Disuguaglianze, nuove forme di povertà, volti diversi alle famiglie, l’eredità e gli effetti economici e sociali che la pandemia lascerà rischiano di essere più pesanti del previsto. Il nuovo volto disegnato dalla pandemia è segnato da fragilità e povertà. Gli italiani si sono riscoperti più poveri e più soli. Le storie che gli assistenti sociali, gli operatori delle associazioni di volontariato e della Caritas che ogni giorno ascoltano, sono storie di coppie e famiglie normali diventate povere durante la pandemia. Lavoratori onesti ed umili, ma in un anno pandemico sono precipitati a reddito zero. E’ l’effetto della pandemia e lo stop a tante attività economiche, nel 2020 la povertà assoluta in Italia è tornata ai livelli di quindici anni fa. Persone che incontrano grandi difficoltà ad effettuare le spese essenziali per il cibo o per curarsi. L’anno scorso i poveri assoluti sono stati un milione in più rispetto al 2019, più di trecentocinquantamila famiglie totalmente indigenti in un anno. In totale – secondo l’Istat- si tratta di oltre due milioni di famiglie. Le difficoltà maggiori tra le famiglie numerose e i lavoratori tra i 35 e i 44 anni, quelli cioè con lavori precari. Al Sud la situazione più difficile. Ma nelle regioni del Nord la povertà cresce più velocemente. Nell’anno della pandemia si sono azzerati i passi fatti nel 2019, ad oggi i minori coinvolti sono circa un milione e mezzo. Il covid ha fatto crollare anche la spesa delle famiglie: si evitano gli acquisti, se non necessari. Il volto della povertà è cambiato: sono coloro che fino a poco tempo fa donavano e oggi si ritrovano a bussare alle porte di associazioni e Caritas.
La situazione rischia di peggiorare. A primavera scade la misura che, insieme alla cassa integrazione, ha in parte arginato la crisi da covid per alcune categorie. Nei prossimi mesi, infatti, si prospetta lo sblocco dei licenziamenti e solo in Campania si rischiano 100mila licenziamenti, 1 milione quasi in tutta Italia, già alcune storiche attività commerciali e di ristorazione nel capoluogo campano non ce l’hanno fatta a sopravvivere al post lockdown ed hanno cessato le loro attività, saltati già diversi posti di lavoro. Nei mesi si sono susseguiti aiuti economici e sociali, dal Reddito di Emergenza, ai buoni spesa, al decreto ristori, agli interventi dei singoli comuni o dei fondi diocesani dedicati, utili a sostenere le spese più urgenti magari legate al pagamento dell’affitto degli immobili, dalle rate del mutuo, delle utenze o agli acquisti alla ripartenza delle attività. Misure a cui non tutti hanno avuto eguale accesso, il reddito delle scorso anno era totalmente differente alla situazione attuale. Infondo, però si tratta di palliativi, di assistenzialismo che serve nell’emergenza ma non lascia margine di prospettive future. Oggi quasi una persona su due di quelle accompagnate e sostenute è un “nuovo povero”. L’incremento nell’incidenza delle donne, più fragili e svantaggiate sul piano occupazionale e spesso portavoce dei bisogni dell’intero nucleo familiare. E allora quale prospettiva in tema di politiche economiche e sociali ci aspettano per fronteggiare i postumi della pandemia? Ad oggi, l’unica certezza che sembra esistere è quella del Reddito di Cittadinanza, seppur si prospettano cambiamenti, di fatto qualche novità già esiste: chi ha percepito per le prime diciotto mensilità la misura di contrasto alla povertà, rischia di veder ridotto notevolmente il contributo mensile in quanto le precedenti mensilità sono conteggiate ai fini dell’Isee aggiornato. D’altra parte da solo il reddito di cittadinanza non riuscirebbe a coprire i tanti poveri, con quali mezzi poi?
