Archivi categoria: Una finestra sul mondo

Pandemia e guerra: l’essere umano tra umano e disumano. Che impatto psicologico e morale hanno questi eventi?

Dopo due anni di pandemia ci ritroviamo schiacciati dalla paura della guerra che si combatte vicino casa. Stressati, ansiosi e sopraffatti dagli eventi come se l’aria fosse sempre meno, sperimentiamo il disorientamento. Prima la pandemia, che ha cambiato le nostre vite, e ora la guerra in Ucraina. Il conflitto diventa elemento che deprime e rende tutti più pessimisti e scettici sul futuro. Eventi drammatici, sconcertanti e imprevedibili, si sono presentanti nelle vite umane che conoscono uno dei momenti più bui della nostra esistenza e della nostra storia recente. Un parallelismo di eventi forti: la paura che ha condizionato e guidato le nostre vite, ora incontra l’incertezza e l’insicurezza. Un concentrato di emozioni, un boom di notizie che stressano e stancano. Il disagio mentale che si prova ha un nome ben preciso: stanchezza emotiva, conosciuto anche come esaurimento emotivo, è uno stato in cui emotivamente ci si percepisce come esausti e svuotati a causa dello stress accumulato e condizionato dagli eventi che ci circondano. La sensazione che si prova è quella di avvertire di non avere alcun controllo su ciò che accade nella propria vita. I sintomi, che spesso sono un campanello d’allarme, troviamo insonnia, problemi ad addormentarsi, cambiamenti fisici come per il peso, mal di testa; e cambiamenti nelle relazioni interpersonali, cambiamenti d’umore con una visione più cinica e pessimista del solito. Senza dubbio, l’essere umano prima con la pandemia che oggi si unisce alla guerra, si ritrova a scoprire emozioni e sentimenti nuovi, ritrovandosi talvolta più fragile anche psicologicamente, e ciò ha delle ripercussioni fisiche, emotive e anche nella visione della vita. Ma anche un bivio inimmaginabile per l’individuo: umano e disumano, due forme di guerra. La prima contro un nemico invisibile e poche armi per combattere, l’altra reale, fisica, con conseguenze umane disastrose e spaventose. Momenti che interrogano e pongono degli “invece”. Quanti momenti sprecati inutilmente, quanto dolore inflittoci in alcune occasioni ed inutilmente. Essere umano “distruttore”, questo siamo diventati, perdendo di vista la vita e l’umanità. Eppure l’uomo in pandemia distrugge con la guerra, aggiungendo morte alla morte, accantonando ogni compassione in nome del tornaconto, qualsiasi esso sia. E la società moderna che ha ogni ricchezza e benefit con la quale poter rimediare ai tanti problemi che attanagliano e distruggono popolazioni sfortunate da molto tempo ormai, continua in una tragicommedia di disumanità, dove la violenza è legittimata dai governi, che alza muri e crea fili spinati sotto i nostri occhi e a pochi passi da casa nostra, dove altri esseri umani, uomini e donne, che potrebbero essere “noi”, muoiono di fame e di freddo, che si aggrappano alla speranza di fuggire, persone che desiderano solo una vita migliore, ma nei fatti reali si alimenta ancora odio. Il potere e il possesso di cose che fanno gola al mondo, diventano armi di ricatto, passa in secondo piano la vita degli esseri umani. Tutto questo nasce dall’uomo e dalla sua volontà, in un’umanità che nonostante si ritrovi a sperimentare il baratro tra la vita e la morte, continua a gareggiare tra l’umano ed il disumano. La realtà del mondo reale è sconcertante: morte e distruzione, che non scuotono quasi per niente le coscienze, col cinismo ed il potere che fanno ancora da padrona, prevalendo sull’umanità ed il bene. Forse non sarebbe tempo che questi “segnali” così forti che arrivano come un cazzotto in faccia e al cuore delle persone, facciano riflettere ed interrogare la morale di molti?

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Il bonus psicologo è realtà. La misura- finalmente -riconosce il disagio psichico

