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Come è stato il mondo del sociale e le persone nel 2021 dopo l’assordante “sveglia” del covid-19?

Il 2021 resterà nella memoria collettiva come l’anno accolto con fiducia e speranza, quella riposta nella scienza e nei vaccini, quello che ci avrebbe dovuti traghettare fuori da un corso storico inaspettato ed improvviso. Invece, tutto il mondo ha subito gli effetti di uno “stress test” di cui ancora oggi non si conoscono gli effetti complessivi nel breve e nel lungo termine. La pandemia da covid-19 ha innescato un profondo cambiamento di tutti gli aspetti che fanno parte della vita: dalla politica, all’economia, dai rapporti interpersonali a quelli sociali, dalla tecnologia al mondo dell’istruzione. Un anno che sta per finire e che ci spinge a trovare risposte alla domanda più complessa di tutte: come è stato il mondo nel 2021 dopo l’assordante “sveglia” del covid-19? Economisti, sociologi, esperti del sociale,ricercatori, filosofi, ognuno in quest’anno ha trovato aspetti nuovi e talvolta critici. Senza dubbio ha aperto le porte ad un termine quasi sconosciuto ai più nella vita frenetica nel quale siamo abituati a vivere: la speranza, quella a cui tutti si sono aggrappati, con la scoperta in tempi record del vaccino. Mai prima d’ora è successo che la scienza trovasse in tempi ristretti ed in piena emergenza una risposta rapida. Insegnandoci a sostenere e a credere nel progresso e nella scienza. Seppur in molti è prevalso lo scetticismo e la critica, sacrosanta in un paese democratico, ma l’allarmismo per attaccare la scienza, quello è un’altra cosa che nulla ha a che vedere con la critica ed i dubbi. E’ stato un anno che ha spinto la politica ad un slancio economico forte e chiaro, una visione ottimistica del futuro attraverso gli investimenti, pubblici e privati. L’altro aspetto importante è stata la capacità di adattamento dell’uomo alle nuove tecnologie. Nel giro di pochi mesi molti hanno dovuto sperimentare lo smart working o i benefici della tecnologia in ogni ambito: dalla didattica a distanza agli affetti lontani, sino all’uso della stessa in telemedicina o nell’automazione delle industrie. Un reminder di come le avversità spesso forzino le società a svilupparsi. Ma quest’anno così “innovativo” è stato anche l’anno che ha acuito le povertà, da quella economica a quella scolastica, lavorativa e sanitaria. Crescono i nuovi poveri, il divario all’interno della società si allarga. Le misure di contrasto alla povertà sono poche e rappresentano un palliativo molto flebile. Le persone non riescono a comprare generi di prima necessità, curarsi per molti è un lusso, le liste d’attesa della sanità pubblica si allungano sempre di più, al Sud è ancora peggio, si fa i conti con liste d’attesa già lunghe a causa della mancanza di fondi e di personale, ma si aggiunge anche la richiesta da parte dell’utenza sempre maggiore. La povertà colpisce ogni fronte e senza esclusione di colpi. E poi ci sono gli esseri umani che in questa pandemia sembrano bussole impazzite. La pandemia secondo molti sarebbe stata uno spartiacque che avrebbe segnato il prima ed il dopo, ma non ha fatto altro che rivelare la rimozione delle relazioni. In realtà la pandemia ci ha rivelato come senza relazioni buone e sane, la vita umana diventa problematica. La sfida post pandemia dovrebbe essere coltivare i beni relazionali anziché un individuo che compete per il successo e per consumi sempre più volatili, privi di una relazionalità umana significativa. Abbiamo lasciato che la distanza fisica – giusta- che difatti è solo spaziale, divenisse anche sociale, in molti casi con la “sindrome della tana”, molti si sono rifugiati anche dopo le limitazioni all’isolamento nel proprio ambiente di vita, con rapporti tramite i mezzi di comunicazione, dimenticando i comportamenti gregari. Le persone umane hanno bisogno di relazioni come dell’aria o del pane, ma bisogna imparare a distinguerle. Si può avere una relazione interumana ed una comunicazione anche senza toccarsi, e l’anima è capace di relazionarsi gestendo il proprio corpo. Il messaggio dovrebbe essere che non si tratta di “stare lontano dagli altri”, ma di imparare a come comunicare e scambiarsi dei beni assieme, anche solo dei piccoli gesti o degli sguardi, osservando la distanza fisica. Ma siamo realmente in grado di farlo? Farlo, significa mostrare sentimenti come anche l’altruismo, significa tornare a mettersi in discussione, significa confronto, e questo sembra proprio che sia un po’ perso. La pandemia – riprendendo le parole di Donati, docente di sociologia a Roma, si combatte certamente con i vaccini, ma prima e dopo è ancor più utile saper gestire le relazioni che evitano la diffusione di tutti i tipi di virus, non solo quelli sanitari, ma anche quelli ideologici e culturali che non sanno confrontarsi con la realtà delle relazioni sociali, e quindi generano sempre nuove pandemie.

Siamo giunti alle battute finali di questo 2021 così caotico, così complesso, così strano, che ha tolto e ha regalato, che ci interroga. E’ stato un anno di sociale, lo abbiamo raccontato – speriamo sempre con il piglio giusto- a voi lettori abbiamo lasciato sempre lo spazio di riflessione e di critica, a voi l’augurio di un anno migliore secondo ideali e obiettivi che ognuno di voi si è posto, augurandoci di leggerci nel nuovo anno che speriamo sia più sereno e ottimista. Grazie per averci letto e al 2022….

