La vittima scelta a caso, appoggiata al suo bastone. Lo puntano dall’altro lato della strada. Lo sorprendono come una preda, mentre riprendono tutto con il cellulare. Cappuccio in testa, tutti minorenni, il più piccolo ha tredici anni. Si appostano, fingono di chiacchierare, all’improvviso uno di loro lascia il gruppo e scappa all’imboscata e va dritto verso l’anziano invalido. Un solo gesto, gli strappa il bastone, l’uomo cade a terra, un coro in sottofondo sghignazza e finisce presto sul web. Sarà proprio il video ad incastrare gli aggressori, tutti denunciati tranne il tredicenne non imputabile. Baby gang contro i nonnini. Scherzi, aggressioni, derisioni ai danni degli anziani, così i giovanissimi colpiscono la generazione che potrebbe arricchirli di valori e di racconti. L’ultima aggressione ci catapulta in una società dove la compassione non è più un valore. I ragazzi che hanno aggredito l’anziano di Seravalle pistoiese non percepiscono le condizioni di debolezza, anzianità, vulnerabilità della persona aggredita, diventata, invece, oggetto per dimostrare la loro forza, che annulla ogni sentimento di misericordia che possano avere, una mancanza che può diventare valore, da fargli ricercare. L’assenza di sentimenti di compassione è comune a molti giovanissimi d’oggi, a causa di una famiglia poco incline all’educazione, ai valori, ma anche all’assenza di educazione sentimentale nelle scuole. Siamo convinti che questi sentimenti nascono da soli, quando invece le basi nascono dalla famiglia prima e dalla scuola poi, con una costante che guarda all’altruismo. Sono ragazzi assenti nella loro stessa vita: si vestono in modo uniforme, incappucciati con felpa nera: come una divisa da ragazzo cattivo, un’uniforme anonima, che rende cattivo e non riconoscibile. Segno di una vita spenta, priva di colori, prima di sentimenti nobili e fragili, di altruismo e generosità, di aiuto ed educazione per i più deboli. Sono lontani i tempi di nonni e ragazzini che si scambiavano ricordi e storie, in un costante arricchimento. E allora, i bulli vanno educati alla cura delle persone anziane per molto tempo, che sarà tempo prezioso, e non sarà una punizione ma l’occasione della loro vita. C’è bisogno di tornare a “punizioni” sociali, che abbracciano ed integrano, facendo conoscere il valore dell’aiuto, della solidarietà, dell’educazione ai giovanissimi. Denunce senza condanne rieducative, sono nulle. Rischiamo di avere ragazzini più cattivi e più bulli, che si sentono forti e potenti, ma di fatti sono vuoti: non hanno sentimenti, credono che con la violenza tutto gli sia concesso: la ragazzina che gli piace, l’anziano che diventa oggetto della loro goliardia, accrescendo in loro la sete di potenza e spavalderia. Sono “sos” che i più giovani lanciano e che vanno letti per progettare programmi rieducativi fatti di incontri tra i più giovani e gli anziani, ma anche tra i più giovani e le fasce deboli della società: barboni, minori in difficoltà, ritornare al volontariato, ad iniziative sociali non potrà che far bene al nostro Paese e alle nostre generazioni ormai allo sbando e legati ai colori e alla luminosità degli smartphone. In Toscana, l’amministrazione regionale da tempo attraverso il Servizio Civile ed altri progetti destinati ai giovani, punta su un confronto generazionale che possa accrescere altruismo e generosità, prendendosi cura proprio degli anziani, con l’intento di far crescere nelle nuove generazioni ragazzi come cittadini e soprattutto come persone degne di questo nome.
