Archivi tag: #storie

Morti della strada. La lenta agonia dell’Italia verso la sicurezza stradale

untitledUn rumore sordo squarcia il silenzio della notte, sulla carreggiata una vita umana investita, che molto spesso ne resta vittima, uccisa da un’auto in corsa o con alla guida un uomo stanco o in alcuni casi ubriaco. Un tempo, non poco più di qualche anno fa, le chiamavano “stragi del sabato sera”, l’apertura dei tg nazionali alla domenica era un bollettino da guerra: incidenti stradali, auto ribaltate, accartocciate, sinistri nel cuore della notte post movida. Erano giovani, perlopiù neo patentati, o semplicemente ragazzi inghiottiti dall’acceleratore che viaggiava ad alta velocità. Oggi, la cronaca degli incidenti è quasi quotidiana. Vite umane spezzate dal contachilometri che segna l’alta velocità, dalla fretta e dalla distrazione alla guida, dai pensieri che offuscano la mente, dalla stanchezza del lavoro o del post divertimento. Investiti sulle strisce pedonali, all’uscita di un negozio o di una discoteca, in pieno giorno o in notte inoltrata. Vite umane che hanno trovato la morte lungo la strada. Le morti a seguito di incidenti stradali in Italia sono almeno quattromila ogni anno. Il 2018 che sta per chiudersi è uno degli anni peggiori per la sicurezza stradale. E’ stato questo il clima che ha accompagnato la celebrazione della giornata mondiale della memoria delle vittime della strada istituita dall’Onu e celebrata la scorsa settimana. Una serie tragica e mai vista di eventi: crollo del viadotto Morandi a Genova, incidente gravissimo con l’esplosione dell’autocisterna a Bologna, incidente con decine di vittime fra i migranti in Puglia, è solo il paradigma di una situazione generale sulle strade veramente preoccupante. Secondo le statistiche il 90% degli incidenti sono imputabili all’uomo: disattenzione, uso improprio del cellulare, mancato rispetto delle norme e della segnaletica, velocità non adeguata sono cause che vanno debellate accrescendo il senso di responsabilità e di miglioramento della capacità di guida di tutti noi utenti della strada. Morti della strada. Vittime in aumento, l’obiettivo dell’ Unione Europea sulla riduzione di morti e feriti sulla strada è ormai un’utopia, soprattutto per l’Italia, ma un passo in avanti sembra averlo compiuto il nostro paese, nel duemilasedici tra molte aspettative ed il dolore di molti familiari fu firmata la legge che introdusse nel nostro ordinamento il reato dell’omicidio stradale. Non un modo di vivere la “vendetta” ma un modo per avere giustizia, questo lo spirito che ha accumunato ed accomuna ancora oggi i familiari delle vittime della strada. Una legge che ha contribuito a rendere l’Italia un paese più degno. La legge riconosce due nuove reati: omicidio stradale e lesioni personali stradali. Per chi si mette alla guida in stato di ebbrezza o dopo aver assunto stupefacenti e causa la morte di qualcuno la pena della reclusione va da 5 a 12 anni. Se l’investitore si dimostra lucido e sobrio, ma la sua velocità di guida è il doppio del consentito, la pena va da 4 a 8 anni. In caso di omicidio multiplo, la pena può essere triplicata ma non superiore a 18 anni. È invece punito con la reclusione da 6 mesi a 2 anni chi, guidando non sobrio o non lucido, procura lesioni permanenti. Nel caso di lesioni aumentano le pene se chi guida è ubriaco o drogato: da 3 a 5 anni per lesioni gravi e da 4 a 7 per quelle gravissime. In caso di condanna o patteggiamento (anche con la condizionale) per omicidio o lesioni stradali viene automaticamente revocata la patente. Le chiamano “vittime della strada”, in realtà sono le vittime dei delinquenti della strada: di chi corre troppo, di chi si mette alla guida ubriaco o sotto l’effetto di droghe, di chi si distrae per rispondere al cellulare e dopo aver messo sotto qualcuno in tanti casi scappa. Nomi di esseri umani di una lunga lista di quattromila morti all’anno,  donne, uomini, bambini che non ci sono più. Oltre 180mila gli incidenti stradali con lesioni a persone, migliaia i morti, quasi 260mila i feriti. La denuncia dei familiari delle vittime e delle associazioni che in Italia si battono contro questa piaga, chiedono la certezza della pena, ma anche le modifiche al codice della strada e maggiori controlli tesi alla prevenzione. La legge c’è, seppur ancora poco conosciuta nei suoi reali contenuti, e si pensava potesse incidere sensibilmente sulle dinamiche della sinistrosità ma nei fatti non è così. Seppur va detto che non era questo lo scopo, la norma perseguiva, invece, l’obiettivo di una maggiore giustizia e adeguatezza nelle norme per gli omicidi della strada. Obiettivo in parte raggiunto ma non del tutto. C’è chi tuona che vi siano delle parti illogiche della legge 41/2016 sull’omicidio stradale che devono essere assolutamente e presto modificate, oltre a ciò c’è bisogno di più attenzione, coscienza e responsabilizzazione umana. Guidare richiede prontezza dei riflessi e massima concentrazione, che a volte mancano alla guida ed è bene prenderne coscienza ed evitare di guidare un’auto: è un atto di rispetto umano per se stessi e per gli altri, fondamento di senso civico.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