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Relazioni difettose: la fine di un amore e la solitudine delle amicizie latitanti. La realtà quando si è adulti

Ero in dubbio se affrontare un argomento così attuale, ma anche silenzioso, nascosto nei meandri di vite che all’apparenza sembrano perfette, un argomento intimo, che però credo vada condiviso, il senso di un blog è anche questo, almeno credo. Amori strani, amori imperfetti, relazioni tossiche, relazioni difettose, storie d’amore ad un passo da progetti importanti, che naufragano quando meno te l’aspetti. Un pugno dritto in faccia. Il cuore è stordito, l’animo vaga tra i ricordi, le bugie, le cose che non hai visto, il dolore, la sofferenza di chi pensavi di conoscere bene, le lacrime che sembrano infinite. Resta una vita da ri-orientare, da riassettare. A chi nella vita da adulto non è capitato? Ti ritrovi spesso su un divano a volte senza fare la doccia, in una vita che sembra vuota e spenta, fuori ed intorno c’è il mondo, chi ti vuole bene ti ripete che gli amori vanno e vengono, che le storie possono finire, che c’è chi sta peggio di te, qualcuno prova a raccontarti la storia di un altro a cui è andata peggio, ma serve a poco, ogni dolore fa male. Ma la realtà è anche la solitudine di vita, a volte per una storia si tralasciano e si perdono gli amici, ma è anche vero che quando si è adulti, gli amici hanno la loro vita: c’è chi si è sposato, chi è in attesa di un figlio, chi vive ormai fuori, e la solitudine di braccia amiche, di un aperitivo in amicizia, l’avverti e fa male ancora di più. E’ uno strappo incredibile, si resta soli col proprio dolore, senza avere la possibilità di condividerlo, senza avere la possibilità di svagarsi. Ci provi a volte a ristabilire rapporti umani e sociali, ma quanto fatica! C’è chi è latitante, chi preferisce allontanarsi per non schierarsi, chi osserva a distanza le storie instagram che posti senza avere neppure la delicatezza di chiederti “come stai?”, a volte basta un solo secondo in un’era digitale dove scriviamo fiumi di commenti e di sciocchezze, senza renderci conto che quel “come stai?”, che ruba un solo secondo della propria vita, può far bene all’altra persona, che suona come una pacca sulla spalla, come un segno di vicinanza. Perché è inutile nasconderci dietro alla scorza dura, quando stai male, vorresti che qualcuno si renda conto di te, che si interessi anche solo minimamente a te. Invece, sembra che soffrire e per amore tocchi solo a te, che nessuno mai ci sia passato, che nessuno possa comprendere come un aperitivo, una telefonata, possa davvero allungare la vita – come recitava uno spot pubblicitario di un po’ di tempo fa-. Il problema è che ognuno è concentrato su sé stesso, dimenticando il senso dell’amicizia, del bene che una parola possa fare, di quanto la vicinanza possa essere terapia, condivisione. Siamo diventati acidi e cinici, pensando che magari se quella persona “si lamenta”, quel lamentio spenga i neuroni positivi che abbiamo. Leggevo durante i mesi di lockdown e di pandemia, che saremmo state persone diverse, migliori, più sagge e più consapevoli, perché avevamo toccato con mano la paura, la solitudine, l’incertezza, il dolore, è bastato un solo momento di “normalità” che tutto è diventato anche peggio di prima. E no, non prendetelo come un piagnisteo e non venitemi a dire che la solitudine è uno spazio creativo da riempire, che bisogna imparare a stare da soli per poi ritrovarsi bene con gli altri, è risaputo che ci sono momenti in cui la solitudine è benessere, è ritrovarsi, ma è una consapevolezza in cui si arriva per gradi. Ma, vi assicuro che quando avresti voglia di un aperitivo e semplicemente di sorridere, quando avresti voglia che il telefono suoni ma non per lavoro, o per chi ti chiede un piacere – tutti bravi lì a conoscerti- quella solitudine è tortura. E’ risaputo che quando finisce una storia distrarsi, tornare a vivere, è un toccasana, ma quando sei adulto e le amicizie sono latitanti, è un doppio baratro. Perché puoi avere un’esistenza di cui non puoi lamentarti: una famiglia alle spalle che ti ama, un buon impiego, una carriera, la possibilità di acquistare qualche capriccio, qualche viaggio, una vita che agli occhi degli altri può sembrare perfetta e quasi da invidiare, ma a volte manca il meglio. E no, non confondetelo col principe azzurro o con la storia perfetta, con l’amore da trovare a tutti i costi, per dimenticare il dolore passato, ma i rapporti umani e sociali, perché quelli ci rendono persone vive.

Pensiamoci.

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Assistente sociale e vita privata, quanto il lavoro influenza le relazioni sentimentali e familiari?

