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Non si ferma la piaga della violenza sulle donne, ancora troppe le falle nel sistema di tutela

Uccise in casa e fatte a pezzi, strangolate, violentate, pugnalate e massacrate di botte fino alla morte. Femminicidi vittime dei loro compagni, mariti, o di uomini che conoscevano appena. Umiliate, sottomesse, annientate da uomini maschilisti che confondono l’amore col possesso, vittime silenziose della violenza domestica, l’altra forma della violenza sulle donne: violenza psicologica che si fonde anche alla violenza fisica da parte di uomini che ogni giorno colpiscono psicologicamente la donna da amare e talvolta si scagliano fisicamente contro di loro, picchiandole e colpendole. Tra le mura domestiche di famiglie apparentemente felici e sane si nasconde terrore e violenza, anche quella assistita dai propri figli, che ogni giorno vivono di paura e d’angoscia, compromettendo la loro salute psico-fisica. Non è raro che molti bambini soffrono di disturbi del linguaggio, disturbi psico motori e del sonno. Crescita che rischia di minare la loro vita da adulti e le loro relazioni sentimentali. Il modello rischia di ripetersi: violenza su violenza, o subire la violenza perché quello è l’unico modello che hanno conosciuto. Violenza che diventa trasversale, quando l’uomo uccide un figlio per colpire la donna. E’ risaputo che l’unico amore indissolubile per una donna è quello per un figlio ed è proprio quelle creature che colpiscono gli uomini violenti per creare un dolore immenso alla donna. Ci sono donne che purtroppo sono vittime perché nelle loro famiglie la violenza è l’unica forma d’amore che hanno conosciuto. Nella mente la donna giustifica l’aggressore “se si arrabbia e mi picchia vuol dire che ci tiene”, o “era solo uno schiaffo ma non mi fa mancare nulla”. Il problema nasce nella relazione di coppia, la dinamica a due: in queste relazioni accade che la donna cerca di curare il suo partner giustificando gli atteggiamenti violenti quando è lei stessa che necessita di cure. A sua volta il compagno non cambia e aumenta l’escaletion di aggressività fino ad arrivare in alcuni casi anche ad ucciderla. Gli strumenti sociali e legislativi per aiutare le donne ci sono, ma spesso non bastano. Le leggi nascono in Parlamento e non a contatto con la realtà. La vittima viene supportata dai CAV – Centri Antiviolenza o in alcuni casi collocata insieme ai figli in una casa rifugio, un posto segreto, sentendosi quasi reclusa, costretta a nascondersi come se avesse commesso lei il reato mentre l’uomo è libero di vivere la sua vita sociale. In alcune realtà la donna non viene immediatamente supportata psicologicamente, rischiando di venire meno alla protezione, ritornando con i loro aguzzini. E’ un meccanismo arrugginito che spesso avviene nelle piccole realtà di provincia dove si è ancorati alle tradizioni e dove la violenza da parte degli uomini viene spesso giustificata. E’ importante che anche la mentalità cambi, abbandonando la logica del subire come avveniva nel passato, attivando percorsi di sostegno e supporto psicologico e morale a favore delle donne, lavorando nella ri-costruzione del sé fortemente indebolito dalla violenza nonché nel rafforzare le reti di supporto, iniziando dalla famiglia. Spesso le donne vittime di violenza si ritrovano totalmente isolate dai propri cari e dalle amicizie, l’uomo violento l’ha allontanata dagli affetti e dalle persone a lei care, è importante aiutarla a rinforzare queste reti. Nel frattempo l’Italia arranca in un fenomeno in continua crescita e che spaventa ogni giorno. Un mondo sommerso che rischia di non venire mai a galla. Nel mentre l’Italia ha dato vita al nuovo Piano antiviolenza, ispirato alle linee guida della Convenzione di Instabul. “3P”: prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire i crimini. Presentato dalla ministra per le Pari opportunità, Elena Bonetti, che lo ha definito una bozza di intenti, nel quale ha aggiunto che andranno individuati “livelli di responsabilità, delle risorse occorrenti e della relativa tempistica. Vale a dire: ci vorrà tempo, frase che un po’ destabilizza. Il nuovo piano dovrebbe rafforzare le falle del precedente, perché vi esisteva un vecchio piano antiviolenza, e  dunque su pilastri: prevenzione, protezione e sostegno delle vittime, punizione dei colpevoli e assistenza e promozione. Tra le novità, c’è senz’altro, un’attenzione maggiore sul contrasto alla violenza economica attraverso l’educazione finanziariadelle donne con tirocini retribuiti e norme per favorire l’inserimento lavorativo al fine di realizzare l’obiettivo più generale dell’empowerment delle donne. Tra le priorità individuate dal piano c’è anche quella di aumentare il livello di consapevolezza nella pubblica opinione e nel sistema educativo e formativo sulle radici strutturali, sulle cause e sulle conseguenze della violenza maschile sulle donne e promuovere la destrutturazione degli stereotipi alla base della violenza. Perché una cosa è certa, senza dubbio bisogna intervenire ma bisogna anche prevenire lavorando sulle nuove generazioni insegnando loro il rispetto per sé e per gli altri senza distinzione di genere. Trasmettendogli il valore che la relazione a due deve essere un motivo di crescita, di confronto e di accettazione, non di possesso o vista come una violazione di confine.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Relazioni difettose: la fine di un amore e la solitudine delle amicizie latitanti. La realtà quando si è adulti