Contrassegnato da tag , , , , , , , , , ,

Figli della droga. Nascere con la sostanza stupefacente nel dna

untitled 2Viene a contatto con la marijuana, la inala e si sente male. Vittima una bambina di un anno e mezzo della provincia di Salerno. La piccola è stata immediatamente trasportata e ricoverata all’ospedale Umberto I di Nocera Inferiore, nel frattempo la Poliza di Stato ha avviato le indagini, interrogando il papà della piccola, un 21 enne già noto alle forze dell’ordine per altri reati, perquisito la casa della piccola, dove non sono state rinvenute tracce di sostanze stupefacenti, ma le indagini continuano. La madre della piccola, una 17 enne, non ha saputo fornire indicazioni su come la bimba sia venuta a contatto con la droga. I risultati degli esami tossicologici sulla piccola sono stati consegnati al Tribunale per i Minorenni che dovrà pronunciarsi sull’affidamento della bambina. Genitori troppo violenti e dediti all’uso di droga, con questa decisione il Tribunale per i Minori di Salerno ha revocato l’affidamento di una bambina di 7 anni ai propri genitori. Le indagini della procura, generate da un procedimento poi terminato con una condanna per il padre, accusato di maltrattamenti, si sono avvalse del prezioso contributo degli assistenti sociali, che pare-secondo quanto riportano alcune testate giornalistiche locali- la bambina, pare abbia riferito agli assistenti sociali di un clima di violenza e di tensione, la piccola sembrerebbe aver spiegato agli operatori sociali anche il procedimento di confezionamento della cannabis. Diversi gli episodi riferiti dalla piccina, come quello che vide la bambina essere tirata per i capelli, dopo un litigio tra la madre ed il padre. Conflittualità su conflittualità, perché alla violenza genitoriale si aggiungeva il rapporto burrascoso e violento tra nonni e genitori, tanto che il Tribunale per i Minorenni ha preferito per l’affidamento della piccola ad una struttura che possa accompagnarla nel ritrovare il benessere psico-fisico e nel frattempo i suoi genitori dovranno seguire un percorso di recupero, al fine di riacquistare la podestà genitoriale e la capacità di poter mediare all’interno dell’ambiente familiare. L’emergenza droga, in Italia, è un fenomeno in aumento anche tra le donne. Sono sempre più giovani quelle che vivono esperienze di tossicodipendenza, stato che si protrae anche in gravidanza. Figli della droga, nascono con la droga in circolo o assistono a momenti di confezionamento, stati di dipendenza o astinenza dei genitori, in alcuni casi sono utilizzati come piccole leve emergenti della droga. Oltre la cronaca si nasconde una realtà dura e vera. Un’emergenza del nostro tempo.  Sembra incredibile, ma quella dei neonati sofferenti per vere e proprie crisi d’astinenza poiché figli di madri che hanno continuato a drogarsi in gravidanza è una realtà terribile ma più diffusa, purtroppo, di quanto si possa pensare. Piccoli “drogati” in cui si assiste a cose al limite dell’umana immaginazione: bambini di appena pochi mesi in preda alle convulsioni, al tremore, tutto a causa dell’astinenza da sostanze tossiche. Bambini che alla nascita sono dipendenti dalle sostanze assunte dalle loro madri durante la gestazione, avvertono la mancanza di eroina o di metadone, a seconda della sostanza utilizzata sino al momento del parto. Il neonato trema incredibilmente è in astinenza da oppio. Madri che assumono sostanze e perdono i freni inibitori, incapaci di gestire la vita di un neonato, arrivando anche a gesti violenti perché sovraeccitate per via del consumo di droga. Le mamme spesso raccontano di non riuscire a fare al meno della sostanza, “sembra sia tutto ok, che tu non stia facendo nulla di sbagliato”. La chiamano sindrome da astinenza e colpisce i neonati, crisi e manifestazioni cliniche che si verificano nel neonato la cui la madre ha assunto regolarmente sostanze stupefacenti durante la gravidanza, causate dalla brusca interruzione, avvenuta con il parto, dell’apporto delle sostanze stupefacenti al feto. Sostante compromettenti. Naturalmente molti fattori influiscono sulla sintomatologia del neonato, ma sicuramente giocano un ruolo importante il tipo di sostanza assunta dalla madre, la quantità di droga consumata abitualmente, anche il periodo di assunzione. Per capire se un bambino presenta sintomi di astinenza non è necessario aspettare troppo: sono sufficienti 3 giorni, in genere, anche se in alcuni casi si può aspettare anche la prima settimana di vita. I medici che diagnosticano questi sintomi devono avviare tempestivamente la segnalazione alle forze dell’ordine ed al Tribunale per i Minorenni, occupandosi della cura dei piccoli, poi il trasferimento in una comunità protetta, in attesa di chiarire la situazione dei genitori naturali. Le decisioni che si operano dipendono se la madre è consenziente, viene accompagnata con il suo bambino in una comunità e si decide come proseguire il percorso di recupero. Spesso subentra in una fase successiva l’affido ad una famiglia, ma i rapporti con la madre biologica sono mantenuti e gli incontri protetti avvengono alla presenza di un’assistente sociale, a cadenza –solitamente- settimanale. Ovviamente se la mamma poi dimostra di non far più uso di stupefacenti e di essere in grado di badare al figlioletto, il bimbo le viene riaffidato. Ci sono casi anche in cui è necessario allontanare il minore dal suo nucleo familiare originario perché- come spesso avviene- la madre non riesce a badare ai suoi bisogni: igiene, nutrizione, accudimento. Una spirale che inghiotte queste madri dove la droga la fa da padrona e domina la loro vita, sottraendole alla maternità e alla genitorialità, un lavoro complesso e difficile attende gli operatori sia sotto l’aspetto clinico che sociale. I bambini citati in apertura ricorderanno metodi di confezionamento, crisi d’astinenza dei genitori, gli effetti della droga, ed avranno bisogno di supporto per rielaborare e per un’immagine familiare “diversa”, perché si rischierebbe da adulti un facile avvicinamento alla sostanza stupefacente. Nel caso dei neonati, è importante l’aspetto clinico che porti alla disintossicazione, in creature che non hanno anticorpi e difese immunitarie. Oltre ai bambini vanno salvati da un destino che sembra già segnato dalla droga anche i genitori, un percorso non semplice, tortuoso, difficile e faticoso, che deve presuppore la buona volontà e la capacità di reazione dell’adulto, spesso i figli diventano la forza giusta per intraprendere un percorso di disintossicazione, un atto d’amore prima che umano.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

