Archivi tag: #vita

Figli senza privacy in balia del narcisismo dei genitori

img_0217Figli di oggi e senza privacy, con le foto postate, senza uno straccio di dignità e di diritto all’oblio. Che poi l’adolescenza di per sé porta la curiosità dei social e la voglia di condivisione, pubblicando anche cose che in eterno imbarazzeranno, ma fino ad allora ci pensano i genitori a pubblicare e a parlare dei propri figli sui social. Foto delle feste, della comunione, di Halloween, foto dei temi che hanno preso il voto migliore della classe, foto delle pagelle, foto delle feste di compleanno, foto di classe, considerazioni sui propri figli, domande imbarazzanti ed intime: “ma il tuo a che età si è masturbato?” Oppure “è diventata signorina”, peggio del lenzuolo esposto dopo la prima notte di nozze. Intimità, idee, sogni e foto di figli esposti in bacheca e giù i commenti, le considerazioni, i consigli e talvolta anche le cattiverie che si giocano a suon di commenti tra i genitori. I social si trasformano così in una piazza che accoglie il narcisismo dei genitori, azzerando la privacy dei figli, per di più minori. Libertà e sicurezza, il confine è sottile ed i social sono pronti ad azzerarlo del tutto. Infatti, se un genitore è libero di pubblicare tutto ciò che vuole condividendolo con gli amici virtuali, non può però sentirsi del tutto sicuro: la rete rischia di diventare una ragnatela dalla quale si rimane intrappolati, sia per il gioco psicologico di continuare a pubblicare e a condividere, ancor di più se ci si sente in competizione con altri genitori, quindi, si cercano filtri e aneddoti migliori per “gareggiare” contro altri genitori ed altri figli, ma si rischia anche di cadere nella trappola della pedopornografica. “Genitori, non mettete le foto dei vostri figli sui social: è allarme pedopornografia”, così si è espresso qualche settimana fa il garante della Privacy, Antonello Soro, in una relazione al Parlamento, parlando di “un grande fratello che governa il web”. Stando ai recenti dati, la pedopornografia in rete e in particolare nel dark desk, sarebbe in crescita vertiginosa. Nel 2016, due milioni le immagine censite, quasi il doppio rispetto all’anno precedente. Foto involontarie, ha sottolineato Soro, tutte provenienti dai social network dove i genitori postano le immagini dei loro figli. Social che sono diventati per i genitori un giudizio unico e talvolta insindacabile, tanto che l’ecosistema dei social network ha sostituito quello tradizionale (genitori, amici, parenti prossimi) nel giudizio che le neogenitrici sentono ricadere su se stesse. Al punto di sostituire la propria identità con quella del piccolo. O tentare di bilanciarla nel modo migliore. Così, secondo la psicologia, postare di frequente, specie nelle fasi iniziali può offrire sostegno e supporto ma nel lungo periodo può amplificare le ansie della maternità. Dunque, le madri che postano di più sono quelle che rimane di capire il nesso causa-effetto, sentono di più la pressione sociale a essere madri perfette e considerano la maternità ingrediente essenziale per la loro identità. Tanto da arrivare a piazzare l’immagine del proprio bimbo nella foto profilo. Quelle, in definitiva, che vogliono apparire mamme modello. Insomma, ben oltre la volontà di aggiornare gli amici o condividere bei momenti, al fondo degli atteggiamenti più martellanti c’è il vecchio meccanismo della conferma esterna. Che, riversa i suoi effetti anche sulle conseguenze emotive, positive o negative, ai commenti o ai like. Tradotto: un altro campanello d’allarme che siete troppo coinvolte dal giudizio degli altri sul modo in cui accudite il vostro bambino sta, banalmente, nel peso che date a ciò che gli “amici digitali” dicono o cliccano. una sorta di contrappunto della società ricco di insidie. Così i social si trasformano: da una parte è un mezzo per procurarsi sostegno e conforto, dall’altra un severo giudice a cui abbiamo tuttavia assegnato quel ruolo in modo deliberato. Tanto da trasformarlo in uno specchio deformato.

(Articolo pubblicato su “ildenaro.it)

