Vetrine, pubblicità, luci scintillanti, addobbi e auguri: tutto ci comunica che siamo nel periodo più dolce e leggero dell’anno, le feste; che a molti ha il profumo di festa e di gioia, ma ad altri questo periodo rappresenta una vera e propria odissea fatta di stress, ansia, malinconia e tono dell’umore basso. Si chiama “Christmas Blues” – “la depressione natalizia” che con sé porta insonnia, pianto, pensieri negativi e anedonia. La depressione natalizia è più frequente di quanto si possa credere e paradossalmente essere circondati da luci sfavillanti ed alberelli colorati, a molti capita di sentirsi profondamente tristi. Gli esperti distinguono la sindrome dalla depressione stagionale, il Christmas blues è direttamente collegata al periodo festivo: un vero e proprio “tour de force” di convenzioni sociali e festeggiamenti “obbligati” e porta con sé una profonda tristezza accompagnata anche da crisi di pianto. In prossimità delle feste si vede la propria condizione in un’ottica più pessimistica, si rimugina sulle proprie sofferenze: situazioni sentimentali, lutti, malattie e ci si focalizza su ciò che non si ha. E l’anno che si conclude diventa occasione di conti e bilanci ed i pensieri negativi prendono il sopravvento, sino a far provare sensi di colpa e sentimenti spiacevoli. La condizione di disagio è diffusa soprattutto in soggetti che soffrono d’ansia o di depressione: il malessere si accentua e così i sintomi la fanno da padrone: stanchezza, irritabilità, disturbi psicosomatici che diventano anche scusa per divincolarsi da impegni percepiti come obbligo e non come piacere: inviti a cene di amici e parenti. Così il Natale diventa il volto triste e scaturisce da fattori alla base come i cambiamenti climatici ed ambientali, l’alterazione dei regolari ritmi di vita non per scelta ma per induzione sociale, ma anche eventi nostalgici e drammatici che ancora non sono stati elaborati, pressione economica. Se le festività evocano un certo malessere, è importante non fare finta di nulla, ostentando felicità, ma considerandolo e comprendendolo come un segnale di disagio reale, cercandone le radici personali ed emotive. E questo periodo può diventare un momento di riflessione e di ascolto di se stesso, ma con piccoli accorgimenti è possibile superare il senso di profonda tristezza che ci pervade durante il periodo natalizio. Bisogna fissarsi un proprio budget di spesa per i regali, senza fretta e senza corsa, partecipando agli eventi che ci attraggono, che ci piacciono e se gli inviti sono malinconici e la compagnia non ci piace è bene imparare a dire di “no”. E’ importante anche imparare ad ascoltare e ad accogliere le proprie emozioni: provare malinconia durante il periodo festivo non significa essere “sbagliati” e dobbiamo necessariamente adattarci al contesto, ma al contrario viverlo come un momento di confronto con chi amiamo, sperimentando la condivisione e lenire il senso di solitudine e di sviluppare resilienza. Abituarsi a “lasciarsi andare” abbandonando il pensiero costante degli errori o dei problemi, evadere ogni tanto è un aiuto prezioso. Rimanere agganciati al “qui ed ora”: intorno a noi ci sono cose, emozioni, persone, delle quali non riusciamo a godere appieno, se naufraghiamo nei pensieri del passato e di ciò che abbiamo perduto o nelle ansie per il futuro e di quel che potrebbe succedere. E’ bene anche godere delle ore di luce, una passeggiata di almeno un’ora all’aria aperta. Durante il Christmas blues è importante mantenere un contatto con la propria quotidianità senza dimenticarsi tutto l’anno il ruolo che si ricopre. Prendersi cura di sé, dedicando tempo ed attività piacevoli, alla cura del proprio corso, alla lettura o al cinema, ai propri hobbies, magari facendosi un piccolo regalo. Nutrire la propria flessibilità, ridimensionando l’importanza del periodo natalizio e provando a vivere le feste non come un’imposizione, ma come una scelta, compiersi in modo coerente con i propri valori.