Contrassegnato da tag , , , , , , , , , ,

Storie comuni. Cameriere a Capodanno ad un passo dalla laurea

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-mess

Mancavano poche ore al nuovo anno, in clima già di festa, in un locale che pian piano si riempiva di gente, di sorrisi, di vestiti eleganti, di aspettative per il 2016, incontro lui: poco più che ventenne, con una divisa ben stirata, la cravatta rossa ben annotata, un portamento dritto ed elegante, pochi sorrisi e perfetta manualità. I suoi gesti divini, corretti, quasi sincronizzati, si aggira tra i tavoli dà il benvenuto alla clientela, augura buona fine, poi inizia a servire con maestria, con perfezione, muto non parla. Si avvicina al tavolo in cui ero seduta, mi accenna un sorriso, lo avevo già incontrato in quel locale, mi rinnova gli auguri per la mia laurea e sottovoce mi dice che nel nuovo anno si laureerà anche lui. Ingegneria aerospaziale. Mi si è aperto un mondo davanti agli occhi, un mondo giovane, bello, vero e sincero, un mondo fatto di giovani e di sacrifici. Francesco, lo chiamo così, anche la notte di San Silvestro lavorava per pagarsi gli studi, per arrivare a completare il tassello del suo puzzle universitario, per giungere al traguardo della laurea. Tutti noi eravamo lì in quel clima di festa, di gioia, pensando già alla notte di festa, di baldoria, ma lui era lì perchè nel nuovo anno doveva laurearsi e questo significava lavorare anche l’ultimo giorno dell’anno, far mattina mentre gli altri-anche della sua età-lavoravano. Francesco ce l’ho stampato nella mente, perchè ho pensato alla mamma a casa a festeggiare col cuore in gola, sapendo che suo figlio lavorava per finanziarsi gli studi, per essere “qualcuno” nella sua vita. Inevitabilmente ho pensato al potenziale che il nostro Paese ha ma a cui non bada. Siamo nell’era dell’ Uni-superficialità. Spesso pesiamo che gli studenti siano nullafacenti che studiano per non lavorare, che perdono volontariamente il loro tempo, che non si applicano, che lasciano scorrere gli anni dell’università per sfuggire alla ricerca di un lavoro. Li hanno chiamati negli anni “choosy, mammoni, gente allo sbando”, certo, qualche volta corrisponde al vero, ma altre volte, come nel caso di Francesco e di mille altri come lui, corrisponde a verità. Non sono leggende, i giovani così esistono. Se ci pensiamo bene, ognuno di noi ne conosce almeno un paio. Ma quello che non si dice mai è che esiste una buona parte di giovani che crede ancora in quello che studia e lo fa per passione.

L’università italiana è il nostro orgoglio ed è innegabilmente una delle istituzioni più importanti del nostro Paese, che va valorizzata, ma ancor di più bisogna sostenere e valorizzare gli studenti, il nostro potenziale, il nostro futuro e non guardare con disprezzo chi si laurea dopo qualche anno dall’iscrizione al corso di laurea, o chi salta degli appelli, perchè signori miei esiste un’Italia che ha fame e sete di lavoro perchè il lavoro equivale alla retribuzione e questa permette di vivere, spendere, mantenersi agli studi. Non chiamiamoli “bamboccioni” o “eterni studenti”, perchè sono altri gli eterni studenti e fatevolo dire da una che è fresca di laurea, quindi gli studenti “pigri” quelli che si permettono il lusso di stare in eterno all’università sono quelli che ne hanno la possibilità e che si prendono con comodo gli studi, ma quelli che lavorano e studiano sono la ricchezza del nostro Paese al quadrato, non dimentichiamocelo.

 

Contrassegnato da tag , , , ,

Racconti d’attesa/parte5 Diagnosi d’attesa. Cosa significa attendere?

img_0217

In attesa. Sei fermo. Come chiuso in una scatola, senza poterti muovere, al massimo puoi fare qualche passo avanti e indietro. Consumando la suola delle scarpe ed il pavimento. In attesa. Di una buona notizia o di una brutta notizia e comunque impaziente. In attesa del tuo turno annoiato, preoccupato, indifferente. In attesa il tempo si dilata. Diciamo sempre che ci piacerebbe pensare, leggere, ma manca il tempo. Sfruttiamo l’attesa dal medico, alla fermata dell’autobus, verrebbe da pensare. Le sale d’attesa sono non-luoghi: non accade niente, non si può far niente se non aspettare il proprio turno. Il tempo a disposizione diventa tempo nemico. Ti si ritorce contro. Le sale d’aspetto degli ospedali tra tutte sono le più solitarie: cariche di tensioni, pensieri, preoccupazioni. Prima che incontrassi molte sale d’attesa di ospedali e cliniche, pensavo che fosse l’ultimo posto dove ci fossero dei racconti. Ecco che poi quei racconti-con personaggi veri, ma da identità celate, sono diventanti i protagonisti dei miei “racconti d’attesa” in questa sezione del mio blog.

Le sale d’attesa ci insegnano l’amore quello vero, sincero, eterno, ma anche l’amore che manca, quello che ormai non guardiamo più. Chissà poi perché. E’ forse quando attendiamo in una sala d’attesa che ci rendiamo conto di quanto sia importante l’amore, di quanto sia difficile attendere.