(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)
In preda a raptus di follia, accecati dalla rabbia verso il proprio compagno, o la propria compagna, molti genitori si macchiano col crimine dell’assassinio. Ammazzano la madre dei loro figli, e ci sono madri che uccidono i loro bambini. La lista dell’orrore, è tragicamente lunga. Può anche sembrare una cosa immonda e del tutto innaturale, le madri possono uccidere i propri piccoli ed i padri possono sottrarre per la vita la mamma ai loro figli. A volte senza capire la mostruosità del loro gesto, ma altre volte con la mente terribilmente lucida. Genitori assassini e figli al mondo, che cresceranno con un genitore in carcere ed una madre nella tomba, sono i figli del femminicidio, soli col peso dell’assassino in casa: il loro papà. Ma, ci sono anche quei bambini, che restano col papà e crescono con l’ombra di una madre in cella perché ha ucciso il proprio fratello. Veronica Panarello ha perso la potestà genitoriale nei confronti del figlio minore. La giovane donna in carcere con l’accusa di aver ucciso il piccolo Loris Stival a Santa Croce Camerina in provincia di Ragusa, non potrà neanche essere informata dell’evoluzione della crescita del suo secondogenito, che resterà sotto l’esclusiva responsabilità del padre, il quale tra l’altro ha chiesto il divorzio alla madre. E’ stato dichiarato “decaduto dalla civile responsabilità genitoriale sulla figlia” dal Tribunale per i minorenni di Napoli, Salvatore Parolisi, l’ex caporal maggiore, condannato in via definitiva per l’omicidio della moglie Melania Rea, non potrà più nemmeno avere rapporti con la figlia: sospesi ogni incontro, visita o rapporto telefonico ed epistolare tra la bambina e Parolisi. La decisione del Collegio, composto anche da esperti psicologi, è avvenuta in considerazione dell’ “assoluta gravità dei comportamenti” e del fatto che “in assoluto disprezzo delle drammatiche conseguenze per la figlia veniva dal Parolisi Salvatore uccisa la madre della minore con la figlia probabilmente in macchina, si spera addormentata”, si legge negli atti. Una volta si parlava di patria potestà, oggi di responsabilità genitoriale: questa può decadere se l’adulto è violento verso il figlio o altri, se si espone il bambino a pericoli, se lo si trascura ripetutamente. L’iter comincia da un parente, un insegnante o un conoscente che segnala il caso ai servizi sociali. E’ accaduto ai “genitori-nonni” di Casale Monferrato, finiti sulle pagine di cronaca per aver avuto una figlia nel 2010, quando lei aveva 56 anni e lui 68, e accusati da un vicino di casa di abbandono della bimba, poi adottata da un’altra famiglia. Dopo la segnalazione, i servizi sociali indagano e mandano una relazione al Tribunale dei minori, che può aprire il cosiddetto provvedimento di decadenza. A questo punto la responsabilità genitoriale può essere sospesa: è come se fosse affievolita, le capacità dell’adulto vanno monitorate, viene aiutato a migliorarsi e il giudice può decidere di allontanare il genitore di casa, se è violento o ha problemi di droga. Oppure la responsabilità può decadere: il minore può essere trasferito in una struttura protetta, i rapporti con la famiglia si interrompono ma psicologi ed assistenti sociali, lavoreranno per ricucire lo strappo, ma se questo è irrecuperabile, o se ci sono gravi questioni penali in corso, il giudice dichiara il minore adottabile e, se è possibile, lo affida ai nonni o ai parenti. L’allontanamento è una misura estrema basata su prove. Sono decisioni sempre delicate che talora innestano indagini e processi molto complessi: basta pensare agli oltre quaranta provvedimenti di allontanamento chiesti negli ultimi mesi dal tribunale di Reggio Calabria per figli di mafiosi. Poi ci sono quei bambini il cui sicario era in casa: il loro papà che ha ucciso la madre, e per loro il trauma si amplifica, restano senza figure genitoriali, ritrovandosi di fronte ad una realtà complessa e tragica, nonostante il supporto familiare, saranno dei bambini segnati, che talvolta si chiederanno “perché?” e cercheranno di capire com’è, come si sta in una famiglia formata da mamma e papà. Ed è per questo che non vanno lasciati soli ad elaborare una mancanza che ogni giorno nonostante l’amore e l’affetto che avranno quotidianamente. E ci sono anche i bambini che non rivedranno più la loro mamma, perché messi di fronte all’agghiacciante notizia che è l’assassina di suo fratello. In questi bambini che affrontano una tragedia così grande, elaborano dentro di loro non solo il lutto e la mancanza della madre ma anche il senso della responsabilità. Che spesso affidano nel modo più crudo possibile ad un disegno. Tratteggiando come i bambini siano esseri puliti e tutte le cose brutte che gli adulti fanno purtroppo sono destinate a ricadere anche su di loro.