(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per il denaro.it)
La bambina deve essere vaccinata anche se la madre non dà il consenso. A sancirlo la sentenza del giudice del Tribunale civile di Modena, che ha dato ragione al papà della piccola. Quando la bimba è nata, oggi ha sette anni, i suoi genitori erano entrambi contrari alla vaccinazione, tanto da aver firmato una lettera “di obiezione di coscienza” all’obbligo vaccinale, poi si sono separati e lui con il tempo ha cambiato idea ed ha cominciato a temere per la salute della piccola ma la moglie è sempre rimasta irremovibile e non trovando un accordo, l’uomo si è rivolto ai giudici. Sono passati tre anni, nel frattempo è stata introdotta la legge che estende il numero delle vaccinazioni obbligatorie necessarie ad iscrivere i figli al nido, alla materna e alla scuola dell’obbligo, una ragione in più per accogliere la richiesta del padre. Una sentenza in cui il giudice non si è trovato davanti a due legittime opinioni, ma si è trovato da un lato davanti ad una superstizione pericolosa e senza senso: le pericolosità e l’inutilità dei vaccini; dall’altra a tutto ciò che dicono i pediatri: i vaccini sono sicuri, indispensabili alla salute dei bambini. Eppure in aula lo scontro non è mancato, perché la madre della piccola si è fatta assistere dal consulente Stefano Montanari, uno dei punti di riferimento del mondo no-vax, il quale sostiene che i vaccini siano pieni di pericolose nanoparticelle. Decisivo nella decisione è stato il perito nominato dal tribunale: nella sua relazione ha spiegato che la bambina è in condizioni tali da non aver problemi con le vaccinazioni. Il Tribunale è intervenuto anche sull’obiezione di coscienza espressa a suo tempo anche dal padre, questa è sempre revocabile, si dice nel testo depositato. Infatti, il papà si era rivolto oltre che al giudice di Modena anche al Ministero della Salute, ma oggi al suo fianco c’è una sentenza che obbliga la madre a vaccinare la propria figlia oltre le proprie ideologie e le proprie opinioni. Una sentenza che mostra come lo Stato è dalla parte della scienza, della medicina, a difesa dei più deboli. La bambina di Modena, dunque, anche se un po’ in ritardo rispetto ai tempi stabiliti sarà sottoposta alle vaccinazioni previste dal piano vaccinale. La sentenza riporta all’attualità il tema dei vaccini, un tempo scudo di malattie per la quale si rischiava la morte, oggi, temuti e portano allo scontro genitori ma anche sostenitori no-vax e convinti sostenitori dei vaccini. “La storia del mondo senza vaccini è realmente tragica. E la storia di quello post-vaccinale nel caso in cui si rifiutassero le vaccinazioni, potrebbe esserlo molto di più”, è l’opinione del paleopatografo, Francesco Galassi, tra gli under 30 più influenti nel campo della medicina. Paura e scetticismo con bambini al centro della decisione, perché le notizie viaggiano in rete. La presenza di informazioni fallace in rete, ha portato allo scetticismo di molti genitori nei confronti delle vaccinazioni sia da attribuire al deficit di conoscenza storica, ossia occorre una riscoperta dell’effetto devastante delle malattie infettive nel mondo pre-vaccinale. Informazione, conoscenza, superando scetticismo, paura ma anche il dolore, che a volte spinge a mettere in dubbio il valore delle vaccinazioni che non risolve la questione. Informazione e conoscenza in tema, che dovrebbe pervenire anche dal Ministero. Intorno al mondo dei vaccini girano notizie, voci, teorie, si parla di complotto, di egoismo, di un giro d’affari ma da parte del Ministero non ci sono opuscoli, linee guida, storia che racconti di un mondo senza vaccini e dell’enorme pericolo alla quali ci esponiamo senza copertura vaccinale. Il mondo dei vaccini sembra un mondo a sé, fatto di teorie e ideologie, eppure i casi aumentano: bambini sono morti perché privi della copertura vaccinale ed i genitori sono diventati sostenitori del progresso scientifico, sentendosi gli assassini dei propri figli; ma i casi, le epidemie a poco servono, se non c’è informazione, consulenza da parte del Ministero ed è ciò che ha chiesto la giornalista Francesca Barra, in una lettera senza risposta al Ministro Lorenzin, ammalatasi a Milano, lei e due dei suoi tre figli, di epatite A, che si trasmette per via oro-fecale da cibi crudi o dal poco igiene con gli alimenti. In realtà a Milano i casi di epatite A sono quadruplicati e nonostante da settimane la stampa ne parli di profilassi o di vaccini non se ne parla. Eppure il virus rischia di contagiare altre persone, in quanto dai ristoranti ai bar il cibo la fa da padrone. E la società civile resta a guardare, ad informarsi sul web che alimenta solo egoismo e complotto, perché non vaccinare i propri figli non solo li mette in pericolo, ma contesta anche la norma elementare per cui il comportamento individuale non debba nuocere agli altri. Così rifiutare i vaccini diventa l’espressione di un individualismo senza limiti, l’estremo rifiuto della società di massa.
Facebook, il racconto del mio 2017 è #duemiladiciassette ma te lo racconto io, seppur gli anni non si raccontano ma si vivono intensamente e fortemente con annessi e connessi. Ma gli anni emozionano, spaventano, sono tempeste e tornati, gioie infinite e sorrisi e allora ti racconto cosa ho provato.