Le sale d’attesa. Ne aveva frequentate tante negli ultimi tre mesi. Da giugno era tutto un avvicendarsi di appuntamenti per esami e visite, da quando un semplice dolore l’aveva colta di sorpresa mentre cucinava l’ennesimo pranzo per la sua famiglia, sempre distratta, sempre indaffarata. Ora quel dolore che le bloccava parte del corpo doveva pur avere una causa. E proprio quella si cercava. Gli ospedali non erano nelle sue corde, anzi, li detestava. Gli odori, i colori e ogni cosa le ricordava il suo passato, quando, dopo qualche anno dal suo matrimonio si era ritrovata negli ospedali prima per suo figlio, poi per suo marito. Ed ora eccola lì, seduta su una poltrona scomoda ad aspettare il suo turno per l’ennesimo esame. L’avevano già rivoltata come un calzino, aveva provato ogni disperata terapia, cura. Tutte inutili. Di ospedali ne aveva girati ma non aveva mai fatto caso a quanto fossero fredde, squallide le sale d’attesa, non si era mai soffermata a guardare con occhi che sanno vedere, forse perché le occasioni erano sempre state poche e mai così prolungate nel tempo. Mancava il senso dell’accoglienza, spesso proprio dagli stessi medici, dagli stessi infermieri. Spesso si è solo un numero e non un paziente, un essere umano con la sua storia, la sua vita, il suo dolore. Insensibilità all’altrui dolore? Un modo per distaccarsi dal paziente non lasciandosi coinvolgere? Non avrebbe saputo dare una risposta certa, forse entrambe le cose o forse, semplicemente, funzionava così. Un atteggiamento che procura più dolore. Chi soffre, chi è in ansia, chi è in attesa di conoscere una diagnosi negativa ha diritto ad un sorriso, ad una parola di consolazione, anche silenziosa. E a volte arriva in quelle fredde e lunghe attese proprio da altri pazienti, dai familiari che li accompagnano, dove nascono amicizie, dove a volte ci si ritrova, ci si riconosce nelle storie altrui. Lei osservava ed ascoltava tutto e registrava ogni minimo palpito. Perlopiù rimaneva in silenzio. Qualche volta era imbarazzante. C’è chi nelle sale d’attesa si racconta come un fiume in piena, chi invece, resta nel suo rigoroso silenzio. Faceva fatica a raccontarlo alle persone care, figuriamoci agli estranei in attesa. Nessuno ancora sapeva dei controlli nella cerchia dei parenti e degli amici. In casa si era deciso di aspettare la certezza, di avere la conferma definitiva per non allarmare inutilmente, visto che l’ipotesi che si affacciava era molto “pesante”. Lei ancora non voleva crederci, non voleva accettare che da un banale dolore al torace, le si stava aprendo un baratro, un altro mondo, dalla quale voleva fuggire. Era l’ultimo appuntamento in agenda, in una struttura del tutto nuova. Un ambiente del tutto diverso. C’era arrivata su consiglio di un amico medico, che le aveva assicurato la struttura ed anche il reparto di oncologia. Lei ci sperava, sperava ancora in una diagnosi positiva. Perché l’attesa è anche speranza. Perché l’attesa ti porta a pensare che è solo un brutto sogno, che prima o poi ti risveglierai. Perché l’attesa ti porta a pensare che è un film, che non sei tu la protagonista, che nei titoli di coda uscirà scritto che è frutto della fantasia o di un ennesimo abbaglio. Ma se non fosse un abbaglio, se i titoli di coda riportassero il proprio nome? Di certo si spegnerebbe la speranza ma anche l’attesa di una diagnosi, dopo mille pellegrinaggi e volti e visi visti, ma cosa resta ad un malato oltre che il dolore e il male di cui è affetto? Non so bene, o forse lo so ma non voglio accettare quello che vedo. Perché io nelle sale d’attesa la gente la guardo e quando una donna ha un foulard in testa, gli sguardi diventano “diversi”, “strani”, sembrano puntargli il dito contro, sembrano vogliano dirgli “sei malata”, oppure “guarda quella lì”. Credo che non abbiamo ancora rispetto delle persone e della malattia, non apprezziamo il coraggio e la loro voglia di vivere, il loro lottare e non capiamo che in quel momento ci stanno dando una grande lezione di vita e forse vorrebbero che tutti noi gli tendessimo la mano. Ecco perché ho anche imparato ad ascoltare nelle sale d’attesa gli altri, la loro vita, i loro racconti, fino a perdermi dentro.