Ero in dubbio se affrontare un argomento così attuale, ma anche silenzioso, nascosto nei meandri di vite che all’apparenza sembrano perfette, un argomento intimo, che però credo vada condiviso, il senso di un blog è anche questo, almeno credo. Amori strani, amori imperfetti, relazioni tossiche, relazioni difettose, storie d’amore ad un passo da progetti importanti, che naufragano quando meno te l’aspetti. Un pugno dritto in faccia. Il cuore è stordito, l’animo vaga tra i ricordi, le bugie, le cose che non hai visto, il dolore, la sofferenza di chi pensavi di conoscere bene, le lacrime che sembrano infinite. Resta una vita da ri-orientare, da riassettare. A chi nella vita da adulto non è capitato? Ti ritrovi spesso su un divano a volte senza fare la doccia, in una vita che sembra vuota e spenta, fuori ed intorno c’è il mondo, chi ti vuole bene ti ripete che gli amori vanno e vengono, che le storie possono finire, che c’è chi sta peggio di te, qualcuno prova a raccontarti la storia di un altro a cui è andata peggio, ma serve a poco, ogni dolore fa male. Ma la realtà è anche la solitudine di vita, a volte per una storia si tralasciano e si perdono gli amici, ma è anche vero che quando si è adulti, gli amici hanno la loro vita: c’è chi si è sposato, chi è in attesa di un figlio, chi vive ormai fuori, e la solitudine di braccia amiche, di un aperitivo in amicizia, l’avverti e fa male ancora di più. E’ uno strappo incredibile, si resta soli col proprio dolore, senza avere la possibilità di condividerlo, senza avere la possibilità di svagarsi. Ci provi a volte a ristabilire rapporti umani e sociali, ma quanto fatica! C’è chi è latitante, chi preferisce allontanarsi per non schierarsi, chi osserva a distanza le storie instagram che posti senza avere neppure la delicatezza di chiederti “come stai?”, a volte basta un solo secondo in un’era digitale dove scriviamo fiumi di commenti e di sciocchezze, senza renderci conto che quel “come stai?”, che ruba un solo secondo della propria vita, può far bene all’altra persona, che suona come una pacca sulla spalla, come un segno di vicinanza. Perché è inutile nasconderci dietro alla scorza dura, quando stai male, vorresti che qualcuno si renda conto di te, che si interessi anche solo minimamente a te. Invece, sembra che soffrire e per amore tocchi solo a te, che nessuno mai ci sia passato, che nessuno possa comprendere come un aperitivo, una telefonata, possa davvero allungare la vita – come recitava uno spot pubblicitario di un po’ di tempo fa-. Il problema è che ognuno è concentrato su sé stesso, dimenticando il senso dell’amicizia, del bene che una parola possa fare, di quanto la vicinanza possa essere terapia, condivisione. Siamo diventati acidi e cinici, pensando che magari se quella persona “si lamenta”, quel lamentio spenga i neuroni positivi che abbiamo. Leggevo durante i mesi di lockdown e di pandemia, che saremmo state persone diverse, migliori, più sagge e più consapevoli, perché avevamo toccato con mano la paura, la solitudine, l’incertezza, il dolore, è bastato un solo momento di “normalità” che tutto è diventato anche peggio di prima. E no, non prendetelo come un piagnisteo e non venitemi a dire che la solitudine è uno spazio creativo da riempire, che bisogna imparare a stare da soli per poi ritrovarsi bene con gli altri, è risaputo che ci sono momenti in cui la solitudine è benessere, è ritrovarsi, ma è una consapevolezza in cui si arriva per gradi. Ma, vi assicuro che quando avresti voglia di un aperitivo e semplicemente di sorridere, quando avresti voglia che il telefono suoni ma non per lavoro, o per chi ti chiede un piacere – tutti bravi lì a conoscerti- quella solitudine è tortura. E’ risaputo che quando finisce una storia distrarsi, tornare a vivere, è un toccasana, ma quando sei adulto e le amicizie sono latitanti, è un doppio baratro. Perché puoi avere un’esistenza di cui non puoi lamentarti: una famiglia alle spalle che ti ama, un buon impiego, una carriera, la possibilità di acquistare qualche capriccio, qualche viaggio, una vita che agli occhi degli altri può sembrare perfetta e quasi da invidiare, ma a volte manca il meglio. E no, non confondetelo col principe azzurro o con la storia perfetta, con l’amore da trovare a tutti i costi, per dimenticare il dolore passato, ma i rapporti umani e sociali, perché quelli ci rendono persone vive.

Pensiamoci.

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Non si ferma la piaga della violenza sulle donne, ancora troppe le falle nel sistema di tutela

