Un incremento di 50 milioni per il fondo non autosufficienza, che arriva così a 500 milioni: è l’ultima buona e inaspettata notizia del 2016 per le persone affette da grave disabilità, contenuta nel decreto legge firmato dal Consiglio dei ministri il 23 dicembre. Il decreto di somma urgenza, contiene misure volte ad affrontare situazioni di criticità, col Sud in testa, si prevedono infatti ammortizzatori sociali a tutela dei lavoratori dell’Ilva, 70 milioni per le strutture sanitarie dell’area di Taranto, un piano di misure di carattere assistenziale e sociale per le famiglie disagiate dell’area di Taranto, da 30 milioni di euro su 3 anni. Il decreto aumenta complessivamente il fondo per la non autosufficienza rispetto allo scorso anno di 100 milioni.
Che cos’è? Il fondo nazionale per la non autosufficienza è una forma di finanziamento ripartita a livello nazionale che permette di erogare annualmente risorse economiche alle Regioni, per garantire alle persone non autosufficienti, che necessitano dell’aiuto di altre persone o a persone affette da grave disabilità, i livelli essenziali di assistenza, senza sostituire le prestazioni sanitarie.
Chi ne usufruisce? In Italia sono 2.615.000 le persone non autosufficienti. Si tratta di uomini e donne che presentano una totale mancanza di autonomia per almeno una delle normali funzioni che consentono di condurre una vita quotidiana normale. Perché, se si considerano anche le persone che hanno bisogno di aiuto, anche in parte, per svolgere attività essenziali come alzarsi da un letto o da una sedia, lavarsi o vestirsi il numero sale di molto fino a quasi sette milioni, circa il 13 per cento dell’intera popolazione. Osservando il campione in dettaglio, si scopre che gli anziani disabili di età superiore ai 65 anni rappresentano il 18,7 per cento, mentre sale il numero degli over 80: 44,5 per cento suddiviso tra il 35,8 per cento di uomini e 48,9 per cento di donne. Secondo i dati forniti dall’ Istat. È a questa fetta di popolazione che le Regioni erogano gli aiuti finanziati dal Fondo.
Come ottenerlo? Per usufruirne è necessario che la persona non autosufficiente certifichi la sua condizione di invalidità totale o l’handicap grave ed il suo reddito. Quest’ultimo viene calcolato dal modello ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente), che consente non solo di considerare il reddito della persona richiedente ma anche la ricchezza derivata dall’aiuto familiare che potrebbe nascere nelle situazioni di difficoltà.
Dove richiederlo? Il modulo di domanda può essere ritirato presso gli sportelli dei Distretti Socio Sanitari o scaricati dai siti delle Asl, alla domanda và allegato: La domanda deve avere in allegato:
- certificazione di handicap di cui alla legge 104/92 art. 3 comma 3, copia del verbale di accertamento di invalidità civile al 100% e indennità di accompagnamento,
- se trattasi di persone gravi, in alternativa alla legge 104/92 è possibile presentare certificazione rilasciata da strutture ospedaliere o ASL,
- certificazione ISEE,
- copia del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, nel caso di cittadino extracomunitario.
La domanda và riconsegnata al Distretto Sanitario sarà poi l’Unità di Valutazione Multidisciplinare (UVM) del Distretto Socio Sanitario accerta il grado di non autosufficienza del richiedente e lo inserisce in graduatorie differenziate per persone anziane e persone disabili, in relazione al valore ISEE, alla gravità della non autosufficienza ed alla situazione sociale, dando priorità a coloro che non fruiscono di altre risposte assistenziali o socio-sanitarie.
L’erogazione della misura è subordinata alla disponibilità dei fondi assegnati dalla Regione ai Distretti Socio Sanitari.
