Sono oltre cinque milioni i poveri in Italia, l’8,4% della popolazione residente, secondo le stime. Un dato in aumento costante: in dieci anni la povertà assoluta è infatti aumentata del 182%. Più di un milione e duecento mila sono bambini e ragazzi. La lotta alla povertà, però, può contare sul cuore grande, generoso, vero del sociale, articolato in un sistema di misure, piccole e grandi, per lo più sconosciute e invisibili alla società, che fanno però la differenza in qualità della vita per tante persone e famiglie. A promuovere questi interventi lungo tutto lo stivale, sono enti locali, organizzazioni del terzo settore, aziende e comunità. Spesso lavorano insieme unendo obiettivi e forze. La povertà però non è solo questione economica ma anche educativa, abitativa e sanitaria. Contro i diversi tipi di povertà si mobilitano progetti per facilitare il ricollocamento nel mondo del lavoro, per poter assicurare un pasto al giorno, migliorare l’accesso alle prestazioni sanitarie, offrire un tetto a chi dorme per strada. Da una parte anziani soli in case troppo grandi, dall’altra, persone che hanno perso il lavoro e la casa, e non sanno dove andare. Ma se questi due bisogni si uniscono nasce il cohousing, un progetto di coabitazione solidale pensato da “Auser” di Firenze per contrastare la povertà abitativa. Dal capoluogo toscano il progetto si è esteso a molte città del nord Italia. In alcune realtà si è dato vita ai condomini solidali che ospitano sino a 49 persone. Non solo un luogo fisico ma intreccio di relazioni e di incontri umani. Un lento percorso di inserimento fatto di incertezze, timori, paure e diffidenze, per questo ci si incontra più volte per conoscersi, spesso seguiti dai volontari, sino poi alla stipula di un “patto di convivenza” dove si dividono spazi, angoli di vita, spese vive e bollette. Dai forni ai poveri. A Roma, i volontari, recuperano il pane non venduto ma ancora buono per destinarlo a circa 2300 poveri della capitale. Da qualche mese il recupero si è esteso anche a frutta e verdura. Si stima un valore di 250 mila euro, grazie al recupero di pane e di ortofrutta. Da qualche settimana è stata messa a punto un’applicazione “Romacheserve” che consente di incontrare le realtà produttive che hanno eccedenze alimentari per donarle alle realtà sociali che invece hanno bisogno di riceverle.
E’ maschio ed ha 44 anni, il volto dell’utente-tipo che chiede aiuto alla rete Caritas per problemi legati alla povertà. In un caso su quattro le richieste abbracciano il range d’età dai 18 ai 34 anni. Nel 2017, secondo i dati della Caritas, sono stati quasi 200 mila le persone che hanno chiesto una qualche forma di sostegno o d’aiuto ai Centri d’Ascolto. 2 milioni e 600 mila interventi, il valore assoluto della rete Caritas. Diminuiscono le storie di povertà intercettate, si rileva però una maggiore complessità e cronicità dei casi. In crescita il numero delle persone senza fissa dimora, ancora oggi la rottura dei legami familiari costituisce un fattore scatenante nell’entrata in uno stato di povertà. La forma di aiuto più frequente è stata l’erogazione di beni e servizi materiali, fra queste spiccano le distribuzioni di pacchi di viveri , di vestiario e i pasti alla mensa. In alcune parti d’Italia è sul legame di collaborazione fra pubblico e privato che si gioca la scommessa del contrasto alla povertà sul territorio. Intorno a questo rapporto sono nati diversi interventi messi in atto dalle amministrazioni comunali, coordinate dal settore welfare dell’Anci. Strategia principale sono i ‘patti’, veri e propri contratti sottoscritti tra la persona in difficoltà e un ente partner: in base ai bisogni, la persona ha a disposizione un’assistenza necessaria (un sussidio e un percorso per potenziare risorse personali e lavorative) in modo da superare lo stato di vulnerabilità, in cambio deve essere “responsabile” del cambiamento. All’improvviso il filo conduttore della vita può spezzarsi: la perdita di un lavoro, un incontro