canali di informazione più utilizzati che se da un lato permettono di raggiungere le comunità più isolate, dall’altro è un susseguirsi di flash news e di bollettini che hanno trasformato uno dei social più noti per tenersi in contatto in un social news dove si susseguono fake news e procurato allarmismo. Un mucchio di notizie che bombardano la nostre mente costantemente: un giro in un centro commerciale è accompagnato regolarmente da informazioni e dati sul coronavirus; un appuntamento dall’estetista si trasforma in un sottofondo radio che alterna qualche canzone a commenti in studio e dati sul coronavirus. Un giro virtuale sui social si trasforma in angoscia e preoccupazione. Che l’informazione sia giusta e sacrosanta, arrivando a tutti è fuori discussione, ma ciò che si contesta è forse il continuo bombardamento di notizie, a volte affidato anche ai social e a persone che di giornalismo e talvolta di medicina non se ne intendono. Il covid esiste, anche se c’è chi vuole negarlo, chi propone teorie complottiste, proteggersi è un atto di civiltà verso se stessi e verso gli altri. Il  covid è una guerra il cui nemico è armato ma chi vuole difendersi non sa come farlo. L’informazione è giusta nella misura in cui racconta gli eventi che accadono, è giusta quando scuote la società, ma ad oggi rischia di diventare un effetto collaterale. Non lo avremmo mai immaginato, solitamente ci si sofferma sul fatto grosso: in questo caso il covid, ma gli effetti collaterali si compiono accanto, sono un mondo nel mondo. L’allarmismo da coronavirus rischia di isolarci. Che il coronavirus avesse rilevanti implicazioni psicologiche e sociali era risaputo, ma uno dei principali pericoli è in senso di minaccia generalizzato che rischia di distruggere o indebolire i legami comunitari, facendoci sentire isolati e pronti a tutelare solo il nostro interesse personale a discapito degli altri. Un continuo di notizie allarmanti e divisive che non fanno altro che farci sentire sempre più distanti dall’altro, che spingono a trovare un colpevole di turno per poterci proteggere da un evento i cui confini non sono per niente delineati e che la stessa mente umana non sa definire. La mente non è pronta alle emergenze seppur prova ad adattarsi e cerca anche di chiedere aiuto all’esterno con momenti di svago, il problema è la pluralità di messaggi poco coerenti che unita alle informazioni enfatizzate e talvolta manipolate dai social aggiungono incertezza e provocano ansia, paura, terrore,  generando una grande confusione. L’essere umano si sente così spaesato, non riesce a dare senso a ciò che sta vivendo, cercando a tutti i costi un capro espiatorio. E più siamo incerti, frammentati, contrapposti meno saremo equipaggiati ad affrontare un’emergenza come il virus. Dall’epidemiologo che rilascia un’intervista, all’amico che invia il link che viene condiviso, tutti, nessuno escluso abbiamo la responsabilità di tutto ciò che comunichiamo: dobbiamo essere sicuri che le informazioni che diamo siano interpretate correttamente dal destinatario, che siano in grado di essere rapportate alla sua esperienza e al suo contesto. E questo da settimane non sta accadendo. Informazioni sbagliate possono farci vedere il pericolo in maniera diversa: se c’è da una parte chi esce di casa senza mascherina, dall’altra c’è chi se ne va beatamente alle feste e non indossa la mascherina, convinto che a lui possa non accadere nulla. Un fenomeno che gli addetti ai lavori definiscono “percezione di immunità oggettiva”.  Di base manca una corretta informazione d’emergenza, prima di catastrofi, terremoti o virus, bisognerebbe parlare e sensibilizzare l’opinione pubblica al rischio. Una buona comunicazione in ogni sua forma può contribuire a salvare vite umane. Essere preparati significa conoscere eventuali rischi derivanti da un fenomeno d’emergenza e come fronteggiarlo. Per quanto riguarda il Covid ad oggi i messaggi veicolati sono stati più o meno incoerenti, ecco perché oggi c’è chi ha tanta paura e chi in vece non riesce a comprendere l’allarmismo che lo circonda.