Un leggero frastornamento, la disperazione, l’ansia, il terrore in notti che passano insonni perché preda della paura, la diagnosi di tumore si riversa come un tornado, mettendoci di fronte a sentimenti e paure più grandi di noi. Come restare “a galla” in una situazione così difficile? E come comportarsi con una persona cara che si ammala? Certo molto dipende dal carattere dei singoli individui, ma sono moltissimi – la stragrande maggioranza- i pazienti ed i familiari che attraversano periodi più o meno lunghi di ansia, depressione, tristezza, paura dopo aver ricevuto la notizia di un tumore. Banale e persino poco scientifico, ma è una verità provata da molti studi e soprattutto dall’esperienza di migliaia di pazienti: il tempo che passa è un prezioso alleato. Utile a smussare gli angoli, le asperità del primo momento legate al trauma della diagnosi. In sostanza, lo shock iniziale è come una ferita nell’anima: col passare dei giorni può rimarginarsi oppure rischia di peggiorare. La regola numero uno per amici e familiari disorientati dalla malattia che cambia la vita di chi si ama, è quello di ascoltare, lasciare che il malato si esprima e non si tenga tutto dentro. Minimizzare è controproducente, molto più efficace è un atteggiamento rassicurante e d’incoraggiamento. Ma è importante anche affrontare la malattia sotto aspetti nuovi, divertenti e incoraggianti, perché la malattia ha bisogno di approcci diversi ed il moderno sociale di metodi e di approcci ne ha trovati diversi. I pazienti si sostengono a vicenda. Accade più al Nord che al Sud. Spesso sono legati ad associazioni di volontariato. Le donne sono le più disposte a condividere esperienze ed emozioni. E le attività ricreative creano legami in un momento difficile della vita. E così nasce l’aggregazione, la condivisione, il supporto reciproco nei gruppo di auto aiuto: pazienti ex pazienti oncologici o anche familiari, decidono di incontrarsi periodicamente per sostenersi reciprocamente attraverso la condivisione di emozioni, esperienze e informazioni, in una fase della vita complessa, anche tragica, sebbene sempre più spesso transitoria: il cancro. La presenza di quello che in gergo sociale è definito “facilitatore” fa la differenza. Un professionista: un’assistente sociale o uno psicologo guidano il flusso di emozioni, di vita vissuta, tutelando tutti: chi parla e chi ascolta. L’obiettivo per una patologia con un simbolico così importante non è lo sfogo, che ha la sua importanza, ma la comprensione della propria esperienza e il controllo di sé. Naturalmente c’è anche l’identificazione positiva: proiettarsi in coloro che stanno guarendo fa bene, se accade. Sono più le donne a frequentare gruppi di auto aiuto ma anche iniziative sociali che affrontano in un’ottica diversa la malattia. La ragione è culturale e antropologica: le donne sono più introspettive degli uomini, che da sempre hanno meno pratica con l’esternazione di debolezza e vulnerabilità, legate alla malattia oncologica mentre la si vive. Ma qualcosa sta cambiando: gli uomini lentamente si stanno avvicinando alle esperienze di condivisione. A latere dei gruppi di auto aiuto non è raro che le organizzazioni di volontariato o le donne che si incontrano in corsia o durante una seduta di chemioterapia organizzino attività ludico-ricreative dedicate a chi ha o ha avuto un tumore. Le più varie e naturalmente di grande impatto, certamente positivo, sulla vita di un paziente, con finalità distinte da quelle terapeutiche, sono corsi di cucina in cui le donne si ritrovano tra i fornelli a sperimentare nuove pietanze divertendosi. Ma ci sono anche corsi di yoga leggera o yoga della risata, camminate insieme nella natura. Attività che uniscono i pazienti, li portano fuori dalle camere degli ospedali, evadendo dagli aghi, dalle terapie, dal dolore che la malattia fa conoscere, ma scoprendo un mondo fatto di solidarietà, di forza anche reciproca, di nuovi spazi che se la malattia detta, il paziente ridisegna e rimodula, cercando il bello della vita nonostante tutto e immergendosi in sorrisi e nuove attività, riscoprendo abilità e nuove parti di sé. Perché la malattia non và vissuta seduti in un angolo della vita e di casa.