sbagliato, un passo fatale che genera un errore, da cui è difficile riprendersi e si finisce per strada senza più nulla. Storie di vita “invisibili”, ma attorno a questo stato di povertà assoluta, molte Onlus italiane hanno avviato un progetto per creare opportunità lavorative per i senza fissa dimora, così da farli rimettere in gioco. In effetti è il principio ispiratore del premio Nobel per la pace Muhammad Yunus, inventore del microcredito: la povertà si vince dando ad ognuno la fiducia, creando lavori possibili anche solo con piccoli incentivi. Perché essere esclusi porta ad una condizione di non ritorno e dalla povertà pochi si salvano, così le strutture sociali non stanno a guardare. A Roma è in fase di sperimentazione il progetto “Ricomincio da me” che impegna i senza fissa dimora in città nella cura del verde pubblico. La povertà si ripercuote anche sullo stato di salute, così in molte città italiane i medici in pensione si mettono a disposizione degli indigenti per consulenze e visite mediche. Veri e propri ambulatori solidali. Mentre, venti scuole di sette regioni italiane sono al lavoro per il contrasto alla povertà educativa. Si tratta di un intervento che vede coinvolti studenti, docenti e genitori con l’obiettivo di assicurare e garantire a bambini e ragazzi il diritto di un’educazione di qualità. Il progetto si chiama “Lost in Education” e coinvolgerà per tre anni, fino a novembre 2021, circa 4500 fra ragazzi e ragazze delle scuole secondarie di primo e di secondo grado. Capofila di “Lost in Education” è Unicef Italia, sul sito dell’associazione è possibile approfondire il progetto e spulciare tra le varie regioni aderenti. “Mani nel fango per costruire” sono i maestri che lavorano a Napoli tra la strada e le istituzioni. I loro studenti sono ragazzi che, per vari motivi, hanno difficoltà a seguire un percorso scolastico o anche solo ad accedervi. una sessantina di educatori, attivi a Napoli, in lotta contro la dispersione scolastica, terreno in cui prospera la povertà. Il lavoro si gioca tra l’aula scolastica con i singoli studenti e con l’intera classe, sia sul territorio. Anche andando a cercare lo studente che non va a scuola, che ci è stato segnalato dai servizi o dalle scuole, contattando le famiglie.
Una rete di uomini, donne, istituzioni, associazioni, che anziché girarsi dall’altra parte guardano con occhi di speranza, di ottimismo, futuro, solidarietà agli altri, agli ultimi della società, non solo durante il periodo più dolce dell’anno: il Natale, perché il cuore e la solidarietà devono coesistere tutto l’anno ed è il caso di dire: Evviva il Sociale!
(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)
Lasciare un caffè pagato per chi non può permetterselo. E’ la tradizione del cosiddetto caffè sospeso, nata a Napoli ma ora diventata pratica solidale in molti Paesi del mondo. Un’usanza nata durante la guerra, quando il caffè era oro, padre dell’idea Napoli, per ricordare agli avventori di lasciare un caffè pagato: la moka messa sul bancone. La moka è sempre quella, gli aneddoti si accumulano negli anni: da Aurelio De Laurentiis, presidente del Napoli, che molto spesso lascia una decina di caffè sospesi, ai professionisti che ogni giorno decidono di lasciare un caffè pagato. La crisi ha fatto il resto e la tazzina solidale esce da Napoli, sale lungo lo stivale e arriva fino a Pordenone contagiando persino Lampedusa. Nascono siti internet e diventa “la rete del caffè sospeso”, viaggia sui social network con oltre duecentosessantamila followers. La tazzulella cambia volto a Roma e diventa forno sociale, dove la gente inforna pane, lasagne, biscotti: tutto ciò che portano da casa ed è gratuito, mentre, l’aroma del caffè solidale si sparge in tutto il mondo: Spagna, Francia, Belgio, Svezia, e a Parigi il caffè sospeso diventa la baguette sospesa, in Tailandia è un pasto completo che resta sospeso per chi ne ha bisogno. A Torino si pensa al pane sospeso, un’idea al vaglio della commissione Servizi Sociali