Primo e storico accordo in Italia stipulato tra Regione, Inps e Ifo che accorcerà i tempi dei controlli volti al riconoscimento dell’invalidità per i pazienti oncologici. La svolta parte dal Lazio. Da cinque controlli per ottenere il riconoscimento dell’invalidità a uno solo, con uno specialista oncologo che farà la diagnosi e compilerà “il certificato introduttivo” da portare all’Inps. L’obiettivo è quello di sveltire le pratiche per i malati di tumore. L’accordo porta la firma del presidente della regione Lazio, Nicola Zingaretti, quello dell’Inps, Tito Boeri e quello dell’Ifo (Istituto Fisioterapici Ospitalieri) , Francesco Ripa di Meana. Il protocollo siglato avrà durato di diciotto mesi e per lo specialista sarà possibile acquisire fin da subito, già durante il ricovero ola cura presso le strutture sanitarie, tutti gli elementi necessari alla valutazione medico legale, evitando al malato eventuali ulteriori esami e accertamenti. Sarà il medico stesso ad avviare le pratiche per il riconoscimento dell’invalidità. I tempi d’attesa si ridurranno e l’Inps garantirà tempi certi e più veloci con la scomparsa dei verbali cartacei e la digitalizzazione delle procedure. Il nuovo processo, prevede che si abbattano anche i costi, perché il “certificato introduttivo” non dovrà più essere pagato, abolendo così il pagamento della tariffa al medico di base che si aggirava tra i 60 ed i 100 euro. Le procedure si standerizzano e non ci saranno valutazioni diverse rispetto a quelle medico-scientifiche. Il modello per il momento varrà solo per la regione Lazio, che tra le altre cose ha introdotto importanti novità che riguardano i pazienti oncologici, infatti, è tra le prime regioni ad adottare il modello del “breast unit” per assicurare una maggiore assistenza per i pazienti malati di tumore al seno. Il presidente Zingaretti ha anche approvato il regolamento del registro tumori per una maggiore prevenzione ed infine sono stati adottati anche strumenti tecnologici aggiornamenti innovativi denominati “protonc4life”, uno dei più grandi progetti italiani per le cure oncologiche che vedrà protagonista l’Ifo insieme all’ospedale Gemelli. Un leggero frastornamento, la disperazione, l’ansia, il terrore in notti che passano insonni perché preda della paura, la diagnosi di tumore si riversa come un tornado, mettendoci di fronte a sentimenti e paure più grandi di noi. Come restare “a galla” in una situazione così difficile? E come comportarsi con una persona cara che si ammala? Certo molto dipende dal carattere dei singoli individui, ma sono moltissimi – la stragrande maggioranza- i pazienti ed i familiari che attraversano periodi più o meno lunghi di ansia, depressione, tristezza, paura dopo aver ricevuto la notizia di un tumore. Banale e persino poco scientifico, ma è una verità provata da molti studi e soprattutto dall’esperienza di migliaia di pazienti: il tempo che passa è un prezioso alleato. Utile a smussare gli angoli, le asperità del primo momento legate al trauma della diagnosi. In sostanza, lo shock iniziale è come una ferita nell’anima: col passare dei giorni può rimarginarsi oppure rischia di peggiorare. La regola numero uno per amici e familiari disorientati dalla malattia che cambia la vita di chi si ama, è quello di ascoltare, lasciare che il malato si esprima e non si tenga tutto dentro. Minimizzare è controproducente, molto più efficace è un atteggiamento rassicurante e d’incoraggiamento. La malattia arriva d’improvviso a scombussolare i piani della vita. Il cancro è una cicatrice nell’anima. Ruba la salute, spesso la dignità, la fiducia in se stessi, la percezione di sé nel mondo. E negli ospedali esiste una vita, esistono uomini e donne che malgrado tutto continuano ad essere madri, padri, mogli, mariti o figli. Riescono a collocare nell’agenda della vita l’appuntamento per la chemioterapia fra una lavatrice o la partita di calcetto del proprio figlio. Sono uomini e donne coraggiosi e bellissimi. Ma quegli ambienti sono carichi di speranza, di dolore e di solitudine. Ma se tra i cunicoli degli ospedali, le paure, le problematiche varie si inserisce una burocrazia più umana, meno lenta, più veloce, tendendo la mano al paziente si crea una