Bonus psicologico, c’è l’ok all’incentivo. Dapprima escluso dalla Legge di Bilancio 2022, il bonus psicoterapico ha ritrovato spazio nel dibattito politico grazie al decreto Milleproroghe. Il provvedimento è ora all’esame delle Commissioni Affari costituzionali e Bilancio della Camera. Il bonus da utilizzare per la terapia psicologica, si concretizzerà come contributo economico che potrà arrivare fino ad un valore un valore massimo di 600 euro, che servirà a pagare “sessioni di psicoterapia – si legge nell’emendamento- fruibili presso specialisti privati regolarmente iscritti all’albo degli psicoterapeuti.” Il contributo sarà pramentrato alle diverse fasce Isee al fine di sostenere le persone con Isee più basso. Sarà escluso dal bonus chi presenta un Isee superiore ai 50mila euro. Il contributo non ha limiti di età. Il contributo servirà al cittadino per sostenere le spese di un ciclo di sedute di psicoterapia, il quale potrà usufruire di un pacchetto di 12 incontri totali. Un aiuto dunque, a tutte quelle persone interessate a iniziare un percorso di sostegno psicologico e/o psicoterapeutico ma impossibilitate a farlo per motivi economici. Gli anni di pandemia hanno messo a dura prova la psiche umana, chiamata a confrontarsi con paure ed angosce, con cambiamenti umorali e restrizioni che hanno spinto ognuno ad adattarsi ad una situazione anomala, che ha portato le stesse istituzioni a riconoscere quanto ciò abbia avuto un forte impatto sulla psiche umana. Il presidente del CNOP (Consiglio Nazionale Ordine Psicologi), David Lazzari, ha riferito che oggi la domanda di psicologia e psicoterapia è molto aumentata, un’indagine, infatti, riporta almeno del 40%. Ma è un dato frenato dalla barriera socioeconomica che esiste tra un bisogno sempre più diffuso e sentito e una risposta quasi solo privata. La stessa ricerca ha documentato che un 48,5% di persone, pur avendo cercato aiuto, non hanno potuto iniziare un trattamento o hanno dovuto interrompere quasi subito per motivi economici. E’ risaputo come senza salute mentale non vi è quella fisica. La crisi sanitaria dovuta al coronavirus ha poi aumentato le richieste di aiuto per disagi e disturbi psichici, che in alcuni casi hanno subito regressioni o peggioramenti dovuti alle restrizioni e al bombardamento di notizie. Durante la pandemia i casi di depressione e di ansia sono aumentati del 28 e del 26%, secondo i dati. Non da trascurare anche lo stress post-traumatico, fenomeno che solitamente insorge nelle persone a seguito di un evento o calamità naturale, presentando disturbi del sonno, ansia, depressione, irritabilità, con la compresenza anche di altri fenomeni più o meno gravi. Inoltre, non vanno dimenticate quelle persone che hanno contratto il virus e che hanno sperimentato in prima persona l’isolamento casalingo, le terapie, la paura e l’angoscia di chi è affetto da covid-19, ma anche chi si è ritrovato ricoverato in un reparto ospedaliero. Eventi che segnano psicologicamente ed umanamente. Secondo i dati, ad esserne colpiti dal disagio psicologico è un’utenza variata: si nota un aumento soprattutto tra i giovani tra i 18 ed i 24 anni, da non trascurare anche negli adolescenti dove l’approccio è quello della neuropsichiatria infantile e di uno spazio psicologico adolescenziale, carente anche lì. Ad essere colpito anche le donne e persone categorizzate come appartenenti al ceto medio. L’incentivo economico è sicuramente utile ma prima di tutto serve consapevolezza e preparazione per chi vuole intraprendere un percorso di cura. Intraprendere un percorso di analisi e terapia personale, significa prendere in mano la propria vita, uscire dalla propria “comfort zone”, affrontare le proprie difese, i propri limiti e resistenze, istaurando una relazione di fiducia con il terapeuta, il quale dall’esterno aiuta a rivedere la propria vita con una visione differente. Quindi non è una terapia sulla persona ma con la collaborazione della persona e per la persona, e la motivazione ed il coinvolgimento in prima persona sono fondamentali per affrontare qualsiasi processo di cambiamento, evoluzione e guarigione. Quando invece si tratta di un minore, c’è una persona di riferimento: genitore, insegnante, adulto con la quale si interfaccia a consigliare un percorso, che potrebbe coinvolgerlo almeno nella fase iniziale o coinvolgere il sistema famiglia, per lavorare insieme. Insomma, la politica ha pensato alla psiche umana, ma il colloquio con uno psicologo non và visto nell’ottica di qualcosa di “offerto” ma un’evoluzione positiva di se stessi lì dove c’è motivazione e coinvolgimento, quando la persona realmente vuole un percorso psicoterapico.

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E se sulla giustifica per la scuola qualche volta scrivessimo “tempo libero”?

Hanno gli occhi pieni di vita, l’innocenza sana, l’energia instancabile, il potere dell’immaginazione, hanno gli anni più belli e più dolci, i bambini, che in tempo di pandemia hanno dimostrato tolleranza e comprensione, spirito di adattabilità, potere della fantasia, insegnandoci che è possibile crederci. Una lezione di vita che mai ci saremmo immaginati da bambini e adolescenti, quelli che abbiamo sempre pensato essere una generazione lontano dai valori sani. Quei bambini che vivono giornate frenetiche ed intense, al pari di un adulto, con la differenza che non hanno il corpo e la mente di un adulto. Le loro giornate sono scandite dalla scuola, dalle attività extra scolastiche, in ritmi serrati e in orari da incastrare, poi ci sono i compiti da fare anche dopo il tempo pieno a scuola e dopo le innumerevoli attività, vivono come in una centrifuga che corre veloce a cui devono stare al passo anche primeggiando, mostrando il loro essere eccellenti, perché spesso i genitori non riescono ad accettare il fallimento in un’attività del proprio figlio. Una gara tra genitori di come il proprio bambino sia migliore in tutto, unico, senza ascoltare i desideri e le passioni dei più piccoli, senza lasciargli il tempo di sperimentare la frustrazione, il fallimento, la scelta di cambiare sport, la scelta di fermarsi in un ritmo troppo accelerato. I bambini non conoscono più la noia, il pensare a cosa fare o come giocare, è tutto già scandito in un fitto calendario e in un’agenda di impegni. Nel mio lavoro di assistente sociale, spesso incontro genitori che mi dicono che è difficile che io possa incontrare i loro figli, elencandomi i giorni e gli orari del calcetto, della scuola di danza, del doposcuola, delle verifiche intermedie a cui non possono mancare, come se un giorno di assenza dalle innumerevoli attività significasse perdersi qualcosa di importante. La dinamica si ripete anche tra genitori separati, quando l’altro genitore ha il diritto di visita è uno slalom tra gli impegni del figlio, una rincorsa a dieci minuti del suo tempo, guai a saltare un giorno di scuola o un’attività per stare con il proprio genitore. E se sulla giustifica per la scuola il genitore scrivesse per una volta “non ha potuto fare i compiti perché ha goduto del tempo libero?” E se un bambino qualche volta saltasse uno dei suoi tanti impegni extra scolastici per non fare nulla? Spesso noi adulti gestiamo il tempo libero dei bambini con una frenesia generalizzata, privandoli di una dimensione cruciale per la loro crescita: il gioco e il tempo libero. E’ solo crescendo e avendo tempo libero che potranno riflettere e chiedersi “cosa mi piacerebbe fare?”, domanda così importante per l’autonomia e per la felicità. E’ rispondendo a questa domanda che andranno in contro alla loro vocazione, elemento fondamentale stando anche ad alcune ricerche per il successo nella vita. “Dovremmo erigere altari al tempo e al gioco libero, nel mentre ci attrezziamo teniamone sempre conto e cominciamo a parlarne diffusamente.” Per usare le parole di Francesco Tonucci, pedagogista.