Contrassegnato da tag , , , , ,

Racconti d’attesa/parte4 Sala d’attesa di oncologia

IMG_0217

Si corre e non si pensa. Si corre e non si vive. Si corre e si smette di progettare, sognare. Si corre e i problemi non si risolvono mai. Si corre e si rimanda, sempre. Eppure ci sono momenti della nostra vita in cui siamo costretti a fermarci. Non dipende da noi. La malattia è più forte, del paziente ma anche dei familiari. E l’unica cosa da fare è aspettare. Nelle sale d’attesa il tempo si allunga e tutto quello da cui fuggiamo, o da cui siamo fuggiti: la paura, il dolore, la stessa attesa, si attacca addosso, come una calamita. Non ci sono vie di fuga. Bisogna restare lì, incollati coi piedi in terra. Si è soli davanti al problema, soli davanti al tempo e a se stessi. Le sale d’attesa hanno il sapore dell’amaro e della sofferenza, ne avevo vissute di diverse, ma all’appello mancava “oncologia”. La sola parola fa paura, nonostante la ricerca, nonostante la prevenzione, nonostante gli studi, la sola paura spaventa. E’ un dato di fatto. Quando sei lì il tempo si ferma. Non puoi ingannarlo. Sembra ti stia aspettando da chissà quanto tempo, come il famoso cinese sulla sponda del fiume. Le sale d’attesa di oncologia sono vuote, sembra si siano già portate via la vita. Quando hai un familiare, una persona che ami, che varca la soglia di quella porta e sei lì con lei, mentre attraversi il corridoio e le stanze sono aperte con i malati distesi lì, pronti per entrare in sala operatoria o pronti per la terapia, non sai se prendertela con la vita: fredda, bastarda, cattiva; o prendertela con te stessa che magari hai sottovalutato un sintomo, un campanello d’allarme, hai bypassato i controlli di prevenzione, o peggio li hai fatti ma ti avevano detto per un errore medico “è tutto apposto”. Ma ti rendi conto di quanto pesi il tempo, l’attesa e il vuoto di una sala d’attesa solo quando saluti la persona amata che sta per entrare in sala operatoria e resti lì solo, quasi privo di forze. Puoi pregare. Puoi piangere. Puoi arrabbiarti con la vita. Sono vuote quelle ore in cui aspetti fuori ad una sala operatoria di oncologia, sono fredde, seppur le vivi nel caldo torrido d’estate. Sono nulle. Ma nelle sale d’attesa ci trovi il mondo, ci trovi uomini e donne che hanno una storia, che a volte ti raccontano tutto d’un fiato, quasi a volersi liberare, come se fossero in una seduta da uno psicoanalista. Storie che hanno gli occhi lucidi e vuoti, ma anche storie che raccontano che a volte la vita può girare anche nel senso opposto. Le lunghe ore d’attesa non le inganni facilmente e parlare, raccontarsi, non può che aiutare. E’ così che ho conosciuto Marina, una pazienze di oncologia, già da quattro anni. 50 anni, diabetica, al secondo intervento: la prima volta le avevano asportato un tumore benigno al seno destro. Questa volta il male si era presentato a sinistra. Nonostante fosse già diabetica e non alla prima esperienza, fumava: quasi a voler sfidare la vita e la sorte. Era sola, nonostante a casa gestisse tutto lei: due figli di 21 e 25 anni, un nipote di 2 anni, che cresceva lei, un marito malato di Pakinson. Marina però in quella sua ennesima battaglia era da sola, non aveva nessuno accanto che le desse coraggio, forza, che stesse lì ad aspettare. Mi aveva colpito molto. L’ho rincontrata dopo due ore circa, qualcosa più, qualcosa meno, dal suo intervento. Era nella stessa stanza di un’altra persona a me molto cara. L’ho già trovata sveglia dopo un’anestesia totale. Sempre sola. Ma la forza d’animo non le mancava. E’ scesa dal letto, ha fatto un piccolo cammino nella stanza e poi mi ha chiesto di fare il palo alla porta. Ammetto di non aver capito, ero frastornata, troppo emozioni, troppi avvenimenti per me in quel momento. Mi chiedeva di stare alla porta come una sentinella, un soldato, per controllare se un medico, un infermiere entrasse. Poco dopo l’ho vista alla finestra fumare. Ammetto di averle detto: “ma come, dopo tutto quello che sta passando, fuma anche?” e mi ha risposto “e tu credi che a farci male sia solo questo?” Ha anche ragione, adesso che scrivo, me ne rendo conto, ma quel suo gesto l’ho visto come uno sfidare il destino, la vita, come inserire un coltello nella piaga. Forse, Marina, lo faceva per combattere la solitudine, il nervoso, la paura, la tensione, ma non lo giustificavo, come non giustificavo la mancanza di un figlio in quel momento. Era Luglio, faceva caldo e in un reparto di oncologia con tutta la vita che ti passa davanti, con la paura e il dolore, non si vive certo bene e felicemente e avere qualcuno accanto creda che sia forza, energia, tenacia, voglia di reagire, di vivere, di ripartire. In Marina però ho apprezzato la voglia di ridere, di scherzare dal primo momento, la voglia di non abbattersi. Sapeva che se l’esame istologico fosse stato negativo, si sarebbe dovuta sottoporre ad una terapia, che per un malato di diabete non è certo facile e sapeva che sarebbe stata ancora una volta da sola, forse anche per questo cercava di appoggiarsi a noi che eravamo lì, quasi a trovare in una famiglia unita, un po’ della sua famiglia, una seconda famiglia. Ecco le sale d’attesa mi hanno insegnato anche la solitudine nella sofferenza. Essere soli. Non hai nessuno, solo te stesso, che certo è più che mai importante, ma nel dolore e nel bisogno sei da solo, senza una persona cara affianco. A volte, ci sono persone che lo fanno apposta, tengono nascosto il proprio male, la propria sofferenza, per proteggere le persone che amano, per evitargli dolore e sofferenza, a volte però c’è proprio l’egoismo di una famiglia, dei figli. Questo è quello che più mi ha lasciata senza parole. Marina, oggi vive il suo percorso da sola, nonostante due figli a casa senza lavoro, costretta a prendere l’autobus, il treno per spostarsi, pur trattandosi di esami, di visite mediche, di terapie. Forse ha sbagliato lei stessa a viziare un po’ troppo i figli, ad esserci sempre, a coccolarli e a dargli tutto quello che poteva, a proteggerli e a scusarli anche adesso che preferiscono dormire fino a tardi, ad andare al mare, anziché essere accanto alla mamma. Non so se si tratti di “scappare” da parte dei figli, perché io cerco sempre di mettermi nei panni delle altre persone, dell’altra parte, ma a volte non ci riesco a capire, a comprendere, è più forte di me.

La mia estate è stata di sale d’attesa di ospedali e di cliniche, tornavo a casa e ad aspettarmi c’erano i libri universitari, perché gli esami non aspettano e non guardano al dolore, alla stanchezza; mi aspettavano i doveri di casa. Forse sono stata esagerata rispetto a chi invece non gliene importava nulla. Non lo so. Non so se realmente nella vita esistono le mezze misure, le mezze vie. Io al bianco che si mescola al nero, non c’ho mai creduto, come non ho mai creduto al bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Io sono una di quelle che se è bianco è tale, se è nero e tale. Io sono quel tipo di persona che vuole esserci accanto ai genitori, ai familiari, agli amici veri. Punto. Io credo che sia un dovere ed un diritto di un figlio. Penso, che anche per una semplice radiografia bisogna accompagnare la persona amata, il proprio familiare, perché le sale d’attesa spaventano tutti, anche il più cinico ed egoista della vita. In fondo, la vita come dice il grande Vasco la vita è un brivido che vola via…. Dopo sarà tardi pentirsi di non esserci stato.