Contrassegnato da tag , , , , , , ,

Neonati abbandonati alla nascita, la nuova emergenza italiana

img_0217Rifiutati alla nascita e consegnati al loro destino, nel bagno di un fast food o nel cassonetto dell’immondizia, come è accaduto pochi giorni fa a Napoli, dove gli agenti della polizia insospettiti dalle macchie di sangue, hanno bloccato la donna che stava per sbarazzarsi del bambino appena partorito nella spezzatura, mettendo in salvo la piccola creatura. Bambini abbandonati, meno spesso, purtroppo, lasciati nelle culle della vita, le moderne “ruote degli esposti”, una quarantina ad oggi in Italia tra ospedali, parrocchie e centri di assistenza. Sono circa 3000, secondo un’indagine della Società italiana di neonatologia, i neonati abbandonati ogni anno nel nostro Paese. Il 73% è figlio di italiane, il 27 di donne immigrate, in gran parte tra i 20 ed i 40 anni, mentre le minorenni rappresentano il 6 per cento. Gli abbandonati in ospedale sono 400. Bilancio in linea con i recenti fatti: Maria Sole è una delle ultime neonate abbandonate, è stata ritrovata la mattina del 30 novembre scorso a Villa Literno, avvolta in una coperta, abbandonata in una scatola, fuori da un negozio di frutta e verdura. Aveva fra le 48 e le 72 ore di vita. Dietro i casi “da nera” tante storie simili, segnate da disagio, disperazione, solitudine, con conseguenze a volte irreparabili. Perché dall’angoscia di non poter accudire ed amare il figlio indesiderato all’infanticidio: il passo è terribilmente breve. La “culla della vita” per gli abbandonati, se la propria creatura la si affida al mondo, diventa l’unica scelta. In Italia ne esistono diverse: a Varese, Milano, Firenze, nate da un progetto pilota del Policlinico Calino di Roma. La “culla della vita” richiama alla “ruota degli esposti” posta al di fuori dei conventi, aveva una forma a bussola girevole, di solito costruita in legno, divisa in due parti chiuse per protezione da uno sportello: una verso l’interno ed un’altra verso l’esterno che, combaciando con un’apertura su un muro, permettesse di collocare, senza essere visti dall’interno i bambini indesiderati. Facendo girare la ruota, la parte con l’infante veniva immessa nell’interno dove, aperto lo sportello si poteva prendere il neonato per dargli le prime cure. Spesso vicino alla ruota vi era una campanella, per avvertire chi di dovere di raccogliere il neonato, ed anche una feritoia al muro, per imbucare lettere, offerte e sostenere chi si prendeva cura degli esposti. La prima ruota nasce in Francia, nell’ospedale dei Canonici di Marsiglia nel 1188. In Italia arrivarono intorno al 1806 col napoleonico regno italico, fu chiamata “rota proiecti” venne ufficialmente istituita anche nei comuni dell’Italia Meridionale per la tutela pubblica dell’infanzia abbandonata. Una ruota degli esposti era in realtà già presente a Napoli: quella della Santa Casa dell’Annunziata, di cui esistono documenti d’immissione risalenti al 1601. L’abolizione delle ruote avvenne intorno al 1800, si discusse molto in quegli anni visto anche l’aumento demografico e le “ruote” pesavano non poco sulle casse pubbliche, poiché spesso venivano affidati all’assistenza pubblica anche i figli legittimi. Oggi, tornano più che mai attuali e se ne sente sempre più l’esigenza per evitare abbandoni drammatici e per sostenere il diritto alla vita delle creature. La culla per la vita è un segno di speranza, è scegliere la vita anche nell’abbandono, un segno per dire che c’è una possibilità di far vivere quel bambino, anche nella scelta dolorosa dell’abbandono. Questo è il primo compito delle culle, che poi offrono un servizio concreto. Una mappa completa delle culle per la vita in Italia non c’è, sono circa 50 stando ai numeri forniti dal Movimento per la Vita. Ad oggi si richiedono più culle per la vita e anche come chiesto giorni fa da Marco Griffini, presidente di AiBi, ma Griffini chiede anche una legge che abolisca il reato di abbandono del minore, perché ad oggi una madre può essere ricercata ed accusata di abbandono del proprio figlio. I recenti casi di abbandoni ci spingono però a riflettere quanto la crisi economica e dei valori abbia preso il sopravvento tanto da minacciare e spaventare uno degli eventi più belli e significativi di una donna: dare al mondo un figlio.

Articolo pubblicato su: “ildenaro.it”

Contrassegnato da tag , , , ,

Amore amaro/ Infarto d’amore 

Quando un sentimento che sin da bambini abbiamo imparato a chiamare “amore” finisce, senti una fitta al cuore, come se fosse in corso un infarto, ti logora dentro e le luci del palcoscenico della vita si spengono, ad una ad una, un po’ per volta, lentamente, la terra la senti muovere sotto i tuoi piedi, come un improvviso e spaventoso terremoto, una tristezza infinita ti pervade come se il mondo stesse piangendo la più grande catastrofe del mondo. Immobile resti a sfogliare i ricordi, mentre la tua mano non stringe più quella di chi hai amato, mentre i progetti naufragano nel mare del “mai”, mentre la giostra della felicità e del “tutto va bene” s’ inceppa, lasciandoti all’ultimo e penoso valzer della vita, quello in cui devi fare i conti col “ripartire”, il “ricominciare”, dove devi ripuntare la bussola della vita, orientare i tuoi giorni, riallacciare nuovi nodi e salpare per mari ignoti e sconosciuti.

Mari che sanno di incertezza e di solitudine, mari che dovrai conquistare con una ferita al cuore in più, diventando abile ed esperto marinaio del “mal d’amore”.

Quando un amore giunge al capolinea e l’altra persona ha lasciato la nostra vita per sempre, qualsiasi esso sia il motivo, sembra che tutto sia controcorrente, ingiusto, folle e cattivo. Ti accorgi che delle abitudini devono andare in pensione e lasciare il posto a delle altre. Inizi ad assaporare un tempo nuovo e diverso, fatto di cose che devono “riempire”, di notti che riassaporeranno il gusto del sonno, di giornate che avranno un sole tiepido ma pur sempre un sole, che ha voglia di essere vissuto, nonostante tutto. Impari che nonostante tutto si continua a vivere ed il mondo continua a girare, ad esserci e a vivere. Impari ad incassare, rimuginare e respirare più forte per non far prevalere quel senso di vuoto, di mancanza, quel nodo alla gola che sembra non farti respirare.

Impari che l’amore spesso e’ ingiusto quanto anche folle. Impari a non guardare o a cercare disperatamente il cellulare. Impari a non dar più peso a quel “ti hanno cercato”. Impari a darti al silenzio, perché le parole non servono più e non basterebbero a colmare e a riparare errori. Impari che ci sono mille modi d’amare e tra questi quello egoistico. Impari che a volte siamo troppo presi ed avventati nei sentimenti. Impari a farne a meno, perché infondo il tempo che fino a qualche attimo prima non ti era amico, sta facendo il suo corso e proprio lui diventerà da nemico ad amico e ti aiuterà come un’abile dottore a riabilitarti dopo un infarto d’amore

Contrassegnato da tag , , , ,

Racconti d’attesa/parte 6 Lei è parte di me. Non la lascio sola. 