relazione con il cittadino e l’azione intrapresa dalla regione Lazio, rendono lo Stato amico del cittadino, semplificandogli la vita, ponendosi come una innovazione sanitaria che, speriamo, possa essere ampliata, considerando, così come ha fanno notare dall’Inps, che la platea di soggetti che richiede l’invalidità civile per malattie oncologiche si attesta intorno al 28%. In questo modo si velocizzano le pratiche e si riducono gli oneri per le famiglie con la possibilità anche di anticipare la concessione della legge 104/92, ovvero la possibilità delle famiglie di poter assistere in modo adeguato il malato. Tito Boeri, presidente dell’Inps, fa sapere che ci sono altre regioni che hanno deciso di accentrare i controlli presso l’Inps come la Basilicata, la Calabria e forse in tempi brevi anche la Campania. Questa esperienza richiama la sperimentazione già in atto in alcuni ospedali pediatrici che sembrerebbe andare bene. Insomma, sembra che la burocrazia stia andando verso un processo di umanizzazione e di rispetto della malattia.
(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)
Da Torino a Roma, scendendo sino alla punta dello stivale, Catania. I registrati dell’anagrafe dei comuni italiani iscrivono la nascita dei figli di genitori dello stesso sesso. Dalla sindaca Appendino alla pantastellata Raggi, al sindaco catanese, si procede a trascrivere i certificati di nascita stranieri di figli di coppie omosessuali senza che sia intervenuto un Tribunale con un sua ordinanza. Pioniere, a dirla tutta, era stato l’ex sindaco di Roma, Ignazio Marino, nel 2015 che aveva provveduto alla trascrizione all’anagrafe capitolina senza una sentenza. Le due mamme romane, tornate in patria dopo la nascita del bimbo in Argentina, avevano presentato domanda al comune di Roma perché questa trascrizione venisse riconosciuta anche in Italia. Decisione che aveva provocato spaccature politiche e diviso il Paese. Ma erano state la Corte d’Appello di Trento prima, di Roma dopo, a emettere sentenze favorevoli al riconoscimento di genitori dello stesso sesso. Una decisione coraggiosa dal punto di vista politico ed innovativa sotto l’aspetto giuridico che apre le porte degli uffici anagrafi dei comuni alle famiglie arcobaleno. Un excursus sociale che nasce dalle coppie same sex a cui era data la possibilità dell’adozione cosiddetta “mite”, non una vera e propria adozione ma qualcosa che si avvicina, oppure avevano la facoltà di trascrivere gli atti di nascita nei paesi in cui il sesso dei genitori non veniva considerato, come in Spagna, o ancora facoltà di trascrivere sentenze straniere di adozione. Ma nel silenzio politico, la magistratura, ha riletto le norme del diritto interno alla luce dei principi del diritto internazione, facendosi carico negli ultimi anni di trovare soluzioni che tutelassero i figli delle coppie arcobaleno evitando di discriminarli. Sino ad oggi, con la decisione di comuni di superare le soluzioni di ripiego e permettere ad un bambino, nato in una coppia omogenitoriale, di essere identico al suo compagno di banco, figlio di due genitori eterosessuali. La parola fine ancora non è scritta, anzi, è tutto ancora aperto, la registrazione potrebbe essere impugnata davanti al giudice, in quanto nel nostro ordinamento, i genitori sono sempre un uomo ed una donna. Eppure non ci sono nell’ordinamento italiano norme che regolino l’iscrizione all’anagrafe di figli di genitori dello stesso sesso. Mancano però anche i divieti costituzionali. E’ in questo spazio che si sono inseriti i tentativi, riusciti già dai comuni, di iscrivere i figli di genitori omosessuali. Durante l’approvazione della legge sulle unioni civili si era aperto uno spiraglio con la proposta della stepchild adoption, l’adozione da parte del coniuge, che poi era stata accantonata dal Parlamento tra le polemiche. Insistono, intanto le sentenze del tribunale di Trento, della Corte d’Appello, e anche della Cassazione. Il tratto comune è quello che in assenza di una legislazione, i tribunali costringano i comuni ad effettuare la registrazione in forza del fatto che non esiste un divieto generale nella Costituzione. Insomma, ci sono ancora nuvole sopra l’arcobaleno. Oltre l’aspetto