(Articolo pubblicato su “ildenaro.it)
Dal “dopo di noi” al fondo per le non autosufficienze, passando per i nuovi Lea, il 2016 si conferma l’anno delle leggi per la disabilità. Leggi importanti, molto attese da famiglie ed associazioni e arrivate in porto dopo un lungo e travagliato lavoro anche di confronto. Un terno di leggi sociali per la disabilità, in ordine di tempo, la prima ad essere stata approvata è stata quella del “Dopo di noi” seguita dal decreto sui nuovi Lea e sul finire dell’anno è stato incrementato il fondo per la non autosufficienza. Con la legge n.122 del 22 giugno 2016 è nato il “Dopo di noi”, la legge stabilisce la creazione di un fondo per l’assistenza e il sostegno ai disabili privi dell’aiuto della famiglia e agevolazioni per privati, enti e associazioni che decidono di stanziare risorse a loro tutela. Sgravi fiscali, esenzioni e incentivi per la stipula di polizze assicurative, trust e su trasferimenti di beni e diritti post-mortem. Ogni anno, poi, entro il 30 giugno il ministero del Lavoro e delle politiche sociali ha l’obbligo di presentare una relazione per verificare lo stato di attuazione della legge. Spetterà, inoltre, al Governo produrre sul tema adeguate campagne di informazione. Il fondo, stando a quanto riporta la legge è compartecipato da regioni, enti locali e organismi del terzo settore. Avrà una dotazione triennale di 90 milioni di euro per il 2016, 38,3 milioni per il 2017 e 56,1 milioni dal 2018. Promessi e mai definiti, sul finire dell’anno dal Ministero della Salute, sono nati i nuovi Lea (Livelli Essenziali di Assistenza), che con sé hanno portato anche la definizione del nuovo Nomenclatore delle protesi. I Livelli Essenziali di Assistenza vengono definiti in tre ambiti: “prevenzione collettiva”, “assistenza distrettuale” e “assistenza ospedaliera”. Altra novità è stato il nuovo nomenclatore sull’assistenza protesica, insieme all’aggiornamento degli elenchi delle malattie croniche e delle patologie rare. Una novità importante visto dal 2001, data a cui risale il vigente decreto ad oggi, sono stati tanti i progressi in ambito protesico-tecnologico, medico e scientifico. Il decreto però è stato criticato aspramente e bocciato dalle principali associazioni per la disabilità, che ritengono che il testo sia largamente insoddisfacente.
La crisi arriva tra i 16 ed i 17 anni: ci si sente grandi e le regole vanno strette, la scuola appare pesante e faticosa, noiosa, distaccata dalla realtà, i professori, degli adulti che guadagnano poco e si sgolano in classe per ore, e il lavoro poi, per un giovane è un miraggio, una chimera, i pomeriggi a studiare o non studiare è infondo lo stesso. E’ l’esercito di quei sedicenni che un giorno hanno detto “no” alla scuola. Quei ragazzi che una mattina hanno deciso di non entrare più in classe, di buttare alle ortiche libri, quaderni, interrogazioni, compiti in classi e giudizi. Ma anche le cose belle della scuola: gite, amici, sport. Un numero enorme di giovani lascia la scuola, il 18,8%, causando quello che viene chiamata “dispersione scolastica” o più comunemente “evasione scolastica”. Stando alle statistiche i ragazzi italiani abbandonano molto presto la scuola e molti lo fanno prima di aver conseguito un titolo di scuola superiore, così quasi la metà degli italiani hanno solo la licenza media ed un’obiettiva difficoltà a trovare lavoro. Le cause dell’abbandono possono essere molteplici, e soprattutto una scelta degli studi superiori poco orientata e seguita, che spesso favorisce il verificarsi di tale fenomeno. L’evasione scolastica è un fenomeno complesso che comprende in sé aspetti diversi e che intessa l’intero contesto scolastico-formativo. Il fenomeno, intreccia due problemi: il soggetto che tende a disperdersi nella società, a trascorrere più ore in strada, diventando un facile bersaglio