Arturo è lì con i suoi occhi di ghiaccio che tanti anni fa hanno rapito la sua Maria. È lì col suo busto retto e dritto, da sergente dell’esercito, con le sue rughe che segnano i suoi 75 anni, i suoi capelli d’argento che mostrano il tempo di una vita che scorre via. È lì in quella sala d’attesa di una rinomata clinica campana, in attesa di vedere l’amore della sua vita, ricoverata da pochi minuti e in attesa di un intervento nel reparto di ortopedia. Arturo è perso in quella sala d’attesa che sa di vuoto, di troppe voci che si susseguono, è solo con la sua malinconia, la sua paura, la sua tristezza, solo in attesa che tutto possa finire. Il sole di Luglio batte forte, fa caldo, Arturo sa che le sue figlie sono lontane e al mare, mentre lui naviga nel mare della speranza e della paura. Solo su quella sedia, aspettando che passino i minuti, li conta col ritmo delle gambe, aspetta di poter abbracciare e baciare per pochi secondi, quelli che precedono il passaggio dalla camera “223” alla sala operatoria, la sua Maria. Lo chiamano, il suo volto si colora, è felice, ma la sua è un’aria già stanca e malinconica. Dopo pochi minuti ritorna nella sala d’attesa, il suo posto lo ha perso, si siede accanto a me. È fermo, con lo sguardo perso nel vuoto, ha paura, teme per sua moglie. Come è strano vedere un uomo grande e grosso, che sicuramente ne ha passate tante nella sua anziana vita, così in pena, così perso senza l’amore, quella della sua donna. Nelle sale d’attesa si parla tanto, è un vocio continuo, un bisbiglio continuo, lo sento ancora nelle orecchie, specie la notte quando mi sveglio e mi fermo a pensare a me in quelle sale d’attesa, alla gente incontrata, alle loro storie, da cui traggo sempre, seppur a distanza di tempo un insegnamento, una morale, come nelle favole che fa bambina mi raccontava il mio papà, seppur le cambiava, ma certo non mi preparavamo così tanto alla vita, quella di oggi, quella imprevedibile, disgraziata, che dietro l’angolo ti tira un tranello, così all’improvviso e a suo piacere. Così Arturo per caso si gira verso di me, mi vede “così giovane”, comincia a domandarmi chi sono, perché sono lì, cosa faccio nella vita. Ero lì per mia mamma, certo un amore diverso dal suo, ma pur sempre un amore. Gli racconto del rapporto, del legame che io e mia mamma abbiamo, ne rimane colpito, perché secondo lui appartengo ad una generazione di un tempo e non di oggi. Ma chissà come sono i ragazzi di oggi, forse sono meglio di quello che pensiamo, io lo penso. Non so voi. È quando gli chiedo perché è lì che Arturo resterà per sempre nel mio cuore, mi raccontò di un amore che dura da 50 anni, che sua moglie è il suo punto di riferimento, la sua ancora di salvezza, di una donna sempre per la famiglia, per lui. Che un giorno di primavera, mentre facevano una passeggiata è inciampata e la sua anca si è frantumata, così ora dovevano metterle una protesi all’anca, per cui l’intervento richiedeva un po’ di tempo e pazienza da parte sua. Lui che invece non aveva pazienza, non aveva né mangiato e né bevuto, era diabetico e cardiopatico. Quasi una sfida a chi stava peggio tra marito e moglie, eppure erano l’uno il bastone dell’altro. Quando siamo saliti in reparto, è entrato nella camera della moglie di tutta fretta, ha accennato un saluto veloce, con un sorriso felice e appagato. Gli hanno impedito in tutti modi di starle accanto perché era un uomo in un reparto femminile, perché doveva riposarsi, ma lui non si voleva schiodare da lì, voleva starle accanto, cascasse anche il mondo lui doveva esserle accanto, supportarla e darle amore, quell’amore e quel supporto che per anni aveva dato lei a lui. Era il suo personale modo per dirle “Ti amo”. Cercava di farla ridere, di farla distrarre dopo dai dolori dell’anestesia, mentre lui era ancora digiuno. Così si accasciò a terra per un malore e l’ultima volta che ho visto quell’uomo era su una barella mentre veniva trasportato nel vicino ospedale. Quell’amore che provavano era anche quello che li separava in quel momento e che per uno strano scherzo della vita li portava entrambi in ospedale ma lontani. 

Hanno così avvisato le figlie, forse loro hanno capito una lezione che l’amore anche da anziani può essere vivo, ma esiste anche l’amore dei figli che hanno diritto a far sì che esista e che viva. Sicuramente possiamo trarre un insegnamento che l’amore vero, unico, sincero, disinteressato esiste ancora ed è bene tenerlo stretto o aspettare che arrivi. Ed è bene pensare che gli uomini sotto sotto hanno un cuore che batte e senza l’amore della loro vita sono persi, come bussole che perdono la direzione.  

Contrassegnato da tag , , , ,

Racconti d’attesa/parte5 Diagnosi d’attesa. Cosa significa attendere?

img_0217

In attesa. Sei fermo. Come chiuso in una scatola, senza poterti muovere, al massimo puoi fare qualche passo avanti e indietro. Consumando la suola delle scarpe ed il pavimento. In attesa. Di una buona notizia o di una brutta notizia e comunque impaziente. In attesa del tuo turno annoiato, preoccupato, indifferente. In attesa il tempo si dilata. Diciamo sempre che ci piacerebbe pensare, leggere, ma manca il tempo. Sfruttiamo l’attesa dal medico, alla fermata dell’autobus, verrebbe da pensare. Le sale d’attesa sono non-luoghi: non accade niente, non si può far niente se non aspettare il proprio turno. Il tempo a disposizione diventa tempo nemico. Ti si ritorce contro. Le sale d’aspetto degli ospedali tra tutte sono le più solitarie: cariche di tensioni, pensieri, preoccupazioni. Prima che incontrassi molte sale d’attesa di ospedali e cliniche, pensavo che fosse l’ultimo posto dove ci fossero dei racconti. Ecco che poi quei racconti-con personaggi veri, ma da identità celate, sono diventanti i protagonisti dei miei “racconti d’attesa” in questa sezione del mio blog.

Le sale d’attesa ci insegnano l’amore quello vero, sincero, eterno, ma anche l’amore che manca, quello che ormai non guardiamo più. Chissà poi perché. E’ forse quando attendiamo in una sala d’attesa che ci rendiamo conto di quanto sia importante l’amore, di quanto sia difficile attendere.

