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Italia made in China

Made-in-Italy
Falliscono le imprese.Si abbassano le serrande,compaiono i cartelli “cedesi attività”,”vendesi”.Finisce l’era made in Italy.L’era delle piccole botteghe,dei piccoli negozietti.I piccoli imprenditori vengono risucchiati dalla crisi e quel “cedesi attività”,quelle attività fallite,quei negozi talvota messi all’asta finiscono nelle mani dei Cinesi.

Loro che arrivano da lontano,con il loro saper fare tutto,con i loro soldi e investono nel mercato italiano,aprono i loro negozi che vendono di tutto e a poco prezzo,lavorano sette giorni su sette e sfoggiano un sorriso accattivante come se il tempo non passasse per loro.
Guai a dirgli qualcosa o ad inviargli i vigili per dei controlli la risposta è:”cosa volete,questa è casa mia”.

Ecco i cinesi hanno trovato casa in Italia mentre gli italiani perdono la casa,il lavoro,il successo ed il Governo resta a guardare la fine di un marchio italiano,della piccola imprenditoria e la fuga delle giovani generazioni che non puntano neanche più al Nord-ormai anche il triangolo industriale è storia passata-ma all’estero.

Ci risveglieremo mai?Tuteleremo ancora quel poco che ci è rimasto anche e soprattutto con una pacifica convivenza tra italiani e cinesi,ma tuteliamo ancora qual poco che ci rimane.Vi prego!

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Quel che resta della Concordia

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Il gigante del mare. Il relitto inabissato che per anni adagiato su un fianco ha fatto da scenario all’isola del Giglio, ad uno degli specchi d’acqua più belli d’Italia, da ieri ha lasciato l’isola. La Concordia in queste ore è in viaggio, l’ultima rotta verso Genova, il porto che la ospiterà e smantellerà.

30 mesi dopo, il relitto che divenne la trappola di morte per 32 persone e l’incubo dei tanti passeggeri, lascia l’isola che l’ha accolta, ospitata. La Concordia, un gigante del mare, oltre 114Kg di starza, 190 metri di lunghezza, 5 ristoranti,oltre 5000 cabine,era un vanto della flotta. Nave sfortunata. Nel 2008 per il forte vento urtò contro il molo di Palermo. Due incidenti in sette anni di navigazione. Nel 2005 quando venne inaugurata,la tradizionale bottiglia di champagne non si ruppe contro lo scafo. E chi và per mare sa che è il segno della mala sorte. Saranno le quattro inchieste della magistratura a dare un nome e una spiegazione a questa esperienza trasformatasi in tragedia ma soprattutto a pagare per la morte delle vittime.

Una notte indimenticabile quella del 13 Gennaio 2012. Un boato, come un terremoto, una serie di black-out. Sulla Costa Concordia è il panico. I turisti sono a tavola,dagli altoparlanti le prime informazioni. Prima della mezzanotte la nave comincia a imbarcare acqua,si piega su un fianco,il comandante punta verso l’isola del Giglio. Ai passeggeri viene ordinato di indossare i giubbotti,comincia l’evacuazione. Le scialuppe vengono calate in mare ma è il caos.

E’ notte quando arrivano i soccorsi per mare e per terra, quello che si trovano davanti è drammatico. Uno squarcio sulla fiancata della nave e lo scoglio incastrato nello scavo. Le luci degli elicotteri disegnano i contorni della tragedia. All’alba al porto non ci sono barche ma solo scialuppe di salvataggio e occhi di paura.

Oggi che il gigante del mare ha lasciato i gigliesi restano i ricordi. Quel che resta della Concordia è un ricordo indelebile e doloroso. 32 vittime che nella loro vacanza hanno trovato la morte. Un cadavere ancora disperso. Gli atti di eroismo di chi ha ceduto il proprio posto sulla scialuppa ad una donna o ad un bambino, perdendo la vita. Chi per giorni ha atteso i soccorsi stipato negli intercapedini della nave ma non ce l’ha fatta. Un comandante che a gambe levate è stato il primo a scappare, che oggi si fa fotografare sorridente e abbracciato a belle donne, che si augura un disastro ambientale –affinchè la nave non arrivi a Genova.

Indimenticabili resteranno le parole del Comandante De Falco: “Lei deve dirmi se ci sono bambini, donne, persone bisognose di assistenza… Vada a bordo, Ca…!”