Uccise in casa e fatte a pezzi, strangolate, violentate, pugnalate e massacrate di botte fino alla morte. Femminicidi vittime dei loro compagni, mariti, o di uomini che conoscevano appena. Umiliate, sottomesse, annientate da uomini maschilisti che confondono l’amore col possesso, vittime silenziose della violenza domestica, l’altra forma della violenza sulle donne: violenza psicologica che si fonde anche alla violenza fisica da parte di uomini che ogni giorno colpiscono psicologicamente la donna da amare e talvolta si scagliano fisicamente contro di loro, picchiandole e colpendole. Tra le mura domestiche di famiglie apparentemente felici e sane si nasconde terrore e violenza, anche quella assistita dai propri figli, che ogni giorno vivono di paura e d’angoscia, compromettendo la loro salute psico-fisica. Non è raro che molti bambini soffrono di disturbi del linguaggio, disturbi psico motori e del sonno. Crescita che rischia di minare la loro vita da adulti e le loro relazioni sentimentali. Il modello rischia di ripetersi: violenza su violenza, o subire la violenza perché quello è l’unico modello che hanno conosciuto. Violenza che diventa trasversale, quando l’uomo uccide un figlio per colpire la donna. E’ risaputo che l’unico amore indissolubile per una donna è quello per un figlio ed è proprio quelle creature che colpiscono gli uomini violenti per creare un dolore immenso alla donna. Ci sono donne che purtroppo sono vittime perché nelle loro famiglie la violenza è l’unica forma d’amore che hanno conosciuto. Nella mente la donna giustifica l’aggressore “se si arrabbia e mi picchia vuol dire che ci tiene”, o “era solo uno schiaffo ma non mi fa mancare nulla”. Il problema nasce nella relazione di coppia, la dinamica a due: in queste relazioni accade che la donna cerca di curare il suo partner giustificando gli atteggiamenti violenti quando è lei stessa che necessita di cure. A sua volta il compagno non cambia e aumenta l’escaletion di aggressività fino ad arrivare in alcuni casi anche ad ucciderla. Gli strumenti sociali e legislativi per aiutare le donne ci sono, ma spesso non bastano. Le leggi nascono in Parlamento e non a contatto con la realtà. La vittima viene supportata dai CAV – Centri Antiviolenza o in alcuni casi collocata insieme ai figli in una casa rifugio, un posto segreto, sentendosi quasi reclusa, costretta a nascondersi come se avesse commesso lei il reato mentre l’uomo è libero di vivere la sua vita sociale. In alcune realtà la donna non viene immediatamente supportata psicologicamente, rischiando di venire meno alla protezione, ritornando con i loro aguzzini. E’ un meccanismo arrugginito che spesso avviene nelle piccole realtà di provincia dove si è ancorati alle tradizioni e dove la violenza da parte degli uomini viene spesso giustificata. E’ importante che anche la mentalità cambi, abbandonando la logica del subire come avveniva nel passato, attivando percorsi di sostegno e supporto psicologico e morale a favore delle donne, lavorando nella ri-costruzione del sé fortemente indebolito dalla violenza nonché nel rafforzare le reti di supporto, iniziando dalla famiglia. Spesso le donne vittime di violenza si ritrovano totalmente isolate dai propri cari e dalle amicizie, l’uomo violento l’ha allontanata dagli affetti e dalle persone a lei care, è importante aiutarla a rinforzare queste reti. Nel frattempo l’Italia arranca in un fenomeno in continua crescita e che spaventa ogni giorno. Un mondo sommerso che rischia di non venire mai a galla. Nel mentre l’Italia ha dato vita al nuovo Piano antiviolenza, ispirato alle linee guida della Convenzione di Instabul. “3P”: prevenire la violenza, proteggere le vittime e perseguire i crimini. Presentato dalla ministra per le Pari opportunità, Elena Bonetti, che lo ha definito una bozza di intenti, nel quale ha aggiunto che andranno individuati “livelli di responsabilità, delle risorse occorrenti e della relativa tempistica. Vale a dire: ci vorrà tempo, frase che un po’ destabilizza. Il nuovo piano dovrebbe rafforzare le falle del precedente, perché vi esisteva un vecchio piano antiviolenza, e  dunque su pilastri: prevenzione, protezione e sostegno delle vittime, punizione dei colpevoli e assistenza e promozione. Tra le novità, c’è senz’altro, un’attenzione maggiore sul contrasto alla violenza economica attraverso l’educazione finanziariadelle donne con tirocini retribuiti e norme per favorire l’inserimento lavorativo al fine di realizzare l’obiettivo più generale dell’empowerment delle donne. Tra le priorità individuate dal piano c’è anche quella di aumentare il livello di consapevolezza nella pubblica opinione e nel sistema educativo e formativo sulle radici strutturali, sulle cause e sulle conseguenze della violenza maschile sulle donne e promuovere la destrutturazione degli stereotipi alla base della violenza. Perché una cosa è certa, senza dubbio bisogna intervenire ma bisogna anche prevenire lavorando sulle nuove generazioni insegnando loro il rispetto per sé e per gli altri senza distinzione di genere. Trasmettendogli il valore che la relazione a due deve essere un motivo di crescita, di confronto e di accettazione, non di possesso o vista come una violazione di confine.

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Assistente sociale e vita privata, quanto il lavoro influenza le relazioni sentimentali e familiari?