Le sale d’attesa. Ne aveva frequentate tante negli ultimi tre mesi. Da giugno era tutto un avvicendarsi di appuntamenti per esami e visite, da quando un semplice dolore l’aveva colta di sorpresa mentre cucinava l’ennesimo pranzo per la sua famiglia, sempre distratta, sempre indaffarata. Ora quel dolore che le bloccava parte del corpo doveva pur avere una causa. E proprio quella si cercava. Gli ospedali non erano nelle sue corde, anzi, li detestava. Gli odori, i colori e ogni cosa le ricordava il suo passato, quando, dopo qualche anno dal suo matrimonio si era ritrovata negli ospedali prima per suo figlio, poi per suo marito. Ed ora eccola lì, seduta su una poltrona scomoda ad aspettare il suo turno per l’ennesimo esame. L’avevano già rivoltata come un calzino, aveva provato ogni disperata terapia, cura. Tutte inutili. Di ospedali ne aveva girati ma non aveva mai fatto caso a quanto fossero fredde, squallide le sale d’attesa, non si era mai soffermata a guardare con occhi che sanno vedere, forse perché le occasioni erano sempre state poche e mai così prolungate nel tempo. Mancava il senso dell’accoglienza, spesso proprio dagli stessi medici, dagli stessi infermieri. Spesso si è solo un numero e non un paziente, un essere umano con la sua storia, la sua vita, il suo dolore. Insensibilità all’altrui dolore? Un modo per distaccarsi dal paziente non lasciandosi coinvolgere? Non avrebbe saputo dare una risposta certa, forse entrambe le cose o forse, semplicemente, funzionava così. Un atteggiamento che procura più dolore. Chi soffre, chi è in ansia, chi è in attesa di conoscere una diagnosi negativa ha diritto ad un sorriso, ad una parola di consolazione, anche silenziosa. E a volte arriva in quelle fredde e lunghe attese proprio da altri pazienti, dai familiari che li accompagnano, dove nascono amicizie, dove a volte ci si ritrova, ci si riconosce nelle storie altrui. Lei osservava ed ascoltava tutto e registrava ogni minimo palpito. Perlopiù rimaneva in silenzio. Qualche volta era imbarazzante. C’è chi nelle sale d’attesa si racconta come un fiume in piena, chi invece, resta nel suo rigoroso silenzio. Faceva fatica a raccontarlo alle persone care, figuriamoci agli estranei in attesa. Nessuno ancora sapeva dei controlli nella cerchia dei parenti e degli amici. In casa si era deciso di aspettare la certezza, di avere la conferma definitiva per non allarmare inutilmente, visto che l’ipotesi che si affacciava era molto “pesante”. Lei ancora non voleva crederci, non voleva accettare che da un banale dolore al torace, le si stava aprendo un baratro, un altro mondo, dalla quale voleva fuggire. Era l’ultimo appuntamento in agenda, in una struttura del tutto nuova. Un ambiente del tutto diverso. C’era arrivata su consiglio di un amico medico, che le aveva assicurato la struttura ed anche il reparto di oncologia. Lei ci sperava, sperava ancora in una diagnosi positiva. Perché l’attesa è anche speranza. Perché l’attesa ti porta a pensare che è solo un brutto sogno, che prima o poi ti risveglierai. Perché l’attesa ti porta a pensare che è un film, che non sei tu la protagonista, che nei titoli di coda uscirà scritto che è frutto della fantasia o di un ennesimo abbaglio. Ma se non fosse un abbaglio, se i titoli di coda riportassero il proprio nome? Di certo si spegnerebbe la speranza ma anche l’attesa di una diagnosi, dopo mille pellegrinaggi e volti e visi visti, ma cosa resta ad un malato oltre che il dolore e il male di cui è affetto? Non so bene, o forse lo so ma non voglio accettare quello che vedo. Perché io nelle sale d’attesa la gente la guardo e quando una donna ha un foulard in testa, gli sguardi diventano “diversi”, “strani”, sembrano puntargli il dito contro, sembrano vogliano dirgli “sei malata”, oppure “guarda quella lì”. Credo che non abbiamo ancora rispetto delle persone e della malattia, non apprezziamo il coraggio e la loro voglia di vivere, il loro lottare e non capiamo che in quel momento ci stanno dando una grande lezione di vita e forse vorrebbero che tutti noi gli tendessimo la mano. Ecco perché ho anche imparato ad ascoltare nelle sale d’attesa gli altri, la loro vita, i loro racconti, fino a perdermi dentro.