Al di là di tutto resta la necessità di misure fiscali e finanziarie utili a sostenere la ripresa e la ripartenza delle tante attività economiche e commerciali, utili anche le agevolazioni all’assunzione di personale, inoltre và pensato e studiato un programma di assistenza a medio-lungo termine, che superi la logica del puro assistenzialismo e garantisca effettiva integrazione sociale e lavorativa, iniziando dalle opportunità di lavoro, ma se le attività chiudono è difficile l’assunzione. Insomma, un cane che si morde la coda, nel frattempo le famiglie sperimentano situazioni di povertà e disuguaglianze che rischiano solo di peggiorare e non migliorare, forse è tempo di pensarci e iniziare a costruire il domani delle famiglie, dell’economia e del sociale del nostro Paese, per non farci trovare impreparati e più forti nella ripresa post pandemia.
(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

Il reddito di cittadinanza introdotto lo scorso anno nel nostro paese è ormai una realtà consolidata, che nei mesi ha consentito a molte famiglie di poter beneficiare di un contributo economico che in molte di queste si è tradotto in un aiuto concreto alle spese del menage familiare. Una misura attesa che al di là di una propaganda politica trova d’accordo anche l’Unione Europea che da tempo strigliava l’Italia circa l’attuazione di una misura di contrasto alla povertà. Misura esistente, seppur con criteri e requisiti diversi, anche in altre parti del mondo e dentro e fuori i confini dell’Europa. In Italia partito in fretta, nei mesi ha iniziato a sviscerare alcuni contorni, come la piattaforma “GEPI” per gli operatori sociali, che impone di contattare i nuclei familiari per delineare un’analisi preliminare, tesa a conoscere il nucleo familiare e le esigenze che possono emergere. In sostanza è quella che da molti viene ribattezzata “fase due”, perché c’è da fare qualche chiarimento: la seconda fase non è relativa all’attuazione dei tanto invocati lavori di pubblica utilità, ma è caratterizzata dalla convocazione dei nuclei familiari per un colloquio presso i Servizi Sociali comunali, che delineeranno con l’analisi preliminare-formata da domande standard da compilare in tempo reale sulla piattaforma messa a disposizione dal Ministero- che definirà un profilo: la convocazione da parte dei centri per l’impiego per la sottoscrizione del patto di lavoro; una presa in carico dal servizio sociale professionale – che prevederà un percorso fatto di obiettivi e monitoraggio; la valutazione e presa in carico di un’equipe specialistica ed infine la presa in carico da un servizio specialistico -che consentirà di collaborare con strutture e servizi del territorio. L’ambito territoriale che in questa sede mi sento di rappresentare, Azienda Consortile “Agro Solidale” ambito S01-03, capitanata dal dottor Porfidio Monda, da mesi porta avanti la convocazione dei nuclei familiari, sottoscrivendo analisi preliminari e portando avanti il monitoraggio di molti nuclei familiari. Per quanto riguarda i tanto discussi Progetti Utili alla Collettività, meglio conosciuti come Puc, la fase è ancora quella embrionale, in quanto è in via di definizione e consolidamento, pertanto questa fase mi sento di ribattezzarla “terza” e che coinvolgerà i nuclei familiari nei lavori utili alla collettività. Dove badate bene si tratta solo di essere d’ausilio a personale già esistente nella pubblica amministrazione che ne avrà anche le responsabilità connesse a quella mansione. In attesa di addentrarci nei Puc, in virtù dell’esperienza diretta e costante che ho avuto a contatto con il reddito di cittadinanza mi ha portata a comprendere che la misura è una sfida tesa a tirare fuori il meglio del sistema del welfare. Senza dubbio il Reddito di Cittadinanza ad oggi paga lo scotto della “fretta”, nato all’indomani delle elezioni, pertanto molti nuclei familiari per mesi hanno beneficiato di un contributo senza vedere applicate ulteriori servizi e misure previste dalla legge. In molti hanno iniziato a beneficiare dal mese di Aprile ma solo a Settembre sono stati chiamati, almeno per quanto riguarda il nostro ambito territoriale, per l’analisi preliminare. Ad