Oltre 75 mila in poco più di un mese: tante sono le domande di Reddito di Inclusione trasmesse all’Inps dai Comuni italiani tra il 1° dicembre 2017 ed il 2 gennaio 2018. Per la nuova misura unica nazionale a carattere universale per il contrasto della povertà e dell’esclusione sociale. Quasi due richieste su tre sono arrivate dalle regioni del Sud. Al primo posto c’è la Campania con quasi il 22% delle domande, seguono la Sicilia e la Calabria. Il Reddito di Inclusione viene riconosciuto a famiglie con Isee non superiore a 6.000 euro e un valore del patrimonio immobiliare diverso dalla casa di abitazione non superiore a 20.000 euro. In questa prima fase, fino al 30 giugno 2018, possono richiederlo solo le famiglie che oltre al requisito patrimoniale, abbiano in famiglia un figlio minore oppure una persona disabile, o una donna in gravidanza, oppure un disoccupato sopra i 55 anni. Dal primo luglio 2018, invece, per richiedere il Reddito di Inclusione, basterà che le famiglie siano in possesso solo dei requisiti economici e patrimoniali previsti dal decreto. Rei e “dopo di noi”, le misure più innovative del welfare nazionale, che fanno leva su un progetto individuale, mettendo al centro la professionalità degli assistenti sociali. Un progetto personalizzato di attivazione di inclusione sociale e lavorativa nel decreto legislativo 147/2017 e un progetto individuale, preceduto da una valutazione multidimensionale, nella legge 112/2016: il Reddito di Inclusione che ha debuttato il primo gennaio 2018, puntando forte sul progetto personalizzato. Detta in altri termini, significa che la misura nazionale di welfare recente più innovativa, individua nell’assistente sociale il professionista centrale per attuare il cambio di paradigma di un welfare che vuole superare la logica del “bisogno” in favore dei diritti delle persone. Una misura che apre e avvia alla collaborazione forte con altri soggetti del territorio, giocando un confronto su tre livelli: il livello politico, con cui è indispensabile raccordarsi, uno organizzativo e metodologico, perché tanti colleghi hanno ruoli di responsabilità ed un ruolo operativo, di rapporto diretto con le persone, che richiede un aggiornamento costante e un riferimento forte a elementi teorici e metodologici. La sfida che la nuova misura lancia agli addetti ai lavori è di un modello ed un linguaggio nuovo: non si parla più di utenti e di presa in carico ma di persone e di progetti di inclusione, di opportunità. Infatti, i tratti peculiari sono proprio l’autodeterminazione della persona, la cultura dell’empowerment ed il passaggio dalla prestazione alla progettazione sociale. Una misura innovativa, che si pone in una logica diversa, ma è compito degli assistenti sociali cercare le persone in povertà assoluta, anche quelle che non arrivano ai servizi, proprio perché c’è una misura che si pone come livello essenziale: la legge crea le condizioni ma l’attuazione avviene nei territori. Il Rei non è solo un sostegno economico, ma un approccio globale, fatto di opportunità lavorative, di sostegno sanitario, formativo, ciò è possibile solo se c’è un lavoro di rete professionale e di servizi. Il patto diventa opportunità se c’è comprensione di cosa sia la povertà, se si trovano spazi relazionali, se c’è promozione di reti sul territorio. Il Sia prima ed il Rei oggi partono con fatica, con difficoltà, non senza intoppi, dettati dalla carenza di personale all’interno dei comuni d’ambito, dalla mancata formazione dei professionisti, ma ciò ci dice quale sia la portata della sfida. Si sta lavorando per la costruzione di un soggetto che sia Alleanza contro la povertà. Una sfida non da poco, l’ennesima che l’Italia intraprende: ci ha già provato con la Social Card e misure tampone, ma questa è l’opportunità di crescita sia per la coesione professionale e dei servizi, quanto per i soggetti in stato di povertà e di emarginazione, che con l’aiuto non solo economico ma dei servizi sociali, viene accompagnato in un percorso fatto di autonomia e di opportunità. Una sfida che l’Italia ed i Servizi Sociali questa volta vinceranno? Solo il tempo ci potrà dire.
I voti scolastici dovranno essere comunicati sia alla mamma, sia al papà. A sancirlo una sentenza del Tar del Friuli Venezia Giulia, del 2017, la numero 312. Secondo la pronuncia dei giudici, a partire dal momento in cui i genitori si separano o divorziano, la scuola è tenuta a rendere conto dell’andamento del figlio tanto al padre quanto alla madre, se il giudice ha disposto l’affidamento condiviso del minore. Diversamente, qualora l’alunno dovesse presentare uno scarso rendimento e la scuola dovesse deciderne la bocciatura, il provvedimento sarebbe illegittimo. Sulla base di questo principio, il Tar, ha accolto il ricorso di un padre separato, in regime di affidamento congiunto, annullando il provvedimento di non ammissione del figlio alla terza