Un appunto sul taccuino. Tenetevi pure il Santo…che io mi prendo Valentino!

images Se Valentino, prima di diventare Santo, avesse minimamente immaginato di trasformarsi (a sua insaputa) in testimonial dai cuori di peluche ai cioccolatini, passando per le frasi dei libri di Federico Moccia, che sembrano non tramontare mai, probabilmente oggi lo ricorderemmo con il più grande stagista del 270 d.C. e del Santo degli innamorati non ce ne sarebbero tracce.

Ma secoli dopo è diventato “il protagonista” del mese di Febbraio. Ma chi glielo doveva dire che si sarebbe dovuto beccare i servizi de “La Vita in Diretta”, i pacchetti week end in offerta speciale, le compilation di canzoni amorose, le pomiciate adolescenziali.

Valentino non lo sapeva, come non sapeva cosa sarebbe diventa l’amore. Forse non sapeva neanche cos’era e non sentiva di (certo) il bisogno di incartarlo in un involucro di cioccolata, firmandosi “Anonimo”.

Valentino ha vissuto di istinto e di passione, ha rifiutato le convenzioni, e ha pagato con la vita la voglia di coinvolgere i miscredenti con l’entusiasmo di un sentimento autentico, con l’unica presunzione di viverlo.

Oggi di quella passione intensa e autentica resta solo il rosso dei cuori appesi in ogni dove e la voglia dei single di giocarci a freccette.

E mi chiedo se ha vissuto per davvero un sentimento o se è solo una leggenda. Ma me lo immagino un uomo d’altri tempi dove l’educazione e il rispetto sapevano di romanticismo e di verità.

I primi a scegliere san Valentino come testimonial, circa 200 anni dopo la sua morte, fu la Chiesa cattolica, poi l’usanza pagana ribattezzata con “Lupercus” e che oggi lo ritroviamo nel pomeriggio della tivvù nel salotto di “Uomini e donne”.

Pare infatti che, fin dal quarto secolo A. C. i romani pagani rendessero omaggio, con un singolare rito annuale, al dio Lupercus. I nomi delle donne e degli uomini che adoravano questo Dio venivano messi in un’urna e opportunamente mescolati. Quindi un bambino sceglieva a caso alcune coppie (oggi lo chiameremmo casting) che per un intero anno avrebbero vissuto in intimità (quelle che a “Uomini e donne” si chiamano “Esterne” e si consumano in una settimana) affinché il rito della fertilità fosse concluso. L’anno successivo sarebbe poi ricominciato nuovamente con altre coppie (quella che noi definiremmo “nuova edizione del programma”).

E San Valentino divenne l’antagonista di Maria de Filippi. Ma negli anni per lui andò sempre peggio. Arrivarono giornali, pubblicità, trasmissioni televisive a tema, cuori di peluche, Baci Perugina. Un complotto ai danni dei sentimenti.

Ma campioni indiscussi sono i Baci Perugina che non si chiamavano Baci.

Nacquero negli anni ‘20, grazie al lampo di genio di una donna: Luisa Spagnoli, che doveva ottimizzare gli scarti di produzione e decise di mettere insieme la pasta di nocciole con una nocciola intera e ricoprire il tutto di cioccolato.

Sapete come chiamò la sua creazione? CAZZOTTI.

Si, proprio “Cazzotti”, che divennero baci anni dopo, per essere esportati all’estero e il “genio” sicuramente spietato, (credo) maschile, li trasformarono nel simbolo dell’amore.
Non so se Luisa visse abbastanza a lungo per vedere i suoi cazzotti travestiti da baci navigare oltre oceano.

So pero’ che sia Valentino che Luisa, sono testimonial inconsapevoli di quell’amore di plastica che si vende un tanto al chilo nel mese di Febbraio.

Valentino: un romantico passionario, autentico, leale, convinto.

Luisa: geniale, lavoratrice, burbera, amante del cioccolato.

Peccato che ora è amore di consumismo. Amore di facciata. Passato il Santo passa (spesso) anche l’Amore.

