Almeno 400 mila bambini sono vittime silenziose e sofferenti di violenza assistita. Testimoni diretti o indiretti dei maltrattamenti in casa nei confronti delle loro mamme, quasi sempre per mano dell’uomo, sono i numeri contenuti nel dossier di “Save the Children”, più di 1,4 milioni le madri vittime di violenza domestica nella loro vita. Testimoni innocenti e silenziosi dinanzi alla violenza ingiustificata ed inaudita che gli uomini scaricano contro le donne. Il femminicidio non significa solo donne uccise. Purtroppo. Per ogni donna uccisa, spesso c’è anche un bambino che non può più chiamarla mamma. Negli ultimi decenni dal 2007 al 2017, l’Istat ha calcolato in 1.600 il numero degli orfani di femminicidio, 417 solo dal 2014. Molti di loro testimoni della violenza subita dalla madre o addirittura spettatori dell’uccisione da parte del compagno. Bambini che devono riuscire a fronteggiare e convivere con quelle profonde cicatrici che scenari del genere lasciano, ma soprattutto al trauma continuo della violenza nei confronti della loro mamma, restando paralizzati ed inermi dinanzi alle botte, alle urla, ai pianti delle loro mamme. Secondo i dati, forniti qualche giorno fa da “Save the Children”, tra le donne che hanno subito una qualche forma di violenza più di una su dieci ha temuto per la propria vita o quella dei propri figli e in quasi la metà dei casi i loro bambini hanno assistito ai maltrattamenti. Il dossier sottolinea l’urgenza di una strategia per contrastare questo tipo di violenza. Infatti, Save the Children, ha fatto partire nei giorni scorsi, un’iniziativa di sensibilizzazione denominata “abbattiamo il muro del silenzio” per accendere i riflettori su quella che possiamo definire una piaga invisibile che ha conseguenze devastanti sulla vita dei minori. Così a Roma, a Palazzo Merulana, è stata esposta un’installazione “immersiva”: “la stanza di Alessandro” per provare in prima persona il dramma che tanti bambini quotidianamente vivono. Lo sguardo di un figlio non è mai indifferente a quello che succede tra i genitori dentro casa. Ma il sistema giuridico italiano lo contempla di striscio, infatti, la violenza in presenza dei minorenni non costituisce reato. Al massimo è un’aggravante, come stabilisce la nuova legge sul femminicidio. Eppure un genitore violento sotto lo sguardo innocente dei propri figli provoca danni alla loro crescita psichica ed emotiva. Crescono covando rabbia, hanno disturbi psicosomatici: dal mal di testa al mal di pancia, ansia, spesso sono aggressivi con i loro coetanei e diffidenti con gli adulti, vivono con la paura addosso. Tutte reazioni ansiose, generate dallo stress post-traumatico. Il rischio che si corre è che da adulti riproducano lo stesso modello familiare, passando così da vittime ad autori di molestie. Ecco perché nel momento in cui si aiuta la madre vittima di gesti violenti, bisogna supportare anche il bambino che ha assistito al vissuto traumatico attraverso un nuovo percorso relazionale. Un impegno non scontato. Spesso, i tribunali per i minori, dispongono il sostegno psicologico ai figli solo se hanno ricevuto in prima persona violenze. Ciò significa che ancora non sono riconosciuti i danni gravi subiti come spettatori di aggressioni fisiche o anche di molestie psicologiche. Il quadro, dunque, peggiora. I servizi sociali, hanno il compito di garantire un legame genitoriale con il minore, ma quando il bambino è terrorizzato dal padre, si rischia solo una forzatura contro il suo volere. E’ importante, dunque, che il silenzio innocente dei bambini, diventi voce che guidi a percorsi ludo pedagogici attraverso attività ricreative, come la produzione di oggetti, scrittura di una storia mettendola in scena, cineforum, accudimento di un animale e la coltivazione di un orto insieme alle madri. Lo scopo è spezzare le catene del passato, guardando la futuro, istaurando un nuovo legame tra madre e figlio. Madri che impareranno a prendersi cura dei figli, prima erano impegnate a sopravvivere, garantendo loro le cure primarie, trascurando tutto il resto. Mentre, i bambini impareranno ad esprimere il loro mondo interiore, con le parole riporteranno i sentimento e chiederanno aiuto non più con la forza ma con la gentilezza ed il rispetto verso gli adulti. Un percorso che necessita anche del supporto e del sostegno psicoterapico, che tra l’altro necessita anche dell’autorizzazione del padre e spesso non si ottiene, nonostante si intraprenda un percorso di mediazione con lui. Progetti ludico pedagogici, sono stati attuati già in Italia e con ottimi risultati, ma si scontrano con la carenza di fondi e di strutture idonee, perché in Italia non c’è solo un vuoto normativo, ma una totale assenza di ascolto al fenomeno. Che questi nuovi dati che sottolineano un quadro di emergenza siano la molla per potenziare politiche sociali che guardino al fenomeno e ascoltino l’innocenza dei più piccoli? La speranza, quella c’è!