media perché nel corso dell’anno la scuola aveva riferito del “poco impegno” e dello “scarso interesse” dimostrato dal figlio soltanto alla madre. L’obiettivo della sentenza è non escludere i padri dalla vita scolastica dei figli e regolare le comunicazioni scuola-famiglia quando i genitori sono separati. Un lavoro che mira ad evitare che uno dei due genitori venga escluso dalla vita scolastica del figlio e non venga informato né della sua condotta né della sua pagella. Anche se poco conosciuta, esiste in tema una circolare del Ministero dell’Istruzione, prot. N.5336/2015. La circolare si rivolge al personale scolastico e fornisce istruzioni operative in caso di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli. In particolare, per quanto concerne la responsabilità dei genitori e le questioni relative all’educazione del minore, la legge prevede che, di regola, entrambi i genitori hanno pari responsabilità; i poteri di indirizzo dell’educazione e dello studio del figlio devono essere esercitati di comune accordo tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni del figlio stesso. Insomma, la responsabilità genitoriale di entrambi i genitori non cessa a seguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio. Salvo ovviamente il caso di affidamento esclusivo da parte del giudice; in tal caso la responsabilità genitoriale è solo di colui che ha ottenuto l’affidamento. Il genitore cui i figli non sono affidati ha comunque il diritto ed il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse. Inoltre, la circolare, incoraggia il personale docente a favorire e garantire l’esercizio del diritto/dovere del genitore separato o divorziato, o non più convivente, a vigilare sull’istruzione e l’educazione dei figli, con conseguente facilitazione all’accesso alla documentazione scolastica e alle informazioni relative alle attività scolastiche ed extrascolastiche. La scuola che cambia, che si evolve ad una società che ormai si evolve, le famiglie mutano, le coppie si separano, ma restano pur sempre genitori ed il sacrosanto principio dell’affidamento condiviso vuole che i genitori decidano congiuntamente sull’educazione e l’istruzione dei figli. Invece per dieci anni la pressochè totalità delle scuole italiane si è relazionata solo con il genitore “collocatario”, volutamente ignorando l’esistenza del genitori non collocatario. Che per sapere e conoscere la vita scolastica del figlio, ha dovuto attivarsi insistentemente verso la scuola spesso ottenendo dinieghi. Grazie alla legge sull’affidamento condiviso viene rafforzato il diritto alla biogenitorialità, il diritto del minore a rapporti equilibrati e continuativi con entrambi i genitori. E sullo sfondo il diritto genitoriale di entrambi di mantenere tali rapporti col figlio minore. Anche la scuola finalmente lo sa. Ma non sempre si adegua. Sarà l’occasione per ricredersi visto l’approssimarsi di nuovi incontri scuola famiglia e dell’imminente consegna delle pagelle scolastiche? Potere, ora, alla scuola!
Shock in un mattino qualunque in una scuola di Santa Maria a Vico, in provincia di Caserta, un alunno 17 enne in un raptus di follia ha accoltellato alla guancia l’insegnante di italiano, sotto gli occhi terrorizzati dei suoi compagni di scuola. La sfregia con un fendente. Tra lo sconcerto ed il terrore dei compagni. Il ragazzo avrebbe reagito a una nota messa dalla professoressa di italiano sul registro di classe per scarso rendimento. Il giovane si era presentato a scuola con un coltello a serramanico, potrebbe quindi aver progettato l’aggressione alla docente che probabilmente cercava solo di stimolarlo a impegnarsi di più nello studio. Ora è in stato di fermo, per volere del Pm del Tribunale per i Minorenni, Ugo Miraglia del Giudice, che lo ritiene responsabile di lesioni aggravate e porto illegale di oggetti atti ad offendere e si ritrova presso un Centro di Prima Accoglienza minorile di Napoli Colli Aminei. Studenti contro professori, così le classi diventano un ring. Da Nord a Sud, un’escalation di aggressioni ai docenti. Umiliazioni, fucine di bulli minorenni, studenti che iniziano i loro show irridenti mentre l’insegnante spiega: pernacchie, rumori, applausi. Ragazzi che fanno gruppo, sghignazzano e incitano, e spesso si protrae per giorni. “Il ruolo sociale degli insegnati” lo evocano ad ogni cambio di ministro dell’Istruzione all’atto dell’insediamento. Quel “ruolo sociale” calpestato, oggi, si fa spesso una semplice questione di sicurezza. Settimane di insulti, in alcuni casi scherzi di cattivo gusto. Episodi violenti crescenti in classe, in palestra, al portone. Ragazzini che picchiano in branco insegnanti over, genitori che assalgono professori perché stavano educando i loro figli al vivere in comunità. In una scuola di Reggio Calabria qualche tempo fa, è arrivata la polizia a sedare la rissa tra ragazzine. La professoressa di turno non