E…allora tenetevi i fiumi di cioccolato, i massaggi erotici, i pacchetti viaggio, i biglietti di Italo 2*1, le frasi scopiazzate, le cene romantiche e gli appuntamenti da adolescenti la sera del 14 Febbraio.

Tenetevi tutto ma lasciatemi Valentino e i Baci.

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Possiamo parlare davvero di Informazione? Mi interrogo sul “caso Giletti”

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Dopo la strage di Charlie Hebdo abbiamo urlato alla libertà di informazione, lo abbiamo sbandierato ai quattro venti, con orgoglio e finzione lo abbiamo scritto in molti post. All’indomani della strage siamo diventati tutti paladini del valore della libertà d’espressione e di parola in una società “libera”. Eppure la società europea moderna e noi italiani non possiamo considerarci del tutto veri e propri paladini di essa.
Lo dimostra il “caso Giletti”. Domenica pomeriggio nel salotto dell’ Arena, Massimo Giletti-che ritengo essere uno dei pochi giornalisti professionali che davvero in questo Paese in questa Tv fa INFORMAZIONE. Se Giletti dovesse chiamarmi domattina, lavorerei per la sua redazione ben volentieri e anche a titolo gratuito- è tornato sull’argomento delle “pensioni d’oro” ma anche dei “vitalizi della casta”, ospitando per dargli anche diritto di replica, Mario Capanna, ex deputato, che guadagna come vitalizio 5 mila euro al mese. Aggiungendo che la riduzione del 10% non è affatto giustificabile poiché non si devono toccare i diritti acquisiti. Capanna è arrivato ad accusare Giletti di percepire uno stipendio altissimo. E’ seguito in battibecco-che a mio parere Giletti ha condotto con garbo ed eleganza-, ma alla fine Giletti ha lanciato il libro dell’ex parlamentare, riprendendoglielo poi dopo la pubblicità. Ma questo costerà a Giletti tra i 10 e i 20 mila euro di multa, perché ritenuto dall’ex parlamentare “gesto dal sapore nazistoide”.
Davvero è il “gesto” pomo della discordia o l’aver scoperchiato un argomento tanto “segreto” che a qualcuno non piace? Siamo davvero liberi di informare?

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Un hastag non solo contro il lavoro gratuito dell’Expo.Ribellarsi sempre,oltre l’Expo.

E’ l’hastag del momento, seguendo la moda dei “tormentoni” social: #iononlavorogratis per l’expo. Sintomo di una generazione, che per carità, si ribella al grande evento, volano di miliardi, del consumo di suolo e di cemento, e di lavoro precario. Tutto è iniziato con un accordo siglato nel luglio del 2013 tra Expo e le sigle sindacali, che prevede l’assunzione di 835 persone mediante contratto di apprendistato da 7 o 12 mesi. 340 giovani under 29 che parteciperanno ad un percorso formativo per conseguire la qualifica di “operatore Grande Evento”. Il protocollo prevede 18.500 volontari che dovranno alternarsi in “attività ausiliare” al ritmo di 475 per cinque ore al giorno nei sei mesi di durata dell’evento mondiale.
A pochi mesi dall’inizio dell’evento più atteso, questa “novità” ha scatenato l’indignazione poiché viene considerata come la celebrazione legislativa di quanto avviene da anni nel mercato del lavoro, in Italia più che mai.
Per carità il lavoro gratuito non fa bene a nessuno, demoralizza, scoraggia. Sono la prima a dirlo, che da anni porta avanti una passione-il giornalismo-talvolta rimettendoci di tasca propria e senza mai vedere neanche un euro, come incoraggiamento piuttosto. Però mi fa ridere come oggi ci si ribelli al lavoro gratuito per l’Expo, mentre, per tutto l’anno, lavoriamo gratuitamente per chiunque, o nel migliore dei casi siamo sottopagati con contratti di “apprendistato”,che a 30 anni francamente mi chiedo cosa si apprende ancora?!, o lavoriamo con un contratto precario-in una vita che è tutta precaria-. Poi ci svegliamo un mattino e andiamo contro l’Expo e il lavoro gratuito per lui.
Scusate ma lo trovo un tantino stupido. Quanto più stupido credere ancora ai sindacati quando sono i primi che hanno siglato un accordo del genere, smozzando ogni speranza di questo Paese, assetato di lavoro soprattutto tra i giovani.
Io l’hastag lo farei 365 giorni l’anno e non solo per Expo per tutti quei datori di lavoro che ogni giorno smozzano l’entusiasmo senza retribuire intascando il lavoro di tutti noi.