della criminalità organizzata; e quello relativo al sistema che produce la dispersione. Il termine nell’uso intransitivo significa sbandarsi, svanire ed evocano quindi la dissipazione dell’intelligenza, delle risorse, delle potenzialità. Il quadro dell’istruzione fotografato dall’Istat per “100 statistiche per il Paese – Indicatori per conoscere e valutare” è davvero preoccupante e secondo la ricerca, la fuga dai banchi interessa soprattutto il meridione. In Sicilia e Campania rispettivamente 15 e 14 studenti su cento non completano nemmeno il percorso dell’obbligo, mentre l’anno scorso poco più del 75% dei giovani tra i 20 e i 24 anni ha conseguito almeno il diploma di scuola secondaria superiore. Alla base dell’analisi delle cause della dispersione e del suo dimensionamento, ci sono sia variabili soggettive che macro-sociali, come ad esempio la mentalità che tende ancora oggi a denigrare la scuola ed il suo ruolo formativo e sociale, preferendo il lavoro già in tenera età. Dai dati è possibile vedere come la dispersione scolastica è molto alta nelle zone del Sud Italia, maglia nera per Napoli, dove circa il 12% dei bambini non va a scuola. Nello specifico, gli ultimi dati, che si riferiscono a Napoli e all’intera regione, facendo riferimento all’anno scolastico 2014-2015 parlano, per la scuola primaria, di 335 segnalazioni ai servizi sociali di cui 176 rientrate prima della fine dell’anno, su una platea scolastica di oltre 42mila bambini. Si tratta di evasioni distribuite in modo non omogeneo ma comunque nelle zone di maggiore disagio socio-economico. Per le scuole medie, invece, su una popolazione scolastica di oltre 31mila ragazzi, 408 sono stati gli inadempimenti registrati alla fine dell’anno. Questi dati vanno letti tenendo conto delle motivazioni accertate, che per la primaria vanno ricercate prevalentemente nel disagio familiare e per le medie nella convinzione dei ragazzi dell’inutilità del percorso scolastico. Sono sempre più i giovani che subito dopo gli anni dell’obbligo formativo decidono di lasciare la scuola, e che a vent’anni, nell’età adulta, si ritrova sperduto e senza un titolo di studio. Perché se è vero che i titoli valgono a ben poco non averli significa esserne fuori, diventare invisibili, pronti ad entrare nell’esercito dei “Neet”, quegli oltre due milioni di giovani italiani tra i 15 ed i 29 anni, che non lavorano, non studiano e non hanno formazione. Sono gli esiliati. Gli inoccupati. Gli sfiduciati. C’è chi si aliena davanti al computer oltre 134 mila giovani in più espulsi o autoespulsi dal mondo produttivo.
Una notte come tante, quella di martedì 25 agosto 2016, una notte che segnerà e colpirà, creando una ferita nel cuore e nelle vite di molti italiani. Interminabili minuti di paura, che sconvolgono e distruggono gran parte del Centro Italia. Il terremoto nella sua furia spazza via case, interi paesi, cancellando borghi, storie e talvolta vite. Quel che resta è il silenzio del dolore, la desolazione e cumoli di macerie che tracciano una ferita in più nella vita degli italiani. Le immagini che le televisioni ci propongono sono forti, spaventano, eppure mostrano un popolo composto che sa fondere paura e razionalità, nonostante il tragico momento, in cui il bilancio delle vittime sale di ora in ora, di giorno in giorno. Ci sono momenti così, nella storia degli uomini, dove si reagisce con l’emozione oltre che con la razionalità, perché l’emozione sveglia, incita a stare all’erta. Quell’emozione che smuove quanti per lavoro o semplicemente per impeto agiscono, accorrono nelle zone terremotate per dare il loro contributo, per fornire il loro personale aiuto. Sono i volontari o più comunemente “angeli”, che sfidano la paura, l’angoscia, il senso di smarrimento per aiutare chi nel terremoto ha perso tutto o chi farà i conti con la terra che trema ogni