c’era riuscita: aveva rimediato uno schiaffone ed era finita al pronto soccorso. Insegnanti che ogni mattino entrano in classe ma si sentono come su un ring o in un campo da guerra, bersagliati, in un clima di tensione e in alcuni casi di paura. Un fenomeno, quello del bullismo, che spesso non risparmia neppure i professori in veste di vittime. La scuola che diventa luogo di derisione, di minacce, di paura, di tensione perenne per gli studenti più fragili e per i docenti, che nel tempo hanno perso il loro ruolo determinante, privi anche di tutele, spesso le denunce e le segnalazioni cadono le dimenticatoio. Ma, bisogna agire e reagire, passando da un legame scuola-famiglia, che và ritrovato, sono le prime due agenzie educative, che devono viaggiare all’unisono e sulla stessa strada: fatta di valori, fatta di sacrificio e di “no”, che sani, devono ritornare, di note che non vanno aggredite dai genitori, ma spalleggiate, magari anche con una sana punizione ai danni dei figli. Vanno riposti nei cassetti per molte ore cellulari e playstation, troppa violenza viaggia sui social e nei videogiochi, distraendoli. Serve che ci siano pene per questi ragazzini, fatti di rieducazione sociale, come ad esempio ore di volontariato o di lavori socialmente utili. Serve, il teatro, per far gettare la maschera alle persone e attribuire ruoli nuovi a chi non riesce ad averne di positivi. Serve la musica e un microfono per far esprimere al meglio chi non riesce a farlo in modo diverso. Serve incoraggiare chi non ce la fa, lodare davanti a tutti chi sbaglia spesso quando invece fa una cosa giusta. Tornare alle materie d’aiuto come la storia, la letteratura, la filosofia che hanno l’obbligo di insegnare il rispetto per sé e per gli altri, il coraggio di difendersi, l’autostima e la lotta all’omertà. E anche la debolezza che sta dietro a chi commette dei soprusi. Bisogna raccontare ai giovani storie di persone vere, lotte contro le ingiustizie, di Peppino Impastato, di Nelson Mandela, di Gandhi. Solo così, da grandi, i tacchi a spillo non sfileranno prepotenti sulle fragilità di un collega di lavoro. Insomma, la scuola ha soprattutto un compito: insegnare agli uomini di domani l’umanità. Questo è possibile anche se si ritorna su strada: educatori di strada, sacerdoti che aggancino i più giovani e li portino nel mondo dell’associazionismo e del sociale, che si ritorni ai gruppi scout o all’azione cattolica, che unisce e non divide, che esalta le diversità e le rende omogenee. C’è bisogno che la scuola torni al suo essere “severa”: una nota, un richiamo, certo con un fondamento di paura, visti i recenti casi di cronaca nera, ma non vanno lasciati soli gli insegnanti che fanno il loro dovere, anzi, bisogna che intervenga l’assistente sociale, che ne segnali l’accaduto se non è stato già fatto al Tribunale per i Minorenni, e c’è bisogno che si agisca in un’ottica globale, con una presa in carico di tutto il nucleo familiare: spesso si tratta di famiglie disgregate, in cui cova la violenza in varie manifestazioni, a volte i genitori sono in carcere per qualche reato, o vivono in contesi disagiati ed isolati. Vanno sempre cercate anche le cause nel bullo che và aiutato oltre ogni sua ragionevole o irragionevole spiegazione al gesto compiuto, ma per farlo c’è bisogno che le figure professionali siano vere e tutelate tutte prima ancora che gli episodi accadano.
“So tutt frat sti guaglion ‘e miezz ‘a vij” mi accolgono con questa frase i “uagluine ‘e mezz ‘a vij” come si dice nel linguaggio dialettale, ovvero, i ragazzi che la strada la vivono, che di quella strada ne sono cresciuti. “Signori si nasce”, era il refrain di Totò. Ma principi, nei quartieri “bassi” di alcune zone, lo si può diventare. L’ascesa nei rioni “della diversità” diventa un valore aggiunto e non è una questione di galloni. Contano di più il cuore, i sogni e le capacità di guardare il mondo con gli occhi di un innamorato. Su un terreno di questo tipo, lancio il messaggio, che possono sbocciare i fiori più belli. Come? Avendo il coraggio di cambiare le cose dal di dentro o partendo dai ragazzi stessi. Sant’Agostino diceva che il viaggio è il libro più importante della vita. E molti ragazzi dei “quartieri” o dei “rioni” dopo aver visto il resto d’Italia e le capitali europee, hanno capito che la loro città non aveva nulla di meno. “uagliella a ro’ vic’” mi definiscono così e mi immergo tra le vie e le storie dei ragazzi del rione “palazzine” di Pagani, in provincia di Salerno, dove ogni giorno nascono idee ed attività per contrastare il disagio sociale, pur consapevoli che Pagani è quel fazzoletto di terra cerniera tra Napoli e Salerno, con una linea storica “75” Napoli-Pagani, definita asse delle droga, arresti per droga e spaccio che quotidianamente popolano la cronaca nera, a questo si aggiunge quel “marchio” che la città ed i giovani nella loro onestà devono contrastare: terra di camorra. La scia di episodi criminosi che di piombo e sangue hanno macchiato la città è lunga ma c’è anche un profumo di rinnovamento, di nuovo che avanza, di giovani “dei quartieri” che dalla strada non hanno imparato il crimine e la violenza, ma ben altro e questo articolo nasce proprio da questo spirito e viene scritto di pancia e di cuore. Quello che emerge nella nostra conversazione, sono rapporti di amicizia intimi che prosperano in situazioni caratterizzate spesso di disagio, ma pure da grande ricchezza d’animo. Si inseriscono nella società in punta di piedi, con rispetto di tutti, anche dei pregiudizi che qualcuno nutre nei loro confronti, perché figli della strada, ed in molti albeggia la convinzione che a questi ragazzi è stata instillata l’idea del crimine e della “vita facile”, invece, loro mi conducono in un mondo parallelo che vive nelle nostre città, ragazzi che dalla strada hanno imparato il rispetto dell’altro e della difesa, che si pongono dall’altra parte dell’idea criminale, e mi spiegano che la violenza non li attrae, ma si pongono in prima linea per l’amico in difficoltà, e se si ritrovano coinvolti in qualche rissa spesso è proprio contro il loro volere. Mi conducono a spasso tra gli avamposti culturali del quartiere: la storia di Sant’Alfonso, l’arte del territorio, l’amore per il calcio, il tifo spensierato e sano, tra le chiese che spuntano quasi ad ogni angolo, gli ipogei. Tra loro e in questo patrimonio storico culturale che conoscono meglio di un critico d’arte cittadino, spunta un ragazzo, apparentemente “figlio borghese”, con un’identità forte e fiera: “sono cresciuto in strada- dice-, anche se vivo nel centro storico della città.” Figlio di professionisti cittadini, abbigliamento impeccabile, sguardo da professionista anche lui, di quella strada ne và orgoglioso, perché dice: “la strada mi ha insegnato il buono ed il male, scansato i pericoli, affrontato situazioni che alcuni ragazzi non hanno affrontato, ma questo mi ha insegnato a crescere, affrontando la vita in modo diverso.” La strada, mi racconta, gli ha insegnato le amicizie vere, ad un usare un “nostro” anziché il “mio”, a condividere, ma anche ad aiutarsi, confrontandosi, e non lo ha etichettato come “figlio borghese” nonostante abbia una buona dizione, raramente cade in qualche forma dialettale e sia un ragazzo prossimo alla laurea in ingegneria e lui stesso non rinnega la strada né tantomeno accetta il marchio dispregiativo che molti danno ai ragazzi di strada. L’inclusione sociale, a queste latitudini, è un piacere e lo si riscopre tra loro. Sono ultimi, per molti, ma non si sentono inferiori e proprio da questo è partito l’input di scegliere un diverso tra i diversi per il ruolo di aviatore. Perché da loro sono nati i centri di aggregazione giovanile, che in silenzio ed in sordina opera sul territorio di Pagani, ben cinque sono i punti d’aggregazione, sconosciuti a molti, ma non a chi ne ha bisogno, creando un’aspirale di solidarietà infinita: ragazzi di strada che aiutano altri ragazzi di strada, perché si sa non sempre la strada innesta pensieri positivi, valori saldi, e proprio ai ragazzi più fragili si avvicinano, per agganciarli e per mostrargli l’altro volto della strada, per organizzare momenti di confronto e di volontariato: organizzando banchi alimentari per i più bisognosi, gruppi di volontariato, perché ci sia inclusione e non esclusione. E se gli si chiede cosa pensano della camorra sono netti e ne parlano come di strade senza uscita, strade che non bisogna assolutamente prendere, perché non portano a nulla e non hanno futuro. Mi ritrovo dinanzi a ragazzi equilibrati, ponderati, con valori saldi, legati alla famiglia, con un profondo amore che rappresenta la leva più forte con cui cambiare il mondo. La realtà, passeggiando tra i vicoli ed i quartieri delle città, non è poi così diversa, certo, come mi dicono anche loro “il buono ed il male esiste ovunque”. Ma, c’è un orgoglio: principi cresciuti tra i vicoli. In un tempo di scorribande di ragazzini che in molte città italiane, in particolar modo a Napoli, seminano il panico ed il terrore, in un fenomeno che sa di nuovo alle istituzioni, al mondo del sociale e ai suoi professionisti, ho voluto cercare di abbattere il muro di pregiudizi, di stereotipi, che un po’ tutti abbiamo sempre avuto sui ragazzi cresciuti “con le regole della strada”, ma scopro un mondo che è fatto di altro, che supera la convinzione dei codici, del male e della violenza, seppur siamo tutti consapevoli, io per prima, che tra loro può esserci la serpe in seno, più fragile che dalla strada incontra la criminalità o la violenza, ma questi ragazzi ci danno una lezione di vita, a me per prima, perché ci raccontano una strada che non è solo figlia del male, ma è una piccola società di giovanissimi che si tengono per mano per seguire una nuova strada ed aiutare altri ragazzi.