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Melania Rea, Elena Ceste. Quando il sicario è in casa.

E’ un pugno allo stomaco il mucchio selvaggio di foto di mariti, fidanzati, conviventi, padri che hanno ammazzato la “loro” compagna di vita. Bacheche zeppe di madri, figlie, fidanzate, amanti assassinate, che da anni ci imbattiamo.
Molti uomini li abbiamo visti in salotti televisi in cui recitavano un “copione” ben definito. Lacrime e parole amorevoli, inviti alle loro consorti, mentre, ormai erano già morte e per mano loro.
Una carrellata di assassini. Facce normali. Facce semplici. Facce pulite. Facce serene. Facce spensierate. Facce “amorevoli”.
Eppure in loro si nascondeva la ferocia in un’esistenza apparentemente anonima.
“Strano, era tanto un bravo ragazzo…” “Mai dato problemi sul lavoro…” “Sempre così gentile, così educato”.
Uomini apparentemente “rassicuranti”, dall’animo feroce e assassino. E proprio per questo, messi tutti insieme, terribili.
“Sicari domestici”. L’uomo di casa diventa il proprio assassino. Melania Rea, Elena Ceste, forse anche Roberta Ragusa, uomini, mariti, padri assassini. Matrimoni e famiglie apparentemente felici eppure profondamente tristi e problematici.
Da una parte le donne che tentano di salvare il matrimonio, di tenere unite la famiglia, chiudono più di un occhio di fronte ai maltrattamenti, ai tradimenti, alla bugie, agli intrichi. Dall’altra gli uomini, spesso, con una doppia vita, con un’altra compagna, un altro piano ben premeditato ed una compagna di troppo.
L’amore e la passione non c’entrano nulla, né i “raptus” di follia. Gli omicidi di donne sono una vera e propria esclation di violenza, fino ad uccidere. Sono morti annunciate. Morte che camminano. Sono omicidi premeditati.
Questi uomini hanno il loro “nuovo progetto di vita”,un’altra famiglia,un’altra vita,nascondere i loro segreti,ma confido nella Giustizia,a cui da donna,da figlia,faccio appello affinché l’unico loro progetto di vita oggi e domani sia il carcere a vita ed una pena esemplare.
Solo così potremmo dare “pace” a quelle donne che non ci sono più.

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“Capirai quando sarai madre”

http://27esimaora.corriere.it/articolo/donne-che-scelgono-di-non-avere-figli/

Lo sguardo più severo,quello che giudica arriva proprio dalle madri.
“Non desideri avere un figlio?! Perché?! Certe cose puoi capirle solo se sei madre!”