E’ un mattino come tanti, io e la mia collega d’ufficio ci ritagliamo qualche minuto di breefing mattutino, è il giorno dopo una riunione tra colleghi, ci guardiamo un po’ arrabbiate ed interdette e ci chiediamo come possano non capire il nostro lavoro, che vive sempre di pregiudizi e difficoltà, di sentimenti ambivalenti. Ci fermiamo e pensiamo come sia difficile farlo comprendere ai colleghi e quanto possa essere difficile farlo comprendere ad un ipotetico compagno sentimentale. E’ stato l’input che mi ha portata a chiedermi che effetto ha il nostro lavoro nelle relazioni familiari e sentimentali, che condivido con voi. La società in cui viviamo è in continua trasformazione sociale: le famiglie si sgretolano, la crisi sentimentale ed economica invade l’individuo, il mondo cambia e vive di paure e timori, la stessa in cui non solo vivono i nostri utenti ma la stessa in cui viviamo anche noi assistenti sociali. Lo sfondo è tappezzato di sentimenti precari e coppie che vacillano, di uomini e donne ormai cambiate, raro trovare una persona onesta nei sentimenti e legata ai valori. Il sogno dell’incastro perfetto svanisce. E la realtà che ci presentano quotidianamente i nostri utenti è la stessa che potrebbe toccare anche a noi assistenti sociali, e quando capita ti senti un po’ stupido, se non altro presuntuoso, perché pensi sempre che a te non possa accadere, invece siamo tutti figli di questa società, tutti esseri umani. A volte dinanzi all’amore ci manca il coraggio. Siamo bravissimi ad acquistare online schivando le truffe, a gestire molte situazioni, a prenderci cura del nostro corpo, ma tentenniamo di fronte all’altra persona, a quella che ti si approccia con serietà e con interesse, a quella che potrebbe essere l’incastro di due anime, perché abbiamo paura ogni giorno che la fregatura sia dietro l’angolo. Il fatto di trattare per lavoro ogni giorno “aspetti malati” della vita di coppia ci può ostacolare, sia nella ricerca del compagno, sia nel quotidiano: rischiamo di dare uno stereotipo a tutti, usando gli stessi schemi mentali del lavoro pure con l’altra “nostra” persona. Il mea culpa lo faccio io per prima. Pochi giorni fa, scorrendo le foto e le chat di una donna che ha trovato il coraggio di venire fuori da una relazione tossica, ho esclamato alla mia collega “vatti a fidare degli uomini”, oggi che vi scrivo, mi rendo conto che io per prima ho puntato il dito contro gli uomini tacciandoli alla stessa maniera. E’ che il nostro lavoro e qualche delusione che già ci portiamo sulle spalle ci ha fatti diventare apatici e diffidenti. Abbiamo dimenticato attenzione e passione, spontaneità e rilassatezza nel viversi un momento e la magia di un incontro o di un amore, lasciando il posto alla razionalità e a quel “freno a mano” sempre tirato con la quale camminiamo in questa vita così maledettamente imprevedibile. Come professionisti sappiamo bene che quando si interagisce con l’altro sesso nel tentativo di nascere come coppia, occorre evitare la ripetizione di “copioni familiari” compresi gli errori già commessi. Ogni persona è qualcosa di nuovo, che merita di essere vissuta, senza pregiudizi o schemi passati. Del tipo: le colpe degli altri non devono ricadere sulla persona di oggi. Insomma, che iniziare una frequentazione non sia semplice, vivere un nuovo battito di cuore non sia una passeggiata, noi assistenti sociali lo sappiamo bene, eppure dovremmo avere nella mente e nel cuore lo zerbino sul quale sbattere le scarpe delle storie altrui e personali che senza dubbio ci hanno scosso. Perché se le cose sono destinate a funzionare lo rivela il tempo ed il destino, ma anche noi siamo artefici del nostro destino, e questo può avvenire solo con la messa in discussione di ognuno nel gioco relazionale. Amare è l’esperienza più bella per un essere umano che può però incontrare anche sentimenti opposti: violenza, odio, rifiuto. Quindi l’alt è a stare attenti ed in guardia, per non farsi male, ciò vale per gli utenti ma anche per noi. E per dirla alla Troisi: “pensavo fosse amore invece era un calesse!”, mal che vada.

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Baby gang e violenza, ecco come un ragazzo si trasforma in un potenziale delinquente

Baby criminali, sempre più “baby”. Quelli che delinquono, sono sempre più giovani e pronti a commettere i reati più gravi. L’età dei giovani delinquenti si abbassa vertiginosamente e sulle scrivanie dei Pm minorili e degli assistenti sociali arrivano atti di indagine che coinvolgono anche ragazzini di dieci anni. Aumentano le denunce a danno dei minorenni per rapine e per produzione e commercio di stupefacenti. A destare maggiore allarme sociale è l’abbassamento dell’età media di ingresso in circuiti criminali che oscilla tra i 14 ed i 12 anni, con fenomeni che riguardano anche ragazzini intorno ai 10 anni. Crescono anche i reati in concorso, si creano sempre più imprese di baby gang, che in alcune realtà creano un vero allarme sociale. In alcuni casi la composizione della baby gang cambia in base al “colpo”. Le bande adolescenti agiscono sotto la regia del capo, magari poco più grande degli altri, presente a tutti i colpi. L’adolescenza rappresenta una delle fasi della vita maggiormente delicate, durante la quale qualsiasi evento può lasciare un segno indelebile. L’adolescente che commette un reato sperimenta il superamento del limite, in questo caso specifico posto dalla Legge, che tutti in forma convenzionale rispettano. In frequenti casi alla base della delinquenza minorile vi sono fattori riconducibili ai contesti socio-culturali abbastanza carenti, spesso aggravati da situazioni familiari di disagio o con scarsa educazione. I motivi però non sono rintracciabili solo al contesto di appartenenza, ma anche alla predisposizione caratteriale che tende a voler superere i limiti imposti. Nel sistema penale minorile la detenzione in Istituto viene presa in considerazione come estrema ratio, predisponendo misure alternative come il collocamento in comunità. Le prime reazioni dei ragazzini sono di depressione, in quanto si ritrova recluso e con regole ben precise, esperienza opposta alla commissione del reato. Successivamente scatta la fase di elaborazione dei motivi che lo hanno condotto in comunità, cruciale è il ruolo degli adulti di riferimento, che lo aiuteranno ad affrontare con consapevolezza i primi passi verso la responsabilizzazione, che previene fenomeni di recidiva. Difatti, i dati dimostrano come i minori sottoposti a misure alternative alla detenzione presentino tassi di recidiva notevolmente inferiori rispetto a quelli detenuti in Istituto. Fondamentale nel processo di crescita di un ragazzo è senza dubbio la famiglia, principale punto di riferimento. L’adolescente in questa fase della vita investe moto anche sul gruppo dei pari. In questo senso, la famiglia ha il compito di osservarlo sia nel contesto individuale che in gruppo. La delinquenza giovanile è spesso una manifestazione di reati in concorso con altri ragazzi ed è quindi difficilmente controllabile dall’adulto. E’ fondamentale un’azione educativa coordinata e sinergica tra i genitori e talvolta anche con la scuola, in cui i genitori rappresentano sempre il fulcro dell’intervento educativo.