notte. A condividere per mesi il dramma della perdita della quotidianità, la fatica e le delusioni della ricostruzione, lo sforzo di tornare ad una normalità di vita dopo un evento destabilizzante, destrutturante come un terremoto, ci sono anche gli assistenti sociali, che ricoprono un duplice ruolo: curare le ferite piscologiche, con l’ascolto, la comprensione, l’empatia; ed i bisogni sociali, legati ai sussidi economici, alle richieste di assistenza, supporto agli anziani, ai minori. Un “pronto intervento sociale”, in cui il servizio sociale interviene come connettore di rete in grado di raccogliere i diversi bisogni portati dai cittadini colpiti dall’emergenza per attuare interventi idonei ad aiutare la popolazione ad affrontare meglio il momento di crisi. Assistenti sociali che arrivano sul luogo del terremoto quando i riflettori si spengono, quando il ricordo inizia a svanire nelle menti degli altri. L’assistente sociale arriva nei luoghi terremotati dopo le prime 72 ore. All’inizio la cosa più importante è non fare danni ma lasciare fare: persone competenti affinché facciano il proprio lavoro, ovvero, salvare vite. Passate le prime emergenze, inizia il lavoro dell’assistente sociale, che per codice deontologico è chiamata a mettersi a disposizione in queste situazioni. Il vantaggio di intervenire in questi momenti è conoscere d’anticipo la popolazione per il quale si lavorerà: si conoscono già le situazioni di fragilità, anziani soli, minori rimasti soli per il quale bisogna avviare una procedura d’affido. L’obiettivo principale è evitare l’acuirsi di disagi già presenti, cosa non sempre facile, perché si parla di zone ormai orfane di ogni via di comunicazione, di ogni tipo di struttura. L’assistente sociale arriva e lavora, quando le tende dei volontari si smontano e restano le problematiche: pensate a persone in misura alternativa al carcere o a ragazzi minorenni rimasti senza famiglia. Aiutare le famiglie a guardare avanti. Dunque, supporto, prospettiva e counselling sono le parole chiavi della professione di fronte ad un contesto crollato, ad un ambiente rotto, a delle relazioni rotte, perché prima di tutto è necessario ascoltare, capire, interpretare gesti, movenze, disegni dei più piccoli, che nascondono paure, fragilità, speranze nel futuro. Il ruolo dell’assistente sociale è un lavoro chiave specie in queste situazioni, in quanto può riportare un equilibrio, ristabilire il funzionamento sociale delle persone, ma per ognuna servono strumenti adeguati e bisogna individuarli, per farlo però c’è bisogno di ascolto, di comprensione, di un setting, ovvero, di un ambiente idoneo, improntato alla dignità, all’intimità e alla riservatezza. Un lavoro che non è solo, ma anello di un ingranaggio perfetto, di un lavoro di rete, in collaborazione con i medici di base, psicologi, neuropsichiatri, insegnati ed educatori. E’ importante che si cerchi di creare soprattutto per i più piccoli una normalità, fatta anche dalla scuola, quindi più che mai è importante il lavoro di rete con gli insegnanti, che dovranno anche fungere da supporto psicologico per i più piccoli. Non solo piccoli ma anche adulti, ed è anche a loro che l’assistente sociale porta il suo supporto, accogliendo le paure, le angosce del futuro, cercando di essere tramite con la parte amministrativa e politica, anche perché un’unica certezza accomuna chi è sopravvissuto al terremoto: non abbandonare il proprio paese. In effetti, le persone non vanno allontanate da quello che rimane delle loro vite e del loro passato. Un’esigenza che anche i politici devono abbracciare. La soluzione più economica non sempre è ottimale nel lungo periodo: le risorse vanno utilizzate con criterio ed intelligenza. Bisogna ricostruire e non creare marginalità. Arginare difficoltà non fa che crearne delle altre, talvolta più complesse.