oggi ci sono ambiti territoriali e comuni che sono fermi alle relative procedure per accreditarsi sulla piattaforma Gepi, per niente semplice all’inizio e senza una guida che specificasse a noi operatori come poter navigarci nel suo interno: intuito ed un pizzico di professionalità- almeno per noi- hanno avuto la meglio. E non è certo una nota positiva, perché così facendo molti colleghi si sono sentiti scoraggiati ed hanno iniziato ad avere un approccio poco stimolante verso il reddito di cittadinanza che invece può essere una sfida che tutti noi possiamo vincere se solo ci fosse il tempo per gli operatori di addentrarsi all’interno dell’ottica del sistema, la collaborazione degli utenti che devono abbandonare il concetto di un assistenzialismo fine a se stesso e l’applicabilità di servizi ed interventi: la famosa rete da costruire. L’esser partiti senza aver risolto una serie di nodi operativi fondamentali, come il raccordo tra servizi sociali comunali e centro per l’impiego, che ad oggi ancora non dialogano nonostante la creazione di un sistema informativo, non aiuta. Ecco perché ho compreso l’importanza del reddito di cittadinanza perché in sé è una misura che abbraccia ogni forma di povertà: economica, formativa, lavorativa, sociale, d’animo e persino familiare. Quelle domande apparentemente standard e fredde nascondono se ricevono una risposta sincera un bisogno che finalmente esce dalle mura casalinghe ed approda nelle sedi opportune. Davanti a ciò c’è la possibilità di sviluppo del welfare locale senza precedenti. Il rischio che non possiamo permetterci è di farla male. Ma per farla bene occorre tempo che è sinonimo di qualità e di attenzione per gli operatori e soprattutto strumenti. L’utente che si affida con sincerità al colloquio con l’assistente sociale e risponde seriamente alle domande ha a disposizione la strada per risollevarsi dalla povertà, ma per fare ciò l’operatore ha bisogno di potergli garantire risposte attraverso servizi. L’esempio è quello che ogni giorno all’Azienda Consortile “agro solidale” il patto di inclusione sociale avviene proponendo agli utenti alcuni dei percorsi previsti dal progetto ITIA “Intese Territoriali di Inclusione Attivata”, un progetto che gode del finanziamento della Regione Campania e che prevede tre azioni. La prima rivolta alle famiglie con bambini piccoli o con ragazzi con disabilità dove è prevista la figura dell’educatore familiare o del tutor specialistico a domicilio; la seconda azione, prevede una serie di corsi di formazione che prevedono retribuzione e attestato finale: perché se non c’è una formazione di base che consente alle persone di acquisire conoscenza e sapere, non potrà esserci spendibilità nel mondo del lavoro; infine poi la terza azione prevede l’attivazione di tirocini di inclusione sociale per persone normodotate o con disabilità, al fine di potersi riavvicinare al mondo del lavoro e dell’inclusione sociale. Ecco azioni che consentono di coniugare il reddito di cittadinanza con risposte concrete. Ma non tutti hanno queste possibilità e queste risposte.Dati alla mano, con i fondi per i servizi sociali, con l’investimento sui servizi e sui centri per l’impiego da parte di questo governo, davanti a noi c’è la possibilità di uno sviluppo del welfare locale che finora non si era avuto. Ecco perché questa possibilità non possiamo permetterci di gestirla male. Purtroppo, ad oggi, alcuni aspetti del RdC acuiscono questo rischio. Lo scenario per i servizi locali sarà più complicato di quello disegnato dal REI – per la frammentazione delle risposte, per la fretta, per l’incremento troppo veloce dell’utenza – quindi ci sarà ancora più bisogno della creatività e dell’impegno di tutti gli operatori locali. Gli operatori a questo punto sono cruciali, nella consapevolezza che una misura nazionale dà indicazioni ma il livello locale ha molti spazi per realizzarla nel modo migliore possibile. L’obbiettivo deve essere quello di tirar fuori il meglio del Reddito di Cittadinanza, essere capaci di limitarne i punti deboli e valorizzarne i punti di forza. Sapendo però anche che il lavoro fatto fino ad oggi nei territori è un ottimo punto di partenza.
