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Abusi sui minori, guardate ed ascoltate i vostri figli

untitledPeriferia di Napoli: Caivano è lì che nel 2014, tra i palazzoni, lo sporco, il degrado, le difficoltà di una vita che già da bambini diventa difficile, che la piccola Fortuna, dopo diversi abusi ha trovato la morte. Ad abusare di lei per poi ucciderla il suo vicino di casa, che oggi, grazie alla testimonianza e alla voglia di giustizia, di verità, alla voglia di liberarsi di un peso troppo grande per un bambino, è stato incastrato dal racconto dei bambini.

Il caso della piccola Fortuna, riporta alla ribalta un tema tanto scabroso quanto difficile: la violenza e l’abuso sui minori. Un tema pesante e complesso e ve lo dice una che si è laureata con una tesi in “Maltrattamento e abuso sui minori, l’intervento dei servizi sociali”. Un tema che richiama a sé come in un vortice dantesco tante altre tematiche, che vorrei sviluppare con voi: la mancanza di rispetto, il non guardare al dolore dei piccoli, l’omertà degli adulti, il non accorgersi che il proprio piccolo ha subito una violenza.

Ma andiamo con ordine… l’orco che abusa di un bambino è a mio avviso un egoista, ma anche una persona disturbata, che ha bisogno di aiuto, ma deve necessariamente scontare una pena, che sia d’esempio ed esemplare, che non servirà a cancellare il dolore e la ferita permanente che questi piccoli hanno, ma servirà ad alleviare le loro sofferenze, a mostrare una Giustizia. Anche Papa Francesco, ha condannato fermamente questi atteggiamenti, invitando a punire questi comportamenti.

L’omertà degli adulti è altrettanto un crimine, a mio avviso, sapere, vedere ma far finta di niente, convincersi che non sia così, è un doppio crimine. Non esiste amore o scuse. Chi sa e tace, sbaglia e danneggia ulteriormente il bambino. Chi sa deve denunciare, urlare il crimine commesso e tutelare il piccolo, sempre. Nel caso di Caivano, i bambini che hanno permesso di incastrare dopo qualche anno l’orco hanno dimostrato come il muro di omertà si possa sconfiggere.

Dimentichiamo e dimenticate che la pedofilia, i casi di abuso che esso sia fisico, psicologico  o sessuale, abbia origine solo ed esclusivamente in un contesto di povertà e di degrado, quello di Caivano è solo un caso. La pedofilia risiede, ce lo insegna anche la cronaca, persino tra i sacerdoti, esiste anche in quei contesti dove vivono i professionisti, le famiglie “perbene” ed è proprio lì che spesso si tace, si nasconde il tutto e si continua per anni nel totale silenzio ed indifferenza, che permettetemi di dire fa ancor più schifo e rabbrividisce.

Non è sempre facile capire se un bambino ha subito abusi, come nel caso di Fortuna, dove il papà non aveva avuto alcun sentore. Ma alcuni comportamenti, possono metterci in guardia. Certo, non forniscono da subito prove certe, ma possono fornire i primi input, quelli che in gergo tecnico vengono chiamati “indicatori”: guardate i disegni dei vostri bambini, notate se le figure sono più grandi del solito, se emergono con continuità e ripetizione parti intime o parti del disegno più grandi rispetto al normale. Notate, se tendono a riportare con frequenza la stessa persona.

Non solo disegni… a volte i bambini non conoscono le parole giuste o hanno difficoltà ad esprimere quello che hanno vissuto, ma è un vissuto doloroso e spesso l’indicatore cardine è il suo cambiamento di comportamento, talvolta la difficoltà a dormire, un rapporto contrastante col cibo. Attenzione ai cambiamenti d’umore: sbalzi repentini, attenzione all’isolamento a scuola e tra gli amici. Ponete attenzione alla loro aggressività e a sbalzi tra comportamenti aggressivi a comportamenti docili e buoni.

Ascoltateli, anche se sono confusi, se mescolano discorsi: fate attenzione alle parole, al tono, a cosa dicono, a perché lo dicono. Non incalzateli di domande e di perché, ma ascoltateli e poi ritornate anche attraverso il gioco all’argomento.

Fate attenzione alla sua concentrazione a scuola, ad eventuali atteggiamenti seduttivi verso gli adulti. Guardate il loro corpo, la violenza fisica lascia segni. Nessuno di questi comportamenti indica con certezza che il bambino ha subito abusi. Altri disagi possono originare comportamenti simili che vanno sempre condivisi con uno specialista.

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Autismo, non siamo un paese razzista

cropped-cropped-foto-per-copertina-blog.jpgAutismo Vs opinione pubblica.