E’ un mattino come tanti, io e la mia collega d’ufficio ci ritagliamo qualche minuto di breefing mattutino, è il giorno dopo una riunione tra colleghi, ci guardiamo un po’ arrabbiate ed interdette e ci chiediamo come possano non capire il nostro lavoro, che vive sempre di pregiudizi e difficoltà, di sentimenti ambivalenti. Ci fermiamo e pensiamo come sia difficile farlo comprendere ai colleghi e quanto possa essere difficile farlo comprendere ad un ipotetico compagno sentimentale. E’ stato l’input che mi ha portata a chiedermi che effetto ha il nostro lavoro nelle relazioni familiari e sentimentali, che condivido con voi. La società in cui viviamo è in continua trasformazione sociale: le famiglie si sgretolano, la crisi sentimentale ed economica invade l’individuo, il mondo cambia e vive di paure e timori, la stessa in cui non solo vivono i nostri utenti ma la stessa in cui viviamo anche noi assistenti sociali. Lo sfondo è tappezzato di sentimenti precari e coppie che vacillano, di uomini e donne ormai cambiate, raro trovare una persona onesta nei sentimenti e legata ai valori. Il sogno dell’incastro perfetto svanisce. E la realtà che ci presentano quotidianamente i nostri utenti è la stessa che potrebbe toccare anche a noi assistenti sociali, e quando capita ti senti un po’ stupido, se non altro presuntuoso, perché pensi sempre che a te non possa accadere, invece siamo tutti figli di questa società, tutti esseri umani. A volte dinanzi all’amore ci manca il coraggio. Siamo bravissimi ad acquistare online schivando le truffe, a gestire molte situazioni, a prenderci cura del nostro corpo, ma tentenniamo di fronte all’altra persona, a quella che ti si approccia con serietà e con interesse, a quella che potrebbe essere l’incastro di due anime, perché abbiamo paura ogni giorno che la fregatura sia dietro l’angolo. Il fatto di trattare per lavoro ogni giorno “aspetti malati” della vita di coppia ci può ostacolare, sia nella ricerca del compagno, sia nel quotidiano: rischiamo di dare uno stereotipo a tutti, usando gli stessi schemi mentali del lavoro pure con l’altra “nostra” persona. Il mea culpa lo faccio io per prima. Pochi giorni fa, scorrendo le foto e le chat di una donna che ha trovato il coraggio di venire fuori da una relazione tossica, ho esclamato alla mia collega “vatti a fidare degli uomini”, oggi che vi scrivo, mi rendo conto che io per prima ho puntato il dito contro gli uomini tacciandoli alla stessa maniera. E’ che il nostro lavoro e qualche delusione che già ci portiamo sulle spalle ci ha fatti diventare apatici e diffidenti. Abbiamo dimenticato attenzione e passione, spontaneità e rilassatezza nel viversi un momento e la magia di un incontro o di un amore, lasciando il posto alla razionalità e a quel “freno a mano” sempre tirato con la quale camminiamo in questa vita così maledettamente imprevedibile. Come professionisti sappiamo bene che quando si interagisce con l’altro sesso nel tentativo di nascere come coppia, occorre evitare la ripetizione di “copioni familiari” compresi gli errori già commessi. Ogni persona è qualcosa di nuovo, che merita di essere vissuta, senza pregiudizi o schemi passati. Del tipo: le colpe degli altri non devono ricadere sulla persona di oggi. Insomma, che iniziare una frequentazione non sia semplice, vivere un nuovo battito di cuore non sia una passeggiata, noi assistenti sociali lo sappiamo bene, eppure dovremmo avere nella mente e nel cuore lo zerbino sul quale sbattere le scarpe delle storie altrui e personali che senza dubbio ci hanno scosso. Perché se le cose sono destinate a funzionare lo rivela il tempo ed il destino, ma anche noi siamo artefici del nostro destino, e questo può avvenire solo con la messa in discussione di ognuno nel gioco relazionale. Amare è l’esperienza più bella per un essere umano che può però incontrare anche sentimenti opposti: violenza, odio, rifiuto. Quindi l’alt è a stare attenti ed in guardia, per non farsi male, ciò vale per gli utenti ma anche per noi. E per dirla alla Troisi: “pensavo fosse amore invece era un calesse!”, mal che vada.

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Neet una generazione a rischio. 1 giovane su 3 non studia e non lavora

Neet, all’Italia il record in Europa: due milioni di giovani non studiano e non lavorano, né inseriti in percorsi di formazione. Un paese che non sa riconoscere le potenzialità dei suoi giovani. E’ questo il quadro che emerge dall’ultimo rapporto sui Neet in Italia. Uno studio firmato dal professore Alessandro Rosina per rete europea StartNet, che sottolinea come nel nostro paese quasi un quarto di chi ha tra i 20 ed i 34 anni vive in una condizione di sospensione, che il docente ha definito “una dissipazione del capitale umano”, rendendo l’Italia con la più alta incidenza in Europa – circa 1 giovane su 3-. Una situazione che è peggiorata ancor di più a causa della pandemia da coronavirus e destinato ad un ulteriore peggioramento. Se è vero che quello dei neet era un fenomeno già ampiamente diffuso prima del virus, lo è anche che il covid-19 ha reso il fenomeno un problema di primaria importanza. Neet è un acronimo nato in Inghilterra e racchiude tutti quei giovani che non studiano, non lavorano né sono impegnati in corsi di formazione. Un acronimo affibbiato ai tanti giovani in tutti il mondo, che per via dei percorsi scolastici non adeguati, per l’altissima difficoltà di entrare nel mondo del lavoro o per cause legate a problemi di tipo sociale e personale – discriminazione, basso livello di istruzione- sono costretti a doverci convivere. Per quanto concerne il nostro paese, i dati che saltano all’occhio sono diversi e di differente natura. Anzitutto il dato relativo al territorio. A livello geografico la fascia che risente maggiormente di tale problematica è il Mezzogiorno, con il 32.6%, rispetto al 19.9% del centro Italia, segue per ultimo il Nord con il 16.8%. Seguono poi le regioni, le principali del Sud-Sicilia, Calabria, Campania, Puglia e Sardegna-, presentano statistiche superiori alla media nazionale. Ma non solo un problema di regioni. I dati fanno emergere come anche all’interno della stessa area, si possono riscontrare differenze significative. In particolar modo in quelle in cui convivono zone rurali e zone edificate o in cui esistono grandi città con importanti zone periferiche, dove le risorse culturali ed economiche della popolazione sono più scarse. Non meno importante poi i dati riguardanti il genere, infatti, secondo il rapporto dell’Istat, il fenomeno neet sarebbe più diffuso tra le donne rispetto che agli uomini. Se i dati spaventano e tutto sembra in una fase di stallo, timidamente qualcosa si inizia a muovere, nel campo politico qualcuno ha sollevato il dibattito, come Susy Matrisciano, presidente della Commissione Lavoro e il Senatore Sergio Romagnoli, che nel giugno scorso hanno affrontato il fenomeno in un convegno. E non è tutto. Anche alcune organizzazioni cercano di trovare una risposta al problema, come la Fondazione Vodafone, che ha dato vita al progetto “LV8”, un’app che offre percorsi di formazione digitale pensati per i giovani che possano fornire loro svariate competenze utili nella ricerca di un impiego. Si tratta però di piccole gocce in un mare che ha bisogno di tornare a navigare con protagonisti i giovani che non possono restare fermi a guardare senza progettualità e futuro, sprecando talento e competenze.

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Riforma processo penale, con la giustizia riparativa si incontrano vittima e autore del reato. Cosa cambia?