Sono 893 mila le madri sole con i figli minori in una situazione economica critica. A dirlo sono i dati Istat. In Italia nel biennio 2015-2016, si stima che in media i nuclei familiari monogenitore in cui è presente almeno un figlio minore siano pari a 1 milione 34 mila. Un fenomeno in crescita. Più della metà delle madri sole non può sostenere una spesa prevista di 800 euro e neanche una settimana di vacanza. Quasi una su cinque è in ritardo nel pagamento delle bollette, affitto e mutuo. Altrettante non possono riscaldare adeguatamente l’abitazione. Le madri sole lavorano fuori casa più tempo rispetto alle madri in coppia, si stima 47 minuti in più al giorno e dedicano meno tempo al lavoro familiare, 37 minuti in meno. I livelli di soddisfazione sono sempre inferiori a quelli delle madri in coppia per tutte le dimensioni della vita e in particolare per le condizioni economiche. Cambia di poco la condizione dei padri soli, hanno meno figli e più grandi di età. Matrigna, patrigni, figliastra, multiparentale e chi più ne ha ne aggiunta. L’Italia ormai fa i conti con la famiglia monogenitoriale o allargata e lo slalom degli affetti. Oggi sono 2,7 milioni gli italiani che vivono in famiglie cosiddette ricostituite, e con le nuove compagne “le matrigne” , che da sempre non hanno mai goduto di buona fama: d’altronde è la donna che prende il posto della madre, e con loro bisogna fare i conti. In Italia, dice l’Istat sono 893 mila le famiglie al secondo giro di prova con nuovi partner al fianco. Venticinque anni fa, nel 1993, non arrivavano a 600 mila. La famiglia tradizionale ha lasciato il posto a nuove famiglie, ormai, la famiglia tradizionale non è più un modello prevalente – secondo l’Istat- neanche nel Mezzogiorno d’Italia. Monogenitori per un periodo di transizione, poi nella maggior parte dei casi si diventa bifamiglie con bigenitori ed i figli possono trovarsi fino a quattro figure genitoriali. Un fenomeno sociologico che ci porta a genitori costretti a negoziare più di un tempo, figli che devono dividersi tra otto nonni per scoprire che quello con cui sono affini è quello acquisito. Si apre così la strada a quelle famiglie definite dal sociologo Pierpaolo Donati, “famiglie liquide”. In Italia, la famiglia normocostituita: da mamma, papà e due figli in media, è ormai una minoranza, non si tocca neppure la soglia del quaranta percento totale. L’altro sessanta percento ha forme più svariate: si può crescere con una mamma single, o con papà single, in una coppia dove uno dei genitori naturali si è sostituito ad un nuovo partner. O in una casa con due genitori dello stesso sesso: due mamme o due papà. Sono ancora però le donne a reggere le sorti della famiglia, anche se subentrano a matrimoni troppi brevi, a relazioni finite male e si trovano ad educare bambini piccoli, che a volte a malapena parlano. E fanno persino fatica a trovare loro un nome appropriato alla situazione. Forse un tempo di mamma ce n’era una sola, ma oggi non è più così. La partita si gioca tra la mamma biologica e la nuova compagna del papà, e se le due si alleano, diventano esempio di crescita specie nell’adolescenza. Il problema però sussiste nel nuovo lessico familiare che è parte centrale del cambiamento. Mancano le parole, i figli stessi non sanno come chiamare o definire i nuovi compagni dei genitori e questo secondo i più recenti studi anglosassoni, sarebbe l’origine della fragilità di questi nuclei ricomposti. La famiglia con lo stesso cognome non c’è più. Non sono chiari i diritti e i doveri dei genitori e delle nuove figure che subentrano. Se un ragazzo ha un incidente, il compagno della madre, che magari lo ha cresciuto, non può dare neanche il consenso per un’operazione d’urgenza. Eppure le nuove compagne si ritrovano a vivere delle vere e proprie vie crucis, a Roma e Milano sono nati i “club della matrigne”: donne che si confrontano e si scambiano consigli, perché credevano che un uomo divorziato fosse un uomo libero ed invece si sono ritrovate a figli che remano contro, ex mogli pronte a calunniare, il compagno pronto a fingersi morto pur di affrontare la situazione. Perché di certo le famiglie si ricostituiscono ma i legami non si possono spezzare. E’ dura la vita delle “matrigne” di oggi: quasi tutte soffrono della sindrome “da prima moglie” sulla supremazia della donna che è venuta prima, devono sopportare le foto dell’ex nuova che le suocere hanno ancora in salone e si sognano di partecipare al saggio di danza della scuola, ma quel posto spetta alla vera mamma. Ma è dura anche la vita dei figli che si trovano un’estranea che gli fa da mamma e la crisi dei modelli tradizionali non è indolore, la liquefazione come viene definita in sociologia, fa emergere comportamenti a rischio, specie nell’adolescenza. Quando il nuovo compagno non pretende di avere un ruolo paterno o materno ma solo di un adulto di riferimento, le cose vanno meglio. Di certo i bambini d’oggi fanno i conti con la sessualità dei genitori, ciò che prima non avveniva. Per generazioni venivano visti come assessuati, oggi, invece, i bambini si trovano a cercare nuove spiegazioni. La famiglia borghese di un noto film di Ettore Scola non esiste più, neanche quella da pubblicità, cambiano gli affetti, cambiano i termini, c’è chi dice meglio così, più crescono le figure di riferimento e più affetto avranno i figli, c’è chi invece è terrorizzato da tanto cambiamento, di certo è che la transazione familiare è in atto e con sé porta tutte le problematiche del caso.