Prima pensavo fosse solo un semplice modo di dire,crescendo a 20 anni (+2) e qualche esperienza diretta con le persone,questa frase è un cazzotto in pieno viso,non oso immaginare a 40 anni.
Non so se un giorno sarò mamma,se avrò accesso a questa stanza di comprensione riservata alle sole mamme. Ma so che:
Ci sono donne che desiderano essere mamma,da sempre,nascono già con la voglia e l’inclinazione di fare le mamme.
Ci sono donne che un figlio lo vorrebbero e lo rincorrono ma non ci riescono.
Ci sono donne che un figlio l’hanno avuto anche contro il volere del proprio partner.
Ci sono mamme che crescono i loro figli da sole.
Donne che hanno scelto di non provarci.
Donne che hanno scelto di farlo per salvare la coppia.
E poi ci sono io,che un figlio non l’ho mai desiderato,forse perché sono giovane,eppure quando gioco con i bambini tutti mi dicono “ci sai proprio fare”. Io che sono diventata zia e mio fratello mi diceva “mi sembra che devi farlo tu”. Gli avrei comprato qualsiasi cosa,persino un intero store di abbigliamento. L’ho amato dal primo giorno che mi hanno detto che sarebbe stata una piccola personcina tra noi. Lo amo oggi e lo amerò domani.
Molto spesso,si dà per scontato che le donne debbano per forza essere madri. Purtroppo,troppo spesso ci si dimentica che per fare un figlio bisogna essere in due,amarsi e pensare che da coppia si passa ad essere genitori. Il che non significa solo notti in bianco e pannolini da cambiare,ma significa responsabilità,indirizzare questa piccola vita nella vita.
Prima di tutto bisogna essere in due a volere le stesse cose per la vita. A volte ci sono coppie che si bastano così come sono.
Io non lo so,magari non ci arriverò mai a guardare negli occhi la persona che mi è accanto e progettare una vita. Magari forse si,magari forse un figlio arriverà.
Ma so che ci sono cose che chi non ha figli non capirà mai,ma ci sono anche cose che chi ha figli non capirà mai,perché manca lo sguardo dall’esterno.
Per carità non è una competizione ma è il mondo.
Questo per dire che io non condanno,giudico quelle donne che non hanno avuto figli,anche perché magari hanno pensato di essere eterne giovani o hanno dato priorità alla carriera. Sono scelte dettate anche dall’amore,in primis dall’amore per se stesse,prima ancora di amare una nuova vita che metteremo al mondo.
Io guarderò Lunadigas, il web documentario. E mi piacerebbe che anche le mamme lo facessero,per capire un altro punto di vista.

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Lettera a mio nipote

Fiocco-Azzurro

Claudio,
tesoro di zia. Da qualche ora hai aperto i tuoi occhietti alla vita. Sei arrivato col vento di Dicembre, col freddo e le paure, le luci e la magia del Natale. Ma la magia più bella sei tu. Sei arrivato con la gioia e la felicità, con la vita e il futuro, con le novità e i sentimenti nuovi e puri da scoprire giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. Con te sarà sempre tutto una scoperta e una conquista. Sei e sarai la vita, il battito forte e irrefrenabile della vita, l’amore vero e puro, sincero e smisurato. Sei e sarai cuore e pensiero. Sarai notti in bianco e giorni da leone. Sarai la forza della vita. Sarai nostro, in un amore nuovo con l’emozione da vivere. Tesoro mio, grazie a te sono diventa zia. Vedi Claudio, le parole sono sempre state il mio forte. Le parole, piccolino mio, sono quel miracolo che mi consentono oggi di scriverti che sei parte di questo mondo pieno di splendore, ci sono anche le ombre, ma avrai tempo di conoscerle, ma tu ne hai aumento la meraviglia. E un giorno, quando sarai un bimbo più grande, leggerai queste righe e capirai il segreto delle parole. Come scrigni ti consegneranno intatto quel tesoro invisibile e meraviglioso che agisce sempre, nel silenzio e a distanza, e che si chiama amore. E’ la prima parola che ascolterai e imparerai Claudio, la prima che tutti noi abbiamo pronunciato pensando a te. Lo so che sono già la tua zia preferita, anche se la concorrenza è molto forte, ma non lo diciamo in giro, altrimenti poi tutti gli altri si ingelosiscono. Tesoro mio, in tutti questi mesi che eri nel grembo della tua forte, tenace e solare mamma Cristina, non appena io appoggiavo la mano per sentirti tu ti placavi, mai un calcio. Non ho mai sentito il calcio del mio nipotino. Ecco, piccolino mio, mi auguro che tu possa sempre stringere la mano della tua zia e trovare ciò che tu desideri. Piccolino mio, mi auguro e ti auguro che tu possa essere tassello del puzzle di una generazione che non si vuole far del male. Farai fatica, sarà difficile, incontrerai invidie, cattiverie. Sii gentile Claudio. Davvero. Non cedere alla fascinazione dell’aggressività, perché non diventerà potere. Aderisci ad un progetto, prendi posizione nella vita, lascia da qualche parte la tua firma (che non sia sui muri, altrimenti ci toccherà tutti pulire). Ho usato la parola “tutti”. Sì, piccolino, sei nato in una grande famiglia che da questa piccola provincia si incontra con Roma, con la famiglia Mariotti e si unisce a Bologna, lì dove c’è la tua casa, i tuoi genitori. Claudio, perdonaci se saremo troppo pesanti, saremo troppo e in tutto, ma sappi che l’amore non conosce la parola troppo.