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Come è stato il mondo del sociale e le persone nel 2021 dopo l’assordante “sveglia” del covid-19?

Il 2021 resterà nella memoria collettiva come l’anno accolto con fiducia e speranza, quella riposta nella scienza e nei vaccini, quello che ci avrebbe dovuti traghettare fuori da un corso storico inaspettato ed improvviso. Invece, tutto il mondo ha subito gli effetti di uno “stress test” di cui ancora oggi non si conoscono gli effetti complessivi nel breve e nel lungo termine. La pandemia da covid-19 ha innescato un profondo cambiamento di tutti gli aspetti che fanno parte della vita: dalla politica, all’economia, dai rapporti interpersonali a quelli sociali, dalla tecnologia al mondo dell’istruzione. Un anno che sta per finire e che ci spinge a trovare risposte alla domanda più complessa di tutte: come è stato il mondo nel 2021 dopo l’assordante “sveglia” del covid-19? Economisti, sociologi, esperti del sociale,ricercatori, filosofi, ognuno in quest’anno ha trovato aspetti nuovi e talvolta critici. Senza dubbio ha aperto le porte ad un termine quasi sconosciuto ai più nella vita frenetica nel quale siamo abituati a vivere: la speranza, quella a cui tutti si sono aggrappati, con la scoperta in tempi record del vaccino. Mai prima d’ora è successo che la scienza trovasse in tempi ristretti ed in piena emergenza una risposta rapida. Insegnandoci a sostenere e a credere nel progresso e nella scienza. Seppur in molti è prevalso lo scetticismo e la critica, sacrosanta in un paese democratico, ma l’allarmismo per attaccare la scienza, quello è un’altra cosa che nulla ha a che vedere con la critica ed i dubbi. E’ stato un anno che ha spinto la politica ad un slancio economico forte e chiaro, una visione ottimistica del futuro attraverso gli investimenti, pubblici e privati. L’altro aspetto importante è stata la capacità di adattamento dell’uomo alle nuove tecnologie. Nel giro di pochi mesi molti hanno dovuto sperimentare lo smart working o i benefici della tecnologia in ogni ambito: dalla didattica a distanza agli affetti lontani, sino all’uso della stessa in telemedicina o nell’automazione delle industrie. Un reminder di come le avversità spesso forzino le società a svilupparsi. Ma quest’anno così “innovativo” è stato anche l’anno che ha acuito le povertà, da quella economica a quella scolastica, lavorativa e sanitaria. Crescono i nuovi poveri, il divario all’interno della società si allarga. Le misure di contrasto alla povertà sono poche e rappresentano un palliativo molto flebile. Le persone non riescono a comprare generi di prima necessità, curarsi per molti è un lusso, le liste d’attesa della sanità pubblica si allungano sempre di più, al Sud è ancora peggio, si fa i conti con liste d’attesa già lunghe a causa della mancanza di fondi e di personale, ma si aggiunge anche la richiesta da parte dell’utenza sempre maggiore. La povertà colpisce ogni fronte e senza esclusione di colpi. E poi ci sono gli esseri umani che in questa pandemia sembrano bussole impazzite. La pandemia secondo molti sarebbe stata uno spartiacque che avrebbe segnato il prima ed il dopo, ma non ha fatto altro che rivelare la rimozione delle relazioni. In realtà la pandemia ci ha rivelato come senza relazioni buone e sane, la vita umana diventa problematica. La sfida post pandemia dovrebbe essere coltivare i beni relazionali anziché un individuo che compete per il successo e per consumi sempre più volatili, privi di una relazionalità umana significativa. Abbiamo lasciato che la distanza fisica – giusta- che difatti è solo spaziale, divenisse anche sociale, in molti casi con la “sindrome della tana”, molti si sono rifugiati anche dopo le limitazioni all’isolamento nel proprio ambiente di vita, con rapporti tramite i mezzi di comunicazione, dimenticando i comportamenti gregari. Le persone umane hanno bisogno di relazioni come dell’aria o del pane, ma bisogna imparare a distinguerle. Si può avere una relazione interumana ed una comunicazione anche senza toccarsi, e l’anima è capace di relazionarsi gestendo il proprio corpo. Il messaggio dovrebbe essere che non si tratta di “stare lontano dagli altri”, ma di imparare a come comunicare e scambiarsi dei beni assieme, anche solo dei piccoli gesti o degli sguardi, osservando la distanza fisica. Ma siamo realmente in grado di farlo? Farlo, significa mostrare sentimenti come anche l’altruismo, significa tornare a mettersi in discussione, significa confronto, e questo sembra proprio che sia un po’ perso. La pandemia – riprendendo le parole di Donati, docente di sociologia a Roma, si combatte certamente con i vaccini, ma prima e dopo è ancor più utile saper gestire le relazioni che evitano la diffusione di tutti i tipi di virus, non solo quelli sanitari, ma anche quelli ideologici e culturali che non sanno confrontarsi con la realtà delle relazioni sociali, e quindi generano sempre nuove pandemie.