Sono quasi 900 mila, nel solo primo trimestre del 2018, le persone che beneficiano delle misure di contrasto alla povertà, e di queste sette su dieci risiedono al Sud Italia. Campania in testa, seguita da Sicilia e Calabria. E’ quanto emerso dall’Osservatorio statistico sul Reddito di Inclusione, presentato nei giorni scorsi dall’Inps e dal Ministero del Lavoro, e nel primo trimestre alle famiglie in difficoltà economica sono arrivati i primi pagamenti, per un contributo mensile di 297 euro che varia da regione a regione. Si passa da un minimo di 225 euro per la Valle d’Aosta fino ai 328 per la Campania, le regioni del Sud hanno un valore medio più alto di quelle del nord e del centro. I dati e le famiglie si coniugano poi alle 476 mila persone del Sia, avviato nel 2017. Per le famiglie in difficoltà il Rei, è uno dei principali sostegni economici ed infatti non si arresta la corsa ai servizi sociali per accedere al reddito di inclusione. E dal primo luglio la platea sia per nuclei che per persone aumenterà, visto che resterà in piedi il solo valore dell’Isee, mentre le ulteriori accezioni ad oggi previste, come nuclei familiari con persone in stato di handicap, persone ultra cinquantenni, verranno meno. E se 900 mila persone beneficiano di un sostegno che dovrebbe andare oltre all’aspetto economico ed essere accompagnato nei prossimi mesi da un progetto di reinserimento sociale e lavorativo dai servizi sociali dei comuni, l’Italia si attesta ancora il primo paese europeo per numero di cittadini in condizioni di deprivazione. Sono 10,5 milioni le persone in stato di indigenza. La classifica Eurostat vede l’Italia davanti a Romania e Francia. Sono considerate indigenti le persone che non si possono permettere almeno cinque cose necessarie per una vita dignitosa, come un pasto proteico ogni due giorni, abiti decorsi, due paia di scarpe, una settimana di vacanza all’anno, una connessione a internet. Negli ultimi dieci anni i poveri assoluti, chi non è in grado di acquistare nemmeno beni e servizi essenziali, sono triplicati nel Sud Italia. Ci sono i giovani che hanno superato gli anziani e gli stranieri, ma soprattutto le famiglie con due o più figli: la crisi economica ha ridisegnato la mappa dell’indigenza tra le fasce sociali. Dato preoccupante sono i minori: un minore su dieci vive in una situazione di grave indigenza: 1.31.000 per l’esattezza. La fotografica è stata scattata dal rapporto Caritas ed è drammatica. Aumentano, infatti, gli italiani che si rivolgono ai centri d’ascolto della Caritas. Disoccupati, precari e pensionati: la povertà in Italia cambia volto. E soprattutto continua ad aumentare. C’è l’impiegato che ha perso il lavoro e l’imprenditore con l’azienda fallita. C’è il ragioniere e l’avvocato. C’è la pensionata, l’operaio licenziato e l’esodato. Alle mense italiane della Caritas ci sono sempre più italiani. Non solo senzatetto, clochard e sbandati. L’esercito dei nuovi poveri è quello della gente comune, delle persone qualunque, uomini e donne della porta accanto, padri e madri, lavoratori e lavoratrici senza più lavoro, stroncati dalla crisi e dal precariato, finiti sul baratro da un giorno all’altro. Tra i tavoli delle mense italiane si ascoltano le storie di vita quotidiana, storie che potrebbero accadere ad ognuno di noi. C’è chi si ritrova in bilico tra la perdita del lavoro e l’attesa della pensione, è quello che oggi si chiama esodato. Si ritrovano dopo il ridimensionamento dell’azienda a far fronte all’affitto da pagare, alle spese, troppe per poter saldare senza un lavoro e così si ritrovano con la loro dignità tra i tavoli della Caritas e cercano anche ospitalità per la notte. Gli italiani alla Caritas non smettono di credere in un futuro migliore. Tenaci e non arrendevoli, nonostante tutto, seppur covano dentro rabbia contro il mondo del lavoro e contro la politica. Ma nelle