del Comune che potrebbe raccogliere e pubblicare sul sito dell’amministrazione le adesioni dei panificatori, tramite l’AssoPanificatori, disposti a partecipare e a consegnare il pane sospeso a chi ne ha bisogno. Pane acquistato dai clienti che desiderano donarne una parte. I destinatari sarebbero le famiglie in difficoltà con priorità verso le persone anziane, le famiglie in stato di disagio sociale, inoccupati. E se a Torino è solo un’idea al vaglio, a Salerno, da tre anni un panificio collabora al “pane sospeso”, ogni giorno, infatti, il panificio garantisce 15Kg di pane alle famiglie salernitane indigenti. A Messina, da anni i panifici espongono un salvadanaio destinato a piccole offerte che potranno aiutare famiglie in difficoltà, si potrà lasciare il resto o fare una donazione spontanea, anche di pochi centesimi. Le donazioni verranno poi convertite in “buoni acquisto” che verranno consegnati alle famiglie che fanno parte della “Rete Cibo Condiviso”, da spendere presso i panifici aderenti. Modi semplici per aiutare tante famiglie in difficoltà. Passi e prassi che mostrano lo specchio di un paese solidale e generoso. Ed il gesto semplice quanto umano e solidale di lasciare “sospeso” qualcosa è volato oltre oceano, dove Corby Kummer, uno dei più famosi food writer degli Stati Uniti, ha ripreso il concetto ed ha addirittura lanciato una sfida alle grandi catene americane: le aziende, secondo lui, dovrebbero aggiungere una nuova voce ai registratori di cassa, per permettere ai clienti di pagare una certa somma per gli altri. Magari in prossimità del Natale, potremmo imparare ad usare parole nuove, che non avremmo mai pensato di usare, il cui significato però ci piace, come per esempio: “pago anche un caffè sospeso”.
Incoscienti e spietati. Senza mai provare rimorso, né assumersi responsabilità alcuna. Giovanissimi, ancora bambini ma giocano con la vita e con la morte. Il pericolo, l’escalation di violenza gli provoca un brivido, in alcuni casi gli mette adrenalina. Furti, rapine, spaccio, e nella peggiore delle ipotesi omicidi, li affascina. Sono l’esercito tecnicamente dei bambini, ma violenti che rifiutano le regole, che arrivano a compiere gesti terribili e senza senso con una leggerezza tale che anche davanti alle conseguenze non riescono a comprenderne la gravità. Così da fanciulli o poco più si ritrovano in una stretta cella, a vivere una vita di privazione e di ridotta libertà tra le sbarre di uno dei diciannove penitenziari minorili presenti in Italia, che ospitano detenuti dai 14 ai 18 anni, e fino ai 21 anni se il reato è stato commesso prima del raggiungimento della maggiore età. Per tutti gli istituti penitenziari minorili la priorità è la funzione rieducativa della pena. L’identikit psicologico del minore delinquente è spesso quello di un ragazzo privo di una guida, una linea comportamentale da seguire, in molti casi sono mancate le figure genitoriali o non sono in grado di impartire sani principi, sono vissuti in ambienti degradati, vittime loro stessi di violenza e soprusi. L’equipe che lavora all’interno dei penitenziari minorili diventa punto di rifermento e si occupa di rielaborare e rieducare: si lavora su un terreno ancora fertile. Ma se non si tratta del giovane ladruncolo o di un piccolo spacciatore, ma di un piccolo “mostro”, il lavoro è più complesso e difficile. Siamo davanti ad un delitto premeditato e compiuto spesso con grande ferocia e freddezza, la cronaca è lunga: da Erika e Omar, considerati lucidi e consapevoli, ad Emanuela, 15 enne che uccise la madre perché questa contrastava la sua relazione amorosa. Si lavora sulla ferocia covata nell’animo, si cerca di capire quali siano le emozioni, i sentimenti provati da questi giovanissimi, sino a capire in che modo si possa riabilitare all’interno della società. Oltre al lavoro psicologico, sociale, educativo affidato ad un’equipe che lavora all’interno delle strutture c’è un aspetto giuridico, legato al reato commesso. L’iter giudiziario minorile