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La pandemia ci ha reso persone migliori?

untitled 2I nostri giorni hanno preso una piega inaspettata. Solo tre mesi fa il mondo conosceva da vicino una pandemia che ha distrutto vite e confinato tutti dentro un cubo ribattezzato lockdown. L’allentamento delle misure ha consentito al mondo di riprendere parte del suo ritmo e alle nostre vite di ritornare ad una normalità che ha subito non pochi mutamenti con cautela e timore. In questi mesi di confinamento domestico ci hanno incoraggiato definendoci pazienti e bravi nel rispetto di quanto ci veniva detto, che questo momento che ha segnato profondamente l’umanità ci  avrebbe reso persone migliori, dove la bontà e la solidarietà avrebbero fatto da padrona in un mondo troppo preso. Eppure non mi sembra che sia un processo automatico. Non mi pare che il dolore possa dettare un semplice processo di miglioramento individuale e collettivo, e non è ben definito come l’essere umano riesca ad auto-migliorarsi. Questo periodo ha vissuto parallelamente due vite opposte. La convivenza forzata ha aumentato il numero delle vittime di violenza in famiglia. I più piccoli sono stati costretti a spazi angusti. Sono aumentate le disuguaglianze sociali, abitative e culturali tra i bambini. La vita degli adolescenti è stata una socialità digitale senza la possibilità di incontrarsi. L’istruzione a distanza ha funzionato a macchia di leopardo ed in modo molto disuguale. I professionisti che hanno continuato a lavorare e ad assicurare la loro presenza ricorderanno questo periodo come un grande stress ed una fatica fisica e psicologica. I medici come di una lotta durissima, di turni massacranti, di morti difficilmente arginabili, di paure e di angosce. E poi c’è l’altra vita quella altruistica e generosa, fatta di donazioni, lavoro di squadra, un mondo che si è riscoperto volontario, costruendo una rete di protezione e di sopravvivenza per le fasce deboli. Di certo è che di fronte a noi abbiamo mesi ed anni di radicali novità. Mutamenti che per quanto possano inizialmente affascinare perché qualcosa di nuovo richiedono una risposta adattiva. Le nostre comunità devono iniziare a cambiare per adattarsi e per farlo necessitano di uno sforzo cooperativo che richiede la partecipazione di tutti, ognuno per la propria parte. E se ci fermiamo a pensare “ci ha reso migliori”, la risposta è forse “non lo so”, ci ha obbligato a fare cose a cui non eravamo abituati, come lo stare in casa, condividere momenti sparsi con i nostri familiari. Ma non è detto che questo diventi necessariamente essere migliori. E se la vita qualcosa ci ha insegnato sino ad oggi è che un essere umano cambia non sulla base di una spinta esterna, ma sulla base delle sue motivazioni interiori. Vi starete chiedendo “e allora tutti gli slogan incoraggianti?” Quelli sono auspici che bisogna far credere ai bambini che a differenza degli adulti hanno anche il potere della fantasia che li porta lontano, ma l’essere umano razionale e maturo non riesce a credere a queste cose. L’essere umano si è scontrato con la realtà fatta di morti e di notizie che di giorno in giorno ci spegnevano umanamente e psicologicamente con l’impatto di un mondo in piena sofferenza. Allora resta da chiederci ma oltre al pane in casa cosa abbiamo imparato da questa vicenda?