E’ questo il dibattito che da giorni tiene banco sui media nazionali, dopo diversi casi di bambini autistici estromessi dalla gita scolastica. Ultimo in ordine di tempo quello della ragazzina autistica che nessuno dei ragazzi voleva in camera, durante la gita a Mathausen.

Clamore mediatico e la gita viene annullata. Clamore mediatico= discutere, riflettere. Il mondo della disabilità è ancora sconosciuto ai più e sicuramente molto può la tv. Sono la prima che per costume ed educazione personale, per i valori che mi legano alla professione che spero di poter fare un giorno, innalzo la bandiera dell’integrazione scolastica, del “mettersi nei panni degli altri”.

Ecco proprio perché mi “metto nei panni degli altri”, stavolta non critico o accuso i ragazzi o i loro genitori-che a dire di molti sono ignoranti e acidi- perché bisogna scovare infondo: l’autismo ha varie forme, tutte senza dubbio problematiche e gravi , ma alcuni stadi possono essere pericolosi, specie quando si tratta di ragazzi più grandi.

Per la cronaca bisogna ricordare il caso del giovane autistico Daniele Potenzoni, di 36 anni, che giunto in pellegrinaggio a Roma è scomparso, tutt’ora continuano le sue ricerche.

Non siamo un Paese sempre e per forza razzista e contro l’integrazione, ma guardiamo anche agli aspetti, entriamo dentro le decisioni, prima di sparare sentenze contro genitori e ragazzi: sono preoccupati delle reazioni di un ragazzo autistico in gita, preoccupati di dormirci nel caso possa avere reazioni violente, non a caso la stessa insegnante di sostegno si è sottratta a questa responsabilità.
Ecco allora facciamoci qualche domanda, rendiamoci più informati, e poi parliamo di integrazione. Il problema non è la gita: perché i genitori dei ragazzi autistici potrebbero andarci e rendere tutti più sereni, il problema è che spesso si vuole creare clamore mediatico, anche per consolazione personale, ma signori miei è sbagliato.

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Amore amaro/parte1. Il dolore dell’amore, la più grande ricchezza

IMG_0217Raccontare la vita nelle sue mille sfumature: dall’amore vero e sincero che si prova, che ti spinge ad attendere col cuore in gola davanti ad una sala operatoria o a chiacchierare per “ingannare” il tempo nelle sale d’attesa, quando la vita ti costringe a fare i conti con la malattia, la sofferenza. Ecco per settimane sul mio blog, che nato dalla mia passione giornalistica di approfondire, di raccontare, fatti di cronaca, ho raccontato anche storie comuni, storie di tutti noi, di gente comune, che nei mesi di sale d’attesa ho incontrato ed ognuno di loro ha lasciato in me una traccia, una morale, un insegnamento. Storie fatte d’amore e di sofferenza, di lotte nel nome della vita e del “ti sono accanto nella gioia e nel dolore”. Insegnandomi un amore vero e sincero anche e soprattutto di fronte alle difficoltà, insegnandomi che l’amore può e vince su tutto. Insegnandomi però che è un amore troppo raro ed antico, che appartiene più alle “vecchie” generazioni, che alla mia-poco più che vent’enne-.

Così “racconti d’attesa” va in pensione, restando scritti qui e restando nel mio cuore, ma apro un’altra pagina, un’altra rubrica: “amore amaro”. Perché sì diciamocela tutta, con sincerità e franchezza ed a chiare lettere “l’amore fa male”, “l’amore è amaro”.

Però dal dolore nasce la nostra più grande ricchezza. Ricordate quando da bambini ci leggevano le storie con l’intento di farci capire la morale? Affinchè ne facessimo tesoro e insegnamento? Bene, la vita è la stessa cosa. Ogni cosa che ci accade nel bene e nel male, ci insegna qualcosa. Accade così anche quando per amore o in amore soffriamo: prima o poi ci insegna qualcosa e proprio quel qualcosa diventa la nostra ricchezza.

Per citare Adriano Celentano “non so parlar d’amore”, forse non sono in grado di parlarne, o forse sono troppo arrabbiata con l’amore, con me stessa e col genere maschile, da non riuscire ad essere lucida, ma d’amore voglio parlare, dell’amore che noi donne diamo: incondizionatamente e smisuratamente, rimettendoci spesso le penne.