legislativo e giurisprudenziale che andrà chiarito anche oltrepassando le ideologie e le opinioni personali e politiche, resta un passo storico e civile che alcuni comuni hanno deciso di compiere, un passo che sarà storia personale di questi bambini, connotando un’evoluzione ideologica: negli anni settanta, i bambini di genitori divorziati, erano visti come figli di un peccato, nelle scuole religiose di pregava anche e soprattutto per loro, perché si diceva privi di una guida solida e comune. Oggi, invece, che la nostra società convive quasi come fosse abitudine e consuetudine a genitori separati e figli divisi nei giorni e durante le feste, siamo a confronto coi figli di genitori omosessuali e di bambini che presto andranno a scuola e si confronteranno con i pregiudizi di adulti e bambini. Infatti, secondo la comunità scientifica internazionale, all’unanimità, ha riferito come un bambino figlio di genitori dello stesso sesso rischia di ammalarsi più dei figli di una famiglia tradizionale, la malattia connessa ai bambini arcobaleno è quella del “minority stress”, ossia il “bullismo” che l’ambiente può attivare contro questi piccoli soggetti. La condizione di stress di natura cronica che caratterizza la vita di determinate persone – si legge nella ricerca dell’Università di Napoli Federico II – le cui differenze sono oggetto di stigma (o che, comunque, sono considerate come negative all’interno di un determinato gruppo sociale o ambiente socio-culturale), prende il nome di minority stress. Tale forma di stress può colpire alcune minoranze come, ad esempio, quelle sessuali oppure quelle composte da insiemi di persone che possiedono determinate caratteristiche.” Sotto l’aspetto della conoscenza della propria condizione, bambini arcobaleno, si basa prevalentemente sulle informazioni e sui modelli che vengono veicolati dai media, senza il sostegno di adulti comprensivi, in quanto sono pochi coloro che sono informati e formati sulle famiglie omogenitoriali. Il confronto con i pari, con altre coppie omosessuali, avviene solo successivamente. Ecco che la condizione di stress prolungato, derivato dal pregiudizio e dalla discriminazione, diventa una fonte significativa e influente sulla salute mentale, soprattutto se si percepiscono determinati contesti sociali come ostili, avversi o indifferenti. Insomma, abbiamo bisogno ancora di compiere molti passi normativi ma anche ideologici e di supporto.
Aveva ottenuto un permesso premio ma, allo scadere del beneficio, non ha fatto rientro nel carcere minorile di Nisida, dove era ristretto, facendo perdere le sue tracce. Si tratta di evasione, che avrà delle ripercussioni se il giovani non si costituirà. Incoscienti e spietati. Senza mai provare rimorso, né assumersi responsabilità alcuna. Giovanissimi, ancora bambini ma giocano con la vita e con la morte. Il pericolo, l’escalation di violenza gli provoca un brivido, in alcuni casi gli mette adrenalina. Furti, rapine, scappio e nella peggiore delle ipotesi omicidi, li affascina. Sono l’esercito tecnicamente dei bambini, che rifiutano le regole ed arrivano a compiere gesti terribili e senza senso con una leggerezza tale che anche davanti alle conseguenze non riescono a comprenderne la gravità. Così da fanciulli o poco più si ritrovano dietro le sbarre di uno dei diciannove penitenziari minorili presenti in Italia, che ospitano detenuti dai 14 ai 18 anni e fino ai 25 anni se il reato è stato commesso prima del raggiungimento della pena. Un carcere minorile non è un carcere per adulti, un istituto di pena per minori è un mondo diverso: dalle procedure d’ingresso per i visitatori alla storia professionale degli operatori, dall’iconografia carceraria alla sensibilità istituzionale, dai bisogni pedagogici e di salute ai diritti, dalle relazioni tra detenuti a quelle con lo staff, dai controlli alle attività consentite. Nell’ambito della giustizia minorile la carcerazione è fortemente residuale. I numeri dei ragazzi detenuti sono bassi. I minorenni sono meno di duecento, gli adulti tra i 18-25 anni, meno di trecento. Questo permette progettualità innovative e un’attenzione educativa individuale che non può essere paragonata alla burocratizzata vita carceraria degli