Via libera unanime da parte del consiglio dei ministri alla riforma della giustizia. L’ok è arrivato dopo una lunga discussione e una breve sospensione, ora la discussione passa al Parlamento, al quale si è appellato il presidente del consiglio dei ministri Mario Draghi, chiedendo di sostenere con lealtà questo importante provvedimento che porta la firma del ministro Cartabia. L’intervento è corposo: dal reset della durata delle indagini preliminari, al “contingentamento” dell’obbligatorietà dell’azione penale al capitolo sanzioni e riti alternativi, ma soprattutto il ritorno “parziale” della prescrizione. Ma uno degli emendamenti del ddl di riforma del processo penale, disciplina in modo organico il metodo della giustizia riparativa. Nel pieno rispetto della direttiva europea e nell’interesse sia della vittima che dell’autore del reato. Ad oggi l’emendamento prevede l’accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni fase del procedimento, su base volontaria e con il consenso libero e informato della vittima e dell’autore, spetterà al giudice la positiva valutazione sull’utilità del programma in ambito penale. Inoltre è prevista la ritrattabilità del consenso a questi percorsi in qualsiasi momento. L’obiettivo primario della giustizia riparativa è quello di porre attenzione alle dimensioni umane e sociali che investono il crimine. Senza le quali la pena non è altro che una punizione. Al centro della mediazione ci sono le vittime. Non si può restituire ai violenti la possibilità di tornare all’interno della società senza passare dalla giustizia riparativa che mette al centro proprio le vittime. La chiave di tutto è la riparazione, dove per riparare si possono intendere molte cose, a cominciare dal fatto che l’autore ha compreso sino in fondo il disvalore del suo comportamento, eventualmente risarcisca il danno, arrivando all’interazione fra il reo e la vittima, o la sua famiglia. Il mediatore ha il compito anzitutto di scomporre un atto lesivo, cercando di capire cosa abbia prodotto e come lavorare con chi lo ha commesso. Il senso della giustizia riparativa è anzitutto consapevolezza da parte dell’autore del reato commesso, il quale con il supporto di un mediatore ha l’occasione di riparare il male che ha fatto, portando all’obiettivo di abbattere i fenomeni di recidiva. La logica di fondo è abbandonare il concetto che molti hanno “lasciarli dentro e buttare la chiave”, che rischia di non pagare, la sicurezza si potrebbe ottenere con le misure alternative. E’ solo se riusciamo ad avere una visione diversa e ad applicare un paradigma di giustizia innovativo, come avviene già in molti paesi europei, che forse si potrà restituire un autore alla società consapevole. La giustizia riparativa è “un paradigma che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo” (Howard Zehr). Si propone, quindi, l’obiettivo di ricostruire l’equilibrio spezzato tra la società, l’autore del reato e la vittima a causa proprio di una condotta illecita. L’autore del reato è supportato nella presa di coscienza dell’impatto provocato dall’azione illecita da lui compiuta sia nella vita della vittima sia nella società civile, ed è stimolato a porre rimedio alle conseguenze negative del suo comportamento; la vittima è aiutata a recuperare quella stabilità minata dalla sofferenza provocata dal reato; per quanto riguarda la società, si intende ripristinare la pace sociale, anche mediante il reinserimento dell’autore con lavori sociali e il risarcimento dei danni subiti. Un approccio, dunque, molto diverso da quello tradizionale, si tratta di abbandonare la logica della sola punizione del reato con il carcere e la vergogna. La giustizia riparativa è importante ricordare che non si applica solo al settore penale ma anche ai conflitti che si generano all’interno della comunità, della famiglia, della scuola o del lavoro. La giustizia riparativa è un orizzonte culturale che appoggia il rispetto, l’equità, l’inclusione e la partecipazione. Lo sforzo principale è quello di indirizzare il dolore di chi subisce il reato, il reo e la società su qualcosa di nuovo che nasca da esso. Qualcosa che non sia però odio e vergogna o ghettizzazione da parte della società. Gli episodi violenti verso i detenuti non sono nuovi e la società tende ad emarginarli, ciò non restituisce nulla. L’orizzonte culturale deve essere quello in cui ogni comunità diventi riparativa ciascuna per sé. Ce la faremo a cambiare il paradigma giudiziario e culturale in essere?

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Muri di street art per risvegliare le coscienze