Non voglio parlarvi dell’amore ideale. Non quello fatto di giorni indimenticabili e di sintonia su tutto, perché è tutto così perfetto: ci si capisce al volo, si anticipano i desideri altrui, si è sempre sulla stessa lunghezza d’onda. Anche se attente, il tranello potrebbe essere dietro l’angolo. Io voglio parlarvi dell’amore reale: quello dove il principe o la principessa hanno tolto la maschera e non brillano più, quello di porte in faccia e di telefoni muti.

Io, per uscire dal mondo degli ideali e delle fiabe, ci ho messo più di quattro mesi: da quando l’ho conosciuto in un giorno che pensavo fosse “destino”: il 24 dicembre, chissà perché quel giorno sono uscita di casa! Poi vi racconterò il nostro primo incontro, ma voglio anche parlarvi tutti gli errori che noi donne nel nome del cuore e dell’amore commettiamo, come anche di quelli che gli uomini, delle bugie che hanno le gambe corte, di sere che di magico resta ben poco. Del decalogo “sbagliato” sull’amore.  Ma un po’ per volta, a piccole pillole, a piccole puntante, per crescere e per capire insieme, per trarne un insegnamento e per trasformare la delusione in ricchezza.

 

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Storie comuni. Cameriere a Capodanno ad un passo dalla laurea

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Mancavano poche ore al nuovo anno, in clima già di festa, in un locale che pian piano si riempiva di gente, di sorrisi, di vestiti eleganti, di aspettative per il 2016, incontro lui: poco più che ventenne, con una divisa ben stirata, la cravatta rossa ben annotata, un portamento dritto ed elegante, pochi sorrisi e perfetta manualità. I suoi gesti divini, corretti, quasi sincronizzati, si aggira tra i tavoli dà il benvenuto alla clientela, augura buona fine, poi inizia a servire con maestria, con perfezione, muto non parla. Si avvicina al tavolo in cui ero seduta, mi accenna un sorriso, lo avevo già incontrato in quel locale, mi rinnova gli auguri per la mia laurea e sottovoce mi dice che nel nuovo anno si laureerà anche lui. Ingegneria aerospaziale. Mi si è aperto un mondo davanti agli occhi, un mondo giovane, bello, vero e sincero, un mondo fatto di giovani e di sacrifici. Francesco, lo chiamo così, anche la notte di San Silvestro lavorava per pagarsi gli studi, per arrivare a completare il tassello del suo puzzle universitario, per giungere al traguardo della laurea. Tutti noi eravamo lì in quel clima di festa, di gioia, pensando già alla notte di festa, di baldoria, ma lui era lì perchè nel nuovo anno doveva laurearsi e questo significava lavorare anche l’ultimo giorno dell’anno, far mattina mentre gli altri-anche della sua età-lavoravano. Francesco ce l’ho stampato nella mente, perchè ho pensato alla mamma a casa a festeggiare col cuore in gola, sapendo che suo figlio lavorava per finanziarsi gli studi, per essere “qualcuno” nella sua vita. Inevitabilmente ho pensato al potenziale che il nostro Paese ha ma a cui non bada. Siamo nell’era dell’ Uni-superficialità. Spesso pesiamo che gli studenti siano nullafacenti che studiano per non lavorare, che perdono volontariamente il loro tempo, che non si applicano, che lasciano scorrere gli anni dell’università per sfuggire alla ricerca di un lavoro. Li hanno chiamati negli anni “choosy, mammoni, gente allo sbando”, certo, qualche volta corrisponde al vero, ma altre volte, come nel caso di Francesco e di mille altri come lui, corrisponde a verità. Non sono leggende, i giovani così esistono. Se ci pensiamo bene, ognuno di noi ne conosce almeno un paio. Ma quello che non si dice mai è che esiste una buona parte di giovani che crede ancora in quello che studia e lo fa per passione.

L’università italiana è il nostro orgoglio ed è innegabilmente una delle istituzioni più importanti del nostro Paese, che va valorizzata, ma ancor di più bisogna sostenere e valorizzare gli studenti, il nostro potenziale, il nostro futuro e non guardare con disprezzo chi si laurea dopo qualche anno dall’iscrizione al corso di laurea, o chi salta degli appelli, perchè signori miei esiste un’Italia che ha fame e sete di lavoro perchè il lavoro equivale alla retribuzione e questa permette di vivere, spendere, mantenersi agli studi. Non chiamiamoli “bamboccioni” o “eterni studenti”, perchè sono altri gli eterni studenti e fatevolo dire da una che è fresca di laurea, quindi gli studenti “pigri” quelli che si permettono il lusso di stare in eterno all’università sono quelli che ne hanno la possibilità e che si prendono con comodo gli studi, ma quelli che lavorano e studiano sono la ricchezza del nostro Paese al quadrato, non dimentichiamocelo.