Ma della Concordia resta un’operazione unica al mondo, il lavoro di squadra di operai italiani e stranieri, di un’isola che si è mostrata solidale e disponibile, che ha accolto tutti con amore ed a braccia aperte, restano le storie d’amore che dalla tragedia sono nate. Come quella di Virginia e Simon. Lui americano e lei gigliese. La difficoltà di dialogo. L’abbraccio dei due quando lui ha lavorato all’operazione più delicata per la Concordia. Il loro amore è volato fino al Kent e tra un mese nascerà un bambino.

La Concordia è anche questo. Ma la Concordia dovrà anche essere giustizia per le 32 vittime e per tutti coloro che si sono salvati ma non potranno mai dimenticare ciò che hanno vissuto.

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La strage che ferì l’Italia

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23 Maggio 1992 il cielo su Capaci si scurisce. Banchi di nubi scure salivano dal mare e si addensavano in modo assai inusuale. La terrà tremò. Non fu un terremoto. È mezza tonnellata di tritolo che fa saltare in aria Giovanni Falcone. L’ autostrada che da Punta Raisi porta verso Palermo prima sussulta, si solleva di qualche metro, si muove come un serpente. E poi si apre.

Uno squarcio. Sembra che ci sia un vulcano in eruzione. Butta fuoco in cielo. Inghiotta pezzi d’asfalto, alberi. È morto Giovanni Falcone. È morta sua moglie Francesca Morvillo. Sono morti Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo. Tre poliziotti della sua scorta, nome in codice Quarto Savona 15.

E’ la strage italiana. La ferita che l’Italia non riuscirà mai a richiudere. E’ quella che verrà ribattezzata come “l’attentato di Capaci.” Mafia e non solo mafia dietro il massacro. “Falcone assassinato”. Intitolava così “La Repubblica” del 1992. Una strage che ferì l’Italia di quegli anni che lottava per il fresco profumo della libertà.

Quel fresco profumo di libertà che inseguivano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Inghiottirono lacrime e timori,paure e perplessità. Ebbero il coraggio eroico delle battaglie e quello, ancor più grande, del comune dovere d’ogni giorno. Insegnarono coi fatti la dignità della vita .Uomini che sono stati testimoni coerenti della propria vocazione,capaci di andare fino in fondo per amore del proprio lavoro e della propria terra.

Il loro impegno,la loro vita l’hanno dedicata a cercare il fresco profumo della libertà. Quel profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e della complicità. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino,hanno lavorato in una terra di indifferenza e di mafia,la Sicilia. Hanno svolto la loro professione di magistrato,tra segreti di giustizia e fedeli collaboratori. Non si sono chiesti se alcune azioni andassero portate a termine, ma solo il modo con cui affrontarle.

La loro vita ci testimonia che questo principio, non rimase un bel proclama un po’ retorico, ma fu vissuto quotidianamente. Fecero di tutto per non diventare un facile bersaglio della mafia, e immolarsi alla criminalità per mancanza di attenzione. Certo questo gli è costato molto, hanno di fatto rinunciato ad ogni forma di libertà almeno 11 anni prima della loro morte, quando non si sono concessi più un’ ora d’aria senza scorta, hanno spesso contemplato il sole da dietro i vetri blu della loro auto blindata, hanno diffidato anche di un caffè offertogli magari in buona fede, hanno rinunciato ad ogni abitudine, anche la meno pericolosa.

Ventidue anni dopo l’Italia non può e non deve dimenticare le pagine più dolorose e due uomini onesti e puri. L’Italia ancora oggi è chiamata a lottare contro ogni forma di mafia e di criminalità, per il fresco profumo di libertà, per la coerenza e per non lasciare invano il sacrificio di Falcone e Borsellino.

Lo stesso Falcone diceva: “Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.”

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Trenitalia non si scusa per il disagio

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Un treno per Salerno. Un viaggio, che in macchina, dovrebbe durare mediamente una quarto d’ora,mezz’ora. Questo treno che prevede fermate ad ogni stazione, ci impiega ore. Parte da Napoli o da Formia, momentaneamente da Torre Annunziata. Alla partenza accumula minuti di ritardo, anche mezz’ora. La voce elettronica non dà spiegazioni. Trenitalia si scusa per il disagio.