mense trovano spazio, ascolto prima ancora che un pasto, gli operatori infatti riescono a supportare ed incoraggiare quanti prendono parte alla mensa, che resta l’unica realtà a cui potersi rivolgere per chi è in difficoltà. Ricerca della propria dignità, ricominciare per se stessi e per la propria famiglia, cercando autonomia ed autostima, è questo quello che emerge nell’ascoltare chi oggi fatica a reinserirsi nel tessuto lavorativo e fa i conti con lo stato di indigenza, ed è per questo che il Rei, potrà funzionare “solo” in parte, seppur nasce non solo come misura economica fine a se stessa, in quanto prevede il ruolo centrale degli assistenti sociali nel disegnare un progetto comune con l’utente per il reinserimento sociale, eppure però nei piccoli comuni ci si scontra con l’aumento delle domande, la carenza di personale, ed un progetto assistenziale difficile da disegnare senza servizi e senza equipe, infatti, i primi risultati si basano proprio sul solo aspetto economico, mentre l’aspetto sociale e dignitoso degli utenti tarda a decollare e ad arrivare, rischiando di restare un solo aiuto economico che ben presto terminerà senza lasciare autonomia e capacità di reazione nell’utente in stato di difficoltà.
L’obiettivo è aiutare le persone in difficoltà economica: secondo l’Istat, in Italia, sono 4,6 milioni le persone che vivono in condizione di povertà assoluta. La legge contro la povertà prevede gli interventi da mettere in campo per sostenere le famiglie più povere sparse su tutto il territorio nazionale. Da queste premesse nasce il Reddito di Inclusione Sociale (REI), un passo storico verso l’introduzione di una misura universale che tenga conto della condizione di bisogno economico e non dell’appartenenza a singole categorie. Da oggi, 1 dicembre, sarà possibile presentare la domanda per ottenere il Reddito di Inclusione, prima misura di contrasto alla povertà. Si tratta di un beneficio economico combinato ad un progetto personalizzato per: famiglie con minori, disabili, donne in gravidanza a quattro mesi dal parto, disoccupati con più di 55 anni. A partire dal primo Gennaio 2018 andrà da 187, euro, mensili, a persone singole, ad un massimo di 485 euro, mensili, per cinque componenti, erogati per un massimo di diciotto mesi, rinnovabile per altri dodici mesi ma solo se saranno passati sei mesi dal godimento della prestazione. La famiglia beneficiaria dovrà attenersi al progetto personalizzato o subirà decurtazioni o decadenza. Il reddito di inclusione non è compatibile con altri ammortizzatori sociali di un qualsiasi membro familiare. Per ottenere il beneficio l’Isee familiare non deve eccedere i sei mila euro, mentre, l’indicatore individuale Irsee non deve superare i tremila euro. Oltre l’abitazione non si possono avere immobili che valgono più di ventimila euro, e più di diecimila euro in denaro. Può essere chiesto da europei o extracomunitari con permesso di soggiorno residenti in Italia da almeno due anni. Le domande potranno essere presentate dagli interessati o da un componente del nucleo familiare in un punto d’accesso Rei che verranno identificati dai Comuni o ambiti territoriali. Il comune raccoglierà la domanda, verifica i requisiti di cittadinanza e residenza e saranno inviate entro trenta giorni lavorativi. L’Inps entro i successivi cinque giorni verifica il possesso dei requisiti e in caso di esito positivo riconosce il beneficio. Una misura di contrasto alla povertà che richiama ad un ruolo centrale l’assistente sociale, che avrà il compito di delineare un progetto personalizzato che miri al reinserimento lavorativo e all’inclusione sociale. Quindi un comune deve avere un sistema di interventi e servizi sociali con delle caratteristiche: segretariato sociale per l’accesso, servizio sociale professionale per la valutazione multidimensionale dei bisogni e la presa in carico, accordi