 

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Racconti d’attesa/parte 6 Lei è parte di me. Non la lascio sola. 

Arturo è lì con i suoi occhi di ghiaccio che tanti anni fa hanno rapito la sua Maria. È lì col suo busto retto e dritto, da sergente dell’esercito, con le sue rughe che segnano i suoi 75 anni, i suoi capelli d’argento che mostrano il tempo di una vita che scorre via. È lì in quella sala d’attesa di una rinomata clinica campana, in attesa di vedere l’amore della sua vita, ricoverata da pochi minuti e in attesa di un intervento nel reparto di ortopedia. Arturo è perso in quella sala d’attesa che sa di vuoto, di troppe voci che si susseguono, è solo con la sua malinconia, la sua paura, la sua tristezza, solo in attesa che tutto possa finire. Il sole di Luglio batte forte, fa caldo, Arturo sa che le sue figlie sono lontane e al mare, mentre lui naviga nel mare della speranza e della paura. Solo su quella sedia, aspettando che passino i minuti, li conta col ritmo delle gambe, aspetta di poter abbracciare e baciare per pochi secondi, quelli che precedono il passaggio dalla camera “223” alla sala operatoria, la sua Maria. Lo chiamano, il suo volto si colora, è felice, ma la sua è un’aria già stanca e malinconica. Dopo pochi minuti ritorna nella sala d’attesa, il suo posto lo ha perso, si siede accanto a me. È fermo, con lo sguardo perso nel vuoto, ha paura, teme per sua moglie. Come è strano vedere un uomo grande e grosso, che sicuramente ne ha passate tante nella sua anziana vita, così in pena, così perso senza l’amore, quella della sua donna. Nelle sale d’attesa si parla tanto, è un vocio continuo, un bisbiglio continuo, lo sento ancora nelle orecchie, specie la notte quando mi sveglio e mi fermo a pensare a me in quelle sale d’attesa, alla gente incontrata, alle loro storie, da cui traggo sempre, seppur a distanza di tempo un insegnamento, una morale, come nelle favole che fa bambina mi raccontava il mio papà, seppur le cambiava, ma certo non mi preparavamo così tanto alla vita, quella di oggi, quella imprevedibile, disgraziata, che dietro l’angolo ti tira un tranello, così all’improvviso e a suo piacere. Così Arturo per caso si gira verso di me, mi vede “così giovane”, comincia a domandarmi chi sono, perché sono lì, cosa faccio nella vita. Ero lì per mia mamma, certo un amore diverso dal suo, ma pur sempre un amore. Gli racconto del rapporto, del legame che io e mia mamma abbiamo, ne rimane colpito, perché secondo lui appartengo ad una generazione di un tempo e non di oggi. Ma chissà come sono i ragazzi di oggi, forse sono meglio di quello che pensiamo, io lo penso. Non so voi. È quando gli chiedo perché è lì che Arturo resterà per sempre nel mio cuore, mi raccontò di un amore che dura da 50 anni, che sua moglie è il suo punto di riferimento, la sua ancora di salvezza, di una donna sempre per la famiglia, per lui. Che un giorno di primavera, mentre facevano una passeggiata è inciampata e la sua anca si è frantumata, così ora dovevano metterle una protesi all’anca, per cui l’intervento richiedeva un po’ di tempo e pazienza da parte sua. Lui che invece non aveva pazienza, non aveva né mangiato e né bevuto, era diabetico e cardiopatico. Quasi una sfida a chi stava peggio tra marito e moglie, eppure erano l’uno il bastone dell’altro. Quando siamo saliti in reparto, è entrato nella camera della moglie di tutta fretta, ha accennato un saluto veloce, con un sorriso felice e appagato. Gli hanno impedito in tutti modi di starle accanto perché era un uomo in un reparto femminile, perché doveva riposarsi, ma lui non si voleva schiodare da lì, voleva starle accanto, cascasse anche il mondo lui doveva esserle accanto, supportarla e darle amore, quell’amore e quel supporto che per anni aveva dato lei a lui. Era il suo personale modo per dirle “Ti amo”. Cercava di farla ridere, di farla distrarre dopo dai dolori dell’anestesia, mentre lui era ancora digiuno. Così si accasciò a terra per un malore e l’ultima volta che ho visto quell’uomo era su una barella mentre veniva trasportato nel vicino ospedale. Quell’amore che provavano era anche quello che li separava in quel momento e che per uno strano scherzo della vita li portava entrambi in ospedale ma lontani. 