 

Contrassegnato da tag , , , , , , ,

Racconti d’attesa/parte3. Medici che vanno oltre…

IMG_0217

Cos’è l’oltre? Una sottilissima linea tra l’osare e il non osare, il fare e il non fare, l’esserci e non l’esserci. L’oltre è quel qualcosa che fai. Punto. Ma l’oltre non è da tutti e non è per tutti. L’oltre non pensi di trovarlo in un ospedale, in una clinica, in una sala d’attesa e ancor di più in un medico ed invece la vita nella sua straordinaria imprevedibilità ti sorprende. Negli anni, per svariate avventure-disavventure della vita e della salute ho incontrato diversi medici ma mai nessuno era riuscito ad andare oltre, entrando nelle mie grazie, ma ancor di più stupendomi e facendomi conoscere quel lato umano e sincero dei medici. Ho incontrato il professor Pierluigi Cillo, perché nel suo studio ho portato mia mamma, il miglior ortopedico che possa esistere in una sanità che spesso ci racconta una pagina negativa, brutta e controcorrente. La paziente era lei, ma lui mi ha guardata e poi ha iniziato a visitarmi con i suoi modi anche “bruschi”. Ero confusa, mi dicevo che non avesse capito chi era davvero la paziente. Non mi conosceva ma stava per darmi una grande lezione di vita. Da sempre ho una postura non proprio corretta, più un atteggiamento, un’abitudine, che certo ad un attento e bravo medico non passa inosservata, specie se è il suo mestiere. Non solo mi ha visitata con mio stupore, anche perché non ero lì per me e non mi sarei aspettata mai quella visita, quell’attenzione ma ancor di più da uno sconosciuto che per la prima volta mi vedeva non mi sarei aspettata quelle parole che mi sono arrivate dritte al cuore e alla mente, sarà stato per i suoi modi, sarà stato per il fatto che non lo conoscevo, quindi mi colpiva ancor di più. E bene, mi disse che nella vita se avessi camminato ancora così non solo per salute avrei avuto problemi, ma che nessuno mi avesse presa sul serio, in considerazione, mi avrebbero scartato ad un colloquio di lavoro, perché più dell’85% è giocato proprio dalla postura. Sicuramente quelle parole non furono bellissime, ma non si fermò lì, mi disse che mi comportavo così perché io dicevo al mondo “scusate se esisto” e che non avevo nulla da nascondere o da chiedere scusa. Furono queste le ultime parole che mi disse sulla soglia della porta all’uscita del suo studio, quando vide che tutto il discorso fattomi in precedenza non era servito a niente, perché stavo uscendo con quella stessa postura di prima dal suo studio. E bene, quelle parole finali mi colpirono, perché aveva capito la mia timidezza, il mio chiedere continuamente “scusa”, senza neppure conoscermi e con la sua età, il suo sapere, la sua esperienza, mi voleva svegliare, farmi aprire gli occhi. Io non le ho dimenticate quelle parole, anzi, ne ho fatto il mio monito, il mio motto di vita perché è vero di cosa dovremmo mai vergognarci? Di una cicatrice, di una benda che portiamo, o ancor di più di cosa dobbiamo scusarci? Quindi schiena dritta e testa alta sempre. Spalle dentro e petto in fuori, potremmo sembrare “atteggiate”, modelle snob, per qualcuno, ma lasciamo parlare gli altri, infondo se qualcuno non parla non vive. Il chiacchiericcio è sempre esistito e sempre ci sarà, ma noi? Noi possiamo essere quello che siamo e senza vergognarci.

Le sale d’attesa mi hanno insegnato e mi stanno insegnando tante cose, che cerco di trasmettere tra le pagine del mio blog, tra un commento ed una critica, tra un approfondimento e l’altro. Lo faccio perché le storie che gli altri mi raccontano, quelle che mi insegano a vivere o a “campare” come si dice dalle mie parti, quelle che mi emozionano, che mi rendono più umana, quelle che mi fanno conoscere, riscoprire il sapore dell’amore e non dell’amaro, quelle che mi stupiscono sempre e comunque, vorrei che fossero non solo un mio bagaglio, una mia esperienza ma l’esperienza di tutti, affinché un piccolo insegnamento tutti possiamo trarlo o quantomeno stupirci, perché oggi è così tanto difficile stupirsi nel bene. Ma ancor di più vorrei che chi mi leggesse, chi mi segue: che sia giovane o anziano, ragazzo o adulto, possa capire qualcosa della vita, delle storie personali, perché io nella vita, nelle storie cerco di trovare l’altra faccia della medaglia, per trarne in un insegnamento, altrimenti sarebbero storie solo udite e non ascoltate. Ed anche il professor Cillo mi ha dato una bella lezione di vita, forse la migliore, che mi ha scossa e fatto aprire gli occhi e vorrei che gli occhi li aprissero quelle ragazze che magari portano la macchinetta, gli occhiali, che hanno i brufoli, che sono un po’ tonde, che hanno una cicatrice, una benda, che non si vestono magari alla moda, o che hanno mille altri “difetti”, mille altre problematiche: non vergognatevi di quello che siete e camminate a testa alta sempre perché non avete nulla di cui vergognarvi o di cui chiedere scusa, perché se non avete rubato, ucciso, allora non avete fatto niente.