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Neet una generazione a rischio. 1 giovane su 3 non studia e non lavora

Neet, all’Italia il record in Europa: due milioni di giovani non studiano e non lavorano, né inseriti in percorsi di formazione. Un paese che non sa riconoscere le potenzialità dei suoi giovani. E’ questo il quadro che emerge dall’ultimo rapporto sui Neet in Italia. Uno studio firmato dal professore Alessandro Rosina per rete europea StartNet, che sottolinea come nel nostro paese quasi un quarto di chi ha tra i 20 ed i 34 anni vive in una condizione di sospensione, che il docente ha definito “una dissipazione del capitale umano”, rendendo l’Italia con la più alta incidenza in Europa – circa 1 giovane su 3-. Una situazione che è peggiorata ancor di più a causa della pandemia da coronavirus e destinato ad un ulteriore peggioramento. Se è vero che quello dei neet era un fenomeno già ampiamente diffuso prima del virus, lo è anche che il covid-19 ha reso il fenomeno un problema di primaria importanza. Neet è un acronimo nato in Inghilterra e racchiude tutti quei giovani che non studiano, non lavorano né sono impegnati in corsi di formazione. Un acronimo affibbiato ai tanti giovani in tutti il mondo, che per via dei percorsi scolastici non adeguati, per l’altissima difficoltà di entrare nel mondo del lavoro o per cause legate a problemi di tipo sociale e personale – discriminazione, basso livello di istruzione- sono costretti a doverci convivere. Per quanto concerne il nostro paese, i dati che saltano all’occhio sono diversi e di differente natura. Anzitutto il dato relativo al territorio. A livello geografico la fascia che risente maggiormente di tale problematica è il Mezzogiorno, con il 32.6%, rispetto al 19.9% del centro Italia, segue per ultimo il Nord con il 16.8%. Seguono poi le regioni, le principali del Sud-Sicilia, Calabria, Campania, Puglia e Sardegna-, presentano statistiche superiori alla media nazionale. Ma non solo un problema di regioni. I dati fanno emergere come anche all’interno della stessa area, si possono riscontrare differenze significative. In particolar modo in quelle in cui convivono zone rurali e zone edificate o in cui esistono grandi città con importanti zone periferiche, dove le risorse culturali ed economiche della popolazione sono più scarse. Non meno importante poi i dati riguardanti il genere, infatti, secondo il rapporto dell’Istat, il fenomeno neet sarebbe più diffuso tra le donne rispetto che agli uomini. Se i dati spaventano e tutto sembra in una fase di stallo, timidamente qualcosa si inizia a muovere, nel campo politico qualcuno ha sollevato il dibattito, come Susy Matrisciano, presidente della Commissione Lavoro e il Senatore Sergio Romagnoli, che nel giugno scorso hanno affrontato il fenomeno in un convegno. E non è tutto. Anche alcune organizzazioni cercano di trovare una risposta al problema, come la Fondazione Vodafone, che ha dato vita al progetto “LV8”, un’app che offre percorsi di formazione digitale pensati per i giovani che possano fornire loro svariate competenze utili nella ricerca di un impiego. Si tratta però di piccole gocce in un mare che ha bisogno di tornare a navigare con protagonisti i giovani che non possono restare fermi a guardare senza progettualità e futuro, sprecando talento e competenze.

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Riforma processo penale, con la giustizia riparativa si incontrano vittima e autore del reato. Cosa cambia?

Via libera unanime da parte del consiglio dei ministri alla riforma della giustizia. L’ok è arrivato dopo una lunga discussione e una breve sospensione, ora la discussione passa al Parlamento, al quale si è appellato il presidente del consiglio dei ministri Mario Draghi, chiedendo di sostenere con lealtà questo importante provvedimento che porta la firma del ministro Cartabia. L’intervento è corposo: dal reset della durata delle indagini preliminari, al “contingentamento” dell’obbligatorietà dell’azione penale al capitolo sanzioni e riti alternativi, ma soprattutto il ritorno “parziale” della prescrizione. Ma uno degli emendamenti del ddl di riforma del processo penale, disciplina in modo organico il metodo della giustizia riparativa. Nel pieno rispetto della direttiva europea e nell’interesse sia della vittima che dell’autore del reato. Ad oggi l’emendamento prevede l’accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni fase del procedimento, su base volontaria e con il consenso libero e informato della vittima e dell’autore, spetterà al giudice la positiva valutazione sull’utilità del programma in ambito penale. Inoltre è prevista la ritrattabilità del consenso a questi percorsi in qualsiasi momento. L’obiettivo primario della giustizia riparativa è quello di porre attenzione alle dimensioni umane e sociali che investono il crimine. Senza le quali la pena non è altro che una punizione. Al centro della mediazione ci sono le vittime. Non si può restituire ai violenti la possibilità di tornare all’interno della società senza passare dalla giustizia riparativa che mette al centro proprio le vittime. La chiave di tutto è la riparazione, dove per riparare si possono intendere molte cose, a cominciare dal fatto che l’autore ha compreso sino in fondo il disvalore del suo comportamento, eventualmente risarcisca il danno, arrivando all’interazione fra il reo e la vittima, o la sua famiglia. Il mediatore ha il compito anzitutto di scomporre un atto lesivo, cercando di capire cosa abbia prodotto e come lavorare con chi lo ha commesso. Il senso della giustizia riparativa è anzitutto consapevolezza da parte dell’autore del reato commesso, il quale con il supporto di un mediatore ha l’occasione di riparare il male che ha fatto, portando all’obiettivo di abbattere i fenomeni di recidiva. La logica di fondo è abbandonare il concetto che molti hanno “lasciarli dentro e buttare la chiave”, che rischia di non pagare, la sicurezza si potrebbe ottenere con le misure alternative. E’ solo se riusciamo ad avere una visione diversa e ad applicare un paradigma di giustizia innovativo, come avviene già in molti paesi europei, che forse si potrà restituire un autore alla società consapevole. La giustizia riparativa è “un paradigma che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo” (Howard Zehr). Si propone, quindi, l’obiettivo di ricostruire l’equilibrio spezzato tra la società, l’autore del reato e la vittima a causa proprio di una condotta illecita. L’autore del reato è supportato nella presa di coscienza dell’impatto provocato dall’azione illecita da lui compiuta sia nella vita della vittima sia nella società civile, ed è stimolato a porre rimedio alle conseguenze negative del suo comportamento; la vittima è aiutata a recuperare quella stabilità minata dalla sofferenza provocata dal reato; per quanto riguarda la società, si intende ripristinare la pace sociale, anche mediante il reinserimento dell’autore con lavori sociali e il risarcimento dei danni subiti. Un approccio, dunque, molto diverso da quello tradizionale, si tratta di abbandonare la logica della sola punizione del reato con il carcere e la vergogna. La giustizia riparativa è importante ricordare che non si applica solo al settore penale ma anche ai conflitti che si generano all’interno della comunità, della famiglia, della scuola o del lavoro. La giustizia riparativa è un orizzonte culturale che appoggia il rispetto, l’equità, l’inclusione e la partecipazione. Lo sforzo principale è quello di indirizzare il dolore di chi subisce il reato, il reo e la società su qualcosa di nuovo che nasca da esso. Qualcosa che non sia però odio e vergogna o ghettizzazione da parte della società. Gli episodi violenti verso i detenuti non sono nuovi e la società tende ad emarginarli, ciò non restituisce nulla. L’orizzonte culturale deve essere quello in cui ogni comunità diventi riparativa ciascuna per sé. Ce la faremo a cambiare il paradigma giudiziario e culturale in essere?