Sono stati prosciolti dall’accusa di omicidio colposo i genitori di Eleonora, la diciottenne del padovano, morta nell’agosto di un anno fa, per una leucemia linfoblastica acuta. La ragazza, che nel 2016 aveva 17 anni, aveva rifiutato la chemioterapia. Secondo il PM, che aveva chiesto il rinvio a giudizio, erano stati i genitori a cercare cure alternative, rivolgendosi ad una clinica in Svizzera, convincendola a rifiutare la chemio. Ma per il GUP di Padova, il fatto non costituisce reato. I genitori avrebbero agito in buona fede. Si afferma così il principio della libertà di scelta delle cure mediche e di autodeterminazione anche da parte di un minorenne. Prevale, dunque, il diritto della persona di scegliere se sottoporsi o meno alle cure, anche se minorenne. Nessuno può essere sottoposto a trattamenti sanitari obbligatori, recita così la Costituzione italiana. Ma se si tratta di un paziente minorenne? Possono i genitori di un minore malato di tumore non firmare l’autorizzazione alle cure chemioterapiche, pur sostenendo di voler rispettare la volontà del figlio? E’ l’interrogativo drammatico posto dal caso della giovane Eleonora: i genitori non avevano prestato il consenso alla chemioterapia e nell’arco di sei mesi la leucemia l’ha uccisa. Un caso non isolato, si abbandona sempre più la medicina per pratiche di medicina “alternativa” o di trattamenti non convenzionali. Il tutto dipende dalla crisi del paziente, dal rapporto che si è instaurato tra il medico ed il paziente. Un consenso alle cure che i genitori hanno negato, cercando di rispettare la volontà della figlia, un confine labile, difficile per un genitore, di certo bisogna valutare la capacità di agire del minore, la capacità di elaborare il messaggio medico, l’urgenza della cura, nell’ottica dell’accettazione o del diniego del minore. L’atteggiamento sarebbe quello di aiutare il minore a comprendere le informazioni, aiutandola a confrontarsi con un esperto: un oncologo, un professionista del settore specifico, che tessa le informazioni più complete possibili, magari aiutandosi con un supporto psicologico, al fine di capire anche il fondamento del rifiuto delle cure, ciò spinge a capire se c’è stata un’elaborazione ed una scelta consapevole e per quanto possibile matura. Di fondo però c’è anche una medicina che sembra non saper parlare più ai suoi pazienti, mentre, le cure alternative sembrano coinvolgere sempre più pazienti, anche minorenni, che facilitati dall’uso di internet, scoprono e si imbattono in cure alternative. Infatti, la giovane Eleonora aveva scelto di far ricorso alla medicina alternativa di Hammer, medico tedesco e sostenitore della tesi secondo cui i tumori e le leucemie altro non sono che un riflesso fisico di traumi psicologici. Così la giovane ha deciso di far ricorso al metodo Hammer anziché la chemioterapia che secondo i medici le avrebbe dato ottime possibilità di guarigione. Una scelta quella di Eleonora prima, di una sentenza poi, destinata a farci riflettere: i genitori non possono sostituirsi ai figli, seppur minorenni, maggiormente se questi hanno raggiunto un’età in cui vi è capacità di giudizio e di scelta. I genitori anche di fronte alla malattia, al dolore, sono chiamati ad accettare le scelte dei loro figli, seppur queste vanno incontro talvolta, come in questo caso, alla morte. Una sentenza che richiama ad un principio importante per gli esseri umani, ma anche per gli assistenti sociali: l’autodeterminazione, ovvero, prendere proprie decisioni, e se minorenni, autonomamente dai genitori. In effetti, l’elenco sancito da leggi e articoli del codice civile è lungo, dal contrarre matrimonio al compimento dei sedici anni, al riconoscimento del proprio figlio anche se minorenne, alla titolarità del diritto d’autore, ma anche al compimento dei tredici anni il diritto di esercitare il diritto di querela. Minori che possono anche per la legge abortire, persino all’insaputa dei genitori, come potrà in anonimato rivolgersi al SERT, iniziando un programma riabilitativo senza che i genitori ne siano necessariamente informati, ed ora con la sentenza di Padova di Eleonora, si afferma il diritto del minore di scegliere autonomamente se sottoporsi o meno ad una cura, chiedendo quindi ai genitori di non firmare il consenso.