Contrassegnato da tag , , , , ,

Racconti d’attesa/parte2. La mia estate addosso di sale d’attesa

IMG_0217

Inizia tutto con un semplice dolore, un piccolo fastidio, a volte non ci fai neanche caso, si banalizza, poi il dolore, le notti insonni, il dolore che ti fa perdere l’equilibrio mentale, la sofferenza del paziente che sta male ma anche di chi gli sta intorno. E’ così ho trascinato mio madre ad affrontare il problema, forse per il mio egoismo, perché non sopportavo più di vederla soffrire, di vedere che un medico potesse sperimentare su di lei ciò che lui non sapeva. Abbiamo sentito campane, pareri, siamo finiti anche nelle mani di un medico bolognese, un luminare dicevano, in una sala d’attesa gremita di speranze e di gente che si affidava alle mani del “miglior medico”, finalmente abbiamo avuto la diagnosi ma i tempi d’attesa-altro gioco delle sale d’attesa- erano troppo lunghi per un intervento che andava fatto, punto. Ma mia mamma, legata al Sud in cui viviamo, alla terra che ci da il pane, voleva rimanere “a casa sua”, così abbiamo giocato questa partita “in casa”, o meglio poco lontano da casa, ma in terra campana: ad Avellino, in quella stessa clinica dove 22 anni fa mia mamma mi metteva al mondo, la vera eccellenza medica in Campania. Lì abbiamo incontrato il professor Pierluigi Cillo-nel prossimo post vi racconterò di lui- non ci ha pensato due volte a guardare in faccia alla realtà e ad operarla. Così due mesi fa, il 6 Luglio scorso, il dottor Mario Cillo, operava mia mamma. Il dottore Cillo, è il figlio del primario, molto giovane, a vederlo è strano pensare che lui operi, all’inizio avevo dei timori, poi mi sono ricreduta e oggi lo stimo molto. Quel 6 luglio, la strada era bollente, il vento caldo di luglio dava fastidio, ed io e mio padre eravamo all’interno della sala d’attesa della clinica Malzoni, speranzosi ma anche in trepida tensione. Ricorderò per sempre quell’orologio bianco e azzurro e le lancette quasi sempre ferme su quell’ora, perché quell’orologio lo avrò guardato migliaia di volte. In quella sala d’attesa c’era il mondo che mi girava intorno ed io ferma lì ad aspettare. Mio padre aveva lo sguardo perso nel vuoto, poi si riprendeva e iniziava a spiegarmi come secondo lui stava andando l’intervento. In quella sala d’attesa di luglio c’era il mondo. Era piena quella sala d’attesa. C’erano donne incinte in attesa di partorire, quindi, c’era la gioia della vita che sarebbe arrivata, c’erano i nuovi ricoveri e l’ansia di chi sa che dovrà operarsi, c’erano persone che tornavano a casa, col volto sorridente ma anche preoccupato, perché quando torni a casa c’è il secondo tempo che ti aspetta, c’era chi aveva subito un intervento ed ora era a controllo, con gli esami in bella vista e la speranza che quel male fosse andato via, c’erano i bimbi piccoli, seduti sugli scalini in attesa che nascesse il fratellino, quanta gioia negli occhi di quei piccoli. Io ero lì ferma con intorno le vite degli altri e la vita di mia madre in sala operatoria. Nello stomaco mille sensazioni e mille emozioni, avevo voglia che tutto finisse in quell’istante, avevo voglia di dire: “è finita”, ma sapevo che non sarebbe finita in quel momento e allora valeva la pena viversi anche quell’angoscia, quell’attesa, ma non viverla su uno smartphone o sfogliando le pagine di un quotidiano, viverla con le storie degli altri, perché nelle sale d’attesa ci trovi il mondo pronto a vomitarti la sua storia personale. Ciò che più mi colpisce sempre è l’Amore, quello di una coppia, quello saldo, forte e che in queste occasioni è più forte ma anche più preoccupante. Mio padre era come perso. Lui, sempre forte e deciso, che non ha mai avuto paura di niente, in quel momento credo avesse mille paure, da 34 anni insieme a mia mamma, di certo non poteva non amarla. E’ così che una signora coi suoi oltre 77 anni, ha incontrato il mio sguardo e posato il suo su mio padre. La signora era lì col marito scampato alla morte, un controllo per loro, ma quel controllo pesava quasi come l’intervento stesso, perché bisognava capire se il male si fosse ripresentato. Lui era seduto, con le analisi in mano, la voglia di entrare. Lei, invece aveva voglia di raccontarsi e di raccontare la loro vita. Così si è avvicinata, ha detto a mio padre che era un po’ troppo agitato, poi ha iniziato a guardarmi a dire che ero bella, secondo lei, che ero una trottola-avrò percorso quella sala d’attesa in lungo e in largo e in tutte le sue direzioni non so quante volte-gli ho raccontato il mio rapporto con mia madre e lei si commosse, mi raccontò del loro amore, troppo vecchio per morire proprio adesso, di un amore fatto di terra, quella che coltivavano loro, come anche di pane e sacrifici: gli ingredienti giusti ed essenziali per amarsi davvero. A 77 anni, aveva una tenacia ed un’energia che neanche io a 22 anni ho. Era piena di spirito. Era stata accanto al marito, comprese le notti, cresceva i nipoti che volevano ancora vivere con lei, e ancora coltivava la terra. Il marito la guardava con lo sguardo dell’amore, di chi si innamora ogni secondo, nonostante sia da una vita con lei. In quella sala d’attesa il mondo ancora una volta mi dava una lezione: l’amore è quello che tiene insieme tutto, sempre e in ogni momento. Ho perso di vista la signora perché mia mamma era tornata in stanza ed io volevo starle accanto, purtroppo, non sono potuta rimanere a lungo, compresa la notte, perché la vita è strana e nella sua “stranezza”, il giorno dopo dovevo dare l’ultimo esame all’università. Io non volevo più darlo, volevo rimandarlo ma mia mamma teneva più all’esame che all’intervento. E così dopo una lunga giornata di tensione, la stanchezza sul volto, il mattino seguente sono andata all’università, mi sono seduta e con voce un po’ tremante ho sostenuto psicologia dello sviluppo. Ho chiuso la mia carriera universitaria con l’ultimo 30. Ero al settimo cielo: avevo finito, mia mamma sarebbe uscita dalla clinica-certo a casa sarebbe stata un po’ dura per alcune settimane, ma già qualcosa era fatto-. Sono arrivata in clinica e avevo gli sguardi di tutti addosso: mia mamma aveva abbracciato e reso partecipe tutti della fine dei miei studi. Ero contenta, perché sapevo che saremmo uscite da lì, peccato che l’emozione però ha giocato un brutto scherzo a mia mamma e in quella clinica siamo rimaste entrambe per l’intero giorno. E’ strano come nella vita un attimo prima gioisci e un attimo dopo devi fermarti. Ero seduta su quella sedia, con la borsa dell’università, i libri che pesavano, i vestiti zuppi di sudore-segno di una giornata di maratona-ed il volto confuso, guardavo mia mamma e non sapevo cosa pensare…. Il mio telefono era rovente: squillava tra mio padre in tensione, i miei nonni all’oscuro di tutto e mio fratello che neanche sapeva dell’intervento, ma ancor peggio le tante “compagne” di università che volevano appunti, riassunti, informazioni sull’esame.