inizia con l’arresto il fermo: un minore può cadere nelle maglie della giustizia minorile o perché colto sul fatto (in flagranza) o perché indiziata (fermo di polizia). La prospettiva punitiva del processo deve avere sempre presente l’obiettivo del recupero del minore, anche nei casi più gravi ed eclatanti, per evitare che rimanga vittima della spirale comportamento deviante. Il carcere deve risultare l’ultima possibilità: quando non vi sono altre misure alternative o quando queste sono fallite. Quando il giudice dispone una misura cautelare, l’imputato viene affidato ai servizi minorili dell’amministrazione della giustizia con la quale collaborano gli enti locali, nelle funzioni di sostegno e controllo del ragazzo. Le misure previste, in ordine di gravità crescente, sono: -prescrizioni: orari di uscita e rientro a casa; -permanenza a casa: una sorta di arresti domiciliari, nel caso di trasgressione non vi è denuncia; – collocamento in comunità, quando la famiglia si rifiuta al collocamento in casa; – custodia cautelare: in un istituto di pena minorile. La valutazione viene fatta sulla base della personalità del minore, eventuali precedenti penali e sulla base della situazione personale e familiare. In termini di legge e di giustizia bisogna ricordare il DPR 488/88 che riguarda il perdono giudiziario e la messa alla prova al servizio sociale. Nella messa alla prova il giudice sospende il processo per un periodo non superiore ad un anno, fino a tre per i reti più gravi, affidando il giovane all’assistente sociale, che seguirà percorsi di rieducazione: se le relazioni delle figure professionali coinvolte nella rieducazione sono positive, il giudice fissa una nuova udienza e dichiara estinto il reato. Altrimenti, prevede alla prosecuzione del processo penale. Per quanto riguarda il perdono giudiziale, viene concesso anche per reati rilevanti, anche non lievi, se emerge la volontà positiva e benevole del ragazzo nel futuro. Può essere concesso una sola volta. Tra misure da adottare resta comunque un’emergenza sociale: ragazzi soli e attratti dal lato oscuro e pericoloso della società che li spinge a compiere atti che vanno contro legge.
Tutele per gli orfani di femminicidio, la Camera, ha approvato la legge che tutela i figli rimasti privi di uno o entrambi i genitori a seguito di un crimine domestico. Lo spirito della norma si muove attorno alla certezza che la violenza familiare, gli omicidi domestici e i femminicidi sono un fenomeno diffuso in Italia e lo Stato ha il dovere di contrastare sia sul piano culturale che giudiziario, e le istituzioni devono guardare anche alle conseguenze che questi crimini determinano sui figli delle vittime. Come ha anche sottolineato nel suo intervento in aula la deputata del Partito Democratico, Marilena Fabbri. Proprio per tutelare gli orfani del femminicidio si è reso necessario mettere mano ad un aggiornamento del quadro giuridico e una nuova definizione degli interventi in grado di dare risposte serie, coerenti e in breve tempo, perché spesso questi bambini sono orfani tre volte: per la perdita di entrambi i genitori e per l’indifferenza dello Stato. Il provvedimento introduce nuove misure, come il patrocinio gratuito nel processo penale e nei procedimenti civili, l’assistenza medico-psicologica gratuita fin quando si rende necessaria, percorsi agevolati di studio, formazione ed inserimento lavorativo e la facoltà per i piccoli orfani di poter chiedere con procedura semplificata la modifica del proprio cognome. Norme che rappresentano un primo passo per lo Stato di stare accanto a questi “orfani speciali” che vivono una grande sofferenza, aiutandoli a continuare ad andare avanti mettendoli nelle condizioni di costruirsi un futuro. Ora il provvedimento passa al Senato. Terrore, tremori, fragilità. Poi lo scontro con la lenta e fredda burocrazia, è questa la vita dei orfani di femminicidio. Un incubo che investe le piccole vittime. Che fine fano? La cronaca li investe di attenzioni per