Salgo a Pagani (Salerno), ora di punta: le 08.00 del mattino. Spesso le carrozze sono inagibili, i motivi, sconosciuti. Pochi vagoni per un treno che quotidianamente prendono lavoratori e studenti. I treni successivi accumulano ritardi e così i viaggiatori sconfortati si riversano sul treno delle 08.00. Nelle carrozze a scompartimenti molte persone affollano in piedi i corridoi. Gli occhi un po’ stanchi, le menti nei sogni di mezz’ora prima, l’espressione rassegnata di chi sa che non ci sono altre alternative. L’occhio all’orologio per contare i minuti di ritardo.

Un muro umano di persone in corridoi stretti, le voci in sottofondo di chi si lamenta, di chi si racconta. Più il viaggio prosegue più i programmi di tanti sembrano saltare. A consolare ci pensa il paesaggio roccioso e il mare che da Vietri in poi si intravede. L’odissea però del viaggio continua. Arrivati a destinazione mezz’ora dopo l’orario previsto è difficile poter scendere. Una calca umana. La foga di scendere è tanta, tutti hanno fretta. Ma Trenitalia non si scusa per il disagio.

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L’8 Marzo che vorrei….

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Svegliati. Il giorno ti chiama
alla tua vita: il tuo dovere.
A nient’altro che a vivere.
Strappa ormai alla notte
negatrice e all’ombra
che lo celava, quel corpo
di cui è in attesa, sommessa,
la luce nell’alba.
In piedi, afferma la retta
volontà semplice d’essere
pura vergine verticale.
Senti il tuo corpo.
Freddo, caldo? Lo dirà
il tuo sangue contro la neve
da dietro la finestra;
lo dirà
il colore sulle tue guance.
E guardi il mondo. E riposa
senz’altro impegno che aggiungere
la tua perfezione ad un altro giorno.
Il tuo compito
è sollevare la tua vita,
giocare con lei, lanciarla
come voce alle nubi,
a riafferrare le luci
che ci hanno lasciato.
Questo è il tuo destino: viverti.
Non devi fare nulla.
La tua opera sei tu, niente altro.

E’ una poesia di Pedro Salinas, tratta da “La voce a te dovuta”, 1993.

La donna che nasce, che vive. La donna che nasce da una costola. La donna che ha un giorno dedicato a sé per essere festeggiata, ricordata. Ma la “giornata internazionale della donna” o “festa della donna” è stata fissata per ricordare le conquiste economiche, politiche e sociali delle donne, ma anche le discriminazioni e le violenze che subiscono ancora in molte parti del mondo.

Le donne un universo da esplorare, da scoprire, da capire. Le donne che nel nostro paese sono ancora poche, nulle. In questi giorni c’è un dibattito sulle quote rosa, ma c’è bisogno di parlarne, c’è bisogno di inserirle per forza come un oggetto che tutti hanno e che l’Italia ancora non ha nel mondo del lavoro, nel mondo politico, sociale, economico?

L’8 marzo che vorrei non è fatto di ingressi gratuiti ai musei, di taxi da prendere senza pagare, di pacchetti benessere che vengono regalati, di mimose distribuite. Né vorrei analisi, discorsi, omaggi che si esauriscono dopo un giorno.

L’8 marzo che vorrei deve guardare avanti, oltre. Di progetti che non devono esaurirsi in poche ore, perché concentrarsi sull’istante è un atto di egoismo.

L’8 marzo che festeggiamo quest’anno cade in un momento in cui il mondo politico e intellettuale si spacca sulla parità di genere nella legge elettorale: non mi sorprende, ci sono scuole di pensiero e le accetto, è importante che ci siano opinioni diverse e che siano rispettate, ma che la discussione non porti alla spaccatura di femminismi, altrimenti ci saranno battutine argute, battutine contro le donne o donne da sostituire quando lo si ritiene opportuno.

Il dibattito che in questi giorni tiene banco dimostra che la questione delle pari opportunità non è mai stato affrontato, non almeno seriamente. La si è osservata dall’esterno, tollerata, utilizzata quando ne era opportuno. Ma mai fatta propria.

Ma ci tocca vedere un 8 marzo di disuguaglianze, di lotte, di donne che vengono uccise, di violenze inaudite.