L’obiettivo è aiutare le persone in difficoltà economica: secondo l’Istat, in Italia, sono 4,6 milioni le persone che vivono in condizione di povertà assoluta. La legge contro la povertà prevede gli interventi da mettere in campo per sostenere le famiglie più povere sparse su tutto il territorio nazionale. Da queste premesse nasce il Reddito di Inclusione Sociale (REI), un passo storico verso l’introduzione di una misura universale che tenga conto della condizione di bisogno economico e non dell’appartenenza a singole categorie. Da oggi, 1 dicembre, sarà possibile presentare la domanda per ottenere il Reddito di Inclusione, prima misura di contrasto alla povertà. Si tratta di un beneficio economico combinato ad un progetto personalizzato per: famiglie con minori, disabili, donne in gravidanza a quattro mesi dal parto, disoccupati con più di 55 anni. A partire dal primo Gennaio 2018 andrà da 187, euro, mensili, a persone singole, ad un massimo di 485 euro, mensili, per cinque componenti, erogati per un massimo di diciotto mesi, rinnovabile per altri dodici mesi ma solo se saranno passati sei mesi dal godimento della prestazione. La famiglia beneficiaria dovrà attenersi al progetto personalizzato o subirà decurtazioni o decadenza. Il reddito di inclusione non è compatibile con altri ammortizzatori sociali di un qualsiasi membro familiare. Per ottenere il beneficio l’Isee familiare non deve eccedere i sei mila euro, mentre, l’indicatore individuale Irsee non deve superare i tremila euro. Oltre l’abitazione non si possono avere immobili che valgono più di ventimila euro, e più di diecimila euro in denaro. Può essere chiesto da europei o extracomunitari con permesso di soggiorno residenti in Italia da almeno due anni. Le domande potranno essere presentate dagli interessati o da un componente del nucleo familiare in un punto d’accesso Rei che verranno identificati dai Comuni o ambiti territoriali. Il comune raccoglierà la domanda, verifica i requisiti di cittadinanza e residenza e saranno inviate entro trenta giorni lavorativi. L’Inps entro i successivi cinque giorni verifica il possesso dei requisiti e in caso di esito positivo riconosce il beneficio. Una misura di contrasto alla povertà che richiama ad un ruolo centrale l’assistente sociale, che avrà il compito di delineare un progetto personalizzato che miri al reinserimento lavorativo e all’inclusione sociale. Quindi un comune deve avere un sistema di interventi e servizi sociali con delle caratteristiche: segretariato sociale per l’accesso, servizio sociale professionale per la valutazione multidimensionale dei bisogni e la presa in carico, accordi territoriali con servizi per l’impiego, la tutela della salute e dell’istruzione, e con gli altri soggetti privati. Il progetto personalizzato seguirà due fasi importanti: una prima, definita preassessment, che orienta gli operatori e le famiglie nella decisione sul percorso da svolgere per la pre-analisi, che definisce il progetto e determina la composizione dell’equipe multidimensionale che dovrà accompagnare e attuare il progetto. Il preassessment guida e orienta l’osservazione degli operatori: raccolta delle informazioni sul nucleo familiare, i fattori di vulnerabilità dei singoli componenti, la storia familiare e la valutazione complessiva. Ogni progetto sarà seguito da un equipe, di solito formata dall’assistente sociale e dall’operatore dei servizi per l’impiego. Ma, potrebbero essere coinvolte altre figure professionali in base alle problematiche presentate dal nucleo familiare. Segue poi la fase dell’assessment, un quadro di analisi, che identifica i bisogni e le potenzialità dei componenti familiari. Tre sono le dimensione che verranno prese in considerazione: i bisogni della famiglia e dei componenti per cui si guarderà al reddito, alla salute e all’istruzione; le risorse che possono essere attivate, capacità e potenzialità; e i fattori ambientali che possono sostenere questo percorso, ovvero, rete familiare e reti sociali. La progettazione mirerà soprattutto al superamento della condizione di povertà, all’inserimento lavorativo dei componenti familiari, per cui i componenti familiari si assumeranno delle responsabilità. Una misura che non và vista come il classico gettito di soldi rivolto a chiunque e da utilizzare, ma come un punto di partenza, una possibilità per riscattarsi a livello sociale e lavorativo. Ma, è una misura che rischia di fallire anche perché molti comuni del Sud Italia non sono pronti alla misura, manca il personale: gli assistenti sociali sono sotto organico, di nuove assunzioni neanche l’ombra, e si rischia che le pratiche restino impolverate in qualche ufficio mentre le buone intenzioni del Governo resteranno solo utopia in un investimento che sembra più perdere che vincere. Noi vogliamo avere fiducia nel nostro Governo e vogliamo credere che il Sia rappresenti una reale misura per contrastare la povertà e l’esclusione sociale.