(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)
Spietati. Sfacciati. Arroganti. Parlano di soldi, di prostituzione, di armi e si impongono sulle piazze di spaccio e della criminalità organizzata. Sono i baby boss, la paranza dei bimbi, che hanno preso in ostaggio il cuore storico della città di Napoli, ma è un fenomeno che ormai coinvolge molte città d’Italia. Sono poco più che adolescenti, ventenni e controllano i quartieri della città. Vivono senza freni, pronti a tutto. Vivono di Gomorra e Scarface. Di droga e serate in discoteca fino all’alba. Guadagnano e spendono. In foto e sui social si mostrano armati e spavaldi, con una notevole fede, si tatuano santi e calciatori. Per loro, il potere si esaurisce in questi gesti ostentati. Si contrappongo alla vecchia guardia che creava imperi da proteggere da polizia e magistratura. Le nuove generazioni della criminalità non si fanno scrupoli a farsi notare. Si susseguono indagini ed inchieste che hanno l’obiettivo di puntare ad azzerare i fermenti criminali. Effervescenza che ha portato a parecchi omicidi e numerose “stese”: colpi di pistola in aria e minacciosi cortei di moto per le strade dei quartieri. Spesso impongono il loro “potere” ai commercianti della zona, arrivando a controllare i traffici di stupefacenti attraverso il sistematico rifornimento delle numerose piazze di spaccio presenti nei quartieri. Veri e propri clan di ragazzini o poco più che si occupano di agguati, violenze, le progettano, le eseguono, sino a gestire le attività di acquisto, preparazione, confezionamento e distribuzione di stupefacenti del nuovo cartello di camorra. Nei clan ognuno ha un ruolo definito, c’è il promotore e l’organizzatore dei ruoli di comando, ci sono i partecipanti, comuni affiliati, con compiti di appoggio logistico, poi i ragazzi che preparano e smistano la droga. Il guadagno è a cifre di tre zero, un vero e proprio business che li allontana sempre di più dal lavoro onesto, da una società fatta di istituzioni, diritti, doveri ed obblighi. Il guadagno facile, la sete di potere, l’essere osannati e temuti, li spinge a rifiutare una società fatta di controlli e regole, di istituzioni da rispettare, che per loro diventano solo da sfidare. Tra loro si creano patti e giuramenti. Una sorta di rito ufficiale li introduce all’interno del clan. Tra chi ha giurato fedeltà eterna ci sono le donne dei baby boss. Diventando le ragazze della paranza ed assistono l’organizzazione. C’è chi spedisce i messaggi, chi maneggia droga, chi si occupa del rifornimento delle piazze. In ogni caso condividono in pieno le scelte criminali dei compagni. Li assecondano. C’è chi cala il “paniere” dal balcone di casa per consegnare le dosi richieste, l’uomo raccomanda solo. Quando ci sono indagini che li investono si affidano all’omertà e all’indifferenza. Gravità e continuità di questi fenomeni connota una gravità sociale e culturale. Si tratta di ragazzi che crescono nel vuoto. Un vuoto sociale, culturale e morale. Al posto della cultura del valore c’è la cultura della strada, c’è la legge del branco. Una battaglia da combattere come tutte le altre. A Napoli, il cardinale Sepe, ha chiamato a raccolta un tavolo permanente, cercando di individuare percorsi e proposte. A rispondere per primo è stato il prefetto, che si è già attivato, ma al tavolo dovranno sedersi magistrati, il mondo della cultura, dell’università, forze dell’ordine, Regione, Comune e associazioni di genitori. L’origine è proprio nella famiglia, nel vuoto di valori, nella mancanza di senso del bene comune. Dall’ambiente giuridico viene proposta l’idea di una legge che sottragga la responsabilità genitoriale ai camorristi, seppur si tratterebbe di una soluzione estrema. Il fenomeno spesso si amplifica perché è accompagnato