L’8 marzo che vorrei è quello che ci impone a guardare oltre il preconcetto di una bella donna, magari ben vestita che forse ha ottenuto il lavoro solo per la sua bellezza o perché ha portato a letto il capo.

L’8 marzo che vorrei è quello in cui si spengano i microfoni ad un giornalista che avvicina una giovane ministra e gli chiede com’è la sua vita sessuale. La donna non è solo sesso ma è intelligenza, potere, classe, forza ed energia. Lo ha dimostrato tante volte.

L’8 marzo che vorrei è quello dove si pensa alle bambine, alle ragazzine delle piccole realtà del sud, dove ci sono mentalità forti e radicate. Dove se non sei fidanzata hai un marchio, dove devi pensare al matrimonio ed ai figli, perché la donna è vista anche-purtroppo-come una macchina che sforna figli e da confinare in casa.

L’8 marzo che vorrei…

E buon 8 marzo o a tutte e tutti, nonostante tutto e forse proprio per questo.

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Che cos’è l’amore?

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“L’Amore è una nebbia che scompare all’apparire della realtà.” Charles Bukowski

Una celebre frase che ricorre in un altrettanto celebre film made in france: “L’amore dura tre anni”, scritto e diretto da Frédéroc Beigbeder

Due frasi controcorrente. Due frasi opposte. Due frasi facce di una stessa medaglia: l’amore che per lo scrittore americano scopare e quello che ha un tempo del regista francese.

Ma cos’è realmente l’amore? Me lo sono chiesta qualche giorno fa, dopo lo sguardo penetrante e forte della donna che mi ha dato la vita e mi ha cresciuta: mia mamma. Dopo che lei con la sua saggezza, il suo sguardo di mamma ha capito che il mio cuore batteva più forte, che forse una leggera cotta mi attraversava. Ed ora che sono più grande, più matura, ora che vivo la vita da adulta, con lo studio, i progetti futuri, i miei sogni lei ha paura che l’amore non solo possa colpirmi e farmi male, ma possa annullarmi.

Ma cos’è l’amore? Quello dei miei genitori saldo e forte che dura da 32 anni ormai, che ha vissuto tanti ricordi, esperienze, sensazioni, alti e bassi, nevicate e primavere?

Vinicio Capossela direbbe: “Chiedilo al vento che sferza il suo lamento sulla ghiaia del viale del tramonto all’amaca gelata che ha perso il suo gazebo alla stagione andata all’ombra del lampione san scucì.”

Io me lo sono chiesta, ci ho pensato a lungo, pensando anche ad una persona a cui associo l’amore, forse perché ora vedo solo quella di persona, forse perché vedo lo specchio dell’amore dei miei genitori.

Ma a parole mie, l’amore è una casa calda, accogliente, casa tua. Una casa che hai costruito giorno dopo giorno, mattone su mattone, sacrificio su sacrificio. Il tuo angolo, il tuo spazio, il tuo mondo. L’amore è abbracciare la persona che stimi e che hai scelto. L’amore è fidarsi, volersi bene. L’amore è osare, sì osare, prendere scelte controcorrenti, quelle che non si aspetta nessuno ma che prendi, forse stupendo anche te stesso. L’amore è quando ti assumi le responsabilità. L’amore è quando ami e basta. L’amore è quando ridi anche senza motivo, quando apri gli occhi e c’è il sole. L’amore è quando hai voglia di sentire una persona, abbracciarla, viverla. L’amore è quando è lontano ma vicino nel cuore e nel pensiero.

Non esistono amori impossibili se non impariamo ad amare noi stessi, non impariamo a conoscere per primi noi l’amore che è misto anche alla follia.

Ecco questo è l’amore secondo me.

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#diamociunconsiglio by Corriere della Sera

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L’hastag scelto è #diamociunconsiglio. Un consiglio al femminile. Un consiglio da donna. Un consiglio per l’8 Marzo, giorno in cui si festeggia la festa della donna. Una festa ormai povera dei suoi significati, del suo senso. Mimose gialle che non ci rappresentano più ed una festa paragonata al primo maggio. Un ricorrenza e un rituale ormai privo del suo significato un po’ come la stessa festa dei lavoratori.