Siamo giunti alle battute finali di questo 2021 così caotico, così complesso, così strano, che ha tolto e ha regalato, che ci interroga. E’ stato un anno di sociale, lo abbiamo raccontato – speriamo sempre con il piglio giusto- a voi lettori abbiamo lasciato sempre lo spazio di riflessione e di critica, a voi l’augurio di un anno migliore secondo ideali e obiettivi che ognuno di voi si è posto, augurandoci di leggerci nel nuovo anno che speriamo sia più sereno e ottimista. Grazie per averci letto e al 2022….

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Non si ferma la piaga della violenza sulle donne, ancora troppe le falle nel sistema di tutela

Uccise in casa e fatte a pezzi, strangolate, violentate, pugnalate e massacrate di botte fino alla morte. Femminicidi vittime dei loro compagni, mariti, o di uomini che conoscevano appena. Umiliate, sottomesse, annientate da uomini maschilisti che confondono l’amore col possesso, vittime silenziose della violenza domestica, l’altra forma della violenza sulle donne: violenza psicologica che si fonde anche alla violenza fisica da parte di uomini che ogni giorno colpiscono psicologicamente la donna da amare e talvolta si scagliano fisicamente contro di loro, picchiandole e colpendole. Tra le mura domestiche di famiglie apparentemente felici e sane si nasconde terrore e violenza, anche quella assistita dai propri figli, che ogni giorno vivono di paura e d’angoscia, compromettendo la loro salute psico-fisica. Non è raro che molti bambini soffrono di disturbi del linguaggio, disturbi psico motori e del sonno. Crescita che rischia di minare la loro vita da adulti e le loro relazioni sentimentali. Il modello rischia di ripetersi: violenza su violenza, o subire la violenza perché quello è l’unico modello che hanno conosciuto. Violenza che diventa trasversale, quando l’uomo uccide un figlio per colpire la donna. E’ risaputo che l’unico amore indissolubile per una donna è quello per un figlio ed è proprio quelle creature che colpiscono gli uomini violenti per creare un dolore immenso alla donna. Ci sono donne che purtroppo sono vittime perché nelle loro famiglie la violenza è l’unica forma d’amore che hanno conosciuto. Nella mente la donna giustifica l’aggressore “se si arrabbia e mi picchia vuol dire che ci tiene”, o “era solo uno schiaffo ma non mi fa mancare nulla”. Il problema nasce nella relazione di coppia, la dinamica a due: in queste relazioni accade che la donna cerca di curare il suo partner giustificando gli atteggiamenti violenti quando è lei stessa che necessita di cure. A sua volta il compagno non cambia e aumenta l’escaletion di aggressività fino ad arrivare in alcuni casi anche ad ucciderla. Gli strumenti sociali e legislativi per aiutare le donne ci sono, ma spesso non bastano. Le leggi nascono in Parlamento e non a contatto con la realtà. La vittima viene supportata dai CAV – Centri Antiviolenza o in alcuni casi collocata insieme ai figli in una casa rifugio, un posto segreto, sentendosi quasi reclusa, costretta a nascondersi come se avesse commesso lei il reato mentre l’uomo è libero di vivere la sua vita sociale. In alcune realtà la donna non viene immediatamente supportata psicologicamente, rischiando di venire meno alla protezione, ritornando con i loro aguzzini. E’ un meccanismo arrugginito che spesso avviene nelle piccole realtà di provincia dove si è ancorati alle tradizioni e dove la violenza da parte degli uomini viene spesso giustificata. E’ importante che anche la mentalità cambi, abbandonando la logica del subire come avveniva nel passato, attivando percorsi di sostegno e supporto psicologico e morale a favore delle donne, lavorando nella ri-costruzione del sé fortemente indebolito dalla violenza nonché nel rafforzare le reti di supporto, iniziando dalla famiglia. Spesso le donne vittime di violenza si ritrovano totalmente isolate dai propri cari e dalle amicizie, l’uomo violento l’ha allontanata dagli affetti e dalle persone a lei care, è importante aiutarla a rinforzare queste reti. Nel frattempo l’Italia arranca in un fenomeno in continua crescita e che spaventa ogni giorno. Un mondo sommerso che rischia di non venire mai a galla. Nel mentre l’Italia ha dato vita al nuovo Piano antiviolenza, ispirato alle linee guida della Convenzione di Instabul. “3P”: prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire i crimini. Presentato dalla ministra per le Pari opportunità, Elena Bonetti, che lo ha definito una bozza di intenti, nel quale ha aggiunto che andranno individuati “livelli di responsabilità, delle risorse occorrenti e della relativa tempistica. Vale a dire: ci vorrà tempo, frase che un po’ destabilizza. Il nuovo piano dovrebbe rafforzare le falle del precedente, perché vi esisteva un vecchio piano antiviolenza, e  dunque su pilastri: prevenzione, protezione e sostegno delle vittime, punizione dei colpevoli e assistenza e promozione. Tra le novità, c’è senz’altro, un’attenzione maggiore sul contrasto alla violenza economica attraverso l’educazione finanziariadelle donne con tirocini retribuiti e norme per favorire l’inserimento lavorativo al fine di realizzare l’obiettivo più generale dell’empowerment delle donne. Tra le priorità individuate dal piano c’è anche quella di aumentare il livello di consapevolezza nella pubblica opinione e nel sistema educativo e formativo sulle radici strutturali, sulle cause e sulle conseguenze della violenza maschile sulle donne e promuovere la destrutturazione degli stereotipi alla base della violenza. Perché una cosa è certa, senza dubbio bisogna intervenire ma bisogna anche prevenire lavorando sulle nuove generazioni insegnando loro il rispetto per sé e per gli altri senza distinzione di genere. Trasmettendogli il valore che la relazione a due deve essere un motivo di crescita, di confronto e di accettazione, non di possesso o vista come una violazione di confine.

