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Minori, testimoni silenziosi della violenza domestica. Vittime di “stress post- traumatico”

untitledAlmeno 400 mila bambini sono vittime silenziose e sofferenti di violenza assistita. Testimoni diretti o indiretti dei maltrattamenti in casa nei confronti delle loro mamme, quasi sempre per mano dell’uomo, sono i numeri contenuti nel dossier di “Save the Children”, più di 1,4 milioni le madri vittime di violenza domestica nella loro vita. Testimoni innocenti e silenziosi dinanzi alla violenza ingiustificata ed inaudita che gli uomini scaricano contro le donne. Il femminicidio non significa solo donne uccise. Purtroppo. Per ogni donna uccisa, spesso c’è anche un bambino che non può più chiamarla mamma. Negli ultimi decenni dal 2007 al 2017, l’Istat ha calcolato in 1.600 il numero degli orfani di femminicidio, 417 solo dal 2014. Molti di loro testimoni della violenza subita dalla madre o addirittura spettatori dell’uccisione da parte del compagno. Bambini che devono riuscire a fronteggiare e convivere con quelle profonde cicatrici che scenari del genere lasciano, ma soprattutto al trauma continuo della violenza nei confronti della loro mamma, restando paralizzati ed inermi dinanzi alle botte, alle urla, ai pianti delle loro mamme. Secondo i dati, forniti qualche giorno fa da “Save the Children”, tra le donne che hanno subito una qualche forma di violenza più di una su dieci ha temuto per la propria vita o quella dei propri figli e in quasi la metà dei casi i loro bambini hanno assistito ai maltrattamenti. Il dossier sottolinea l’urgenza di una strategia per contrastare questo tipo di violenza. Infatti, Save the Children, ha fatto partire nei giorni scorsi, un’iniziativa di sensibilizzazione denominata “abbattiamo il muro del silenzio” per accendere i riflettori su quella che possiamo definire una piaga invisibile che ha conseguenze devastanti sulla vita dei minori. Così a Roma, a Palazzo Merulana, è stata esposta un’installazione “immersiva”: “la stanza di Alessandro” per provare in prima persona il dramma che tanti bambini quotidianamente vivono. Lo sguardo di un figlio non è mai indifferente a quello che succede tra i genitori dentro casa. Ma il sistema giuridico italiano lo contempla di striscio, infatti, la violenza in presenza dei minorenni non costituisce reato. Al massimo è un’aggravante, come stabilisce la nuova legge sul femminicidio. Eppure un genitore violento sotto lo sguardo innocente dei propri figli provoca danni alla loro crescita psichica ed emotiva. Crescono covando rabbia, hanno disturbi psicosomatici: dal mal di testa al mal di pancia, ansia, spesso sono aggressivi con i loro coetanei e diffidenti con gli adulti, vivono con la paura addosso. Tutte reazioni ansiose, generate dallo stress post-traumatico. Il rischio che si corre è che da adulti riproducano lo stesso modello familiare, passando così da vittime ad autori di molestie. Ecco perché nel momento in cui si aiuta la madre vittima di gesti violenti, bisogna supportare anche il bambino che ha assistito al vissuto traumatico attraverso un nuovo percorso relazionale. Un impegno non scontato. Spesso, i tribunali per i minori, dispongono il sostegno psicologico ai figli solo se hanno ricevuto in prima persona violenze. Ciò significa che ancora non sono riconosciuti i danni gravi subiti come spettatori di aggressioni fisiche o anche di molestie psicologiche. Il quadro, dunque, peggiora. I servizi sociali, hanno il compito di garantire un legame genitoriale con il minore, ma quando il bambino è terrorizzato dal padre, si rischia solo una forzatura contro il suo volere. E’ importante, dunque, che il silenzio innocente dei bambini, diventi voce che guidi a percorsi ludo pedagogici attraverso attività ricreative, come la produzione di oggetti, scrittura di una storia mettendola in scena, cineforum, accudimento di un animale e la coltivazione di un orto insieme alle madri. Lo scopo è spezzare le catene del passato, guardando la futuro, istaurando un nuovo legame tra madre e figlio. Madri che impareranno a prendersi cura dei figli, prima erano impegnate a sopravvivere, garantendo loro le cure primarie, trascurando tutto il resto. Mentre, i bambini impareranno ad esprimere il loro mondo interiore, con le parole riporteranno i sentimento e chiederanno aiuto non più con la forza ma con la gentilezza ed il rispetto verso gli adulti. Un percorso che necessita anche del supporto e del sostegno psicoterapico, che tra l’altro necessita anche dell’autorizzazione del padre e spesso non si ottiene, nonostante si intraprenda un percorso di mediazione con lui. Progetti ludico pedagogici, sono stati attuati già in Italia e con ottimi risultati, ma si scontrano con la carenza di fondi e di strutture idonee, perché in Italia non c’è solo un vuoto normativo, ma una totale assenza di ascolto al fenomeno. Che questi nuovi dati che sottolineano un quadro di emergenza siano la molla per potenziare politiche sociali che guardino al fenomeno e ascoltino l’innocenza dei più piccoli? La speranza, quella c’è!