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

 

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Figli della droga. Nascere con la sostanza stupefacente nel dna

untitled 2Viene a contatto con la marijuana, la inala e si sente male. Vittima una bambina di un anno e mezzo della provincia di Salerno. La piccola è stata immediatamente trasportata e ricoverata all’ospedale Umberto I di Nocera Inferiore, nel frattempo la Poliza di Stato ha avviato le indagini, interrogando il papà della piccola, un 21 enne già noto alle forze dell’ordine per altri reati, perquisito la casa della piccola, dove non sono state rinvenute tracce di sostanze stupefacenti, ma le indagini continuano. La madre della piccola, una 17 enne, non ha saputo fornire indicazioni su come la bimba sia venuta a contatto con la droga. I risultati degli esami tossicologici sulla piccola sono stati consegnati al Tribunale per i Minorenni che dovrà pronunciarsi sull’affidamento della bambina. Genitori troppo violenti e dediti all’uso di droga, con questa decisione il Tribunale per i Minori di Salerno ha revocato l’affidamento di una bambina di 7 anni ai propri genitori. Le indagini della procura, generate da un procedimento poi terminato con una condanna per il padre, accusato di maltrattamenti, si sono avvalse del prezioso contributo degli assistenti sociali, che pare-secondo quanto riportano alcune testate giornalistiche locali- la bambina, pare abbia riferito agli assistenti sociali di un clima di violenza e di tensione, la piccola sembrerebbe aver spiegato agli operatori sociali anche il procedimento di confezionamento della cannabis. Diversi gli episodi riferiti dalla piccina, come quello che vide la bambina essere tirata per i capelli, dopo un litigio tra la madre ed il padre. Conflittualità su conflittualità, perché alla violenza genitoriale si aggiungeva il rapporto burrascoso e violento tra nonni e genitori, tanto che il Tribunale per i Minorenni ha preferito per l’affidamento della piccola ad una struttura che possa accompagnarla nel ritrovare il benessere psico-fisico e nel frattempo i suoi genitori dovranno seguire un percorso di recupero, al fine di riacquistare la podestà genitoriale e la capacità di poter mediare all’interno dell’ambiente familiare. L’emergenza droga, in Italia, è un fenomeno in aumento anche tra le donne. Sono sempre più giovani quelle che vivono esperienze di tossicodipendenza, stato che si protrae anche in gravidanza. Figli della droga, nascono con la droga in circolo o assistono a momenti di confezionamento, stati di dipendenza o astinenza dei genitori, in alcuni casi sono utilizzati come piccole leve emergenti della droga. Oltre la cronaca si nasconde una realtà dura e vera. Un’emergenza del nostro tempo.  Sembra incredibile, ma quella dei neonati sofferenti per vere e proprie crisi d’astinenza poiché figli di madri che hanno continuato a drogarsi in gravidanza è una realtà terribile ma più diffusa, purtroppo, di quanto si possa pensare. Piccoli “drogati” in cui si assiste a cose al limite dell’umana immaginazione: bambini di appena pochi mesi in preda alle convulsioni, al tremore, tutto a causa dell’astinenza da sostanze tossiche. Bambini che alla nascita sono dipendenti dalle sostanze assunte dalle loro madri durante la gestazione, avvertono la mancanza di eroina o di metadone, a seconda della sostanza utilizzata sino al momento del parto. Il neonato trema incredibilmente è in astinenza da oppio. Madri che assumono sostanze e perdono i freni inibitori, incapaci di gestire la vita di un neonato, arrivando anche a gesti violenti perché sovraeccitate per via del consumo di droga. Le mamme spesso raccontano di non riuscire a fare al meno della sostanza, “sembra sia tutto ok, che tu non stia facendo nulla di sbagliato”. La chiamano sindrome da astinenza e colpisce i neonati, crisi e manifestazioni cliniche che si verificano nel neonato la cui la madre ha assunto regolarmente sostanze stupefacenti durante la gravidanza, causate dalla brusca interruzione, avvenuta con il parto, dell’apporto delle sostanze stupefacenti al feto. Sostante compromettenti. Naturalmente molti fattori influiscono sulla sintomatologia del neonato, ma sicuramente giocano un ruolo importante il tipo di sostanza assunta dalla madre, la quantità di droga consumata abitualmente, anche il periodo di assunzione. Per capire se un bambino presenta sintomi di astinenza non è necessario aspettare troppo: sono sufficienti 3 giorni, in genere, anche se in alcuni casi si può aspettare anche la prima settimana di vita. I medici che diagnosticano questi sintomi devono avviare tempestivamente la segnalazione alle forze dell’ordine ed al Tribunale per i Minorenni, occupandosi della cura dei piccoli, poi il trasferimento in una comunità protetta, in attesa di chiarire la situazione dei genitori naturali. Le decisioni che si operano dipendono se la madre è consenziente, viene accompagnata con il suo bambino in una comunità e si decide come proseguire il percorso di recupero. Spesso subentra in una fase successiva l’affido ad una famiglia, ma i rapporti con la madre biologica sono mantenuti e gli incontri protetti avvengono alla presenza di un’assistente sociale, a cadenza –solitamente- settimanale. Ovviamente se la mamma poi dimostra di non far più uso di stupefacenti e di essere in grado di badare al figlioletto, il bimbo le viene riaffidato. Ci sono casi anche in cui è necessario allontanare il minore dal suo nucleo familiare originario perché- come spesso avviene- la madre non riesce a badare ai suoi bisogni: igiene, nutrizione, accudimento. Una spirale che inghiotte queste madri dove la droga la fa da padrona e domina la loro vita, sottraendole alla maternità e alla genitorialità, un lavoro complesso e difficile attende gli operatori sia sotto l’aspetto clinico che sociale. I bambini citati in apertura ricorderanno metodi di confezionamento, crisi d’astinenza dei genitori, gli effetti della droga, ed avranno bisogno di supporto per rielaborare e per un’immagine familiare “diversa”, perché si rischierebbe da adulti un facile avvicinamento alla sostanza stupefacente. Nel caso dei neonati, è importante l’aspetto clinico che porti alla disintossicazione, in creature che non hanno anticorpi e difese immunitarie. Oltre ai bambini vanno salvati da un destino che sembra già segnato dalla droga anche i genitori, un percorso non semplice, tortuoso, difficile e faticoso, che deve presuppore la buona volontà e la capacità di reazione dell’adulto, spesso i figli diventano la forza giusta per intraprendere un percorso di disintossicazione, un atto d’amore prima che umano.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Ragazzi incattiviti: la legge del bullismo