Ma essere donne è grinta, coraggio, determinazione, forza, energia, solarità, è vivere. Donne che hanno una voce e devono farla sentire, senza mai abbassare lo sguardo davanti alle discriminazioni di genere, in casa come al lavoro o in famiglia. Mai abbassare la guarda sul Femminicidio e la violenza sulle donne.

Così per festeggiare le donne, ispirandosi al Guardian, il Corriere della Sera ed il blog “la 27esima ora”, lanciano un laboratorio creativo virtuale, al grido di #diamociunconsiglio.

Donne che troppo spesso sono costrette ad ascoltare consigli non richiesti, frasi fatte e lamentele. Per spezzare la catena, attraverso un “selfie” si può scrivere un suggerimento per se stesse e per le altre donne seguito dall’hastag #diamociunconsiglio.

Potete inviare i vostri selfie via mail (27ora@rcs.it) oppure tramite Twitter @La27ora usando l’hastag #diamociunconsiglio.

Un gioco che non ha regole ma sono libertà.

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“Chiara ti abbiamo salvato!”

http://www.youreporternews.it/2014/napoli-donna-segregata-in-casa-per-8-anni-al-vomero/

Una casa lager, una pattumiera di rifiuti, il buio come cielo, un odore nauseabondo ed una donna piccola, minuta, rannicchiata a terra, dietro un divano, con indosso pochi indumenti ed un phon per riscaldarsi. Un inferno come casa.

Accadeva da otto anni nella Napoli bene, al Vomero, in un modesto appartamento del quartiere. Chiara, 36 anni, da otto anni era segregata dalla madre all’interno dell’appartamento fino all’arrivo degli agenti della polizia di Napoli. La giovane è stata trovata in evidente stato di malnutrizione e deficit psico-fisico. La madre, un’insegnante di francese, di 69 anni due volte a settimana le portava da mangiare, lasciando sul pianerottolo di casa le buste, ora è ai domiciliari con l’accusa di sequestro di persona aggravato e continuato, lesioni personali e maltrattamenti in famiglia.

La scoperta choc è avvenuta nel pomeriggio di venerdì, a conclusione di indagini che duravano ormai da qualche tempo. Gli agenti congiuntamente ai vigili del fuoco hanno accertato che la porta dell’appartamento era chiusa dall’esterno. Sul pianerottolo di casa si avvertiva un cattivo odore.

“Chiara ti abbiamo salvato!” Questa la frase di uno degli agenti di polizia che appena entrato in casa si è trovato di fronte un appartamento lager e una giovane donna minuta e infreddolita che cercava cibo.

Chiara è stata salvata da un destino segnato e scritto da una madre-che secondo le prime ipotesi non aveva mai voluto accettare la figlia-. Un figlio può anche non essere accettato, ma cos’è l’accettazione, forse l’abbandono, l’incuria, rinchiuderla in casa fino alla fine dei suoi giorni, privandola della vita, della bellezza della vita?

Una storia choc ma anche una storia di indifferenza. Chiara era sola in quell’appartamento ma anche nella vita, di lei non se ne curava né la mamma-che ne risponderà nelle sedi opportune-, né i familiari. Come è possibile che un fratello-seppur viveva in un’altra regione-, non chiedeva di lei, non se ne preoccupava. L’indifferenza che raggiunge anche i condomini che hanno taciuto e respirato l’odore nauseabondo che finiva quando chiudevano dietro di loro la porta di casa, ma in quell’appartamento c’era una vita umana desiderosa e bisognosa d’aiuto.

Si può essere così indifferenti? Si può guardare dall’altra parte senza far finta di niente anche davanti alla vita umana?

Pare di sì in questa società.

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Bulle della società

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Trentamila condivisioni in poche ore per il video più choc che la rete abbia mai ospitato. Vittima una ragazzina di poco più di quattordici anni aggredita da una coetanea all’uscita di scuola, sotto gli occhi di una quindicina di ragazzi. La vittima viene presa a calci, strattonata per i capelli, finisce a terra. Piange. Urla. Chiede aiuto.

Inaudita violenza che si fonde al divertimento sadico dei compagni che assistono senza una mossa, incitano alla violenza, riempiono di parole la ragazzina che ormai è a terra dolorante, fino all’obbrobrio della diffusione del video. Condiviso da trentamila giovani.