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Muri di street art per risvegliare le coscienze

L’arte che smuove le coscienze, così le città e le periferie, i luoghi simbolo toccati dalle morti ingiuste ma ricche di significato, tornano a vivere e a smuovere le coscienze civili, diventando testimone di legalità e giustizia nelle nuove generazioni. Qualche giorno fa il famoso street artist Jorit, ha lasciato la sua arte impressa nel ritratto di Marcello Torre, che fu a Pagani (Sa) sindaco e che venne assassinato l’11 dicembre 1980. L’artista ha colto il firmamento del sindaco Torre, riportando come base del ritratto una parte della lettera-testamento che l’avvocato sindaco lasciò nelle mani del giudice Santacroce il 30 maggio del 1980, nel quale egli ribadiva il sogno di una Pagani libera e civile, a servizio della quale si era messo con tanta determinazione ed altrettanta competenza. Un murales che oggi ha il sapore di un memorandum per il governo e per i giorni che stiamo vivendo, in cui a farla da padrona è la notizia della scarcerazione di Giovanni Brusca, boss che firmò la strage di Capaci, colui che azionò il telecomando della strage, ha ricevuto l’applicazione dei benefici previsti per i collaboratori di giustizia “affidabili”, dopo un quarto di secolo in galera.  Scarcerazione che indigna e confonde chi nella giustizia nutre un sentimento di forza e di speranza. Muri che si riempiono di parole e volti, messaggi di speranza e di futuro, ma soprattutto conoscenza per i più giovani a digiuno di storia contemporanea e di esempi veri e leali, la street art è il modo più diretto, semplice e giovanile per arrivare a loro e per “parlargli” di uomini giusti, che con il loro impegno ed il loro sacrificio hanno segnato anni e coscienze, lasciando alle generazioni future un insegnamento di vita, affinché uomini di potere e criminalità organizzata, fossero messi all’angolo da giovani di ideali e di valori, che con coscienza pulita e schiena dritta segnano il gol tanto desiderato dal loro impegno. I murales risvegliano le coscienze ma salvano anche molte zone e periferie da Nord a Sud Italia, e pur restando ancora un fenomeno di frontiera, la street art è riconosciuta nel mondo dell’arte, guadagnando il rispetto delle altre forme artistiche tradizionali ed entrando nelle gallerie di tutto il mondo. Riesce a promuovere l’impegno della comunità, l’inclusione sociale, abbellisce i luoghi, combatte il degrado e promuove e recupera spazi di socializzazione. Una vera e propria soluzione la street art. Segno anche di un percorso di mutazione: quello che un tempo era associato ad atti di vandalismo, di espropriazione dello spazio pubblico ad opera di imbrattatori notturni con scarso senso civico, oggi è considerata una forma di espressione collettiva in grado di raggiungere le masse e di colpire gli occhi e le coscienze, capace di unire culture, generazioni e linguaggi diversi. Una realtà nel quale molte amministrazioni comunali si affidano per rigenerare e qualificare intere porzioni urbane disagiate e degradate. Perché se la periferia si presenta come una spia analitica dello stato di salute di una società, con i murales emergono tutte le contraddizioni e le potenzialità di un territorio e di un contesto urbano. In questo modo l’opera di strada si fa descrizione di quei luoghi contribuendo a risvegliare nelle coscienze di chi li abita la volontà di reclamare la propria esistenza ed i propri diritti. Al Parco Merola di Ponticelli, quartiere della periferia orientale di Napoli, luogo difficile e con scarso accesso ai servizi, c’è poco verde e tanto grigio, ma da qualche tempo nella giungla di cemento spuntano i colori delle grandi facciate dipinte del Parco dei murales, che ha ridato nuova identità al complesso residenziale: un progetto di riqualificazione artistica e rigenerazione sociale, che grazie all’abbellimento promuove arte, valori e consapevolezza anche in un contesto disagiato che si avvicina all’integrazione nelle periferie. Insomma non più muri da imbrattare ma da ammirare la cui forza espressiva è un colpo dritto alle coscienze. Allora c’è da chiedersi se forse abbiamo trovato un modo del tutto nuovo per arrivare ai più giovani su temi sociali di grande importanza?