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Relazioni difettose: la fine di un amore e la solitudine delle amicizie latitanti. La realtà quando si è adulti

Ero in dubbio se affrontare un argomento così attuale, ma anche silenzioso, nascosto nei meandri di vite che all’apparenza sembrano perfette, un argomento intimo, che però credo vada condiviso, il senso di un blog è anche questo, almeno credo. Amori strani, amori imperfetti, relazioni tossiche, relazioni difettose, storie d’amore ad un passo da progetti importanti, che naufragano quando meno te l’aspetti. Un pugno dritto in faccia. Il cuore è stordito, l’animo vaga tra i ricordi, le bugie, le cose che non hai visto, il dolore, la sofferenza di chi pensavi di conoscere bene, le lacrime che sembrano infinite. Resta una vita da ri-orientare, da riassettare. A chi nella vita da adulto non è capitato? Ti ritrovi spesso su un divano a volte senza fare la doccia, in una vita che sembra vuota e spenta, fuori ed intorno c’è il mondo, chi ti vuole bene ti ripete che gli amori vanno e vengono, che le storie possono finire, che c’è chi sta peggio di te, qualcuno prova a raccontarti la storia di un altro a cui è andata peggio, ma serve a poco, ogni dolore fa male. Ma la realtà è anche la solitudine di vita, a volte per una storia si tralasciano e si perdono gli amici, ma è anche vero che quando si è adulti, gli amici hanno la loro vita: c’è chi si è sposato, chi è in attesa di un figlio, chi vive ormai fuori, e la solitudine di braccia amiche, di un aperitivo in amicizia, l’avverti e fa male ancora di più. E’ uno strappo incredibile, si resta soli col proprio dolore, senza avere la possibilità di condividerlo, senza avere la possibilità di svagarsi. Ci provi a volte a ristabilire rapporti umani e sociali, ma quanto fatica! C’è chi è latitante, chi preferisce allontanarsi per non schierarsi, chi osserva a distanza le storie instagram che posti senza avere neppure la delicatezza di chiederti “come stai?”, a volte basta un solo secondo in un’era digitale dove scriviamo fiumi di commenti e di sciocchezze, senza renderci conto che quel “come stai?”, che ruba un solo secondo della propria vita, può far bene all’altra persona, che suona come una pacca sulla spalla, come un segno di vicinanza. Perché è inutile nasconderci dietro alla scorza dura, quando stai male, vorresti che qualcuno si renda conto di te, che si interessi anche solo minimamente a te. Invece, sembra che soffrire e per amore tocchi solo a te, che nessuno mai ci sia passato, che nessuno possa comprendere come un aperitivo, una telefonata, possa davvero allungare la vita – come recitava uno spot pubblicitario di un po’ di tempo fa-. Il problema è che ognuno è concentrato su sé stesso, dimenticando il senso dell’amicizia, del bene che una parola possa fare, di quanto la vicinanza possa essere terapia, condivisione. Siamo diventati acidi e cinici, pensando che magari se quella persona “si lamenta”, quel lamentio spenga i neuroni positivi che abbiamo. Leggevo durante i mesi di lockdown e di pandemia, che saremmo state persone diverse, migliori, più sagge e più consapevoli, perché avevamo toccato con mano la paura, la solitudine, l’incertezza, il dolore, è bastato un solo momento di “normalità” che tutto è diventato anche peggio di prima. E no, non prendetelo come un piagnisteo e non venitemi a dire che la solitudine è uno spazio creativo da riempire, che bisogna imparare a stare da soli per poi ritrovarsi bene con gli altri, è risaputo che ci sono momenti in cui la solitudine è benessere, è ritrovarsi, ma è una consapevolezza in cui si arriva per gradi. Ma, vi assicuro che quando avresti voglia di un aperitivo e semplicemente di sorridere, quando avresti voglia che il telefono suoni ma non per lavoro, o per chi ti chiede un piacere – tutti bravi lì a conoscerti- quella solitudine è tortura. E’ risaputo che quando finisce una storia distrarsi, tornare a vivere, è un toccasana, ma quando sei adulto e le amicizie sono latitanti, è un doppio baratro. Perché puoi avere un’esistenza di cui non puoi lamentarti: una famiglia alle spalle che ti ama, un buon impiego, una carriera, la possibilità di acquistare qualche capriccio, qualche viaggio, una vita che agli occhi degli altri può sembrare perfetta e quasi da invidiare, ma a volte manca il meglio. E no, non confondetelo col principe azzurro o con la storia perfetta, con l’amore da trovare a tutti i costi, per dimenticare il dolore passato, ma i rapporti umani e sociali, perché quelli ci rendono persone vive.

Pensiamoci.

