L’inchiesta ribattezzata “angeli e demoni” che a Reggio Emilia ha portato a misure cautelari per diciotto persone e che accusa la rete dei servizi sociali di aver sottratto decine di minori alle famiglie d’origine, creando in loro ricordi, per affidarli in affido retribuito a conoscenti. Sottrarre figli alle famiglie inventando di sana pianta per guadagnare soldi, è qualcosa di osceno. Non c’è reato più turpe di questo, non esiste, umanamente, azione più ignobile. Comportamenti del genere vergognano e gettano fango su un’intera categoria professionale che ogni giorno con sacrificio, passione, abnegazione ed empatia entra nelle vite di famiglie complesse e di minori in stato di bisogno. Al di là della notizia di cronaca che senza dubbio indigna e crea allarmismi in molte famiglie che in tutta Italia sono seguiti dai servizi sociali, vediamo come funziona l’istituto dell’affido familiare, uno dei pilastri della tutela dell’infanzia. Cos’è l’affido? L’affido familiare non è un’adozione: è una misura pensata come temporanea, affinché il minore possa trovare accoglienza quando la sua famiglia attraversa un momento di difficoltà: tanto da creare visite ed incontri tra famiglia d’origine e famiglia affidataria, rapporti che dovrebbero prolungarsi anche quando la fase d’emergenza è rientrata ed il bambino fa rientro presso la famiglia biologica. In Italia, l’istituto dell’affido è regolamentato dalla legge 184/1983, con successiva modifica dalla legge 149/2001. Pensata per i minori al di sotto dei diciotto anni, che sia italiano o straniero, volendo creare intorno a lui un sistema che vuole garantirgli un ambiente che tuteli la presenza affettiva, il sostegno materiale ed infine l’aspetto educativo. “Il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo è affidato a una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno”. Cita la norma. All’interno della categoria dell’affido c’è quello viene chiamato “affido professionale”, che avviene per il tramite di una cooperativa, come nel caso della cooperativa di Torino coinvolta nell’inchiesta. Ovvero, i servizi sociali si affidano a cooperative che a loro volta affidano i minori a nuclei familiari selezionati, e sostenuti dalla rete di operatori della cooperativa. Alla famiglia affidataria è richiesto di partecipare a un progetto elaborato per il minore; ciò implica la scelta di un membro familiare che diventerà “referente professionale” che dovrà seguire il bambino. Il referente professionale è un tramite con la cooperativa, ricevendo un compenso che è distinto dal contributo economico che solitamente è previsto per le famiglie affidatarie. La domanda che molti si pongono è “quali bambini possono essere dati in affidamento?” I minori per cui viene deciso l’affido provengono da famiglie che attraversano una fase di instabilità che non tutela i loro diritti. Questo può avvenire per i motivi più vari: abusi fisici o psicologici, ma anche mancato accadimento: bambini che non sono seguiti, di genitori con problemi psichici o di abuso di sostanze o condizioni materiali tali da non garantire una vita normale: ad esempio la mancata frequenza a scuola. E se vi state chiedendo chi decide, sappiate che l’ultima decisione proviene dall’autorità giudiziaria ovvero da un giudice tutelare, decisione che giunge al termine di un iter che coinvolge i servizi sociali territoriali, che una volta allertati esprime una diagnosi psicosociale della situazione familiare e deve presentare al giudice un progetto con obiettivi a medio e lungo termine. L’affidamento familiare può avvenire anche con consenso dei genitori, si tratta di una decisione amministrativa presa dai servizi sociali e solo confermata dal giudice tutelare, oppure può essere decisa dal tribunale per i minorenni a prescindere del consenso della famiglia d’origine. La famiglia affidataria viene proposta al giudice dai servizi sociali e può essere nominata famiglia affidataria una coppia sposata, convivente o anche single, con o senza figli e senza limiti d’età. I requisiti vanno oltre l’aspetto economico: si richiede però agli affidatari di avere spazio nella vita ed in casa per accogliere un bambino; di essere capaci di prendersene cura e di supportarli nel cammino della vita, senza pretendere di cambiare il minore né annullare la sua famiglia d’origine. Aiutandolo a sviluppare le sue potenzialità; gli affidatari devono quindi sempre tenere in conto l’importanza della famiglia d’origine e favorire quando indicato i suoi rapporti con il minore. La famiglia affidataria normalmente ha diritto a un contributo mensile e a coperture assicurative. L’entità del contributo è molto variabile perché è decisa dal Comune di residenza e non è erogato automaticamente ma dietro specifica richiesta della famiglia affidataria. Insomma, essere un genitore affidatario è prima di tutto una scelta di cuore che punta al solo benessere del bambino che dovrà fare ritorno poi nella sua famiglia d’origine. Oltre la cronaca c’è vita, ma spesso questa si macchia e getta nel panico centinaia di famiglie e decine di bambini che hanno subito lavaggi del cervello e ricordi fasulli o alterati, contro ogni legge naturale e deontologica.