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messSchiaffi, insulti, in alcuni casi anche minacce di morte. Il tutto spesso ripreso in un video di umiliazione inflitte ad un proprio compagno, che poi viene postato sui social network. Si chiama bullismo, si legge violenza ai danni dei più deboli. Si abbassa lo sguardo, ci si sente sotto attacco. La voce, se ce la fa a uscire, è un pigolio. E’ questa la vittima perfetta del bullo. Ragazzi ma anche ragazze, perché il bullismo è traversale, anzi, quello femminile è più subdolo; di solito sono vittime di un gruppo, perché il rapporto tra vessato e vessatori è sempre impari. La postura della vittima testimonia l’angoscia terribile. Sono accartocciati, hanno ormai imparato ad accettare in silenzio le critiche più feroci, perché di solito sono persone molto ben educate, alle quali dare una brutta risposta sembra maleducato. Non è raro che i bullizzati sono figli unici: non hanno mai vissuto l’esperienza della lite tra fratelli, arrivano impreparati all’attacco. Diventano “freezing” dall’inglese, ovvero, congelamento, l’essere incapaci di dire o fare qualsiasi cosa a propria difesa. La scuola, a cui si delega la soluzione del problema del bullismo, a volta non dà la risposta giusta. Il famoso cancello delle medie o del liceo diventa quasi terra di nessuno, dove non esistono più responsabilità precise. I ragazzi si chiudono così in casa, la soluzione dei genitori è quella di cambiare istituto, ma è una decisione che contiene in sé il seme del fallimento ed il fenomeno resta taciuto, impunito e dilagante. Basti pensare che, secondo gli ultimi dati Istat diffusi a dicembre scorso e riferiti al 2014, un adolescente italiano su due è stato vittima di bullismo. Dai dati emerge che poco più del 50% degli 11-17enni ha subito qualche episodio offensivo, non rispettoso e/o violento da parte di altri ragazzi o ragazze nei 12 mesi precedenti. Il 19,8% è vittima assidua di una delle “tipiche” azioni di bullismo, cioè le subisce più volte al mese. Per il 9,1% gli atti di prepotenza si ripetono con cadenza settimanale. Tra i ragazzi utilizzatori di cellulare e/o internet, il 5,9% denuncia di avere subito ripetutamente azioni vessatorie tramite sms, e-mail, chat o sui social network. Le prepotenze più comuni, secondo i dati Istat, consistono in offese con brutti soprannomi, parolacce o insulti, derisione per l’aspetto fisico e/o il modo di parlare, diffamazione aggressioni con spintoni, botte, calci e pugni (3,8%). Stando ai dati Istat per alcuni di loro difendersi dai bulli chiede aiuto ai genitori, segue poi la richiesta agli insegnanti.