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Non si ferma la piaga della violenza sulle donne, ancora troppe le falle nel sistema di tutela

Uccise in casa e fatte a pezzi, strangolate, violentate, pugnalate e massacrate di botte fino alla morte. Femminicidi vittime dei loro compagni, mariti, o di uomini che conoscevano appena. Umiliate, sottomesse, annientate da uomini maschilisti che confondono l’amore col possesso, vittime silenziose della violenza domestica, l’altra forma della violenza sulle donne: violenza psicologica che si fonde anche alla violenza fisica da parte di uomini che ogni giorno colpiscono psicologicamente la donna da amare e talvolta si scagliano fisicamente contro di loro, picchiandole e colpendole. Tra le mura domestiche di famiglie apparentemente felici e sane si nasconde terrore e violenza, anche quella assistita dai propri figli, che ogni giorno vivono di paura e d’angoscia, compromettendo la loro salute psico-fisica. Non è raro che molti bambini soffrono di disturbi del linguaggio, disturbi psico motori e del sonno. Crescita che rischia di minare la loro vita da adulti e le loro relazioni sentimentali. Il modello rischia di ripetersi: violenza su violenza, o subire la violenza perché quello è l’unico modello che hanno conosciuto. Violenza che diventa trasversale, quando l’uomo uccide un figlio per colpire la donna. E’ risaputo che l’unico amore indissolubile per una donna è quello per un figlio ed è proprio quelle creature che colpiscono gli uomini violenti per creare un dolore immenso alla donna. Ci sono donne che purtroppo sono vittime perché nelle loro famiglie la violenza è l’unica forma d’amore che hanno conosciuto. Nella mente la donna giustifica l’aggressore “se si arrabbia e mi picchia vuol dire che ci tiene”, o “era solo uno schiaffo ma non mi fa mancare nulla”. Il problema nasce nella relazione di coppia, la dinamica a due: in queste relazioni accade che la donna cerca di curare il suo partner giustificando gli atteggiamenti violenti quando è lei stessa che necessita di cure. A sua volta il compagno non cambia e aumenta l’escaletion di aggressività fino ad arrivare in alcuni casi anche ad ucciderla. Gli strumenti sociali e legislativi per aiutare le donne ci sono, ma spesso non bastano. Le leggi nascono in Parlamento e non a contatto con la realtà. La vittima viene supportata dai CAV – Centri Antiviolenza o in alcuni casi collocata insieme ai figli in una casa rifugio, un posto segreto, sentendosi quasi reclusa, costretta a nascondersi come se avesse commesso lei il reato mentre l’uomo è libero di vivere la sua vita sociale. In alcune realtà la donna non viene immediatamente supportata psicologicamente, rischiando di venire meno alla protezione, ritornando con i loro aguzzini. E’ un meccanismo arrugginito che spesso avviene nelle piccole realtà di provincia dove si è ancorati alle tradizioni e dove la violenza da parte degli uomini viene spesso giustificata. E’ importante che anche la mentalità cambi, abbandonando la logica del subire come avveniva nel passato, attivando percorsi di sostegno e supporto psicologico e morale a favore delle donne, lavorando nella ri-costruzione del sé fortemente indebolito dalla violenza nonché nel rafforzare le reti di supporto, iniziando dalla famiglia. Spesso le donne vittime di violenza si ritrovano totalmente isolate dai propri cari e dalle amicizie, l’uomo violento l’ha allontanata dagli affetti e dalle persone a lei care, è importante aiutarla a rinforzare queste reti. Nel frattempo l’Italia arranca in un fenomeno in continua crescita e che spaventa ogni giorno. Un mondo sommerso che rischia di non venire mai a galla. Nel mentre l’Italia ha dato vita al nuovo Piano antiviolenza, ispirato alle linee guida della Convenzione di Instabul. “3P”: prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire i crimini. Presentato dalla ministra per le Pari opportunità, Elena Bonetti, che lo ha definito una bozza di intenti, nel quale ha aggiunto che andranno individuati “livelli di responsabilità, delle risorse occorrenti e della relativa tempistica. Vale a dire: ci vorrà tempo, frase che un po’ destabilizza. Il nuovo piano dovrebbe rafforzare le falle del precedente, perché vi esisteva un vecchio piano antiviolenza, e  dunque su pilastri: prevenzione, protezione e sostegno delle vittime, punizione dei colpevoli e assistenza e promozione. Tra le novità, c’è senz’altro, un’attenzione maggiore sul contrasto alla violenza economica attraverso l’educazione finanziariadelle donne con tirocini retribuiti e norme per favorire l’inserimento lavorativo al fine di realizzare l’obiettivo più generale dell’empowerment delle donne. Tra le priorità individuate dal piano c’è anche quella di aumentare il livello di consapevolezza nella pubblica opinione e nel sistema educativo e formativo sulle radici strutturali, sulle cause e sulle conseguenze della violenza maschile sulle donne e promuovere la destrutturazione degli stereotipi alla base della violenza. Perché una cosa è certa, senza dubbio bisogna intervenire ma bisogna anche prevenire lavorando sulle nuove generazioni insegnando loro il rispetto per sé e per gli altri senza distinzione di genere. Trasmettendogli il valore che la relazione a due deve essere un motivo di crescita, di confronto e di accettazione, non di possesso o vista come una violazione di confine.

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Assistente sociale e vita privata, quanto il lavoro influenza le relazioni sentimentali e familiari?