L’arte che smuove le coscienze, così le città e le periferie, i luoghi simbolo toccati dalle morti ingiuste ma ricche di significato, tornano a vivere e a smuovere le coscienze civili, diventando testimone di legalità e giustizia nelle nuove generazioni. Qualche giorno fa il famoso street artist Jorit, ha lasciato la sua arte impressa nel ritratto di Marcello Torre, che fu a Pagani (Sa) sindaco e che venne assassinato l’11 dicembre 1980. L’artista ha colto il firmamento del sindaco Torre, riportando come base del ritratto una parte della lettera-testamento che l’avvocato sindaco lasciò nelle mani del giudice Santacroce il 30 maggio del 1980, nel quale egli ribadiva il sogno di una Pagani libera e civile, a servizio della quale si era messo con tanta determinazione ed altrettanta competenza. Un murales che oggi ha il sapore di un memorandum per il governo e per i giorni che stiamo vivendo, in cui a farla da padrona è la notizia della scarcerazione di Giovanni Brusca, boss che firmò la strage di Capaci, colui che azionò il telecomando della strage, ha ricevuto l’applicazione dei benefici previsti per i collaboratori di giustizia “affidabili”, dopo un quarto di secolo in galera.  Scarcerazione che indigna e confonde chi nella giustizia nutre un sentimento di forza e di speranza. Muri che si riempiono di parole e volti, messaggi di speranza e di futuro, ma soprattutto conoscenza per i più giovani a digiuno di storia contemporanea e di esempi veri e leali, la street art è il modo più diretto, semplice e giovanile per arrivare a loro e per “parlargli” di uomini giusti, che con il loro impegno ed il loro sacrificio hanno segnato anni e coscienze, lasciando alle generazioni future un insegnamento di vita, affinché uomini di potere e criminalità organizzata, fossero messi all’angolo da giovani di ideali e di valori, che con coscienza pulita e schiena dritta segnano il gol tanto desiderato dal loro impegno. I murales risvegliano le coscienze ma salvano anche molte zone e periferie da Nord a Sud Italia, e pur restando ancora un fenomeno di frontiera, la street art è riconosciuta nel mondo dell’arte, guadagnando il rispetto delle altre forme artistiche tradizionali ed entrando nelle gallerie di tutto il mondo. Riesce a promuovere l’impegno della comunità, l’inclusione sociale, abbellisce i luoghi, combatte il degrado e promuove e recupera spazi di socializzazione. Una vera e propria soluzione la street art. Segno anche di un percorso di mutazione: quello che un tempo era associato ad atti di vandalismo, di espropriazione dello spazio pubblico ad opera di imbrattatori notturni con scarso senso civico, oggi è considerata una forma di espressione collettiva in grado di raggiungere le masse e di colpire gli occhi e le coscienze, capace di unire culture, generazioni e linguaggi diversi. Una realtà nel quale molte amministrazioni comunali si affidano per rigenerare e qualificare intere porzioni urbane disagiate e degradate. Perché se la periferia si presenta come una spia analitica dello stato di salute di una società, con i murales emergono tutte le contraddizioni e le potenzialità di un territorio e di un contesto urbano. In questo modo l’opera di strada si fa descrizione di quei luoghi contribuendo a risvegliare nelle coscienze di chi li abita la volontà di reclamare la propria esistenza ed i propri diritti. Al Parco Merola di Ponticelli, quartiere della periferia orientale di Napoli, luogo difficile e con scarso accesso ai servizi, c’è poco verde e tanto grigio, ma da qualche tempo nella giungla di cemento spuntano i colori delle grandi facciate dipinte del Parco dei murales, che ha ridato nuova identità al complesso residenziale: un progetto di riqualificazione artistica e rigenerazione sociale, che grazie all’abbellimento promuove arte, valori e consapevolezza anche in un contesto disagiato che si avvicina all’integrazione nelle periferie. Insomma non più muri da imbrattare ma da ammirare la cui forza espressiva è un colpo dritto alle coscienze. Allora c’è da chiedersi se forse abbiamo trovato un modo del tutto nuovo per arrivare ai più giovani su temi sociali di grande importanza?

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Riforma processo penale, con la giustizia riparativa si incontrano vittima e autore del reato. Cosa cambia?

Via libera unanime da parte del consiglio dei ministri alla riforma della giustizia. L’ok è arrivato dopo una lunga discussione e una breve sospensione, ora la discussione passa al Parlamento, al quale si è appellato il presidente del consiglio dei ministri Mario Draghi, chiedendo di sostenere con lealtà questo importante provvedimento che porta la firma del ministro Cartabia. L’intervento è corposo: dal reset della durata delle indagini preliminari, al “contingentamento” dell’obbligatorietà dell’azione penale al capitolo sanzioni e riti alternativi, ma soprattutto il ritorno “parziale” della prescrizione. Ma uno degli emendamenti del ddl di riforma del processo penale, disciplina in modo organico il metodo della giustizia riparativa. Nel pieno rispetto della direttiva europea e nell’interesse sia della vittima che dell’autore del reato. Ad oggi l’emendamento prevede l’accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni fase del procedimento, su base volontaria e con il consenso libero e informato della vittima e dell’autore, spetterà al giudice la positiva valutazione sull’utilità del programma in ambito penale. Inoltre è prevista la ritrattabilità del consenso a questi percorsi in qualsiasi momento. L’obiettivo primario della giustizia riparativa è quello di porre attenzione alle dimensioni umane e sociali che investono il crimine. Senza le quali la pena non è altro che una punizione. Al centro della mediazione ci sono le vittime. Non si può restituire ai violenti la possibilità di tornare all’interno della società senza passare dalla giustizia riparativa che mette al centro proprio le vittime. La chiave di tutto è la riparazione, dove per riparare si possono intendere molte cose, a cominciare dal fatto che l’autore ha compreso sino in fondo il disvalore del suo comportamento, eventualmente risarcisca il danno, arrivando all’interazione fra il reo e la vittima, o la sua famiglia. Il mediatore ha il compito anzitutto di scomporre un atto lesivo, cercando di capire cosa abbia prodotto e come lavorare con chi lo ha commesso. Il senso della giustizia riparativa è anzitutto consapevolezza da parte dell’autore del reato commesso, il quale con il supporto di un mediatore ha l’occasione di riparare il male che ha fatto, portando all’obiettivo di abbattere i fenomeni di recidiva. La logica di fondo è abbandonare il concetto che molti hanno “lasciarli dentro e buttare la chiave”, che rischia di non pagare, la sicurezza si potrebbe ottenere con le misure alternative. E’ solo se riusciamo ad avere una visione diversa e ad applicare un paradigma di giustizia innovativo, come avviene già in molti paesi europei, che forse si potrà restituire un autore alla società consapevole. La giustizia riparativa è “un paradigma che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo” (Howard Zehr). Si propone, quindi, l’obiettivo di ricostruire l’equilibrio spezzato tra la società, l’autore del reato e la vittima a causa proprio di una condotta illecita. L’autore del reato è supportato nella presa di coscienza dell’impatto provocato dall’azione illecita da lui compiuta sia nella vita della vittima sia nella società civile, ed è stimolato a porre rimedio alle conseguenze negative del suo comportamento; la vittima è aiutata a recuperare quella stabilità minata dalla sofferenza provocata dal reato; per quanto riguarda la società, si intende ripristinare la pace sociale, anche mediante il reinserimento dell’autore con lavori sociali e il risarcimento dei danni subiti. Un approccio, dunque, molto diverso da quello tradizionale, si tratta di abbandonare la logica della sola punizione del reato con il carcere e la vergogna. La giustizia riparativa è importante ricordare che non si applica solo al settore penale ma anche ai conflitti che si generano all’interno della comunità, della famiglia, della scuola o del lavoro. La giustizia riparativa è un orizzonte culturale che appoggia il rispetto, l’equità, l’inclusione e la partecipazione. Lo sforzo principale è quello di indirizzare il dolore di chi subisce il reato, il reo e la società su qualcosa di nuovo che nasca da esso. Qualcosa che non sia però odio e vergogna o ghettizzazione da parte della società. Gli episodi violenti verso i detenuti non sono nuovi e la società tende ad emarginarli, ciò non restituisce nulla. L’orizzonte culturale deve essere quello in cui ogni comunità diventi riparativa ciascuna per sé. Ce la faremo a cambiare il paradigma giudiziario e culturale in essere?