Sguardo di sfida. La rabbia fin dentro gli occhi. La violenza che cova dentro, esplodendo in atti forti contro lo Stato, pietre, parolacce, sguardi di sfida alle forze dell’ordine, sino alla rabbia ceca contro i loro coetanei. Girano armati con coltelli in tasca e catene, mentre l’aspirale della violenza giovanile nel capoluogo partenopeo cresce e preoccupa. Dieci i ragazzi accoltellati da inizio dicembre ad oggi. Aggressioni e violenze ai danni di altri minori. Un ragazzo è stato accoltellato alla gola, Arturo, ad un altro è stata dovuta asportare la milza. E ancora, 17 rapine in due mesi, nel napoletano, messe a segno da scorribande di ragazzini. Ragazzini poco più che bambini che si fanno la guerra nel centro storico di Napoli, ragazzi che il giudice Nicola Quatrano ha legato addirittura ai militanti della Jihad, per quel “filo sottile ed esistenziale” rappresentato dalla “ricerca della morte”. Il “branco” vive di adrenalina che si respira per le strade di Napoli, si muovono, agiscono, feriscono, con spavalderia, sfidano le forze dell’ordine e poi spariscono mischiandosi alla gente impaurita. Gang di minori, che paralizzano la città, sono infatti, fenomeni criminali che hanno assunto proporzioni inquietanti tanto da lanciare un allarme sociale al pari della camorra. Ma se la strada attira, c’è chi ogni giorno, da anni, nella difficile e complicata Napoli investe sui più giovani, sono molti i progetti anche in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione e del Viminale che unisce scuola, quartieri, centri sportivi, associazioni del terzo settore e parrocchia, per rieducare i ragazzi, allontanarli dal crimine e dalla violenza. Ma le emergenze nascono e spaventano. Il quadro è complesso e va visto nella sua complessità. Napoli è una grande città che fa i conti con l’esclusione sociale, la presenza della criminalità organizzata, con forme di violenza. Serve unire la prevenzione e la repressione vadano a braccetto: educazione e limite funzionano in simbiosi. Invece, ancora una volta c’è chi si divide tra “mandiamo la Folgore” e chi vorrebbe un esercito di insegnanti. Ragazzini piccoli e feroci, fanno parte di famiglie non solo molto povere ma “scassate” – come si dice a Napoli-, con figure materne e paterne deboli o del tutto inesistenti, genitori che non hanno prospettive di impegno né formazione, che abitano ai margini di quartieri e comunità marginalizzate e visti come degli esclusi da queste stesse comunità. Alcuni di questi genitori sono nelle parti basse della criminalità organizzata o vi sono limitrofi, non hanno nessuna consapevolezza di come si educa un figlio, spesso sono disperati perché non hanno mezzi di sostentamento, spesso presentano caratteristiche psicosociali complesse. I figli non vanno a scuola, nutrendo un disappunto per l’istruzione ed il sapere, vivono alla giornata e si coagulano in una banda che non è organizzata con una gerarchia stabile, infatti, il fenomeno è nuovo e sconosciuto a quanti si occupano di giovani, perché il fenomeno è complesso e ancora sconosciuto in alcune sue parti a tutti. E’ un gruppo informale che se ne sta senza far niente, magari girano su motorini rotti, tirano tardi la notte, poi arriva l’adrenalina, fare qualcosa che sia un’avventura e nel giro di pochi minuti creano disastri terrificanti, contro qualcuno che scelgono al momento, perché magari ha avuto la sventura di passargli accanto o di essere in quel posto con loro. Alcuni a volte sono sotto l’effetto di alcool o di droghe. Sono questi effetti conglomerati di ragazzi che vivono ai margini della società, sotto la pressione della frustrazione, della regolazione emotiva e sostanzialmente non sanno cosa fare e cosa si dovrebbe fare. Non hanno una figura adulta di riferimento: un nonno saggio, un parroco amorevole, un volontario che li agganci, li rassicuri, gli fornisca alternative entusiasmanti e vive, che siano lontane della violenza e dal crimine. Sono bombe che rischiano di scoppiare alla prima occasione. Di positivo in questi giorni c’è una città che rifiuta la violenza, che si smuove nelle coscienze ed in piazza, e in quelle piazze non c’è solo il genitore del quartiere bene di Napoli, ma genitori fragili ed insicuri ma schierati dalla parte della legalità. Questa è la molla che deve portare tutti dalla stessa parte oltre la reazione: servono alleanze che costruiscano luoghi dove è possibile vivere “avventure” e “sfide” positive, alternative, in una fascia d’età che vada dai 10 ai 25 anni. Servono scuole, serve formazione professionale, stage sul territorio per amarlo e riconoscerlo nell’arte, nell’artigianato, perché sa di identità e di vita. Servono più educatori attivi che seguano le situazioni più fragili e a rischio, supportando la genitorialità con indicazioni educative, c’è bisogno che nascano centri di aggregazione giovanile dove ci siano i valori dello sport, della condivisione. La scuola da sola non basta, seppur deve essere più flessibile, con una formazione professionale vera, alleandosi con i tutor di strada. Accanto a tutto ciò ci deve essere non tanto un cambio della legge ma certezza delle sanzioni, anche non penali: il programma educativo deve essere realizzato per davvero, la sua esecuzione deve essere sorvegliata in maniera forte.