dalla povertà, che fa nascere l’incuria e l’abbandono a se stessi dei figli, l’evasione e la dispersione scolastica. Ma, oggi, si coniuga una povertà materiale con una povertà morale. Oltre però alle preoccupazioni e alle proposte, c’è un lavoro che è su strada, fatto di cooperative e associazioni che lavoro in campo educativo, volto ad allontanare dal potere e dalla violenza le giovani leve, per inserirli in una società che è fatta di attività, di gestione dell’immenso patrimonio artistico, o prendendosi cura dei territori agricoli oggi abbandonati, coltivandoli. E’ un popolo sociale che batte ed esiste, fatto di volontari, maestri e preti di strada che vanno a cercare i giovanissimi in difficoltà. Una vita che inizia nel solco del crimine e della violenza, ma se viene agganciata da chi ogni giorno mostra il buono che è in loro, il finale da scrivere può essere tutt’altro e gli esempi ci sono: vite salvate dalla camorra. Il carcere che si coniuga con il reinserimento sociale. La privazione della libertà come punizione per i loro reati, ma anche recupero, grazie all’attività di educatori, assistenti sociali e psicologi, che operano per creare un ponte tra il giovane ed il mondo esterno, che sia lontano dal crimine, dal senso di onnipotenza. Si lavora in primis sul minore, sulle condizioni di vulnerabilità, sulle motivazioni che lo hanno spinto a compiere il reato, per poi provare ad inserirlo nel circuito sociale attraverso il lavoro, attraverso l’aggregazione giovanile, perché solo con l’impegno, facendo leva sulle loro attitudini, sulla loro curiosità è possibile ottenere il meglio della personalità di un giovane. In molti casi, si può arrivare persino a sperimentare la mediazione penale, mettendo di fronte l’agente al soggetto che ha subito il reato, per una maggiore consapevolezza del reato commesso, ma anche per vederlo nell’ottica di un punto di ripartenza di una vita fatta di opportunità ed occasioni che la società onestamente ogni giorno mostra anche nei quartieri dove il destino dei più giovani sembra scritto già alla nascita. Insomma, come si direbbe in alcune zone del sud “da una rosa nasce una spina, da una spina nasce una rosa”.
Ponti tra la Chiesa e la strada” è la metafora di un’affermazione di Giovanni Paolo II, utilizzata per definire gli oratori, generatori di speranza e di sociale, luogo della socializzazione, del gioco e dello svago, negli anni di generazioni ne sono passate per gli oratori. Giovani di un tempo che intorno ai 13-14 anni trascorrevano i pomeriggi in oratorio ad ascoltare il curato che faceva lezioni di buona politica, insegnava ad osservare il quartiere e a farsi carico dei problemi degli altri, educando alla partecipazione. E’ quella che don Bosco definiva come la formazione “dell’onesto cittadino e del buon cristiano”. Oratori generatori di valori socio-educativi che insieme alle altre agenzie educative del territorio contribuisce a creare la rete educativa a favore delle giovani generazioni lì presenti. Un ruolo accantonato e dimenticato per troppo tempo, quello degli oratori, che in rete con le agenzie educative diventa risorsa per tanti giovani, ma è in atto una rinascita in un’ottica di contrasto alla povertà educativa degli oratori italiani: sono poco più di 8.000 gli oratori censiti in Italia, in una tradizione che si tramanda in Italia da oltre 450 anni, dai tempi di San Filippo Neri nella Roma del ‘500.. In questi secoli l’oratorio ha saputo adattarsi alle esigenze dei tempi restando sempre nell’alveo dell’educazione oltre che della formazione cristiana dei giovani. Come tutte le realtà, anche quella degli oratori risente fortemente dei cambiamenti che sta vivendo la società italiana. Due i caratteri di novità: la presenza di molti ragazzi, figli di