E’ un mattino come tanti, io e la mia collega d’ufficio ci ritagliamo qualche minuto di breefing mattutino, è il giorno dopo una riunione tra colleghi, ci guardiamo un po’ arrabbiate ed interdette e ci chiediamo come possano non capire il nostro lavoro, che vive sempre di pregiudizi e difficoltà, di sentimenti ambivalenti. Ci fermiamo e pensiamo come sia difficile farlo comprendere ai colleghi e quanto possa essere difficile farlo comprendere ad un ipotetico compagno sentimentale. E’ stato l’input che mi ha portata a chiedermi che effetto ha il nostro lavoro nelle relazioni familiari e sentimentali, che condivido con voi. La società in cui viviamo è in continua trasformazione sociale: le famiglie si sgretolano, la crisi sentimentale ed economica invade l’individuo, il mondo cambia e vive di paure e timori, la stessa in cui non solo vivono i nostri utenti ma la stessa in cui viviamo anche noi assistenti sociali. Lo sfondo è tappezzato di sentimenti precari e coppie che vacillano, di uomini e donne ormai cambiate, raro trovare una persona onesta nei sentimenti e legata ai valori. Il sogno dell’incastro perfetto svanisce. E la realtà che ci presentano quotidianamente i nostri utenti è la stessa che potrebbe toccare anche a noi assistenti sociali, e quando capita ti senti un po’ stupido, se non altro presuntuoso, perché pensi sempre che a te non possa accadere, invece siamo tutti figli di questa società, tutti esseri umani. A volte dinanzi all’amore ci manca il coraggio. Siamo bravissimi ad acquistare online schivando le truffe, a gestire molte situazioni, a prenderci cura del nostro corpo, ma tentenniamo di fronte all’altra persona, a quella che ti si approccia con serietà e con interesse, a quella che potrebbe essere l’incastro di due anime, perché abbiamo paura ogni giorno che la fregatura sia dietro l’angolo. Il fatto di trattare per lavoro ogni giorno “aspetti malati” della vita di coppia ci può ostacolare, sia nella ricerca del compagno, sia nel quotidiano: rischiamo di dare uno stereotipo a tutti, usando gli stessi schemi mentali del lavoro pure con l’altra “nostra” persona. Il mea culpa lo faccio io per prima. Pochi giorni fa, scorrendo le foto e le chat di una donna che ha trovato il coraggio di venire fuori da una relazione tossica, ho esclamato alla mia collega “vatti a fidare degli uomini”, oggi che vi scrivo, mi rendo conto che io per prima ho puntato il dito contro gli uomini tacciandoli alla stessa maniera. E’ che il nostro lavoro e qualche delusione che già ci portiamo sulle spalle ci ha fatti diventare apatici e diffidenti. Abbiamo dimenticato attenzione e passione, spontaneità e rilassatezza nel viversi un momento e la magia di un incontro o di un amore, lasciando il posto alla razionalità e a quel “freno a mano” sempre tirato con la quale camminiamo in questa vita così maledettamente imprevedibile. Come professionisti sappiamo bene che quando si interagisce con l’altro sesso nel tentativo di nascere come coppia, occorre evitare la ripetizione di “copioni familiari” compresi gli errori già commessi. Ogni persona è qualcosa di nuovo, che merita di essere vissuta, senza pregiudizi o schemi passati. Del tipo: le colpe degli altri non devono ricadere sulla persona di oggi. Insomma, che iniziare una frequentazione non sia semplice, vivere un nuovo battito di cuore non sia una passeggiata, noi assistenti sociali lo sappiamo bene, eppure dovremmo avere nella mente e nel cuore lo zerbino sul quale sbattere le scarpe delle storie altrui e personali che senza dubbio ci hanno scosso. Perché se le cose sono destinate a funzionare lo rivela il tempo ed il destino, ma anche noi siamo artefici del nostro destino, e questo può avvenire solo con la messa in discussione di ognuno nel gioco relazionale. Amare è l’esperienza più bella per un essere umano che può però incontrare anche sentimenti opposti: violenza, odio, rifiuto. Quindi l’alt è a stare attenti ed in guardia, per non farsi male, ciò vale per gli utenti ma anche per noi. E per dirla alla Troisi: “pensavo fosse amore invece era un calesse!”, mal che vada.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Affido e adozione, temi attuali e sinonimo di gesti d’amore con l’alt ai single