(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)
Il Reddito di Cittadinanza (Rdc) è ormai nel pieno del suo rodaggio, una misura che si traduce in una sfida da cogliere per il servizio sociale tra tradizione e innovazione. Ma è bene fermarsi un attimo e riflettere sul tema che intercorre tra servizio sociale e politiche sociali. Professionalmente mi occupo di misure di contrasto alla povertà per un ambito territoriale del servizio sociale che racchiude i comuni a nord della provincia di Salerno, in Campania. Regione che da sempre registra il più alto numero di richieste nelle misure di contrasto alla povertà: primato per Sia (Sostegno per l’Inclusione Attiva) e Rei (Reddito di Inclusione). Quando si parla di Rdc l’assunto di base, fatto salvo il tema delle politiche del lavoro, l’assistente sociale va considerato uno degli operatori più qualificati in tema di contrasto alla povertà, vista la propensione e la competenza nella predisposizione e gestione dei progetti personalizzati a favore di situazioni di disagio. Ma andiamo con ordine nelle riflessioni che mi e vi pongo:
Uno aveva agito in preda ad una “tempesta emotiva”, l’altro perché lei lo aveva “illuso”. Sentenze che pongono al centro il comportamento della vittima ed i sentimenti – sentenza dei “risentimenti” di un uomo che colpisce a morte la propria compagna di vita- pare proprio che abbia un peso nelle aule di tribunale. Una relazione altalenante e burrascosa o un’infanzia anaffettiva possono costituire attenuanti e alleggerire la condanna per un reato tanto agghiacciate e che non può trovare scusanti. Per entrambi gli autori di femminicidi, le pene per aver ucciso le moglie e le compagne hanno avuto una forte riduzione: da 30 a 16 anni di reclusione. Immediata l’indignazione. In un caso, il 57 enne emiliano, aveva confessato di aver strangolato a mani nude la compagna perché non accettava l’idea che lo lasciasse. Condannato a trent’anni in primo grado, la Corte d’Appello di Bologna ha dimezzato la pena a sedici anni, richiamando la perizia secondo cui l’uomo era in preda a una “soverchiante tempesta emotiva e passionale”, testimoniata dal tentativo di suicidio. Dieci giorno dopo la sentenza emiliana, la stessa pena viene inflitta al 52 enne ecuadoriano che nell’aprile del 2018 a Genova uccise accoltellando la moglie dopo aver scoperto che lei non aveva lasciato l’amante, come invece gli aveva promesso. Nel suo caso il rito abbreviato gli ha concesso una condanna a sedici anni. Il giudice nella sentenza ha scritto che l’uomo era stato mosso da un “misto di rabbia e disperazione, profonda delusione e risentimento” e avrebbe agito – sempre stando a quanto scrive il giudice – “sotto una spinta di uno stato d’animo intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile”. Le sentenze vanno rispettate, ma anche le vittime e le famiglie che restano a piangere dovrebbero esserlo: considerare ogni caso singolarmente e concedere riti speciali sono quando ritenuto opportuno potrebbe essere un primo passo. Quando i giudici scrivano che lo stato d’animo dell’ecuadoriano “non è umanamente del tutto comprensibile” sembra proprio che affermino che è umanamente comprensibile, lasciando trasparire tra le righe una sentenza di condanna all’atteggiamento fedifrago e contraddittorio della moglie. Lei gli ha solo promesso qualcosa che non ha mantenuto: fedeltà continua. Non è la prima e non sarà l’ultima donna a tradire il proprio compagno di vita, bisogna solo capire se questo debba essere considerato come un’aggravante o un’attenuante, quando dall’infedeltà si passa all’omicidio. Ma non sarà il primo né l’ultimo uomo al mondo ad aver avuto un’infanzia infelice e ad essere preda a “soverchiante tempesta emotiva e passionale” come nel caso del 57 enne emiliano. Nei cosiddetti delitti passionali e in tutti i femminicidi compiuti da uomini che non accettano di essere lasciati, ci sarà una componente emotiva. Una donna che decide di lavorare, una ragazza che decide di lasciare il proprio fidanzato, ogni donna che sceglierà provocherà una reazione emotiva, che non possono in alcun modo diventare attenuanti, non solo in fase processuale, ma ancor di più nella nostra cultura. La percezione che nasce da queste sentenze è che ci sia un ritorno al “delitto d’onore” che in passato era previsto nei casi di omicidio commesso da un uomo o da una donna nei confronti di un parente per “difendere l’onore suo e della sua famiglia” in caso di tradimento. Le analogie con il caso di Genova riguardano il legame di parentela tra omicida e vittima, e il più mite trattamento sanzionatorio, che nel caso del delitto d’onore prevedeva fino a un massimo di sette anni di carcere. Rievocarlo è suggestivo, ma le similitudini si possono constatare. Intanto, ci si chiede a che punto sia l’iter di approvazione del “codice rosa” che prevede una corsia preferenziale per le donne che denunciano abusi e violenze. Il testo sarebbe “un punto di svolta importante” –ha affermato il titolare della giustizia Alfonso Bonafede. Nel presente però queste sentenze hanno un forte impatto sull’opinione pubblica e stiamo correndo un duplice rischio: che la pena risenta della sensibilità dei giudici e che qualcuno inizi o ricominci a considerare il comportamento di una donna come la causa di una reazione violenta, di un atteggiamento prevaricatore, di un omicidio. E questo non possiamo permetterlo. Un paese democratico, un paese che tutela i diritti, che tutela le donne, che scende in piazza tra scarpe rosse e fiaccolate, non può permetterlo.