Contrassegnato da tag , , , , ,

Racconti d’attesa/parte4 Sala d’attesa di oncologia

IMG_0217

Si corre e non si pensa. Si corre e non si vive. Si corre e si smette di progettare, sognare. Si corre e i problemi non si risolvono mai. Si corre e si rimanda, sempre. Eppure ci sono momenti della nostra vita in cui siamo costretti a fermarci. Non dipende da noi. La malattia è più forte, del paziente ma anche dei familiari. E l’unica cosa da fare è aspettare. Nelle sale d’attesa il tempo si allunga e tutto quello da cui fuggiamo, o da cui siamo fuggiti: la paura, il dolore, la stessa attesa, si attacca addosso, come una calamita. Non ci sono vie di fuga. Bisogna restare lì, incollati coi piedi in terra. Si è soli davanti al problema, soli davanti al tempo e a se stessi. Le sale d’attesa hanno il sapore dell’amaro e della sofferenza, ne avevo vissute di diverse, ma all’appello mancava “oncologia”. La sola parola fa paura, nonostante la ricerca, nonostante la prevenzione, nonostante gli studi, la sola paura spaventa. E’ un dato di fatto. Quando sei lì il tempo si ferma. Non puoi ingannarlo. Sembra ti stia aspettando da chissà quanto tempo, come il famoso cinese sulla sponda del fiume. Le sale d’attesa di oncologia sono vuote, sembra si siano già portate via la vita. Quando hai un familiare, una persona che ami, che varca la soglia di quella porta e sei lì con lei, mentre attraversi il corridoio e le stanze sono aperte con i malati distesi lì, pronti per entrare in sala operatoria o pronti per la terapia, non sai se prendertela con la vita: fredda, bastarda, cattiva; o prendertela con te stessa che magari hai sottovalutato un sintomo, un campanello d’allarme, hai bypassato i controlli di prevenzione, o peggio li hai fatti ma ti avevano detto per un errore medico “è tutto apposto”. Ma ti rendi conto di quanto pesi il tempo, l’attesa e il vuoto di una sala d’attesa solo quando saluti la persona amata che sta per entrare in sala operatoria e resti lì solo, quasi privo di forze. Puoi pregare. Puoi piangere. Puoi arrabbiarti con la vita. Sono vuote quelle ore in cui aspetti fuori ad una sala operatoria di oncologia, sono fredde, seppur le vivi nel caldo torrido d’estate. Sono nulle. Ma nelle sale d’attesa ci trovi il mondo, ci trovi uomini e donne che hanno una storia, che a volte ti raccontano tutto d’un fiato, quasi a volersi liberare, come se fossero in una seduta da uno psicoanalista. Storie che hanno gli occhi lucidi e vuoti, ma anche storie che raccontano che a volte la vita può girare anche nel senso opposto. Le lunghe ore d’attesa non le inganni facilmente e parlare, raccontarsi, non può che aiutare. E’ così che ho conosciuto Marina, una pazienze di oncologia, già da quattro anni. 50 anni, diabetica, al secondo intervento: la prima volta le avevano asportato un tumore benigno al seno destro. Questa volta il male si era presentato a sinistra. Nonostante fosse già diabetica e non alla prima esperienza, fumava: quasi a voler sfidare la vita e la sorte. Era sola, nonostante a casa gestisse tutto lei: due figli di 21 e 25 anni, un nipote di 2 anni, che cresceva lei, un marito malato di Pakinson. Marina però in quella sua ennesima battaglia era da sola, non aveva nessuno accanto che le desse coraggio, forza, che stesse lì ad aspettare. Mi aveva colpito molto. L’ho rincontrata dopo due ore circa, qualcosa più, qualcosa meno, dal suo intervento. Era nella stessa stanza di un’altra persona a me molto cara. L’ho già trovata sveglia dopo un’anestesia totale. Sempre sola. Ma la forza d’animo non le mancava. E’ scesa dal letto, ha fatto un piccolo cammino nella stanza e poi mi ha chiesto di fare il palo alla porta. Ammetto di non aver capito, ero frastornata, troppo emozioni, troppi avvenimenti per me in quel momento. Mi chiedeva di stare alla porta come una sentinella, un soldato, per controllare se un medico, un infermiere entrasse. Poco dopo l’ho vista alla finestra fumare. Ammetto di averle detto: “ma come, dopo tutto quello che sta passando, fuma anche?” e mi ha risposto “e tu credi che a farci male sia solo questo?” Ha anche ragione, adesso che scrivo, me ne rendo conto, ma quel suo gesto l’ho visto come uno sfidare il destino, la vita, come inserire un coltello nella piaga. Forse, Marina, lo faceva per combattere la solitudine, il nervoso, la paura, la tensione, ma non lo giustificavo, come non giustificavo la mancanza di un figlio in quel momento. Era Luglio, faceva caldo e in un reparto di oncologia con tutta la vita che ti passa davanti, con la paura e il dolore, non si vive certo bene e felicemente e avere qualcuno accanto creda che sia forza, energia, tenacia, voglia di reagire, di vivere, di ripartire. In Marina però ho apprezzato la voglia di ridere, di scherzare dal primo momento, la voglia di non abbattersi. Sapeva che se l’esame istologico fosse stato negativo, si sarebbe dovuta sottoporre ad una terapia, che per un malato di diabete non è certo facile e sapeva che sarebbe stata ancora una volta da sola, forse anche per questo cercava di appoggiarsi a noi che eravamo lì, quasi a trovare in una famiglia unita, un po’ della sua famiglia, una seconda famiglia. Ecco le sale d’attesa mi hanno insegnato anche la solitudine nella sofferenza. Essere soli. Non hai nessuno, solo te stesso, che certo è più che mai importante, ma nel dolore e nel bisogno sei da solo, senza una persona cara affianco. A volte, ci sono persone che lo fanno apposta, tengono nascosto il proprio male, la propria sofferenza, per proteggere le persone che amano, per evitargli dolore e sofferenza, a volte però c’è proprio l’egoismo di una famiglia, dei figli. Questo è quello che più mi ha lasciata senza parole. Marina, oggi vive il suo percorso da sola, nonostante due figli a casa senza lavoro, costretta a prendere l’autobus, il treno per spostarsi, pur trattandosi di esami, di visite mediche, di terapie. Forse ha sbagliato lei stessa a viziare un po’ troppo i figli, ad esserci sempre, a coccolarli e a dargli tutto quello che poteva, a proteggerli e a scusarli anche adesso che preferiscono dormire fino a tardi, ad andare al mare, anziché essere accanto alla mamma. Non so se si tratti di “scappare” da parte dei figli, perché io cerco sempre di mettermi nei panni delle altre persone, dell’altra parte, ma a volte non ci riesco a capire, a comprendere, è più forte di me.

La mia estate è stata di sale d’attesa di ospedali e di cliniche, tornavo a casa e ad aspettarmi c’erano i libri universitari, perché gli esami non aspettano e non guardano al dolore, alla stanchezza; mi aspettavano i doveri di casa. Forse sono stata esagerata rispetto a chi invece non gliene importava nulla. Non lo so. Non so se realmente nella vita esistono le mezze misure, le mezze vie. Io al bianco che si mescola al nero, non c’ho mai creduto, come non ho mai creduto al bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. Io sono una di quelle che se è bianco è tale, se è nero e tale. Io sono quel tipo di persona che vuole esserci accanto ai genitori, ai familiari, agli amici veri. Punto. Io credo che sia un dovere ed un diritto di un figlio. Penso, che anche per una semplice radiografia bisogna accompagnare la persona amata, il proprio familiare, perché le sale d’attesa spaventano tutti, anche il più cinico ed egoista della vita. In fondo, la vita come dice il grande Vasco la vita è un brivido che vola via…. Dopo sarà tardi pentirsi di non esserci stato.

 