Hanno così avvisato le figlie, forse loro hanno capito una lezione che l’amore anche da anziani può essere vivo, ma esiste anche l’amore dei figli che hanno diritto a far sì che esista e che viva. Sicuramente possiamo trarre un insegnamento che l’amore vero, unico, sincero, disinteressato esiste ancora ed è bene tenerlo stretto o aspettare che arrivi. Ed è bene pensare che gli uomini sotto sotto hanno un cuore che batte e senza l’amore della loro vita sono persi, come bussole che perdono la direzione.  

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Racconti d’attesa/parte5 Diagnosi d’attesa. Cosa significa attendere?

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In attesa. Sei fermo. Come chiuso in una scatola, senza poterti muovere, al massimo puoi fare qualche passo avanti e indietro. Consumando la suola delle scarpe ed il pavimento. In attesa. Di una buona notizia o di una brutta notizia e comunque impaziente. In attesa del tuo turno annoiato, preoccupato, indifferente. In attesa il tempo si dilata. Diciamo sempre che ci piacerebbe pensare, leggere, ma manca il tempo. Sfruttiamo l’attesa dal medico, alla fermata dell’autobus, verrebbe da pensare. Le sale d’attesa sono non-luoghi: non accade niente, non si può far niente se non aspettare il proprio turno. Il tempo a disposizione diventa tempo nemico. Ti si ritorce contro. Le sale d’aspetto degli ospedali tra tutte sono le più solitarie: cariche di tensioni, pensieri, preoccupazioni. Prima che incontrassi molte sale d’attesa di ospedali e cliniche, pensavo che fosse l’ultimo posto dove ci fossero dei racconti. Ecco che poi quei racconti-con personaggi veri, ma da identità celate, sono diventanti i protagonisti dei miei “racconti d’attesa” in questa sezione del mio blog.

Le sale d’attesa ci insegnano l’amore quello vero, sincero, eterno, ma anche l’amore che manca, quello che ormai non guardiamo più. Chissà poi perché. E’ forse quando attendiamo in una sala d’attesa che ci rendiamo conto di quanto sia importante l’amore, di quanto sia difficile attendere.

Le sale d’attesa. Ne aveva frequentate tante negli ultimi tre mesi. Da giugno era tutto un avvicendarsi di appuntamenti per esami e visite, da quando un semplice dolore l’aveva colta di sorpresa mentre cucinava l’ennesimo pranzo per la sua famiglia, sempre distratta, sempre indaffarata. Ora quel dolore che le bloccava parte del corpo doveva pur avere una causa. E proprio quella si cercava. Gli ospedali non erano nelle sue corde, anzi, li detestava. Gli odori, i colori e ogni cosa le ricordava il suo passato, quando, dopo qualche anno dal suo matrimonio si era ritrovata negli ospedali prima per suo figlio, poi per suo marito. Ed ora eccola lì, seduta su una poltrona scomoda ad aspettare il suo turno per l’ennesimo esame. L’avevano già rivoltata come un calzino, aveva provato ogni disperata terapia, cura. Tutte inutili. Di ospedali ne aveva girati ma non aveva mai fatto caso a quanto fossero fredde, squallide le sale d’attesa, non si era mai soffermata a guardare con occhi che sanno vedere, forse perché le occasioni erano sempre state poche e mai così prolungate nel tempo. Mancava il senso dell’accoglienza, spesso proprio dagli stessi medici, dagli stessi infermieri. Spesso si è solo un numero e non un paziente, un essere umano con la sua storia, la sua vita, il suo dolore. Insensibilità all’altrui dolore? Un modo per distaccarsi dal paziente non lasciandosi coinvolgere? Non avrebbe saputo dare una risposta certa, forse entrambe le cose o forse, semplicemente, funzionava così. Un atteggiamento che procura più dolore. Chi soffre, chi è in ansia, chi è in attesa di conoscere una diagnosi negativa ha diritto ad un sorriso, ad una parola di consolazione, anche silenziosa. E a volte arriva in quelle fredde e lunghe attese proprio da altri pazienti, dai familiari che li accompagnano, dove nascono amicizie, dove a volte ci si ritrova, ci si riconosce nelle storie altrui. Lei osservava ed ascoltava tutto e registrava ogni minimo palpito. Perlopiù rimaneva in silenzio. Qualche volta era imbarazzante. C’è chi nelle sale d’attesa si racconta come un fiume in piena, chi invece, resta nel suo rigoroso silenzio. Faceva fatica a raccontarlo alle persone care, figuriamoci agli estranei in attesa. Nessuno ancora sapeva dei controlli nella cerchia dei parenti e degli amici. In casa si era deciso di aspettare la certezza, di avere la conferma definitiva per non allarmare inutilmente, visto che l’ipotesi che si affacciava era molto “pesante”. Lei ancora non voleva crederci, non voleva accettare che da un banale dolore al torace, le si stava aprendo un baratro, un altro mondo, dalla quale voleva fuggire. Era l’ultimo appuntamento in agenda, in una struttura del tutto nuova. Un ambiente del tutto diverso. C’era arrivata su consiglio di un amico medico, che le aveva assicurato la struttura ed anche il reparto di oncologia. Lei ci sperava, sperava ancora in una diagnosi positiva. Perché l’attesa è anche speranza. Perché l’attesa ti porta a pensare che è solo un brutto sogno, che prima o poi ti risveglierai. Perché l’attesa ti porta a pensare che è un film, che non sei tu la protagonista, che nei titoli di coda uscirà scritto che è frutto della fantasia o di un ennesimo abbaglio. Ma se non fosse un abbaglio, se i titoli di coda riportassero il proprio nome? Di certo si spegnerebbe la speranza ma anche l’attesa di una diagnosi, dopo mille pellegrinaggi e volti e visi visti, ma cosa resta ad un malato oltre che il dolore e il male di cui è affetto? Non so bene, o forse lo so ma non voglio accettare quello che vedo. Perché io nelle sale d’attesa la gente la guardo e quando una donna ha un foulard in testa, gli sguardi diventano “diversi”, “strani”, sembrano puntargli il dito contro, sembrano vogliano dirgli “sei malata”, oppure “guarda quella lì”. Credo che non abbiamo ancora rispetto delle persone e della malattia, non apprezziamo il coraggio e la loro voglia di vivere, il loro lottare e non capiamo che in quel momento ci stanno dando una grande lezione di vita e forse vorrebbero che tutti noi gli tendessimo la mano. Ecco perché ho anche imparato ad ascoltare nelle sale d’attesa gli altri, la loro vita, i loro racconti, fino a perdermi dentro.