La Psicologia: Aggressivi ed arroganti nei confronti dei loro coetanei più deboli, anche per colpa dei genitori che li difendono ad oltranza e spesso in maniera irragionevole. I genitori perdono il controllo dei propri figli: manca la comunicazione, il dialogo. I ragazzi di oggi postano tutto, usano la rete per aggredire. Sono meno educati di una volta, i loro genitori sono protettivi e permissivi che rasenta il lassismo. Tendono a scusare tutto, mentre, i ragazzi hanno bisogno di essere guidati. Il bullismo è una nuova forma di aggressività, una vera e propria emergenza che avviene sotto gli occhi degli adulti che non vigilano. E’ un tema di cui se ne parla ancora poco, alimentato però dai social ai danni dei soggetti più fragili. Il problema è che manca un ruolo fermo del contesto, sia esso scolastico o familiare, che spesso non si rende conto dei segnali di fragilità che la vittima lancia. È l’adulto che non vigila più. Mentre, paradossalmente, si creano situazioni di iper-protezione, per cui di fronte a una sgridata di un insegnante i genitori si ribellano. Poi però i ragazzi vengono lasciati da soli a interagire con televisione e soprattutto computer.

Perché l’assistente sociale dovrebbe occuparsi di bullismo? Alla domanda si può solo rispondere che il ruolo dei servizi sociali dovrebbe essere concepito nella logica preventiva e non dell’emergenza. La presenza dell’assistente sociale, all’interno degli sportelli d’ascolto istituiti nelle scuole, rappresenta una risorsa ai fini preventivi. L’assistente sociale venendo a conoscenza di certe situazioni, presenti nell’ambito familiare, del bambino o dell’adolescente che si rivolge allo sportello, può intervenire attraverso strumenti propri del suo bagaglio professionale, ed indirizzare il ragazzo o la famiglia, verso adeguati servizi specialistici. Importante è il ruolo dell’assistente sociale nel programmare servizi a sostegno della famiglia, ovvero, favorendo politiche a sostegno della famiglia. Affinché si possa investire adeguatamente, nel lungo termine, nella prevenzione di forme di devianza minorile, occorre puntare ad una politica, che miri al rafforzamento delle competenze genitoriali, tesa al superamento dell’istituzionalizzazione del minore, nei casi in cui la famiglia non risulti adeguata allo svolgimento del suo compito.

Cosa potrebbe fare l’opinione pubblica?  Se invece di definirlo bullismo, che purtroppo assume il sinonimo ancora di “ragazzata” giustificandolo: “succedeva anche ai miei tempi di tornare a casa con un occhio nero” commenta qualche genitore, un atto compiuto con leggerezza, iniziassimo a definirlo reato? Forse le famiglie, i complici, la scuola, la società, i Tribunali, inizierebbero a reagire seriamente a questa serie di violenze impunite. Senza indulgenza di età o di circostanze. Non è bullismo. E’ un reato. Aguzzini, violenti, carnefici. Ragazzi da recuperare e non da proteggere.

(Articolo pubblicato su “il denaro.it”)

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