Contrassegnato da tag , , , , , , ,

Racconti d’attesa/parte3. Medici che vanno oltre…

IMG_0217

Cos’è l’oltre? Una sottilissima linea tra l’osare e il non osare, il fare e il non fare, l’esserci e non l’esserci. L’oltre è quel qualcosa che fai. Punto. Ma l’oltre non è da tutti e non è per tutti. L’oltre non pensi di trovarlo in un ospedale, in una clinica, in una sala d’attesa e ancor di più in un medico ed invece la vita nella sua straordinaria imprevedibilità ti sorprende. Negli anni, per svariate avventure-disavventure della vita e della salute ho incontrato diversi medici ma mai nessuno era riuscito ad andare oltre, entrando nelle mie grazie, ma ancor di più stupendomi e facendomi conoscere quel lato umano e sincero dei medici. Ho incontrato il professor Pierluigi Cillo, perché nel suo studio ho portato mia mamma, il miglior ortopedico che possa esistere in una sanità che spesso ci racconta una pagina negativa, brutta e controcorrente. La paziente era lei, ma lui mi ha guardata e poi ha iniziato a visitarmi con i suoi modi anche “bruschi”. Ero confusa, mi dicevo che non avesse capito chi era davvero la paziente. Non mi conosceva ma stava per darmi una grande lezione di vita. Da sempre ho una postura non proprio corretta, più un atteggiamento, un’abitudine, che certo ad un attento e bravo medico non passa inosservata, specie se è il suo mestiere. Non solo mi ha visitata con mio stupore, anche perché non ero lì per me e non mi sarei aspettata mai quella visita, quell’attenzione ma ancor di più da uno sconosciuto che per la prima volta mi vedeva non mi sarei aspettata quelle parole che mi sono arrivate dritte al cuore e alla mente, sarà stato per i suoi modi, sarà stato per il fatto che non lo conoscevo, quindi mi colpiva ancor di più. E bene, mi disse che nella vita se avessi camminato ancora così non solo per salute avrei avuto problemi, ma che nessuno mi avesse presa sul serio, in considerazione, mi avrebbero scartato ad un colloquio di lavoro, perché più dell’85% è giocato proprio dalla postura. Sicuramente quelle parole non furono bellissime, ma non si fermò lì, mi disse che mi comportavo così perché io dicevo al mondo “scusate se esisto” e che non avevo nulla da nascondere o da chiedere scusa. Furono queste le ultime parole che mi disse sulla soglia della porta all’uscita del suo studio, quando vide che tutto il discorso fattomi in precedenza non era servito a niente, perché stavo uscendo con quella stessa postura di prima dal suo studio. E bene, quelle parole finali mi colpirono, perché aveva capito la mia timidezza, il mio chiedere continuamente “scusa”, senza neppure conoscermi e con la sua età, il suo sapere, la sua esperienza, mi voleva svegliare, farmi aprire gli occhi. Io non le ho dimenticate quelle parole, anzi, ne ho fatto il mio monito, il mio motto di vita perché è vero di cosa dovremmo mai vergognarci? Di una cicatrice, di una benda che portiamo, o ancor di più di cosa dobbiamo scusarci? Quindi schiena dritta e testa alta sempre. Spalle dentro e petto in fuori, potremmo sembrare “atteggiate”, modelle snob, per qualcuno, ma lasciamo parlare gli altri, infondo se qualcuno non parla non vive. Il chiacchiericcio è sempre esistito e sempre ci sarà, ma noi? Noi possiamo essere quello che siamo e senza vergognarci.

Le sale d’attesa mi hanno insegnato e mi stanno insegnando tante cose, che cerco di trasmettere tra le pagine del mio blog, tra un commento ed una critica, tra un approfondimento e l’altro. Lo faccio perché le storie che gli altri mi raccontano, quelle che mi insegano a vivere o a “campare” come si dice dalle mie parti, quelle che mi emozionano, che mi rendono più umana, quelle che mi fanno conoscere, riscoprire il sapore dell’amore e non dell’amaro, quelle che mi stupiscono sempre e comunque, vorrei che fossero non solo un mio bagaglio, una mia esperienza ma l’esperienza di tutti, affinché un piccolo insegnamento tutti possiamo trarlo o quantomeno stupirci, perché oggi è così tanto difficile stupirsi nel bene. Ma ancor di più vorrei che chi mi leggesse, chi mi segue: che sia giovane o anziano, ragazzo o adulto, possa capire qualcosa della vita, delle storie personali, perché io nella vita, nelle storie cerco di trovare l’altra faccia della medaglia, per trarne in un insegnamento, altrimenti sarebbero storie solo udite e non ascoltate. Ed anche il professor Cillo mi ha dato una bella lezione di vita, forse la migliore, che mi ha scossa e fatto aprire gli occhi e vorrei che gli occhi li aprissero quelle ragazze che magari portano la macchinetta, gli occhiali, che hanno i brufoli, che sono un po’ tonde, che hanno una cicatrice, una benda, che non si vestono magari alla moda, o che hanno mille altri “difetti”, mille altre problematiche: non vergognatevi di quello che siete e camminate a testa alta sempre perché non avete nulla di cui vergognarvi o di cui chiedere scusa, perché se non avete rubato, ucciso, allora non avete fatto niente.