“Io Alessio lo difenderò fino alla morte”, decisa e convinta, Ylenia, 22 enne, che lo scorso Gennaio fu cosparsa di benzina e data alle fiamme, dal suo ragazzo (ex?), accusato dagli inquirenti di tentato omicidio. Un tentativo di mutilazione come un altro ed il sessismo la fa da padrone. Lei riporta ustioni “non gravi” e dal letto d’ospedale difende il suo fidanzato agli occhi dei media nazionali, ma non solo l’eco della difesa si fa sentire anche nell’aula di Tribunale dove è in corso il processo a carico del giovane. Ylenia, che spera in un’assoluzione e in una vita insieme a lui, nell’ultima udienza si è addirittura avvicinata al banco degli imputati e lo ha baciato sotto lo sguardo costernato di sua madre, che non smette di difenderla da questo amore malato, tanto da costituirsi parte civile. Le prove a carico del giovane sono pesantissime: è stato ripreso dalle telecamere di sorveglianza del distributore dove ha comprato la benzina che poi ha usato contro la ragazza, ma lei continua a difenderlo, eppure, ai soccorritori, all’amica che per prima la aiutò, alla madre, accusò proprio lui come aggressore. Dopo pochi giorni dall’aggressione avvenne la ritrattazione che oggi è avvenuta anche in uno sguardo di intesa lanciato al suo Alessio in Tribunale. Fragile ed insicura, con dei limiti emotivi, evolutivi, culturali che incidono ed influenzano Ylenia. Lucia Annibali, Jessica Notaro, donne che hanno insegnato la forza e la dignità di vivere, pur se per colpa di un uomo si sono trovate ad un passo dalla morte. Donne che hanno mostrato la forza di reagire e di combattere, ma prima di tutto la forza di denunciare, senza chiudersi in meschine parole d’amore o false protezioni. Ylenia, urla non solo il suo amore per Alessio, ad una madre preoccupata che la prossima volta possa ucciderla, ma anche alla società civile, alle sue coetanee, dicendo a tutti in un linguaggio colorito che sono “fatti suoi”. Ma, la sua storia non è solo sua, è di tutti noi, di chi ogni giorno lavora per aiutare le donne vittime di soprusi e violenze, di chi lavora con gli uomini per una società amante delle donne e non contraria. Non sono solo fatti di Ylenia, perché le sue bugie, sono false protezioni che danneggiano lei e tante altre vittime, pronte ad emularla, a pensare che “il troppo amore”- come lo definisce lei, possa portare a questo. C’è uno Stato che prova a tutelare le vittime, mentre, questo processo è ormai lungo, innescando anche la sua falsa testimonianza. Ma lo Stato è sinonimo di tutela, perché gli aggressori stanno in galera, evitando che restino liberi e impuniti dove magari a farsi giustizia è un parente. “Era tanto buono, non mi ha mai fatto nulla”, il problema non è solo di Ylenia o alla violenza che potrà rifarle. Un violento è un violento sempre, specialmente quando è protetto da una donna che crede e combatte per la sua assoluzione. Un violento che potrebbe sfogare la sua rabbia, il suo sessismo non solo su Ylenia che ha fatto una scelta, amarlo e “superare” un gesto che le poteva costarle vita, ma altre donne potrebbero non essere così fortunate. Non sono solo fatti di Ylenia, perché la sua storia è entrate nelle case della gente. Di parlarne. Figlia anche della televisione, forse peggiore, diventando la storia di tutti, perché ci si stropiccia gli occhi per credere a quello che si sta vendendo mentre si urla amore ad un gesto ignobile e che di amore ha ben poco. Donne, come Ylenia, protettrici dei loro aggressori, vittime anche di una violenza psicologia che le ha spinte a perdere la fiducia in se stesse e nelle proprie capacità. Deboli e succube di un amore che pensano sia tale, è solo ossessione, possessione, che di passione, sentimento, trasporto c’è ben poco. Arrivano a non concepire una vita senza il loro aggressore. Le donne difendono gli uomini violenti in una difesa inconscia, hanno paura di rimanere sole e li difendono nella speranza che cambino, ma un violento non cambia, se non aiutato nei luoghi e dalle persone competenti. Ci sono donne che vivono la violenza come normalità, esponendosi quasi ogni giorno per anni, perché magari provengono già da un vissuto familiare violento, alla morte o violenze fisiche e distruzione psicologica, sentendosi una nullità, una cattiva compagna, pensando che di quell’uomo ne avranno sempre bisogno: affettivamente, economicamente, come padre dei loro figli, senza mai pensare al dolore, alla sofferenza continua e all’infanzia negata che stanno dando ai loro figli. Una battaglia non solo contro gli uomini che non amano le donne, ma una battaglia per donne, a cui siamo chiamati tutti noi: dagli assistenti sociali, alle donne comuni, passando per gli insegnanti, un messaggio deve risuonare: risvegliare le coscienze delle donne che subiscono, dare voce e qui il ruolo importante lo gioca il famoso tubo catodico alle donne che hanno denunciato, che stanno vivendo il secondo tempo della loro vita, non ad Ylenia, mi dispiace per lei, che protegge e difende il suo aggressore.