adulti, afflitta da numeri che rendono i detenuti un numero agli occhi degli operatori. Così accade che negli istituti penitenziari per minori il direttore conosca singolarmente ogni giovane detenuto e gli operatori prendono i carico i destini individuali dei ragazzi con empatia, sapendo distinguere i comportamenti e gli atteggiamenti, lavorando su questo. La giustizia penale minorile consente la sperimentazione di percorsi e di pene alternative a quella carceraria, e ciò parte dal reato che ha portato alla detenzione. Si tende a categorizzarlo in quattro ampi insiemi: coloro che hanno commesso reati gravissimi contro la persona o di particolare rilevanza sociale; ragazzi immigrati privi di figure significative all’esterno; detenuti pluri-recidivi con stili di vita non legali; detenuti affetti da atteggiamenti oppositivi. Una composizione socio-penale, sulla quale gli operatori dovranno quotidianamente lavorare con attenzione psicologica e pedagogica elevata. Vanno, dunque, evitate semplificazioni trattamentali. In tutti gli istituti si prova ad evitare la vita comune tra minori e giovani adulti, una divisione che in alcuni casi è rigorosa, come avviene a Torino, perché gli adulti sono gestibili, conoscono i meccanismi del carcere, mentre i minori sarebbero un concentrato di rabbia, ormoni e vite complicate. In un istituto penitenziario per minori lo sguardo cade sui ragazzi e sul personale, a volte è difficile distinguere gli uni dagli altri. I poliziotti, ad eccezione del comandante di reparto, non indossano la divisa. La presenza di giovani agenti in borghese è sinonimo di vicinanza e di non stigmatizzazione carceraria che ha effetti benefici. Sparsi per l’Italia sono ristretti ragazzini che hanno alle spalle storie di autentica criminalità, come per i minori autoctoni ristretti al Fornelli di Bari, a Catanzaro, a Nisida o nei penitenziari minorili siciliani, va rotto il circolo vizioso del rapporto con l’istituzione. Dovrà presentarsi dolce, mite, accogliente, ma anche ferma e moralmente irreprensibile. Un poliziotto senza divisa accorcia le distanze, ma l’autorevolezza, la determinazione e la coerenza contano in un rapporto con un ragazzo in via di formazione. Per funzionare al meglio, la giustizia minorile deve costruire ponti e alleanze con gli attori: associazionismo, scuole, enti no profit. E’ importante stimolare nelle carceri minorili corsi di formazione professionali, decisivi per i ragazzi in crescita. Un attore decisivo per il destino dei ragazzi reclusi è il variegato mondo del terzo settore, dell’associazionismo e della cooperazione sociale. La sua creatività può fare tantissimo. Dal teatro in carcere ai laboratori di cucina e pasticceria, passando per laboratori di grafica e scultura, sono irrinunciabili nella fase della crescita. Ma gli istituti penitenziari minorili italiani fanno i conti con le carenze e le problematiche, iniziando da operatori precari, che rischiano di andare via lasciando un percorso di aiuto iniziato e condiviso, ed il cambiamento dell’operatore nel minore non genera sicurezza, anzi rischia di far fallire il percorso già avviato. Anche un tempo non prestabilito, non aiuta. Un limite alle possibilità di organizzare del tempo in carcere è dato dal breve periodo di permanenza del ragazzo e ciò risulta impossibile prendere i giovani seriamente in carico. Anche l’edilizia penitenziaria non aiuta. Strutture brutte, fatiscenti, nate da posti dismessi. Una pratica ancora ricorrente è purtroppo quella dei continui trasferimenti dei ragazzi ritenuti difficili. Troppo spesso vengono trattati come fossero pacchi. Il sistema penitenziario minorile pur avendo delle carenze risulta maggiormente organizzato rispetto a quello degli adulti. Ha una sua identità pedagogica, ma deve andare ancora oltre. Non deve farsi affascinare dai metodi approssimativi del sistema degli adulti. Deve rinunciare del tutto alle asprezze, all’isolamento punitivo. Deve riuscire a puntare su due sole parole chiave: prevenzione ed educazione, certo deve anche confrontarsi con i fallimenti ed interrogarsi perché in un permesso premio il minore possa non rientrare più: è solo il modo per essere un recidivo o c’è un malessere non compreso?