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Napoli “capitale” del reddito di cittadinanza, ma a che punto siamo con la misura per eccellenza di contrasto alla povertà?

La spesa del reddito di cittadinanza a marzo nella sola Napoli ha sfiorato quella dell’intero Nord Italia. In totale, secondo le tabelle dell’Inps, le famiglie che hanno goduto di almeno una mensilità del sostegno tra gennaio e marzo di quest’anno sono state 157.000, 459.000 le persone coinvolte nel complesso. Nello stesso periodo nell’intero Nord 224.872 famiglie percepivano il reddito o la pensione di cittadinanza. L’importo medio è più basso al Nord che al Sud. I dati dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale vedono 1,8 milioni di percettori nelle regioni del Sud, 452 mila al Nord e 334 mila al Centro: la regione in testa è la Campania, segue la Sicilia, il Lazio e la Puglia. Prevalgono i nuclei composti da una o due persone, mentre costituiscono il 34% i nuclei in cui sono coinvolti anche i minori. Ammonta a quasi 13 miliardi di euro la somma spesa per il reddito e la pensione di cittadinanza che l’Italia ha speso tra l’aprile 2019 e il marzo 2021. La crisi economica dapprima poi l’avvento della pandemia hanno portato sempre più persone a fare richiesta della misura di contrasto alla povertà. Di fatto, il paradigma della povertà si è totalmente convertito, le famiglie abbastanza autonome ed addentrate nel tessuto sociale ed economico, si sono ritrovate a fare i conti con l’improvvisa povertà economica. Negli ultimi mesi, sempre più famiglie italiane e ancor di più nel Sud Italia, dove già le opportunità lavorative scarseggiavano ed il lavoro era a giornata, si sono ritrovate morose con le utenze e con l’affitto dell’abitazione. L’unica misura ad oggi accessibile con un Isee non superiore ai 9.360 euro, e con requisiti di soggiorno e cittadinanza, è solo il reddito di cittadinanza, che ha visto la platea dei beneficiari ampliarsi sempre di più. Si era detto all’inizio dell’avvento nel 2019 non una misura di assistenzialismo, prevedendo delle condizionalità, cioè dei vincoli per i beneficiari: la sottoscrizione della Did, disponibilità immediata al lavoro, l’obbligo della sottoscrizione di un patto di lavoro coi centri per l’impiego o del patto di inclusione sociale con i servizi sociali territoriali, oltre all’obbligo della partecipazione ai Progetti Utili alla Collettività (PUC). In altri termini un aiuto reciproco: lo Stato assiste economicamente per un periodo di diciotto mesi – durata del beneficio- il cittadino in difficoltà, consentendogli poi attraverso anche gli obblighi previsti il suo reinserimento sociale e lavorativo. Da assistente sociale e cittadina italiana mi chiedo e vi chiedo ma a distanza di più di un anno e mezzo dall’introduzione della misura d’eccellenza di contrasto alla povertà quale il reddito di cittadinanza, che ci avrebbe o comunque nei fatti ci ha uniformato ai paesi europei che prevedono una misura di contrasto alla povertà, è cambiato davvero qualcosa? A che punto siamo?

Il punto forse è quello della non mai partenza. L’Inps eroga i soldi ai beneficiari e su questo nulla questio, ma la ricerca del lavoro, la rete sociale, sanitaria, da creare intorno al beneficiario e al suo nucleo familiare di fatto è ancora ferma. L’identikit dei fruitori del reddito li vede con una scarsa scolarizzazione e senza la minima esperienza informatica, quasi impossibile per i navigator trovargli un impiego. Ad aggiungersi a questo la mancata applicazione dei decreti attuativi di cui avrebbe dovuto occuparsi il Ministero del Lavoro. Infatti, dopo due anni dall’approvazione del decreto 4/2019 con il quale è stato introdotto il reddito di cittadinanza, mancano ancora diversi decreti attuativi, necessari per il funzionamento della misura, senza i quali siamo davanti a poco più di un sussidio. Degli esempi: sgravi per l’azienda che assume il beneficiario del reddito, pari alle mensilità che il beneficiario non prende più. Decreto mai formalizzato. O ancora al beneficiario vengono proposte tre offerte di lavoro congrue, se rifiuta decade il beneficio, assortigliando la platea degli aventi diritto, ma le offerte non sono mai state proposte a molti beneficiari. A questo si aggiunge la scarsa conoscenza degli strumenti informatici: molte persone non posseggono né un pc né uno smartphone, determinando già la prima impossibilità per i fruitori di iscriversi al sito dell’Anpal, luogo deputato all’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Per i navigator e per gli operatori sociali dei comuni c’è una piattaforma che purtroppo non ha interoperabilità: ovvero non vi è dialogo. Un esempio: un beneficiario risulta ancora “attivo” per cui percettore della misura, viene convocato ma ad egli il beneficio è stato revocato o sono venute meno delle condizioni pertanto è decaduto, o egli stesso ha deciso di presentare regolare rinuncia all’Inps, ma la piattaforma è ferma ancora allo stato “attivo”. Ciò capita anche per i deceduti. Da mesi mi ritrovo una donna deceduta da diverso tempo, per la piattaforma ella è da convocare e il suo caso non può essere chiuso in quanto per il sistema risulta percepire ancora il beneficio economico. Una confusione che rallenta il lavoro degli operatori e che non conquista la fiducia dei beneficiari del reddito di cittadinanza. I quali al di là di non aver compreso alcuni obblighi legati alla misura, non comprendono la finalità della convocazione ai servizi sociali e la motivazione per la quale debbano sottostare a degli obblighi: se dall’analisi preliminare – dialogo con egli- viene fuori una problematica anche sanitaria, tale da richiedere un coordinamento con altre figure professionali –di fatto molto difficile perché manca spesso il personale negli enti preposti- per cui molto si chiedono: “ma se percepisco un aiuto perché mi convochi tu? E perché sono obbligato a delle cose ed eventualmente a sottopormi a controlli medici?” E’ lontana la visione che la finalità non è solo un sostegno economico puro assistenzialismo, ma un aiuto globale che investe la sfera sociale, lavorativa, sanitaria, tappe per una piena integrazione sociale.