territoriali con servizi per l’impiego, la tutela della salute e dell’istruzione, e con gli altri soggetti privati. Il progetto personalizzato seguirà due fasi importanti: una prima, definita preassessment, che orienta gli operatori e le famiglie nella decisione sul percorso da svolgere per la pre-analisi, che definisce il progetto e determina la composizione dell’equipe multidimensionale che dovrà accompagnare e attuare il progetto. Il preassessment guida e orienta l’osservazione degli operatori: raccolta delle informazioni sul nucleo familiare, i fattori di vulnerabilità dei singoli componenti, la storia familiare e la valutazione complessiva. Ogni progetto sarà seguito da un equipe, di solito formata dall’assistente sociale e dall’operatore dei servizi per l’impiego. Ma, potrebbero essere coinvolte altre figure professionali in base alle problematiche presentate dal nucleo familiare. Segue poi la fase dell’assessment, un quadro di analisi, che identifica i bisogni e le potenzialità dei componenti familiari. Tre sono le dimensione che verranno prese in considerazione: i bisogni della famiglia e dei componenti per cui si guarderà al reddito, alla salute e all’istruzione; le risorse che possono essere attivate, capacità e potenzialità; e i fattori ambientali che possono sostenere questo percorso, ovvero, rete familiare e reti sociali. La progettazione mirerà soprattutto al superamento della condizione di povertà, all’inserimento lavorativo dei componenti familiari, per cui i componenti familiari si assumeranno delle responsabilità. Una misura che non và vista come il classico gettito di soldi rivolto a chiunque e da utilizzare, ma come un punto di partenza, una possibilità per riscattarsi a livello sociale e lavorativo. Ma, è una misura che rischia di fallire anche perché molti comuni del Sud Italia non sono pronti alla misura, manca il personale: gli assistenti sociali sono sotto organico, di nuove assunzioni neanche l’ombra, e si rischia che le pratiche restino impolverate in qualche ufficio mentre le buone intenzioni del Governo resteranno solo utopia in un investimento che sembra più perdere che vincere. Noi vogliamo avere fiducia nel nostro Governo e vogliamo credere che il Sia rappresenti una reale misura per contrastare la povertà e l’esclusione sociale.
Ci sono i giovani che hanno superato gli anziani e gli stranieri, ma soprattutto le famiglie con due o più figli: la crisi economica ha ridisegnato la mappa dell’indigenza tra le fasce sociali. Vivono in povertà assoluta, ovvero, persone che non hanno mezzi di sussistenza, 4.6 milioni, numero più alto dal 2015. Ma sono più di 8 milioni gli italiani che in generale hanno difficoltà economiche. 1.6 milioni le famiglie che incontrano difficoltà, sono quelle famiglie composte da quattro o più persone e le famiglie composte da soli immigrati. Al Sud la percentuale è di gran lunga superiore a quella degli immigrati. La povertà colpisce soprattutto i più giovani dai 18 ai 34 anni, casi di povertà economica, lavorativa, abitativa. I dati sulla povertà restano stabili tra gli anziani ma si triplicano tra i giovani e gli over 50. Dato preoccupante sono i minori: un minore su dieci vive in una situazione di grave indigenza: 1.31.000 per l’esattezza. La fotografica è stata scattata dal rapporto Caritas ed è drammatica. Aumentano, infatti, gli italiani che si rivolgono ai centri d’ascolto della Caritas. Disoccupati, precari e pensionati: la povertà in Italia cambia volto. E soprattutto continua ad aumentare. C’è l’impiegato che ha perso il lavoro e l’imprenditore con l’azienda fallita. C’è il ragioniere e l’avvocato. C’è la pensionata, l’operaio licenziato e l’esodato. Alle mense italiane della Caritas ci sono sempre più italiani. Non solo senzatetto, clochard e sbandati. L’esercito dei nuovi poveri è quello della gente comune, delle persone qualunque, uomini e