qualche giorno: il pensiero corre al trauma indelebile di quel che è accaduto, si sprecano commenti ed indignazione. Poi, il buio. Un velo di oblio che negli ultimi anni è calato su 1.628 figli. Soltanto negli ultimi tre anni, stando ai dati sino al 2016: 417,180 minori dei quali: 52 sono stati testimoni dell’omicidio della madre da parte del padre, 18 sono stati uccisi insieme a lei. Nella metà dei casi tra le mura domestiche è entrata una pistola, un fucile, che ha fatto esplodere la quotidianità. Sono i dati che emergono da una ricerca finanziata dall’Unione Europea e condotta dalla Seconda Università degli studi di Napoli, con a capo la psicologa, Anna Costanza Baldry, che ha studiato il fenomeno insieme ad un équipe di psicologi dal 2011. Baldry, ha intervistato 143 di questi orfani: alcuni oggi sono adulti, hanno raccontato la loro storia da soli, con immense difficoltò, altri sono minorenni e sono stati accompagnati dai loro affidatari. I dati sono stati raccolti e presentati alla Camera, che ha redatto un documento di linee guida di intervento messo a disposizione dei servizi sociali, dei magistrati, insegnati e forze dell’ordine, con l’obiettivo di seguire un protocollo univoco e tempestivo. La ricerca fa emergere l’immenso bisogno da parte di questi bambini di attenzione e cura. Diritti che oggi le istituzioni gli negano. Si tratta di vittime che non possono contare sul supporto dei servizi. Così ci si scontra con un’Italia di battaglie sul bene superiore dei minori, dove protocolli e percorsi pensanti per chi sopravvive all’epidemia dei femminicidi – uno ogni tre giorni- non ne esistono, questi figli vengono dimenticati e l’anno successivo all’evento traumatico, quello decisivo, stando ai manuali di psicologia per evitare scelte estreme da parte loro, ci pensano nella maggioranza dei casi i nonni. Dolore al dolore, trauma su trauma, lutto su lutto. Montagne da scalare: i funerali, i processi la burocrazia, l’affidamento, le domande insistenti dei piccoli sui loro papà. Il papà non si cancella, lo stesso studio della dottoressa Baldry, riporta che spesso i bambini hanno chiesto del papà e le famiglie affidatarie non sanno gestire la situazione: in alcuni casi preferiscono attendere la maggiore età affinché possano decidere da soli. Ma sei vittime su 10 spesso non riescono a reggere le lettere, gli incontri con quello che è stato l’assassino della mamma. Ci sono bambini che decidono per un incontro in carcere, mentre, le vittime adolescenti tendono a trovare delle giustificazioni all’inaudita violenza: lo stress, le liti. Lo studio, riporta anche, con molto stupore degli esperti, che in poche vittime scaturiscono psicopatologie particolari, mentre, il sentimento più esposto è la vergogna. Emerge anche che i piccoli si sentono diversi dagli altri, un vissuto ed un accaduto troppo ingombrante per loro, il non potersi sfogare pesa ancora di più, si ritrovano a vivere in una famiglia fatta di familiari che a loro volta ogni giorno in prima persona vivono il lutto. Nel caso dei maschi prevale il senso di colpa di non esser riuscito a salvare la propria mamma. Piccole vittime che si porteranno dentro un vissuto ed un dolore troppo grande che non possono vivere da soli, è ciò che stanno urlando ad un Stato sino ad ora assente e carente di servizi.
Degrado, criminalità, marginalità sociale, abusivismo. L’assenza di una politica adeguata, che si palesa spesso solo in campagna elettorale, alto tasso di disoccupazione e un’architettura originaria, che soffoca, che giorno dopo giorno annovera nuovi problemi, senza possibilità di risoluzione. Luoghi abbandonati, a tal punto da provocare una vera e propria guerra fra poveri, una caccia alle streghe del 2000 ed isolamento. Ma anche tanta, troppa ipocrisia ed omertà. Caivano è la dimostrazione di una fitta rete di omertà nella quale restano impigliate le vittime, che in molti avrebbero potuto salvare, ma che col loro silenzio hanno contribuito ad alimentare la violenza ed il dolore.