Contrassegnato da tag , , , , ,

Racconti d’attesa/parte2. La mia estate addosso di sale d’attesa

IMG_0217

Inizia tutto con un semplice dolore, un piccolo fastidio, a volte non ci fai neanche caso, si banalizza, poi il dolore, le notti insonni, il dolore che ti fa perdere l’equilibrio mentale, la sofferenza del paziente che sta male ma anche di chi gli sta intorno. E’ così ho trascinato mio madre ad affrontare il problema, forse per il mio egoismo, perché non sopportavo più di vederla soffrire, di vedere che un medico potesse sperimentare su di lei ciò che lui non sapeva. Abbiamo sentito campane, pareri, siamo finiti anche nelle mani di un medico bolognese, un luminare dicevano, in una sala d’attesa gremita di speranze e di gente che si affidava alle mani del “miglior medico”, finalmente abbiamo avuto la diagnosi ma i tempi d’attesa-altro gioco delle sale d’attesa- erano troppo lunghi per un intervento che andava fatto, punto. Ma mia mamma, legata al Sud in cui viviamo, alla terra che ci da il pane, voleva rimanere “a casa sua”, così abbiamo giocato questa partita “in casa”, o meglio poco lontano da casa, ma in terra campana: ad Avellino, in quella stessa clinica dove 22 anni fa mia mamma mi metteva al mondo, la vera eccellenza medica in Campania. Lì abbiamo incontrato il professor Pierluigi Cillo-nel prossimo post vi racconterò di lui- non ci ha pensato due volte a guardare in faccia alla realtà e ad operarla. Così due mesi fa, il 6 Luglio scorso, il dottor Mario Cillo, operava mia mamma. Il dottore Cillo, è il figlio del primario, molto giovane, a vederlo è strano pensare che lui operi, all’inizio avevo dei timori, poi mi sono ricreduta e oggi lo stimo molto. Quel 6 luglio, la strada era bollente, il vento caldo di luglio dava fastidio, ed io e mio padre eravamo all’interno della sala d’attesa della clinica Malzoni, speranzosi ma anche in trepida tensione. Ricorderò per sempre quell’orologio bianco e azzurro e le lancette quasi sempre ferme su quell’ora, perché quell’orologio lo avrò guardato migliaia di volte. In quella sala d’attesa c’era il mondo che mi girava intorno ed io ferma lì ad aspettare. Mio padre aveva lo sguardo perso nel vuoto, poi si riprendeva e iniziava a spiegarmi come secondo lui stava andando l’intervento. In quella sala d’attesa di luglio c’era il mondo. Era piena quella sala d’attesa. C’erano donne incinte in attesa di partorire, quindi, c’era la gioia della vita che sarebbe arrivata, c’erano i nuovi ricoveri e l’ansia di chi sa che dovrà operarsi, c’erano persone che tornavano a casa, col volto sorridente ma anche preoccupato, perché quando torni a casa c’è il secondo tempo che ti aspetta, c’era chi aveva subito un intervento ed ora era a controllo, con gli esami in bella vista e la speranza che quel male fosse andato via, c’erano i bimbi piccoli, seduti sugli scalini in attesa che nascesse il fratellino, quanta gioia negli occhi di quei piccoli. Io ero lì ferma con intorno le vite degli altri e la vita di mia madre in sala operatoria. Nello stomaco mille sensazioni e mille emozioni, avevo voglia che tutto finisse in quell’istante, avevo voglia di dire: “è finita”, ma sapevo che non sarebbe finita in quel momento e allora valeva la pena viversi anche quell’angoscia, quell’attesa, ma non viverla su uno smartphone o sfogliando le pagine di un quotidiano, viverla con le storie degli altri, perché nelle sale d’attesa ci trovi il mondo pronto a vomitarti la sua storia personale. Ciò che più mi colpisce sempre è l’Amore, quello di una coppia, quello saldo, forte e che in queste occasioni è più forte ma anche più preoccupante. Mio padre era come perso. Lui, sempre forte e deciso, che non ha mai avuto paura di niente, in quel momento credo avesse mille paure, da 34 anni insieme a mia mamma, di certo non poteva non amarla. E’ così che una signora coi suoi oltre 77 anni, ha incontrato il mio sguardo e posato il suo su mio padre. La signora era lì col marito scampato alla morte, un controllo per loro, ma quel controllo pesava quasi come l’intervento stesso, perché bisognava capire se il male si fosse ripresentato. Lui era seduto, con le analisi in mano, la voglia di entrare. Lei, invece aveva voglia di raccontarsi e di raccontare la loro vita. Così si è avvicinata, ha detto a mio padre che era un po’ troppo agitato, poi ha iniziato a guardarmi a dire che ero bella, secondo lei, che ero una trottola-avrò percorso quella sala d’attesa in lungo e in largo e in tutte le sue direzioni non so quante volte-gli ho raccontato il mio rapporto con mia madre e lei si commosse, mi raccontò del loro amore, troppo vecchio per morire proprio adesso, di un amore fatto di terra, quella che coltivavano loro, come anche di pane e sacrifici: gli ingredienti giusti ed essenziali per amarsi davvero. A 77 anni, aveva una tenacia ed un’energia che neanche io a 22 anni ho. Era piena di spirito. Era stata accanto al marito, comprese le notti, cresceva i nipoti che volevano ancora vivere con lei, e ancora coltivava la terra. Il marito la guardava con lo sguardo dell’amore, di chi si innamora ogni secondo, nonostante sia da una vita con lei. In quella sala d’attesa il mondo ancora una volta mi dava una lezione: l’amore è quello che tiene insieme tutto, sempre e in ogni momento. Ho perso di vista la signora perché mia mamma era tornata in stanza ed io volevo starle accanto, purtroppo, non sono potuta rimanere a lungo, compresa la notte, perché la vita è strana e nella sua “stranezza”, il giorno dopo dovevo dare l’ultimo esame all’università. Io non volevo più darlo, volevo rimandarlo ma mia mamma teneva più all’esame che all’intervento. E così dopo una lunga giornata di tensione, la stanchezza sul volto, il mattino seguente sono andata all’università, mi sono seduta e con voce un po’ tremante ho sostenuto psicologia dello sviluppo. Ho chiuso la mia carriera universitaria con l’ultimo 30. Ero al settimo cielo: avevo finito, mia mamma sarebbe uscita dalla clinica-certo a casa sarebbe stata un po’ dura per alcune settimane, ma già qualcosa era fatto-. Sono arrivata in clinica e avevo gli sguardi di tutti addosso: mia mamma aveva abbracciato e reso partecipe tutti della fine dei miei studi. Ero contenta, perché sapevo che saremmo uscite da lì, peccato che l’emozione però ha giocato un brutto scherzo a mia mamma e in quella clinica siamo rimaste entrambe per l’intero giorno. E’ strano come nella vita un attimo prima gioisci e un attimo dopo devi fermarti. Ero seduta su quella sedia, con la borsa dell’università, i libri che pesavano, i vestiti zuppi di sudore-segno di una giornata di maratona-ed il volto confuso, guardavo mia mamma e non sapevo cosa pensare…. Il mio telefono era rovente: squillava tra mio padre in tensione, i miei nonni all’oscuro di tutto e mio fratello che neanche sapeva dell’intervento, ma ancor peggio le tante “compagne” di università che volevano appunti, riassunti, informazioni sull’esame.

In quel momento ho capito che sono le persone estranee che ti danno di più, quelle che incontri nelle sale d’attesa degli ospedali, nella stanza in cui c’è l’altro paziente, sono quelle persone che conoscono l’amore ma anche la sofferenza, la tensione ad essere più umane, più vere, il resto è solo egoismo puro.

Le sale d’attesa mi hanno insegnata a guardare in faccia l’amore quello vero e sano, quello tra chi è sposato, come anche tra una madre ed una figlia, mi hanno dato l’umanità, le storie-che piano piano vi racconterò-, la fiducia, il combattere ed il vincere. Le sale d’attesa sono il luogo che non vorremmo frequentare ma quando ci sei dentro devi trovare il bello che c’è e farne tesoro. Ecco perché io lo racconto, raccontando la mia storia come quella degli altri che ho fatto un po’ mia, perché possiamo essere un po’ più umani e sensibili tutti, avendo rispetto del dolore, della tensione, dell’ansia di tutti e soprattutto possano spronare altri. Altre ragazze, che magari come me hanno paura anche della cosa più banale, che magari vorrebbero rinunciare ad esserci in un ospedale o ad un esame, perché vogliono far prevalere la paura. Possiamo essere più forti della paura, basta solo guardare in faccia alla realtà alla vita e anche-purtroppo-all’odore dell’ospedale e delle sale d’attesa, ma se guardiamo l’altra faccia della medaglia ne troveremo sempre l’insegnamento, così come è successo a me: sono diventata un po’ più forte, ho dovuto per forza di cose, annullare delle mie paure, farmi coraggio, esserci, ho allontanato i falsi amici ed ho aperto il cuore e la mia vita alle storie degli altri, che siano di dolore o di vincita, qualcosa sempre danno

Contrassegnato da tag , , , ,

Racconti d’attesa/parte1.