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Giancarlo Siani, il giornalista che amava la libertà. 30 anni dopo cosa resta del Giornalismo?

SianiEra il 23 Settembre del 1985, quando i killer della camorra trucidavano Giancarlo Siani, un giornalista “abusivo” de “Il Mattino”, mentre tornava a casa a bordo della sua Mehari. Siani, amava raccontare i fatti. Ancor di più indagare. Il giovane cronista, in attesa di contratto, investigava e raccontava i segreti delle cosche di Torre Annunziata e non solo. Siani aveva un solo obiettivo: raccontare la verità. Giancarlo Siani ficcava il naso negli affari di cosa nostra, occupandosi principalmente di cronaca nera, lavorando e scrivendo delle famiglie che controllavano il paese, ed in particolar modo dei rapporti con i politici locali per l’assegnazione degli appalti pubblici per la ricostruzione delle aree coinvolte dal terremoto dell’Irpinia del 1980. Indagò e scrisse sulla famiglia Gionta, sul clan Nuvoletta, alleato dei corleonesi di Riina, sul clan Bardellino e sulle loro faide interne, pubblicandone un articolo. Quell’articolo gli costò la vita. Tre mesi dopo la sua pubblicazione, che permise a Siani di essere trasferito alla sede centrale di Napoli, fu ucciso da due uomini con dieci colpi di pistola alla testa. Dall’inchiesta sull’omicidio di Siani nacquero diverse altre indagini sui rapporti tra politica e camorra che portarono agli arresti di imprenditori, amministratori locali, funzionari comunali e dell’ex sindaco socialista di Torre Annunziata. Negli anni successivi il comune di Torre Annunziata è stato sciolto per infiltrazioni mafiose.

La terra che raccontava Siani, Torre Annunziata degli anni Ottanta – scrive Roberto Saviano – quartieri di Napoli oggi non è molto diversa da certi . Le stesse immagini che Siani descriveva si vedono adesso nelle favelas del Brasile, nelle banlieues parigine, nei bronx delle metropoli statunitensi, nelle città di frontiera del Messico”. Così, anche fare il giornalista, denunciando malaffare e connivenze, continua a essere pericoloso: “Si muore a Napoli come a Rio, muore chi racconta a Nuevo Laredo come chi racconta in Guatemala. Si viene uccisi per un articolo, per una foto, per un semplice tweet, che magari non svelano i segreti più nascosti delle organizzazioni criminali, ma fanno sentire loro il fiato sul collo”.