Il target di cui ci troviamo di fronte è analfabeta o con una scarsa scolarità. Se il mondo del lavoro è andato avanti grazie alle macchine e alla tecnologica, richiedendo quindi conoscenza e competenze anche minime, come si può pensare di potergli garantire un lavoro? Non sarebbe più opportuno prevedere la loro partecipazione nell’ambito dei fondi destinati al reddito di cittadinanza la loro partecipazione a corsi di specializzazione o per l’ottenimento di una qualifica professionale? Nel frattempo però gran parte della popolazione ha già preso il primo ciclo del reddito di cittadinanza 18 mesi, molti hanno già iniziato la replica che durerà altri 18 mesi previo un mese di sosta e si andrà avanti così fino a quando sarà disponibile.

Forse, c’è da chiedersi se tale misura vada rivista e ripensata?

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Superlega, le conseguenze sociali (a cui nessuno ha pensato) nell’idea sfumata della secessione calcistica

Un fulmine a ciel sereno ha scosso le notizie di questo tempo sospeso di pandemia, la Superlega: una competizione privata a numero chiuso alternativa alla Champions League che riunisce le venti migliori squadre europee. Sposato alla nascita da dodici club europei fra cui Juventus, Inter e Milan. Una notizia che ha scosso il mondo del calcio, che da sempre ha unito generazioni e famiglie, diviso nel suo tifo; calcio che da sempre fa sognare i bambini, e fa discutere, oggi più che mai. Le reazioni non sono mancate come anche le perplessità ed i commenti social.  Il progetto è sfumato nell’arco di quarantotto ore, dopo la levata di scudi della singolare unione nella contrarietà di leader politici, parlamento Europeo, istituzioni sportive, tutti i media internazionali, tifosi, allenatori e giocatori, persino delle società che avevano aderito al progetto e che non immaginavano si sarebbero trovate di fronte questo scenario. Le angolature economiche e politiche, sono state ampiamente affrontate e dibattute, ma un’angolatura molti l’hanno dimenticata, quella sociale e le conseguenze sociali di questo progetto. Un mito sembra venir meno, la famosa dicitura “il calcio è di tutti”, la secessione avrebbe fatto emergere come soldi e potere possano decidere e segnare nuove strade con buona pace di tutti, spegnendo i riflettori del popolo e populismo nati proprio nel calcio, curve e tifoserie. Qualcuno l’ha definita moderna rivoluzione, il calcio che cambia ed avanza nel futuro, per altri avrebbe rappresentato il collasso. Di certo è che in tempi moderni abbiamo assistito alla discesa in campo aperto sotto gli occhi attoniti di un mondo che col calcio sogna, tifa, si riunisce, senza alcuna distinzione, di soldi e potere, capiremo solo chissà quando chi però avrebbe vinto questa partita. Segno però che lo sport ed i suoi valori talvolta nobili e di grande insegnamento ai più giovani, sia considerato un pezzo isolato dalla società. Lo sport è di tutti, per tutti, è società, è sociale. E il grande carrozzone del calcio dimentica le conseguenze sociali e di educazione alla vita. Se il meccanismo fosse entrato in crisi, tutto l’indotto del calcio giovanile andrebbe riformato su basi nuove e trasparenti, capaci di trasmettere valori di partecipazione e inclusione, che proprio non si sposano alla nuova ottica che avrebbero voluto della dittatura del reclutamento e della selezione. E la passione, cuore pulsante del tifoso e delle squadre, quella che regge tutto? Quella ha vacillato e rischiato di cedere il posto ad uomini di marketing freddi, calcolatori umani di profitti di successo. Nel 1998, Zdeneck Zeman, che con le sue dichiarazioni sul doping venne accusato di destabilizzare il sistema,  disse “ci sono valori che fanno appassionare la gente, i bambini, al calcio. Io non so se con i soldi si possano compare le passioni della gente”, parole che sembrano oggi a rileggerle una profezia. Il calcio, signori cari ha rischiato di non essere più sociale, ed i club neppure ci hanno pensato, infondo, lo sport è stato rilegato nella visione del business dei grandi club di potere. Il messaggio lanciato sublime è stato forte e chiaro, l’opinione pubblica – che poi si è ribellata- è  vista solo come clienti con buona pace del romanticismo, ormai andato. Ai giovani non si vuole insegnare passione e tenacia, non gli si vuole più lasciare spazio a sogno e fantasia, ma una corsa al successo a tutti i costi, lasciandogli il testimone di un mondo dove i club più forti economicamente possono decidere e vincere. L’analisi psicologica vuole che il tifo calcistico è una necessità incontrovertibile per molte persone, che permette di entrare a far parte di un gruppo, il quale comprende non solo il pubblico ma anche le società ed i giocatori. Perciò quando la squadra vince è anche il tifoso a vincere, e lo stesso ragionamento vale per la sconfitta. Essendo questa relazione fra tifoso e squadra basata sull’aspirazione alla vittoria, che in senso lato equivale ad uno stato di piacere, è scontata la genesi di un rapporto intimo fra i due poli. Un legame di questo tipo con la squadra si ripercuote di conseguenza sul calcio più in generale, e pian piano il tifoso matura la passione per lo sport indipendentemente da quella per la squadra. Un esempio di ciò può essere il bambino che prima viene a contatto con il pallone in televisione e si innamora di una squadra, e più tardi decide di cominciare a praticare lo sport. Il passo successivo avviene quando il tifoso, ormai maturo, sente di dover difendere la propria squadra a qualunque costo, perché in ballo non c’è solo la gioia del successo, ma anche la sua credibilità e la sua identità personale che sono dipendenti dai risultati del gruppo a cui appartiene (quindi della squadra). Nel caso di successo della propria squadra, questo permette al soggetto di mettere da parte i fallimenti della vita quotidiana, e di poter in qualche modo ripararvi, riguadagnando significato personale. Lo scenario sarebbe stato totalmente stravolto da un campionato dove i ricchi giocavano soltanto contro i ricchi, per diventare ancora più ricchi. In una storia che avrebbe avuto un gruppo di grandi club e cinici proprietari che in nome del denaro avrebbero ucciso la passione dei tifosi, che sarebbero diventati solo consumatori. La negazione del calcio. Certo, il progetto è durato quanto “un gatto in tangenziale” ma è stato pensato, studiato e ha visto la luce, seppur passeggera, e questo fa pensare e anche preoccupare. Chiediamoci dove stiamo andando…