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-mess


Le sale d’attesa degli ospedali, delle cliniche hanno il sapore dell’amaro, dell’attesa, dello sguardo fermo sull’orologio, delle lacrime che bagnano il viso, del sorriso dopo un intervento, ma sono anche i luoghi dell’amore, della tenerezza, del “io ci sono”, del “io ti aspetto qui, dove altro”? Sono i luoghi in cui incontri le storie di infiniti calvari, di morti scampate, di sconosciuti che diventano amici tuoi senza che tu neanche te ne accorga, che in un filo di voce e con l’animo buono svuotano il sacco e ti raccontano pezzi di vita, del loro amore. Anche i medici diventano dopo un po’ parte della tua vita, nasce la fiducia, la confidenza. Eppure ti giri a pensare che sono luoghi “pesanti”, “tristi”, però sono questi i luoghi che ti insegnano la vita, ti insegnano a rimboccarti le maniche, ad aiutare e ad aiutarti, ad essere una persona diversa nel bene e nel male. Poi impari a sopportare gli infiniti racconti, la tensione, la paura, ad ingannare il tempo, impari ad accettare le mille sfaccettature della vita e la freghi a novantesimo minuto in un calcio di rigore, impari che ciò che sarà sempre la molla della vita, il materasso sui cui atterrare dopo mille voli nella vita è solo l’Amore. Unico e raro. L’amore che solo in pochi davvero possono darti: un genitore, il compagno della vita che ti sei scelto. Eh sì, perché in tutto questo lungo periodo di sale d’attesa ne ho girate, di storie ne ho incontrate, tanto che prima o poi mi deciderò ad aprire una sezione del mio blog dal titolo “racconti d’attesa”, ma ciò che più di tutto mi colpisce sono gli uomini, che da sempre lì dipingiamo menefreghisti, rompiscatole, che magari vivono da 15-20 e oltre anni con la stessa compagna di vita, hanno condiviso tutto e quando aspettano in quale sale d’attesa sembrano smarriti, vuoti, persi, nulli. Ed in molti dicono di non essere nulla senza loro accanto. Mercoledì, nell’ennesima sala d’attesa, ho incontrato un signore che ha salutato velocemente la moglie e doveva attendere poi che uscisse dalla sala operatoria, così lui era perso, mi ha guardata-non so cosa io sia, se una persona che ispira fiducia, una camomilla in persona- ma fatto sta che mi raccontano tutto. Dopo il primo sguardo ha iniziato a dirmi io devo tutto a lei, se non fosse per lei io non sarei vivo, ed ora mi costringono ad aspettare senza sapere nulla….poi è andato avanti a raccontarmi il resto della storia, che forse vi racconterò in un’altra puntata.
Non so se davvero nella nostra vita, quella che conduciamo oggi, a volte senza regole, fuori dagli schemi, di corsa, sempre con la quinta inserita nella marcia della vita, con in mente come fregare il prossimo, con l’animo sempre più egoista e menefreghista, sempre un po’ cattivo ed invidioso, riusciamo ad essere più umani e ad amare, la cosa più semplice al mondo ma anche la più difficile. Ad amare e a preoccuparci. Chissà!

Contrassegnato da tag , , , , , ,

Napoli chiede aiuto!

Davide Bifulco, avrebbe compiuto 17 anni tra poche settimane. Una notte beffarda e la sua vita si è accasciata al suolo, sotto un colpo di pistola sparatogli nel silenzio della notte al rione Traiano di Napoli da un Carabiniere. Davide guidava uno scooter non suo, con lui altre due persone, tra cui uno-secondo gli inquirenti era un latitante-. Uno scooter privo di assicurazione e i tre ragazzi era sprovvisti di patentino. All’alt intimatogli dai Carabinieri il giovane non si è fermato. Poi ha desistito. Fino alla tragedia-con un colpo sparato accidentalmente,secondo la versione del militare.

Il quartiere Traiano è arrabbiato, avvolto nella disperazione e chiede “giustizia”. Giustizia che confido ci sarà. Se emergeranno delle incongruenze, degli errori è giusto che chi ha spagliato paghi. Anche perché le forze dell’ordine sono l’emblema della legalità e questa deve rimanere sempre un valore da difendere.

Ma Davide Bifulco è solo l’ennesima vittima. Come molti altri-Mariano Bottari,75 anni, il pensionato ucciso da due malviventi in un tentativo di rapina a Ponticelli, qualche settimana fa,- pagano un prezzo altissimo:essere nati e cresciuti in una terra apparentemente “normale”,dove pizza,mandolino e spaghetti,Posillipo e le sue terrazze la fanno da padrona, ma continuamente in guerra.
6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-mess
Napoli, non è Iraq, Siria o Ucraina, definiti in gergo giornalistico “teatri di guerra”, ma la differenza è sottile, minima. Napoli è solo una città italiana, un paese occidentale che fa parte dell’Europa. Eppure a Napoli tra normalità, indifferenza, si combatte ogni giorno una guerra,una maledetta guerra tra faide,tra piazze di spaccio che ha abituato i suoi giovani alla “normalità”, alla vita di strada, a scorazzare tutto il giorno senza una meta, un sogno, un lavoro, un’ideale, un futuro.

A Roma c’è il “Governo del fare”, affronta emergenze su emergenze,blocca i contratti, porta avanti l’etica del fare ma nessuno rivolge lo sguardo al Sud, quel Sud che ansima, chiede progetti, progresso, alternative, non un classico film che si ripete dimenticato da tutti. Occorre aprire gli occhi guardare alle periferie del Sud tutto. Bisogna cambiare e da queste parti è davvero un’esigenza che si richiede a gran voce.

Contrassegnato da tag , , , , ,