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Riforma processo penale, con la giustizia riparativa si incontrano vittima e autore del reato. Cosa cambia?

Via libera unanime da parte del consiglio dei ministri alla riforma della giustizia. L’ok è arrivato dopo una lunga discussione e una breve sospensione, ora la discussione passa al Parlamento, al quale si è appellato il presidente del consiglio dei ministri Mario Draghi, chiedendo di sostenere con lealtà questo importante provvedimento che porta la firma del ministro Cartabia. L’intervento è corposo: dal reset della durata delle indagini preliminari, al “contingentamento” dell’obbligatorietà dell’azione penale al capitolo sanzioni e riti alternativi, ma soprattutto il ritorno “parziale” della prescrizione. Ma uno degli emendamenti del ddl di riforma del processo penale, disciplina in modo organico il metodo della giustizia riparativa. Nel pieno rispetto della direttiva europea e nell’interesse sia della vittima che dell’autore del reato. Ad oggi l’emendamento prevede l’accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni fase del procedimento, su base volontaria e con il consenso libero e informato della vittima e dell’autore, spetterà al giudice la positiva valutazione sull’utilità del programma in ambito penale. Inoltre è prevista la ritrattabilità del consenso a questi percorsi in qualsiasi momento. L’obiettivo primario della giustizia riparativa è quello di porre attenzione alle dimensioni umane e sociali che investono il crimine. Senza le quali la pena non è altro che una punizione. Al centro della mediazione ci sono le vittime. Non si può restituire ai violenti la possibilità di tornare all’interno della società senza passare dalla giustizia riparativa che mette al centro proprio le vittime. La chiave di tutto è la riparazione, dove per riparare si possono intendere molte cose, a cominciare dal fatto che l’autore ha compreso sino in fondo il disvalore del suo comportamento, eventualmente risarcisca il danno, arrivando all’interazione fra il reo e la vittima, o la sua famiglia. Il mediatore ha il compito anzitutto di scomporre un atto lesivo, cercando di capire cosa abbia prodotto e come lavorare con chi lo ha commesso. Il senso della giustizia riparativa è anzitutto consapevolezza da parte dell’autore del reato commesso, il quale con il supporto di un mediatore ha l’occasione di riparare il male che ha fatto, portando all’obiettivo di abbattere i fenomeni di recidiva. La logica di fondo è abbandonare il concetto che molti hanno “lasciarli dentro e buttare la chiave”, che rischia di non pagare, la sicurezza si potrebbe ottenere con le misure alternative. E’ solo se riusciamo ad avere una visione diversa e ad applicare un paradigma di giustizia innovativo, come avviene già in molti paesi europei, che forse si potrà restituire un autore alla società consapevole. La giustizia riparativa è “un paradigma che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di una soluzione che promuova la riparazione, la riconciliazione e il senso di sicurezza collettivo” (Howard Zehr). Si propone, quindi, l’obiettivo di ricostruire l’equilibrio spezzato tra la società, l’autore del reato e la vittima a causa proprio di una condotta illecita. L’autore del reato è supportato nella presa di coscienza dell’impatto provocato dall’azione illecita da lui compiuta sia nella vita della vittima sia nella società civile, ed è stimolato a porre rimedio alle conseguenze negative del suo comportamento; la vittima è aiutata a recuperare quella stabilità minata dalla sofferenza provocata dal reato; per quanto riguarda la società, si intende ripristinare la pace sociale, anche mediante il reinserimento dell’autore con lavori sociali e il risarcimento dei danni subiti. Un approccio, dunque, molto diverso da quello tradizionale, si tratta di abbandonare la logica della sola punizione del reato con il carcere e la vergogna. La giustizia riparativa è importante ricordare che non si applica solo al settore penale ma anche ai conflitti che si generano all’interno della comunità, della famiglia, della scuola o del lavoro. La giustizia riparativa è un orizzonte culturale che appoggia il rispetto, l’equità, l’inclusione e la partecipazione. Lo sforzo principale è quello di indirizzare il dolore di chi subisce il reato, il reo e la società su qualcosa di nuovo che nasca da esso. Qualcosa che non sia però odio e vergogna o ghettizzazione da parte della società. Gli episodi violenti verso i detenuti non sono nuovi e la società tende ad emarginarli, ciò non restituisce nulla. L’orizzonte culturale deve essere quello in cui ogni comunità diventi riparativa ciascuna per sé. Ce la faremo a cambiare il paradigma giudiziario e culturale in essere?

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Napoli “capitale” del reddito di cittadinanza, ma a che punto siamo con la misura per eccellenza di contrasto alla povertà?