famiglie immigrate, che provengono da altre culture, da altre confessioni cristiane e da altre religioni, che sono accolti all’interno di una stessa precisa identità: i giovani che crescono all’interno dell’oratorio, trovano un luogo che educa ad abitare. Un altro aspetto è legato all’attuale crisi. L’oratorio in sé non è legato all’attività economica, per cui non risente direttamente della crisi, ma la domanda da parte della famiglia è fortissima. L’economia fiorente ha spinto negli anni le famiglie ad uscire dai confini dell’oratorio per le attività di sport, musica, potendo garantire ai loro figli proposte più ampie, ma ciò che mancava era un’educazione integrale. Oggi, invece, i genitori si sono accorti che i loro figli sanno fare tante cose, ma fanno fatica a vivere. Da qui lo sguardo verso l’oratorio, dove ci sono attività nuove, ristrutturate, ma c’è soprattutto l’attenzione alla persona, alla sua creatività, alla sua libera espressività. Cresce, dunque, nelle famiglie l’esigenza di uno spazio a misura di una crescita integrale dei ragazzi. E così a nuova vita nasce l’oratorio che si propone a contrasto alla povertà educativa, una delle attività offerte è quella del doposcuola, secondo i dati la media nazionale è dell’ 83%, più al nord e meno al Sud col 74%. Un servizio che si fonda molto sui volontari. Giovani che aiutano altri giovani. Un doposcuola che si modella alle esigenze: dalla semplice spiegazione dei compiti alla formula dell’integrazione che si unisce alla socializzazione, alle attività sportive e al disegno, cercando di far esprimere tutte le arti espressive: teatro, danza, canto, musica. In alcuni oratori si organizzano corsi di cucina e tra farina che vola e biscotti da fare nella semplicità nascono legami d’affetto e d’amicizia, conoscendo la normalità e la semplicità dei gesti e dello stare insieme. Ma, l’oratorio offre anche per gli adolescenti e i giovani l’occasione di mettersi al servizio in attività di animazione ludica e formativa per i più piccoli, i cui momenti di maggiore attrazione è l’estate con gli immancabile campeggi. Vanno anche considerate le gite in cui si fonde l’aspetto ricreativo, culturale ed ecologico-ambientale, un insieme di elementi che aiutano il giovane a crescere in una dimensione culturale che non aveva mai conosciuto né considerato. Inoltre, l’oratorio organizza fiere o piccole vendite, che coinvolge i più giovani verso le attività caritatevoli e di volontariato, facendogli conoscere il valore dell’aiuto all’altro. L’oratorio è stanze, biliardino, cortili e campi da gioco, dove correre e sorridere agli altri, ma non è solo struttura è anche e soprattutto persone, generazioni diverse che si incontrano, ragazzini ed animatori poco più grandi loro, gli educatori, i genitori che vanno coinvolti nelle attività e nel dialogo educativo, perché l’oratorio non è un luogo ad ore per i genitori che lasciano i figli con la certezza che siano al sicuro, ma l’oratorio è il luogo educativo aperto alla collaborazione e al confronto con tutti. “La più grande palestra di umanità e di relazioni umane che si possa immaginare”, la definisce Don Michele Falabretti, responsabile nazionale pastorale giovanile della Chiesa Italiana. Relazioni umane vere, sincere, che uniscono e non dividono, che si fondono nell’ascolto e nell’empatia dell’altro, incontrando il dialogo e la diversità culturale, fisica, morale, educativa, che si realizza in ricchezza per i più giovani. E poi l’adulto che come tale deve insegnare ed il minore che deve crescere assumendosi le responsabilità delle sue azioni consapevole che è l’erede del futuro e di una comunità educante che sarà tramanda di generazione in generazione. Che l’oratorio possa diventare generatore di speranza e di futuro per i più giovani?