“Né puttane né madonne ma solo donne”, declinato in qualche altra variazione, era questo lo slogan più gettonato dal movimento femminista del ’68. Una rivolta che, da pensiero, riesce a farsi pratica politica concreta e a popolare i luoghi pubblici e le piazze, inaugurando una nuova e inarrestabile stagione di libertà e diritti che, tra marce avanti, zoppicamenti e andate e ritorni non sarà più possibile fermare. Donne che il sessantotto l’hanno fatto e vissuto: in una comune, chi in giro per il mondo, chi nelle piazze e chi lavorando nei campi, scoprendo il lato femminile e rispettabile di donne che studiavano e lavoravano, che erano ragazze madri, artiste, hippie, borghesi, proletarie, femministe o lesbiche, partecipando ad una rivoluzione collettiva che apriva una nuova visione femminile agli occhi dei padri di famiglia e degli uomini di quegli anni. Rispetto, la parola d’ordine, per quell’emancipazione femminile che proponeva l’immagine di una donna pensante e idealista, che andava oltre al marito, ai figli e alla casa. Le conseguenze degli slanci femministi e delle contestazioni del sessantotto furono concretissime, per tutte le donne: portarono al pensiero differente del proprio corpo, al piacere slegato dalla riproduzione, alla liberazione dalla funzione materna come destino. La liberazione non fu indolore, ma fu sovversiva: “Ognuno di noi aveva trovato il modo di partorire un altro se stesso.”- l’eco di un racconto. La donna una figura complessa, anima e musa da millenni di immaginari. Nevrotica, intricata, compulsiva e istrionica. Degna di parole e interi romanzi. Simbolo dell’amore e dell’odio che corrode l’affetto materno e la rende un’eterna Medea. Il femminismo più ferocemente attivo della seconda metà del secolo scorso, che voleva portare quel corpo a essere strumento nelle esclusive mani di chi lo possedeva, lo ha eletto a mezzo per una lotta sociale, condendolo di esibizionismi spesso discutibili, e svuotandolo della sua sacralità primitiva. La nostra contemporaneità lo ha portato a essere mercificato per ottenere. È questo forse il risultato più ambiguo delle lotte femministe. Il corpo è della donna. Ma la donna di oggi lo usa, ne abusa e lo svende, in maniera ignorante, ma, senza ombra di dubbio, cosciente. Modelli femminili ideali che continuamente la televisione ci propone, incarnando il sogno degli uomini, che alimentano l’idea di una donna dal solo corpo: formosa e acquistabile. Seguono commenti, goliardici, ammiccamenti, risatine, in tutte le fasce di età, e lungo tutte le fasce sociali. E le donne, quelle vere, le casalinghe, le battagliere, le ricercatrici, le laureate precarie, dove sono? Protagoniste oscure della società? Si possono ancora raggiungere per una donna degli obiettivi con disciplina e rigore del lavoro? E per farlo perché il corpo diventa ostacolo o scorciatoia? Rimaste vittime di un gioco sottile, che ha rinchiuso le nostre possibilità di scelte in pochissime manciate di opzioni, abbiamo esasperato il nostro desiderio di esistere, di avere ruolo e potere. Dimostrare, molto, di più, ancora di più, per equilibrare una bellezza fisica, che ora, più di una volta, è ricercata, inseguita, ottenuta e stuprata. Ed è così che noi, giovani donne, combattiamo ogni giorno, con altre donne, per poter manifestare. Inesplose capacità comunicative e inesplorate potenzialità umane e professionali. Donne contro donne. Mentre l’uomo sta a guardare e si incattivisce pensando di arrivare a possedere una donna. Maltrattate, violentate, uccise, in una ignobile guerra contro le donne da parte degli uomini. Omicidi che si consumano tra le mura domestiche e per mano del proprio partener. Uomini che lasciano posto all’ossessione per la donna che professano di amare, diventando gelosi e violenti. L’uomo che diventa orco, un tormento, un calvario fatto di minacce, persecuzioni, telefonate, la paura cristallizza le donne, che spesso subiscono in silenzio, poi c’è chi trova il coraggio di denunciare, ma vengono lasciate sole delle istituzioni, dalla legge, in primis. E la cronaca ci racconta l’epilogo tragico. Uomini contro le donne, mentalità che tornano indietro, violenza inaudita e donne sempre più sole a fronteggiare una parità ormai utopia. A poche ore dal 26 Novembre, giornata contro la violenza sulle donne bisogna andare oltre ogni retorica, falsa promessa ed iniziare ad essere solidali con le donne e tra le donne, insegnare il valore del rispetto al genere femminile sin da bambini, piccoli gesti come un fiore alla donna, una carezza per una bambina, arrabbiarsi ma non scaricarsi con un pugno o uno schiaffo tipico dei bambini in lotta, sono i piccoli esempi di uomini del domani che rispetteranno le donne. Ma, oggi abbiamo bisogno di un sistema normativo forte e che tuteli, che sia al fianco delle donne e punisca l’orco sin da subito, che prevenga le tragedie. Abbiamo bisogno però della parità effettiva nei luoghi di lavoro, a livello salariale, abbiamo bisogno di riprenderci quel posto nella società che lentamente si è confuso ad una parità apparente e se servirà sfoderare il lato battagliero come nel ’68, riavvolgendo un po’ il nastro della storia femminile e sociale.