La spesa del reddito di cittadinanza a marzo nella sola Napoli ha sfiorato quella dell’intero Nord Italia. In totale, secondo le tabelle dell’Inps, le famiglie che hanno goduto di almeno una mensilità del sostegno tra gennaio e marzo di quest’anno sono state 157.000, 459.000 le persone coinvolte nel complesso. Nello stesso periodo nell’intero Nord 224.872 famiglie percepivano il reddito o la pensione di cittadinanza. L’importo medio è più basso al Nord che al Sud. I dati dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale vedono 1,8 milioni di percettori nelle regioni del Sud, 452 mila al Nord e 334 mila al Centro: la regione in testa è la Campania, segue la Sicilia, il Lazio e la Puglia. Prevalgono i nuclei composti da una o due persone, mentre costituiscono il 34% i nuclei in cui sono coinvolti anche i minori. Ammonta a quasi 13 miliardi di euro la somma spesa per il reddito e la pensione di cittadinanza che l’Italia ha speso tra l’aprile 2019 e il marzo 2021. La crisi economica dapprima poi l’avvento della pandemia hanno portato sempre più persone a fare richiesta della misura di contrasto alla povertà. Di fatto, il paradigma della povertà si è totalmente convertito, le famiglie abbastanza autonome ed addentrate nel tessuto sociale ed economico, si sono ritrovate a fare i conti con l’improvvisa povertà economica. Negli ultimi mesi, sempre più famiglie italiane e ancor di più nel Sud Italia, dove già le opportunità lavorative scarseggiavano ed il lavoro era a giornata, si sono ritrovate morose con le utenze e con l’affitto dell’abitazione. L’unica misura ad oggi accessibile con un Isee non superiore ai 9.360 euro, e con requisiti di soggiorno e cittadinanza, è solo il reddito di cittadinanza, che ha visto la platea dei beneficiari ampliarsi sempre di più. Si era detto all’inizio dell’avvento nel 2019 non una misura di assistenzialismo, prevedendo delle condizionalità, cioè dei vincoli per i beneficiari: la sottoscrizione della Did, disponibilità immediata al lavoro, l’obbligo della sottoscrizione di un patto di lavoro coi centri per l’impiego o del patto di inclusione sociale con i servizi sociali territoriali, oltre all’obbligo della partecipazione ai Progetti Utili alla Collettività (PUC). In altri termini un aiuto reciproco: lo Stato assiste economicamente per un periodo di diciotto mesi – durata del beneficio- il cittadino in difficoltà, consentendogli poi attraverso anche gli obblighi previsti il suo reinserimento sociale e lavorativo. Da assistente sociale e cittadina italiana mi chiedo e vi chiedo ma a distanza di più di un anno e mezzo dall’introduzione della misura d’eccellenza di contrasto alla povertà quale il reddito di cittadinanza, che ci avrebbe o comunque nei fatti ci ha uniformato ai paesi europei che prevedono una misura di contrasto alla povertà, è cambiato davvero qualcosa? A che punto siamo?

Il punto forse è quello della non mai partenza. L’Inps eroga i soldi ai beneficiari e su questo nulla questio, ma la ricerca del lavoro, la rete sociale, sanitaria, da creare intorno al beneficiario e al suo nucleo familiare di fatto è ancora ferma. L’identikit dei fruitori del reddito li vede con una scarsa scolarizzazione e senza la minima esperienza informatica, quasi impossibile per i navigator trovargli un impiego. Ad aggiungersi a questo la mancata applicazione dei decreti attuativi di cui avrebbe dovuto occuparsi il Ministero del Lavoro. Infatti, dopo due anni dall’approvazione del decreto 4/2019 con il quale è stato introdotto il reddito di cittadinanza, mancano ancora diversi decreti attuativi, necessari per il funzionamento della misura, senza i quali siamo davanti a poco più di un sussidio. Degli esempi: sgravi per l’azienda che assume il beneficiario del reddito, pari alle mensilità che il beneficiario non prende più. Decreto mai formalizzato. O ancora al beneficiario vengono proposte tre offerte di lavoro congrue, se rifiuta decade il beneficio, assortigliando la platea degli aventi diritto, ma le offerte non sono mai state proposte a molti beneficiari. A questo si aggiunge la scarsa conoscenza degli strumenti informatici: molte persone non posseggono né un pc né uno smartphone, determinando già la prima impossibilità per i fruitori di iscriversi al sito dell’Anpal, luogo deputato all’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Per i navigator e per gli operatori sociali dei comuni c’è una piattaforma che purtroppo non ha interoperabilità: ovvero non vi è dialogo. Un esempio: un beneficiario risulta ancora “attivo” per cui percettore della misura, viene convocato ma ad egli il beneficio è stato revocato o sono venute meno delle condizioni pertanto è decaduto, o egli stesso ha deciso di presentare regolare rinuncia all’Inps, ma la piattaforma è ferma ancora allo stato “attivo”. Ciò capita anche per i deceduti. Da mesi mi ritrovo una donna deceduta da diverso tempo, per la piattaforma ella è da convocare e il suo caso non può essere chiuso in quanto per il sistema risulta percepire ancora il beneficio economico. Una confusione che rallenta il lavoro degli operatori e che non conquista la fiducia dei beneficiari del reddito di cittadinanza. I quali al di là di non aver compreso alcuni obblighi legati alla misura, non comprendono la finalità della convocazione ai servizi sociali e la motivazione per la quale debbano sottostare a degli obblighi: se dall’analisi preliminare – dialogo con egli- viene fuori una problematica anche sanitaria, tale da richiedere un coordinamento con altre figure professionali –di fatto molto difficile perché manca spesso il personale negli enti preposti- per cui molto si chiedono: “ma se percepisco un aiuto perché mi convochi tu? E perché sono obbligato a delle cose ed eventualmente a sottopormi a controlli medici?” E’ lontana la visione che la finalità non è solo un sostegno economico puro assistenzialismo, ma un aiuto globale che investe la sfera sociale, lavorativa, sanitaria, tappe per una piena integrazione sociale.

Il target di cui ci troviamo di fronte è analfabeta o con una scarsa scolarità. Se il mondo del lavoro è andato avanti grazie alle macchine e alla tecnologica, richiedendo quindi conoscenza e competenze anche minime, come si può pensare di potergli garantire un lavoro? Non sarebbe più opportuno prevedere la loro partecipazione nell’ambito dei fondi destinati al reddito di cittadinanza la loro partecipazione a corsi di specializzazione o per l’ottenimento di una qualifica professionale? Nel frattempo però gran parte della popolazione ha già preso il primo ciclo del reddito di cittadinanza 18 mesi, molti hanno già iniziato la replica che durerà altri 18 mesi previo un mese di sosta e si andrà avanti così fino a quando sarà disponibile.

Forse, c’è da chiedersi se tale misura vada rivista e ripensata?

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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