A 30 anni dalla sua morte, resta a tutti noi cronisti, giornalisti e non una grande lezione di professionismo e di coraggio. Resta la grande lezione di giornalismo, quello vero, fatto di racconti scomodi e di sola Informazione, senza compromessi, paure, perplessità, influenze di ogni tipo. Siani era pulito, vero, sincero, genuino nel suo lavoro e nel suo indagare, ciò che ogni giornalista dovrebbe essere, ma troppo spesso ce ne dimentichiamo e navighiamo nel mare dei compromessi, di notizie distorte.

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Il primo giorno di scuola non è più vintage ma social.

selfieNell’era digitale, dei social network e delle foto 2.0, anche il primo giorno di scuola non è più vintage, ma sempre più social. Questa mattina, più di mezzo milione di studenti è tornato tra i banchi di scuola. Per qualcuno quest’anno sarà una nuova avventura: prima elementare, prima media o prima superiore. Ma che sia prima o che sia l’ennesimo primo giorno di scuola, i genitori non possono rinunciare ad uno scatto fotografico, che immortali il futuro che avanza e che scoprirà mille altre cose, che si divertirà, si stancherà anche sui libri, ma è pur sempre un piccolo esserino del domani. La foto è un rito a cui non si può rinunciare, un po’ come la corsa al banco migliore, possibilmente dietro, o gli scongiuri prima di entrare, o anche evitare i lunghi discorsi dei docenti o del preside sul nuovo anno scolastico, sullo studio matto e disperato. La foto va fatta: per ricordo, per rito, per scaramanzia e meglio ancora se a farla sono i genitori. Mia mamma fotografava sempre me e mio fratello al primo giorno di scuola, un vero book fotografico e all’epoca la foto non potevi neanche rivederla, quindi, ne scattava tante e poi di corsa dal fotografo per far sì che quelle foto prendessero forma. Oggi la foto non è più vintage ma social. In molti hanno fotografato i propri figli nel primo giorno di scuola e poi postato le foto sui social, ed io sinceramente le ho guardate con piacere, mentre, in molti le hanno criticate, commentate negativamente, arrivando anche a pensare che un genitore solo perché scatta una foto-o più di una- non abbraccia il figlio, non lo guarda negli occhi, non lo assapora fino all’ultimo istante prima che entri in classe. Penso, che una foto non faccia male a nessuno, una foto è il ricordo di quel momento, che poi guarderemo-così come spesso abbiamo fatto io e mio fratello- e con piacere. Una foto è l’emozione che si provava al momento, è il riderci sopra dopo anni e dire: “mamma che faccia”, è il ricordarsi di un avvenimento, di un tempo passato. Una foto non può cancellare dei sentimenti, delle emozioni. Un genitore può scattare una foto, ma può anche guardare negli occhi il figlio e vedere la sua paura, la sua tenerezza, l’ansia del momento, la gioia, può anche abbracciarlo dopo. Non è una foto a bloccare il flusso delle emozioni, dei sentimenti. Io sono per la foto da primo giorno di scuola, che poi il genitore voglia condividerla sui social è una scelta personale. Sono per il selfie degli studenti tra i banchi nel primo giorno di scuola, magari anche con l’insegnante che apprezzano di più. Sono per immortalare il momento, che poi non sia più vintage, che non resti più solo in un cassetto ma venga anche pubblicato, a sancire che ormai anche il primo giorno di scuola è sempre più social, è il tempo che cambia e che ci mostra l’evoluzione anche del primo giorno di scuola. Ieri e oggi.

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Siamo un Paese che resta in silenzio davanti ai soprusi. 

  Il vero male del nostro paese è l’omertà e la protezione. Siamo un Paese rassegnato al danno, al problema. Eppure spesso il danno ci viene recato direttamente. Restiamo in silenzio, immobili. È una storia che ogni volta si ripete: per paura, perché pensiamo che alcune persone siano “forti”, o perché si pensa che quella persona possa servirci, in quanto influente. Non esiste nulla di più influente di quello che noi abbiamo da dire, della nostra parola, della nostra opinione, della nostra denuncia. È tempo di capirlo. Se un medico sbaglia a leggere un semplice referto, ma l’anno dopo ti ritrovi con un male che nel tempo è solo peggiorato, bisogna rinfacciarglielo e dirlo, urlarlo. Affinché altri non passino il tuo stesso calvario. Restiamo in silenzio davanti ai colloqui in cui ci passano davanti i figli di papà, pensando che loro siano “più potenti”. Cosa è più forte il sapere, la cultura o una raccomandazione? Io continuerò a credere sempre al sapere e alla cultura, al profumo del sacrificio che poi mi porta dritta alla conquista con la schiena dritta e la testa in alto. Perché come mi disse di recente un gran professore, un grande medico:”Cammina con la schiena dritta e la testa in alto, perché tu non hai nulla di che scusarti e non devi dire:scusate se sono al mondo”. Io quel monito l’ho fatto mio,perché aveva colpito nel segno. Ogni giorno restiamo in silenzio seppur inquinano le nostre terre e lo vediamo con i nostri occhi, ma non vogliamo essere testimoni scomodi. Ogni giorno, iniziando da me, cerco di trovare “a pezz a color”-come dicono dalle mie parti, al collega che copia un articolo mio o di un mio collega e poi sbandiera la bandiera del “io non copio, sono la purezza del giornalismo”. O cerchiamo attenuanti, scuse perché un amico ci ha traditi o ci ha voltato le spalle nel momento del bisogno. È tempo di ribellarci ai soprusi, alle piccole minacce sotto un sorriso. Solo ribellandoci potremmo rendere questo Paese più “pulito”, più “fresco”, col vento della libertà e del cambiamento che torna nuovamente a soffiare.