Satanismo, riti magici, sette religiose, sono duecentoquaranta mila in Italia le persone finite nella trappola di queste organizzazioni. Difficilissimo uscirne e le sette non perdonano chi vuole lasciare. Sette sataniche tra cronaca e leggenda. Nel nome di satana si uccide, in Persilvenia, due anni fa, una ragazza ha ucciso cento persone nel nome del diavolo. Puzza di zolfo e si respira aria infernale, accade in molte regioni d’Italia. Altari saccheggiati, atti di sfregio e capretti sgozzati, ostie e oggetti sacri rubati in molte chiese, la pista satanica è quella più gettonata e si fa sempre più strada nei casi di suicidi e i dati raccontano come i furti ed i suicidi in nome di satana, negli ultimi anni siano aumentati. L’ s.o.s è chiaro e forte dagli esorcisti, le possessioni diaboliche sono triplicate. Nelle maglie dei guru e delle sette religiose finiscono anche le donne. Abusi psicologici, plagio e manipolazione mentale da parte di guru, santoni e falsi mistici. Storie drammatiche di donne a cui è stato fatto un rito voodoo per indurle alla prostituzione. Donne, che hanno perso soldi, famiglia e dignità. Persone disperate, che attraversano problemi difficili nella loro vita: problemi di salute, problemi economici o affettivi, è questo l’identikit di chi decide di aderire ad una setta. Facile pensare che siano gli altri a cascarci, i più sprovveduti. Le statistiche, rivelano a sorpresa che la maggior parte delle vittime ha un livello di istruzione medio-alto. Si tratta soprattutto di persone adulte del Nord Italia. Il diavolo si presenta sotto diverse forme: le sette non sono solo sataniche: ma mondo occulto, psicosette, sette pseudo religiose, magico isoteriche, se non sono tutte sataniche, sono tutte diaboliche, perché diavolo significa colui che separa dagli affetti più cari, a volte anche dal lavoro, distruggendo la persona. Sedute spiritiche, riti, luoghi e musiche, riti di purificazione, che attirano sempre più adolescenti. L’adorazione di satana non conosce età anche se, attraverso l’utilizzo dei social network, sono sempre più gli adolescenti che si avvicinano per la prima volta al culto di satana. Accorgersene per un genitore diventa difficile, perché la crisi adolescenziale si mescola al satanismo, che viene vista come una via di fuga all’adolescenza e ai suoi cambiamenti. Il bisogno di trasgressione, di senso di appartenenza si affianca a quell’età al desiderio di onnipotenza e di rivalsa della frustrazione. Tratti definibili come “schizoidi” e “antisociali” possono giocare un ruolo estremamente importante. Ma anche la propensione per l’occulto, il gotico, sono segni che vanno tenuti d’occhio, facendo attenzione a non pensare sin da subito che siano già strumenti del demonio e che il maligno stia già operando. Secondo un censimento sono circa 10 le sette sataniche organizzate presenti in Italia, ciascuna con una media di circa un centinaio di adepti. Ma l’aspetto più inquietante è l’aumento di gruppi disorganizzati. Sette e riti che fanno sprofondare nell’abisso del sé, che si coniuga alla manipolazione e alla paura: uscirne diventa difficilissimo. E’ importante però il ruolo di assistenza, prevenzione e controllo affidato all’assistente sociale, solo se è ben informato su tali realtà. Importante diventa anche il lavoro di rete, una grande risorsa, perché agevola la velocità nelle segnalazioni alle autorità, nelle comunicazioni e nella ricerca. Importante è anche rivolgersi alle autorità per chiedere aiuto, specie i familiari che si ritrovano dinanzi a persone che ormai hanno cambiato il loro carattere ed il modo di vivere. Ma, in Italia ci sono anche molte associazioni che operano per supportare chi rimane vittima delle sette ed i loro familiari, spesso abbandonati e minacciati dalle sette. C’è anche un numero verde 800-228-866 di Don Aldo Buonaiuto, che dal 2006 collabora anche con la Polizia di Stato. Forze che si uniscono per aiutare chi rimane plagiato e vittima dei guru e delle sette.