Chi fa il mio lavoro o opera nel sociale, la realtà seppur calda ed accogliente di una struttura per i minori la conosce, piccoli innocenti con alle spalle nonostante la loro tenera età un vissuto complicato, nei loro occhi si trova solo il desiderio di affetto e amore, la loro unica colpa: pagare le colpe di genitori disattenti e anaffettivi, e talvolta poco protettivi nei loro confronti. Alcuni dopo qualche tempo, anche anni, grazie alla legge 184/83 che disciplina l’affido e l’adozione, approdano in nuove famiglie. L’istituto dell’affido e dell’adozione nascondono un gesto di grande amore e altruismo, un percorso lento e difficile per molte coppie che diventano poi genitori. Un tema attuale più che mai, talvolta dimenticato. “A quasi 50 anni voglio un altro figlio. Da single in Italia non posso adottare. Perché un bambino deve stare in un istituto anziché con una mamma che gli vuole bene? Vorrei tanto che si aprisse un caso: magari, se la battaglia la fa un’attrice, ha più eco”, ha esordito così Claudia Gerini in un’intervista subito ripresa da ogni testata, sposando un sentimento comune a molte donne ed uomini che nel nostro Paese lottano per vedere realizzato il loro desiderio di genitorialità. Anche da soli. Occasione che ha portato alla creazione di una petizione che ha raccolto oltre 26mila firme. Dall’altra parte in questi giorni si assiste al racconto, racchiuso anche nella biografia appena presentata dalla comica Luciana Litizzetto, madre affidataria di due figli, seppur racconta di dubbi e paure sull’essere inadeguata, con amore riferisce “eppure io non tornerei mai indietro”. In Italia non esiste una legge che consente ai single di adottare bambini, se non affidi speciali. La differenza con l’adozione è però netta: nel caso dell’affido, infatti, lo scopo è sempre quello di reinserire il bambino o il ragazzo nella famiglia d’origine. In rari casi, e cioè quando il minore ha creato un rapporto profondo con l’affidatario e i problemi della famiglia d’origine sono insanabili, oppure quando il minore, orfano di entrambi i genitori, è affetto da disabilità e non è possibile trovare una coppia adottiva (aveva fatto notizia, in questo senso, il caso di Luca Trapanese, che aveva adottato una neonata affetta da sindrome di Down rifiutata da sette famiglie in lista d’attesa), il rapporto di affido può trasformarsi in adozione. In molti dopo le parole della Gerini si sono chiesti se fosse un gesto d’egoismo o un gesto di profondo amore in lei come per le donne single. Ed è così che ci si schiera tra i tradizionalisti che pensano alla famiglia “normale e tipica” solo se i genitori sono due – e possibilmente di sesso diverso- e definiscono “egoista” far prevalere il desiderio di maternità di una donna sul diritto alla bigenitorialità del bambino – o tra gli avanguardisti, che guardano all’immenso gesto di generosità e di forza di una persona singola, che consapevole delle problematiche, sceglie di dare un destino diverso ad un bambino. Cosa è veramente giusto nell’interesse prevalente e superiore del minore? La “risposta giuridica” a questo dilemma non è arrivata. Probabilmente bisognerebbe cambiare la prospettiva d’osservazione e le proprie domande, anziché vederlo come un gesto d’egoismo personale e vedere la famiglia come unica e sola, riconoscerla nelle sue innumerevoli forme, anche quella di un single che insieme ad un bambino può formare un nucleo familiare, al pari se non in misura maggiore di quello composto da due figure genitoriali di riferimento, binomio che potrebbe essere “perfetto” e idoneo a garantire la crescita equilibrata di un bambino adottato, bisognoso solo di cure, attenzione e tanto affetto. Nel mentre si discute e nei fatti non esiste ancora una proposta di legge o un’apertura alla discussione, nelle strutture per minori restano tanti bambini che abbracciano il loro vissuto e desiderano affetto.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

Baby gang e violenza, ecco come un ragazzo si trasforma in un potenziale delinquente

Baby criminali, sempre più “baby”. Quelli che delinquono, sono sempre più giovani e pronti a commettere i reati più gravi. L’età dei giovani delinquenti si abbassa vertiginosamente e sulle scrivanie dei Pm minorili e degli assistenti sociali arrivano atti di indagine che coinvolgono anche ragazzini di dieci anni. Aumentano le denunce a danno dei minorenni per rapine e per produzione e commercio di stupefacenti. A destare maggiore allarme sociale è l’abbassamento dell’età media di ingresso in circuiti criminali che oscilla tra i 14 ed i 12 anni, con fenomeni che riguardano anche ragazzini intorno ai 10 anni. Crescono anche i reati in concorso, si creano sempre più imprese di baby gang, che in alcune realtà creano un vero allarme sociale. In alcuni casi la composizione della baby gang cambia in base al “colpo”. Le bande adolescenti agiscono sotto la regia del capo, magari poco più grande degli altri, presente a tutti i colpi. L’adolescenza rappresenta una delle fasi della vita maggiormente delicate, durante la quale qualsiasi evento può lasciare un segno indelebile. L’adolescente che commette un reato sperimenta il superamento del limite, in questo caso specifico posto dalla Legge, che tutti in forma convenzionale rispettano. In frequenti casi alla base della delinquenza minorile vi sono fattori riconducibili ai contesti socio-culturali abbastanza carenti, spesso aggravati da situazioni familiari di disagio o con scarsa educazione. I motivi però non sono rintracciabili solo al contesto di appartenenza, ma anche alla predisposizione caratteriale che tende a voler superere i limiti imposti. Nel sistema penale minorile la detenzione in Istituto viene presa in considerazione come estrema ratio, predisponendo misure alternative come il collocamento in comunità. Le prime reazioni dei ragazzini sono di depressione, in quanto si ritrova recluso e con regole ben precise, esperienza opposta alla commissione del reato. Successivamente scatta la fase di elaborazione dei motivi che lo hanno condotto in comunità, cruciale è il ruolo degli adulti di riferimento, che lo aiuteranno ad affrontare con consapevolezza i primi passi verso la responsabilizzazione, che previene fenomeni di recidiva. Difatti, i dati dimostrano come i minori sottoposti a misure alternative alla detenzione presentino tassi di recidiva notevolmente inferiori rispetto a quelli detenuti in Istituto. Fondamentale nel processo di crescita di un ragazzo è senza dubbio la famiglia, principale punto di riferimento. L’adolescente in questa fase della vita investe moto anche sul gruppo dei pari. In questo senso, la famiglia ha il compito di osservarlo sia nel contesto individuale che in gruppo. La delinquenza giovanile è spesso una manifestazione di reati in concorso con altri ragazzi ed è quindi difficilmente controllabile dall’adulto. E’ fondamentale un’azione educativa coordinata e sinergica tra i genitori e talvolta anche con la scuola, in cui i genitori rappresentano sempre il fulcro dell’intervento educativo.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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