A vederlo tra i tanti giovani anche la cugina della vittima, Sarah. E’ stata lei ad avvertire la zia. La scoperta dell’orrore, la vergogna di un paese in cui neanche più i giovani sono civili, le ferite da curare, la denuncia e il massacro della tv e del web.

La bulla. “La Giovi” questo il suo nickname in uno dei social network più amati dai giovani d’oggi non appare per niente pentita e insiste dicendo che la giovane le botte le meritava, quasi le cercava. Molti i commenti dei ragazzi che fanno paura, rabbrividiscono e sono molti a favore della bulla. La colpa per molti è della vittima, Sarah, che poteva farsi gli affari suoi.

Ma che colpa ha questa giovane ragazza? Aver alimentato la gelosia della bulla perché la sua migliore amica stava con l’ex fidanzato di lei? Mi dispiace ma non è una scusa. Non lo è affatto. La violenza và condannata.

La colpa non è solo della bulla ma del branco. Di tutti quei ragazzi che hanno assistito senza muovere un dito, senza chiamare aiuti, senza chiamare i soccorsi. Di tutti quelli che vigliacchi sono tornati a casa ed hanno caricato il video senza preoccuparsi degli ematomi del dolore fisico e morale che Sarah provava. Senza neppure avvertire i suoi genitori.

La colpa è dei genitori. Sì di loro. I figli sono lo specchio dei genitori. Certo crescono, diventano grandi, vivono nella società, perdono parte dei valori e dell’educazione che i genitori hanno loro inculcato ma non diventano questi ragazzi.

I figli della nostra società sono violenti, scorretti, non sanno vivere in un questo mondo. Vanno puniti. Sarah non potrà mai dimenticare quanto accaduto, poterà per tutta la vita i segni di un episodio violento e orrendo, lo ricorderà per sempre. Ma lei e tanti altri ragazzi vittime delle torture dei bulli vanno puniti. Vanno allontanati per un periodo dalle loro case, dai loro agi, dei loro genitori-troppo protettivi. Vanno portati all’interno di strutture per far capire loro le regole, il rispetto e il valore della vita.

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Mamma potrò portare il tuo cognome

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Cambiano i tempi e cambiano anche le vedute. Le donne che conquistano il voto, poi il divorzio, poi il mondo del lavoro, diventano protagoniste e la loro vita si divide tra il tempo per sopravvivere, tra casa e lavoro. Le donne che nel 2014 conquistano anche il diritto a dare il proprio cognome ai loro figli.

La notizia è di qualche giorno fa e porta con sé polemiche e fratture. La Corte Europea dei diritti dell’uomo ha sancito un diritto il cognome materno. L’organo europeo ha condannato l’Italia definendo la regola del solo congome paterno una discriminazione per le donne.

Se un papà e una mamma vogliono dare al proprio figlio o alla propria figlia il solo cognome materno, hanno il diritto di farlo e nessun funzionario dell’anagrafe o magistrato di qualsiasi grado può loro impedirlo. Lo ha decretato la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, condannando l’Italia per aver violato i diritti di una coppia di coniugi milanesi, che avevano deciso di dare il cognome materno alla loro bambina nata nel 1999. Più tardi avevano deciso la stessa cosa anche per gli altri due figli. A bloccarli ci pensò lo Stato italiano.

Allora come anche oggi in Italia è consentito portare il doppio cognome ma non il solo cognome materno. Sul caso “pilota” di Maddalena negli anni si acceso un dibattito che si è consumato anche nelle aule di tribunale. Dopo una lunga battaglia legale c’è una sentenza, che sarà attiva fra tre mesi, dove i giudici di Strasburgo dicono che l’Italia deve “adottare riforme legislative o di altra natura per rimediare ai diritti violati. Ed in particolare al diritto di non discriminazione fra i genitori, insieme con il diritto al rispetto della vita familiare e privata.

La sentenza dalla Corte europea si basa le sue sentenze sulla convenzione internazionale dei diritti dell’uomo. Il plauso alla sentenza europea è arrivato anche dal premier italiano Enrico Letta che in un twet ha scritto che l’Italia dovrà adeguare le norme sul cognome dei nuovi nati ed è questo un obbligo.

Ma basterà un cognome per legare un figlio sempre più alla mamma?
Diventerà una moda quella di dare il solo cognome materno?

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