In quel momento ho capito che sono le persone estranee che ti danno di più, quelle che incontri nelle sale d’attesa degli ospedali, nella stanza in cui c’è l’altro paziente, sono quelle persone che conoscono l’amore ma anche la sofferenza, la tensione ad essere più umane, più vere, il resto è solo egoismo puro.

Le sale d’attesa mi hanno insegnata a guardare in faccia l’amore quello vero e sano, quello tra chi è sposato, come anche tra una madre ed una figlia, mi hanno dato l’umanità, le storie-che piano piano vi racconterò-, la fiducia, il combattere ed il vincere. Le sale d’attesa sono il luogo che non vorremmo frequentare ma quando ci sei dentro devi trovare il bello che c’è e farne tesoro. Ecco perché io lo racconto, raccontando la mia storia come quella degli altri che ho fatto un po’ mia, perché possiamo essere un po’ più umani e sensibili tutti, avendo rispetto del dolore, della tensione, dell’ansia di tutti e soprattutto possano spronare altri. Altre ragazze, che magari come me hanno paura anche della cosa più banale, che magari vorrebbero rinunciare ad esserci in un ospedale o ad un esame, perché vogliono far prevalere la paura. Possiamo essere più forti della paura, basta solo guardare in faccia alla realtà alla vita e anche-purtroppo-all’odore dell’ospedale e delle sale d’attesa, ma se guardiamo l’altra faccia della medaglia ne troveremo sempre l’insegnamento, così come è successo a me: sono diventata un po’ più forte, ho dovuto per forza di cose, annullare delle mie paure, farmi coraggio, esserci, ho allontanato i falsi amici ed ho aperto il cuore e la mia vita alle storie degli altri, che siano di dolore o di vincita, qualcosa sempre danno

Contrassegnato da tag , , , ,

Quel che resta della Concordia

index

Il gigante del mare. Il relitto inabissato che per anni adagiato su un fianco ha fatto da scenario all’isola del Giglio, ad uno degli specchi d’acqua più belli d’Italia, da ieri ha lasciato l’isola. La Concordia in queste ore è in viaggio, l’ultima rotta verso Genova, il porto che la ospiterà e smantellerà.

30 mesi dopo, il relitto che divenne la trappola di morte per 32 persone e l’incubo dei tanti passeggeri, lascia l’isola che l’ha accolta, ospitata. La Concordia, un gigante del mare, oltre 114Kg di starza, 190 metri di lunghezza, 5 ristoranti,oltre 5000 cabine,era un vanto della flotta. Nave sfortunata. Nel 2008 per il forte vento urtò contro il molo di Palermo. Due incidenti in sette anni di navigazione. Nel 2005 quando venne inaugurata,la tradizionale bottiglia di champagne non si ruppe contro lo scafo. E chi và per mare sa che è il segno della mala sorte. Saranno le quattro inchieste della magistratura a dare un nome e una spiegazione a questa esperienza trasformatasi in tragedia ma soprattutto a pagare per la morte delle vittime.

Una notte indimenticabile quella del 13 Gennaio 2012. Un boato, come un terremoto, una serie di black-out. Sulla Costa Concordia è il panico. I turisti sono a tavola,dagli altoparlanti le prime informazioni. Prima della mezzanotte la nave comincia a imbarcare acqua,si piega su un fianco,il comandante punta verso l’isola del Giglio. Ai passeggeri viene ordinato di indossare i giubbotti,comincia l’evacuazione. Le scialuppe vengono calate in mare ma è il caos.

E’ notte quando arrivano i soccorsi per mare e per terra, quello che si trovano davanti è drammatico. Uno squarcio sulla fiancata della nave e lo scoglio incastrato nello scavo. Le luci degli elicotteri disegnano i contorni della tragedia. All’alba al porto non ci sono barche ma solo scialuppe di salvataggio e occhi di paura.

Oggi che il gigante del mare ha lasciato i gigliesi restano i ricordi. Quel che resta della Concordia è un ricordo indelebile e doloroso. 32 vittime che nella loro vacanza hanno trovato la morte. Un cadavere ancora disperso. Gli atti di eroismo di chi ha ceduto il proprio posto sulla scialuppa ad una donna o ad un bambino, perdendo la vita. Chi per giorni ha atteso i soccorsi stipato negli intercapedini della nave ma non ce l’ha fatta. Un comandante che a gambe levate è stato il primo a scappare, che oggi si fa fotografare sorridente e abbracciato a belle donne, che si augura un disastro ambientale –affinchè la nave non arrivi a Genova.

Indimenticabili resteranno le parole del Comandante De Falco: “Lei deve dirmi se ci sono bambini, donne, persone bisognose di assistenza… Vada a bordo, Ca…!”

Ma della Concordia resta un’operazione unica al mondo, il lavoro di squadra di operai italiani e stranieri, di un’isola che si è mostrata solidale e disponibile, che ha accolto tutti con amore ed a braccia aperte, restano le storie d’amore che dalla tragedia sono nate. Come quella di Virginia e Simon. Lui americano e lei gigliese. La difficoltà di dialogo. L’abbraccio dei due quando lui ha lavorato all’operazione più delicata per la Concordia. Il loro amore è volato fino al Kent e tra un mese nascerà un bambino.

La Concordia è anche questo. Ma la Concordia dovrà anche essere giustizia per le 32 vittime e per tutti coloro che si sono salvati ma non potranno mai dimenticare ciò che hanno vissuto.

Contrassegnato da tag , , , , , ,