donne della porta accanto, padri e madri, lavoratori e lavoratrici senza più lavoro, stroncati dalla crisi e dal precariato, finiti sul baratro da un giorno all’altro. Tra i tavoli delle mense italiane si ascoltano le storie di vita quotidiana, storie che potrebbero accadere ad ognuno di noi. C’è chi si ritrova in bilico tra la perdita del lavoro e l’attesa della pensione, è quello che oggi si chiama esodato. Si ritrovano dopo il ridimensionamento dell’azienda a far fronte all’affitto da pagare, alle spese, troppe per poter saldare senza un lavoro e così si ritrovano con la loro dignità tra i tavoli della Caritas e cercano anche ospitalità per la notte. Non solo storie ma i dati dimostrano che i nuovi poveri sono italiani. Nel corso degli ultimi cinque anni, ai centri d’ascolto della Caritas c’è stato un aumento di 4 punti percentuali di utenti italiani. Alle mense Caritas gli italiani sono il 40% del totale, circa 50mila persone che mangiano con regolarità. Uomini e donne si equivalgono, c’è una prevalenza di coniugati (48,6%), seguono i disoccupati, le persone con domicilio e con figli. L’età oscilla tra i 35-44 anni ed i 45-54 anni. Gli italiani alla Caritas non smettono di credere in un futuro migliore. Tenaci e non arrendevoli, nonostante tutto, seppur covano dentro rabbia contro il mondo del lavoro e contro la politica. Ma nelle mense trovano spazio, ascolto prima ancora che un pasto, gli operatori infatti riescono a supportare ed incoraggiare quanti prendono parte alla mensa, che resta l’unica realtà a cui potersi rivolgere per chi è in difficoltà. E se il mondo istituzionale e politico fino a qualche tempo fa restava a guardare ora sembra proprio che qualcosa si stia muovendo contro l’esercito dei poveri, infatti, è stata varata una misura di contrasto alla povertà: il reddito di inclusione, che dovrebbe coinvolgere due milioni di persone. Il reddito di inclusione crea un percorso per le famiglie in difficoltà, infatti non si limiterà solo a dare un sostegno economico alle famiglie in condizione di povertà ma si prenderanno in carico questi nuclei familiari con l’obiettivo dell’uscita da questa condizione guardando anche al lavoro e all’insieme dei servizi sociali. Si chiama reddito di inclusione ma si legge sotto l’acronimo di “Rei”, che interesserà circa 400 mila famiglie, per un totale di circa 1.5 milioni di persone. Famiglie con figli minori, disabili, donne in gravidanza e over 55 disoccupati in condizioni di disagio. L’accesso avverrà attraverso il modello Isee, questo permetterà di tenere conto delle famiglie che pagano l’affitto. Potranno accedere al beneficio anche alcuni proprietari di prima casa in povertà. La soglia per ottenere il beneficio sarà indicata nei decreti attuativi ma dovrebbe aggirarsi intorno ai 6 mila euro. L’importo mensile di aiuto non potrà superare i 485 euro al mese, ma l’importo sarà legato al numero dei componenti della famiglia e alla situazione reddituale. Per evitare che sia un disincentivo alla ricerca di lavoro, l’assegno verrà dato almeno in parte e per un periodo anche dopo un eventuale incremento di reddito. Il Rei sarà assegnato solo con l’adesione ad un progetto personalizzato di attivazione e inclusione sociale e lavorativa. Le risorse stanziate per il piano sono di 1.18 miliardi per il 2017 e di 1.7 per il 2018. Misure che non sembrerebbero fini a se stesse, fatte di incentivi m anche di sostegno sociale, eppure un primo tentativo era già stato fatto con il “SIA”, Sostegno Inclusione Attiva, fallito in molti comuni anche del Sud per la carenza di personale, in primis assistenti sociali che potessero pianificare e concordare con l’utenza il progetto personalizzato di inclusione, previo il monitoraggio costante. Sembrerebbe proprio che le basi di aiuto ci siano ma manca il personale per attuarlo: un cane che si morde la coda. Sarà questa la volta buona?