L’ultima vittima ha sedici anni, si chiama Ciro, è uno studente liceale, domenica sera una baby gang, gli ha rotto il naso davanti ad una fermata della metropolitana di Napoli. Insulti e poi pesanti aggressioni ai danni del sedicenne. La polizia cerca gli aggressori di Ciro nei filmati delle telecamere della stazione. Il nome di Ciro si aggiunge a quello di tanti altri ragazzini napoletani: sei quelli aggrediti soltanto negli ultimi cinquanta giorni, feriti nel fisico e nell’animo dalla rabbia ceca di altri coetanei, molti di questi girano armati con coltelli in tasca e catene, mentre l’aspirale della violenza giovanile in città cresce e preoccupa. Questa mattina un vertice in Prefettura a Napoli ha riunito attorno ad un tavolo il ministro dell’Interno, Marco Minniti e le forze dell’ordine, per cercare insieme misure per contrastare l’escalation di episodi di violenza giovanile ad opera di babygang che da settimane terrorizzano gli adolescenti napoletani. Un’emergenza. Di “baby” hanno solo l’appellativo. Le gang di minori, che paralizzano la città, sono infatti, fenomeni criminali che hanno assunto proporzioni inquietanti tanto da lanciare un allarme sociale al pari della camorra. Facce ribelli, atteggiamenti da adulti, forti del branco ma bambini alla stregua delle vittime, odio e rabbia che si riversano in persecuzioni e violenze: sono gli orde di giovanissimi, cresciuti nel mito di “Gomorra”, hanno ambizioni di malavita uguali a quelli degli adulti. Lo scrivono sui social e lo dimostrano coi fatti. I profili di molti giovanissimi sono pieni di foto in cui impugnano coltelli, tirapugni appuntiti, pistole. Mentre si muovono in branco, come i lupi o le iene. Hanno un loro slang, si vestono tutti allo stesso modo. La guerra ai baby criminali a Napoli è appena all’inizio, caratterizzata da babygang che ormai si mostrano apertamente con rappresaglie e con l’auto celebrazione tramite l’uso dei social network. Gruppi composti da decine di giovanissimi, tra i 10 e i 12 anni, che entrano nel vortice della violenza con scorribande e dimostrazioni di potenza sia contro i loro coetanei sia nei confronti delle bande rivali che continuano a spuntare in giro per i quartieri popolari della città. Spinelli tra le labbra e pistole, i giovani emulatori di “Gomorra” imitano i grandi e lanciano messaggi ai nemici. In alcuni profili si possono notare le esaltazioni dei seguaci che commentano le esternazioni “da grandi” della futura generazione di camorristi. Dopo “Gomorra” le stese a Napoli sono aumentate. Violenza delle babygang, dei criminali di nuova generazione, contro tutto e tutti, randomiche, senza un senso preciso. Un prodotto di finzione che nasceva con l’idea di smantellare un sistema: quello della camorra, radicato come un cancro nel sistema napoletano, che si è trasformato per molti giovanissimi in idoli da ammirare ed emulare: affascinati dall’odio e dalla rabbia, dal brivido del gruppo, scaricando la violenza sui loro coetanei che ricevono del male senza una ragione apparente, facendo i conti col dolore fisico e quello dell’anima, che solo con un lento e lungo percorso di riabilitazione potrà essere accantonato. “Gomorra” è stata la ricchezza di Napoli, comparse, società di catering, un indotto economico per il territorio, le migliorie, dirette o indirette, nella vita di centinai di professionisti, ma il dubbio sorge. Se Gomorra, la serie, ha influenzato così negativamente i giovani, portandoli al crimine, perché Gomorra, nella persona della produzione, non riesce a influenzare chi governa e fa politica, e a investire su cose che servono effettivamente alla comunità, come ad esempio centri di aggregazione giovanile? Sarà forse che una è finzione e l’altra è realtà? E perché una è una società privata e l’altra, ben più costosa e lenta, è un’amministrazione pubblica? Domande che forse non trovano una risposta in una città che oggi si confronta con una violenza inaudita che rischia di generare potenti criminali del domani. Il successo ha trasformato Gomorra in una pseudo griffe culturale per le nuovissime generazioni, complice anche l’incapacità istituzionale, proponendo il solo modello culturale sbagliato senza esempi positivi, senza alternative ai giovani, abbandonati alla loro rabbia, alla strada e ai suoi richiami. Portare in tv Gomorra, assume effetti devastanti sui “figli di nessuno” che vedono nei clan e nella violenza l’unica “impresa” pronta ad “investire” su di loro. Questi giovanissimi hanno bisogno di seminare ed investire nel bene e nella cultura non sulla violenza, ma se non hanno esempi, indirizzi, spazi per loro si apriranno solo le porte del carcere minorile oggi e quello che ospita gli adulti domani, ritrovandoci adulti dediti al crimine e alla violenza, rischiando la morte, proprio come alcuni protagonisti di Gomorra nelle loro guerre di bande.