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“La carica dei figli di…”: la Ramazzotti sbarca anche nel mondo della moda

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messIl “caso Ramazzotti” ha mobilitato negli ultimi giorni il mondo social, i quotidiani, i periodici, scaldando ancor di più questo rovente Agosto. Riassunto per chi si fosse perso qualche dettaglio: la giovane Ramazzotti, è stata “scelta” per condurre dal prossimo 9 Settembre la striscia quotidiana dei “X Factor”, il fortunato talent musicale di Sky. Ma come se non bastasse, la “figlia d’arte” ha debuttato anche nel mondo della moda, come dimostrano delle foto, pubblicate in esclusiva sul settimanale “Chi”. La ragazza sarà infatti testimoniale per la campagna autunno-inverno di SH, la linea giovane del brand Silvian Heach. Nel giro di poche settimane, la Ramazzotti, si è trovata proiettata nel mondo delle celebrities. Inutile dire, che già dall’annuncio della conduzione affidata alla primogenita della coppia Ramazzotti-Hunziker è venuto giù il mondo. “Raccomandata”  e via via di questo passo, in un crescendo di critiche e in alcuni casi anche di insulti. Per difendere la rampolla di casa, si è scomodato anche la popstar di casa, Eros Ramazzotti sostenendo la teoria che la gavetta si trasmette tramite il DNA, quindi, basta che l’abbiano fatta i suoi genitori, lei l’ha ereditata. Dalla sua la giovane rampolla ha i boss di “X Factor” che senza dubbio hanno puntato sulla popolarità della giovane che quindi sarà un’ottima carta per gli ascolti. Contro, ha la mancanza di esperienza, perché infondo la ragazza non la conosciamo, tranne che per le sue numerose foto che posta sui social e la presenza come oggetto di paparazzate sulle riviste gossip. Segno di chi volesse le luci della ribalta. Si sperava, certo, nella saggezza dei suoi genitori, dei produttori tv, affinché non le facessero proposte che non fossero alla sua altezza.

Il punto non è “lavora perché è la figlia di…”, il punto che questa ragazza oltre ad un cognome “importante” e due genitori “famosi” non ha più nulla. Non ha conoscenze, non ha sapere, non ha neanche fascino,-magari uno si aspetta che l’abbia ereditato dalla mamma-,ma non ha neanche quello. Basta guardare le foto sul settimanale “Chi”. E’ una ragazza, spenta, senza spontaneità. Anche le foto che posta: tutte poste studiate e frasi sulla “vita”, che mi spiace, la giovane non conosce. Perché è bastato che mamma e papà alzassero il telefono per far sì che la giovane entrasse nel mondo del lavoro e non certo dalla porta sul retro bensì nel mondo della conduzione.

Certo, c’è chi dice che bisogna vederla all’opera, di darle fiducia. Sarà forse anche così, ma non ci riesco, perché una che vorrebbe andare oltre le polemiche e dimostrare la stoffa-ammesso che ci sia-anzicché essere in vacanza, andrebbe a studiare, per dimostrare ciò che è. Ma naturalmente sul suo curriculum ci sarà scritto figlia di “Ramazzotti-Hunziker.”

Ciò che sicuramente non fa bene a questo Paese è proprio questo: il mondo dei “figli di”. Un paese contraddittorio: perché a noi figli della vita ci chiedete di studiare e lo facciamo, ci chiedete la laurea e tra mille sforzi la prendiamo, ci chiedete di specializzarci e lo facciamo, ci chiedete non uno, ma due se non tre master e li facciamo, poi non basta e ci chiedete i corsi di formazione e poi di perfezionamento. Poi ci troviamo di fronte una Ramazzotti e non so più cosa pensare.

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