Ben arrivato piccolo uomo!

Dormi bene. E quando ci vedremo, raccontami i tuoi sogni.

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Un popolo con la valigia: la fuga dei giovani talenti dall’Italia

Un vero e proprio “boom” di nuovi emigranti, sintomo di un’Italia fragile. Un segnale forte che ci riporta alla memoria i primi anni del ventesimo secolo, e che necessita di essere arrestato con il rilancio della ricerca e della produzione nel campo dei beni e dei servizi

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Bel Paese arrivederci. O forse addio. Per ora la decisione è una: partire per l’estero, poi si vedrà. Un popolo di emigranti lo siamo sempre stati, ma negli ultimi anni di crisi la fuga di giovani talenti è aumentata. Giovani, brillanti e laureati per loro un volo di sola andata verso l’Europa o il nuovo continente: l’America.

Perché i giovani talenti italiani lasciano l’Italia in cerca di fortuna altrove? L’Italia, il bel Paese agli occhi degli europei e degli americani. Un paese da sogno, la destinazione per una fuga d’amore, o per la fuga perfetta fino al cliché. Una leggenda. Una storia costruita da chi ci vede dall’esterno.

L’Italia è il Paese dove i padri cercano disperatamente lavoro, mentre i figli si dividono tra lo studio, i corsi all’università da seguire (magari in sedi diverse), gli orari dei treni in continuo disaccordo, tratte che non vengono coperte, il tirocinio da incastrare, ma anche un lavoro per cercare di mantenersi in un’Italia di incertezze e fragilità. L’Italia è il Paese dove una laurea non basta più ad aprire tutte le porte, o quanto meno quelle del mondo del lavoro. Anzi, spesso non ne apre neanche una, e l’unica chance che resta è andare via.

Qualche tempo fa il New York Times, il più influente settimanale nel mondo, si è occupato di quella che negli ultimi anni è stata ribattezzata “la fuga dei cervelli”, citando sulle sue pagine esempi su esempi di giovani brillanti che fuori dai confini italiani hanno trovato il loro posto e la loro fortuna. Storie semplici, di giovani volenterosi, che negli anni hanno patito la fame, la stanchezza, le difficoltà, lo stress, l’ansia e l’angoscia per una vita fatta di studio ma anche di precarietà. Sono centinaia i giovani che ogni anno decidono di lasciare l’Italia in cerca di un futuro altrove. Lunghi anni di sacrifici, di studi per conseguire una laurea, una specializzazione, un master. Ma spesso in Italia non bastano a trovare un posto di lavoro.

Eppure non si chiede il “lavoro della vita”, quello che da bambini si sognava: ormai, sappiamo che quello non esiste più, ma si cerca, si chiede, un lavoro che soddisfa e permetta di guadagnare più di quel tanto per “tirare a vivere”.

Via dall’Italia. Via per scegliere quei luoghi in cui hanno ancora un senso i valori della lealtà, del rispetto, del riconoscimento del merito e dei risultati.

E’ passato un secolo da quando con valigie di cartone e l’essenziale si partiva. Un secolo intero, ma i motivi che spingono i giovani a cercare lavoro fuori confine non sono molto diversi da quelle delle ultime ondate di migranti, che sognavano l’America come terra delle opportunità.