Ora i padri non potranno più esimersi dal mantenere i propri figli. I genitori, separati o divorziati, che non pagano l’assegno di mantenimento rischiano fino ad un anno di carcere o una multa fino a 1.032 euro. A sancirlo è l’art. 570 bis del codice penale, che entra pienamente in vigore, prevedendo pene nette per i genitori che si sottraggono “agli obblighi di assistenza inerenti la responsabilità genitoriale o alla qualità di coniuge”. La norma abolisce le diverse regole e sentenze contraddittorie che negli anni si sono susseguite, ma non si applica ai conviventi. Il procedimento del neo articolo 570bis è contemplato nella recente riforma sul riordinamento penitenziario, scritta dal governo ormai dimissionario, ma in esso viene specificato che il reato è ascritto ai padri ex coniugi, mentre non è ancora contemplato per i padri ex conviventi. Questo crea un vuoto normativo che dovrà essere colmato a stretto giro. Dunque, scatta la galera per quei genitori inadempienti che ripetutamente si rifiutano di versare i soldi alla ex moglie per contribuire al mantenimento dei figli, anche se maggiorenni. La norma, prevede, che chi non versa tale assegno non andrà subito in prigione, ma questa legge servirà sicuramente da ammonimento e monito. Nel caso, infatti, che il reato dovesse essere perpetrato nel tempo e dopo diverse sentenze, la prospettiva della prigione non sarebbe remota. La legge, conclude, con la previsione di sanzioni per quei padri, separati o divorziati, che sperperano il patrimonio familiare, non garantendo ai figli la necessaria sussistenza o eredità. Anche in questi casi la pena prevista potrebbe essere il carcere o la multa a seconda che oltre il comportamento di un genitori inadempiente, il mantenimento venga versato “a singhiozzo”. Anche in questo caso si parla di casi di ex coppie coniugate: lasciati fuori gli ex non coniugati. La legge fa scalpore ma nasce sulla base del codice penale del 1930 che già puniva con il carcere, seppur sulla carta, coloro che facevano mancare i mezzi di sostentamento al coniuge o ai figli. Poi le modifiche, sino ad oggi, in cui è reato non pagare gli assegni per i figli in genere. Discutibile su molti aspetti: ad esempio, non versare l’assegno per il figlio maggiorenne sarà punito solo se i genitori sono divorziati ma non sei genitori sono separati o addirittura conviventi. Potrebbe finire in tribunale anche chi è puntuale con l’assegno mensile ma non ha rimborsato le spese per i libri o per le vacanze dei figli. Incongruenze che fanno indispettire i tanti padri che ogni giorno si scontrano oltre che con l’astio dell’ex compagna anche con situazioni di grande stress emotivo ed economico. Molti padri di oggi perdono tutto, non riescono ad arrivare a fine mese, spesso sono ridotti alla miseria e non possono neppure detrarre dalla dichiarazione dei redditi l’assegno di mantenimento per i figli. Così può capitare che finiscano in strada, magari a dormire in macchina o in situazioni indecorose. Il nuovo articolo del codice penale di certo non va incontro ai padri separati, anzi, sembra un’ulteriore spada di Damocle per quei padri desiderosi di esserlo ma che con la separazione hanno incontrato la povertà. Intorno, però al mondo dei padri separati in difficoltà, che sembrano non esserci, -ma sono un’ampia fetta di popolazione italiana, basta vedere i dati dell’Istat relativi alle separazioni e ai divorzi