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Legge Zan, cos’è il ddl contro l’omotransfobia di cui molti temono?

Sempre più persone, dai volti noti a quelli comuni, sui social si uniscono alla campagna per sostenere l’approvazione del ddlzan, che proprio grazie ai social network viaggia in rete e porta alla ribalta il disegno di legge che tutela le persone contro l’odio verso gli omosessuali, i trans, le donne e i disabili. Un’occasione fondamentale per l’Italia di educare al rispetto e alla libertà, fondamentali in un Paese civile. Dallo scorso 30 marzo il Parlamento e l’Italia si sono ritrovati inesorabilmente ad un bivio: scegliere o meno se portare avanti, tramite discussione parlamentare, il progetto di legge contro l’omotransfobia, che porta la firma dell’Onorevole Zan, promotore della legge. Per omofobia si intende la paura e l’odio nei confronti degli omosessuali e l’omotransfobia aggiunge la dimensione della transessualità a questa nozione di paura e odio. Il progetto di legge prevede di apportare sostanziali modifiche agli articoli 604 bis e 604 ter del codice penale in materia di violenza e discriminazione per motivi di orientamento sessuale o identità di genere. Ad oggi il codice penale punisce i “crimini d’odio” punendo tanto la violenza quanto l’incitamento ad atti violenti per motivi inerenti l’etnia, la nazionalità o la fede. La norma tutelerebbe le donne, le persone lgbtq e i disabili. Categorie facilmente soggette a discriminazioni e violenze. Infatti, un recente studio di Vox Osservatorio Italiano sui Diritti, ha identificato i gruppi sociali maggiormente colpiti dall’intolleranza. Sono sei: donne, persone omo o transessuali, migranti, disabili, ebrei e musulmani. In sostanza cambierebbe la configurazione del reato, l’aggressore sarebbe giudicato per l’atto di violenza in sé con l’aggravante del crimine d’odio. Non solo punizione ai misfatti ma anche azioni per sensibilizzare i cittadini, infatti, sono previsti fondi per campagne televisive, iniziative nelle scuole e nelle pubbliche amministrazione. Lo stesso parlamentare ha fatto esempi concreti, come il caso dei transessuali, molti di loro, quando la transizione è in atto ma non hanno ancora ottenuto il cambio nome all’anagrafe, si rifiutano di andare a votare per non sottoporsi all’umiliazione di dover scegliere la cabina degli uomini, quando di fatto non sono più uomini. Una legge che rappresenterebbe una scelta di campo. Attualmente l’Italia è al 35 esimo posto in Europa per accettazione sociale delle persone Lgbtq. Un passo progressista che fa paura a molti, specie all’estrema destra che osteggia l’approvazione della legge, spaventa la Cei, che si è scagliata contro il ddl Zan perché limiterebbe la libertà critica ai gruppi anti-Lgbt. Eppure il testo esclude il reato di propaganda di idee. In sintesi le persone Lgbtq diventano soggetti vulnerabili. Eppure episodi di odio, spesso accompagnati dalla minaccia o dalla violenza vera e propria, che rimbalzano agli onori della cronaca o rimangono sotto la soglia della visibilità, sono ai nostri giorni in Italia scene di vita quotidiana. Un sommerso di violenza e odio che neppure arriva alle forze dell’ordine, altre restano taciute, altre ancora si fermano alle associazioni del territorio. Secondo il Centro Risorse Lgbti in pochi mesi le storie giunte sono 672 ma il sospetto che moltissime non emergano, tuttavia sono una fotografia della realtà. Negli ultimi cinque anni gli episodi di violenza verbale e fisica non sono mai stati meno di cento. Nel solo 2016 anno in cui è entrata in vigore la legge Cirinnà sulle unioni civili. Si è trattato della prima legge nazionale che si occupasse dei diritti della minoranza lgbt, almeno il diritto al riconoscimento delle relazioni tra persone dello stesso sesso. Se per alcuni è sembrato un primo passo per un percorso di accettazione e riconoscimento, i numeri delle violenze e le storie raccolte dal Centro Risorse Lgbti mostrano avanzamenti limitati. Insomma, forse c’è ancora tanto da fare, oltre ad istituire e celebrare la giornata mondiale contro l’omo-lesbo-bi-trans-fobia il 17 maggio, c’è bisogno di prendere posizione. Si tratta di diritti umani. La sfida in gioco è importante, culturale, decisiva. Guardare dall’altra parte non è più accettabile in un Paese civile. “Tacere non è più un’opzione” – ha concluso Zan.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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