L’Italia perde così il talento, i suoi giovani, tenendosi un mercato del lavoro congelato a causa del suo radicato clientelismo e nepotismo. Perde i suoi figli e il suo futuro, e si trova intrappolata in un circolo vizioso. L’economia continuerà a essere mortificata, soffocando l’innovazione. Nel frattempo ogni giovane che parte è una voce in meno nel nostro Paese. Un sapere in meno.

Questo mio articolo è stato pubblicato da “Il Nuovo Risorgimento Nocerino”

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Napoli chiede aiuto!

Davide Bifulco, avrebbe compiuto 17 anni tra poche settimane. Una notte beffarda e la sua vita si è accasciata al suolo, sotto un colpo di pistola sparatogli nel silenzio della notte al rione Traiano di Napoli da un Carabiniere. Davide guidava uno scooter non suo, con lui altre due persone, tra cui uno-secondo gli inquirenti era un latitante-. Uno scooter privo di assicurazione e i tre ragazzi era sprovvisti di patentino. All’alt intimatogli dai Carabinieri il giovane non si è fermato. Poi ha desistito. Fino alla tragedia-con un colpo sparato accidentalmente,secondo la versione del militare.

Il quartiere Traiano è arrabbiato, avvolto nella disperazione e chiede “giustizia”. Giustizia che confido ci sarà. Se emergeranno delle incongruenze, degli errori è giusto che chi ha spagliato paghi. Anche perché le forze dell’ordine sono l’emblema della legalità e questa deve rimanere sempre un valore da difendere.

Ma Davide Bifulco è solo l’ennesima vittima. Come molti altri-Mariano Bottari,75 anni, il pensionato ucciso da due malviventi in un tentativo di rapina a Ponticelli, qualche settimana fa,- pagano un prezzo altissimo:essere nati e cresciuti in una terra apparentemente “normale”,dove pizza,mandolino e spaghetti,Posillipo e le sue terrazze la fanno da padrona, ma continuamente in guerra.
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Napoli, non è Iraq, Siria o Ucraina, definiti in gergo giornalistico “teatri di guerra”, ma la differenza è sottile, minima. Napoli è solo una città italiana, un paese occidentale che fa parte dell’Europa. Eppure a Napoli tra normalità, indifferenza, si combatte ogni giorno una guerra,una maledetta guerra tra faide,tra piazze di spaccio che ha abituato i suoi giovani alla “normalità”, alla vita di strada, a scorazzare tutto il giorno senza una meta, un sogno, un lavoro, un’ideale, un futuro.

A Roma c’è il “Governo del fare”, affronta emergenze su emergenze,blocca i contratti, porta avanti l’etica del fare ma nessuno rivolge lo sguardo al Sud, quel Sud che ansima, chiede progetti, progresso, alternative, non un classico film che si ripete dimenticato da tutti. Occorre aprire gli occhi guardare alle periferie del Sud tutto. Bisogna cambiare e da queste parti è davvero un’esigenza che si richiede a gran voce.

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Italia made in China

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Falliscono le imprese.Si abbassano le serrande,compaiono i cartelli “cedesi attività”,”vendesi”.Finisce l’era made in Italy.L’era delle piccole botteghe,dei piccoli negozietti.I piccoli imprenditori vengono risucchiati dalla crisi e quel “cedesi attività”,quelle attività fallite,quei negozi talvota messi all’asta finiscono nelle mani dei Cinesi.

Loro che arrivano da lontano,con il loro saper fare tutto,con i loro soldi e investono nel mercato italiano,aprono i loro negozi che vendono di tutto e a poco prezzo,lavorano sette giorni su sette e sfoggiano un sorriso accattivante come se il tempo non passasse per loro.
Guai a dirgli qualcosa o ad inviargli i vigili per dei controlli la risposta è:”cosa volete,questa è casa mia”.

Ecco i cinesi hanno trovato casa in Italia mentre gli italiani perdono la casa,il lavoro,il successo ed il Governo resta a guardare la fine di un marchio italiano,della piccola imprenditoria e la fuga delle giovani generazioni che non puntano neanche più al Nord-ormai anche il triangolo industriale è storia passata-ma all’estero.

Ci risveglieremo mai?Tuteleremo ancora quel poco che ci è rimasto anche e soprattutto con una pacifica convivenza tra italiani e cinesi,ma tuteliamo ancora qual poco che ci rimane.Vi prego!

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Quel che resta della Concordia

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Il gigante del mare. Il relitto inabissato che per anni adagiato su un fianco ha fatto da scenario all’isola del Giglio, ad uno degli specchi d’acqua più belli d’Italia, da ieri ha lasciato l’isola. La Concordia in queste ore è in viaggio, l’ultima rotta verso Genova, il porto che la ospiterà e smantellerà.

30 mesi dopo, il relitto che divenne la trappola di morte per 32 persone e l’incubo dei tanti passeggeri, lascia l’isola che l’ha accolta, ospitata. La Concordia, un gigante del mare, oltre 114Kg di starza, 190 metri di lunghezza, 5 ristoranti,oltre 5000 cabine,era un vanto della flotta. Nave sfortunata. Nel 2008 per il forte vento urtò contro il molo di Palermo. Due incidenti in sette anni di navigazione. Nel 2005 quando venne inaugurata,la tradizionale bottiglia di champagne non si ruppe contro lo scafo. E chi và per mare sa che è il segno della mala sorte. Saranno le quattro inchieste della magistratura a dare un nome e una spiegazione a questa esperienza trasformatasi in tragedia ma soprattutto a pagare per la morte delle vittime.

Una notte indimenticabile quella del 13 Gennaio 2012. Un boato, come un terremoto, una serie di black-out. Sulla Costa Concordia è il panico. I turisti sono a tavola,dagli altoparlanti le prime informazioni. Prima della mezzanotte la nave comincia a imbarcare acqua,si piega su un fianco,il comandante punta verso l’isola del Giglio. Ai passeggeri viene ordinato di indossare i giubbotti,comincia l’evacuazione. Le scialuppe vengono calate in mare ma è il caos.

E’ notte quando arrivano i soccorsi per mare e per terra, quello che si trovano davanti è drammatico. Uno squarcio sulla fiancata della nave e lo scoglio incastrato nello scavo. Le luci degli elicotteri disegnano i contorni della tragedia. All’alba al porto non ci sono barche ma solo scialuppe di salvataggio e occhi di paura.

Oggi che il gigante del mare ha lasciato i gigliesi restano i ricordi. Quel che resta della Concordia è un ricordo indelebile e doloroso. 32 vittime che nella loro vacanza hanno trovato la morte. Un cadavere ancora disperso. Gli atti di eroismo di chi ha ceduto il proprio posto sulla scialuppa ad una donna o ad un bambino, perdendo la vita. Chi per giorni ha atteso i soccorsi stipato negli intercapedini della nave ma non ce l’ha fatta. Un comandante che a gambe levate è stato il primo a scappare, che oggi si fa fotografare sorridente e abbracciato a belle donne, che si augura un disastro ambientale –affinchè la nave non arrivi a Genova.

Indimenticabili resteranno le parole del Comandante De Falco: “Lei deve dirmi se ci sono bambini, donne, persone bisognose di assistenza… Vada a bordo, Ca…!”

Ma della Concordia resta un’operazione unica al mondo, il lavoro di squadra di operai italiani e stranieri, di un’isola che si è mostrata solidale e disponibile, che ha accolto tutti con amore ed a braccia aperte, restano le storie d’amore che dalla tragedia sono nate. Come quella di Virginia e Simon. Lui americano e lei gigliese. La difficoltà di dialogo. L’abbraccio dei due quando lui ha lavorato all’operazione più delicata per la Concordia. Il loro amore è volato fino al Kent e tra un mese nascerà un bambino.

La Concordia è anche questo. Ma la Concordia dovrà anche essere giustizia per le 32 vittime e per tutti coloro che si sono salvati ma non potranno mai dimenticare ciò che hanno vissuto.

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