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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“La paranza dei bimbi”, baby boss alla conquista delle piazze criminali. Come aiutarli?

untitled 2Spietati. Sfacciati. Arroganti. Parlano di soldi, di prostituzione, di armi e si impongono sulle piazze di spaccio e della criminalità organizzata. Sono i baby boss, la paranza dei bimbi, che hanno preso in ostaggio il cuore storico della città di Napoli, ma è un fenomeno che ormai coinvolge molte città d’Italia. Sono poco più che adolescenti, ventenni e controllano i quartieri della città. Vivono senza freni, pronti a tutto. Vivono di Gomorra e Scarface. Di droga e serate in discoteca fino all’alba. Guadagnano e spendono. In foto e sui social si mostrano armati e spavaldi, con una notevole fede, si tatuano santi e calciatori. Per loro, il potere si esaurisce in questi gesti ostentati. Si contrappongo alla vecchia guardia che creava imperi da proteggere da polizia e magistratura. Le nuove generazioni della criminalità non si fanno scrupoli a farsi notare. Si susseguono indagini ed inchieste che hanno l’obiettivo di puntare ad azzerare i fermenti criminali. Effervescenza che ha portato a parecchi omicidi e numerose “stese”: colpi di pistola in aria e minacciosi cortei di moto per le strade dei quartieri. Spesso impongono il loro “potere” ai commercianti della zona, arrivando a controllare i traffici di stupefacenti attraverso il sistematico rifornimento delle numerose piazze di spaccio presenti nei quartieri. Veri e propri clan di ragazzini o poco più che si occupano di agguati, violenze, le progettano, le eseguono, sino a gestire le attività di acquisto, preparazione, confezionamento e distribuzione di stupefacenti del nuovo cartello di camorra. Nei clan ognuno ha un ruolo definito, c’è il promotore e l’organizzatore dei ruoli di comando, ci sono i partecipanti, comuni affiliati, con compiti di appoggio logistico, poi i ragazzi che preparano e smistano la droga. Il guadagno è a cifre di tre zero, un vero e proprio business che li allontana sempre di più dal lavoro onesto, da una società fatta di istituzioni, diritti, doveri ed obblighi. Il guadagno facile, la sete di potere, l’essere osannati e temuti, li spinge a rifiutare una società fatta di controlli e regole, di istituzioni da rispettare, che per loro diventano solo da sfidare. Tra loro si creano patti e giuramenti. Una sorta di rito ufficiale li introduce all’interno del clan. Tra chi ha giurato fedeltà eterna ci sono le donne dei baby boss. Diventando le ragazze della paranza ed assistono l’organizzazione. C’è chi spedisce i messaggi, chi maneggia droga, chi si occupa del rifornimento delle piazze. In ogni caso condividono in pieno le scelte criminali dei compagni. Li assecondano. C’è chi cala il “paniere” dal balcone di casa per consegnare le dosi richieste, l’uomo raccomanda solo. Quando ci sono indagini che li investono si affidano all’omertà e all’indifferenza. Gravità e continuità di questi fenomeni connota una gravità sociale e culturale. Si tratta di ragazzi che crescono nel vuoto. Un vuoto sociale, culturale e morale. Al posto della cultura del valore c’è la cultura della strada, c’è la legge del branco. Una battaglia da combattere come tutte le altre. A Napoli, il cardinale Sepe, ha chiamato a raccolta un tavolo permanente, cercando di individuare percorsi e proposte. A rispondere per primo è stato il prefetto, che si è già attivato, ma al tavolo dovranno sedersi magistrati, il mondo della cultura, dell’università, forze dell’ordine, Regione, Comune e associazioni di genitori. L’origine è proprio nella famiglia, nel vuoto di valori, nella mancanza di senso del bene comune. Dall’ambiente giuridico viene proposta l’idea di una legge che sottragga la responsabilità genitoriale ai camorristi, seppur si tratterebbe di una soluzione estrema. Il fenomeno spesso si amplifica perché è accompagnato dalla povertà, che fa nascere l’incuria e l’abbandono a se stessi dei figli, l’evasione e la dispersione scolastica. Ma, oggi, si coniuga una povertà materiale con una povertà morale. Oltre però alle preoccupazioni e alle proposte, c’è un lavoro che è su strada, fatto di cooperative e associazioni che lavoro in campo educativo, volto ad allontanare dal potere e dalla violenza le giovani leve, per inserirli in una società che è fatta di attività, di gestione dell’immenso patrimonio artistico, o prendendosi cura dei territori agricoli oggi abbandonati, coltivandoli. E’ un popolo sociale che batte ed esiste, fatto di volontari, maestri e preti di strada che vanno a cercare i giovanissimi in difficoltà. Una vita che inizia nel solco del crimine e della violenza, ma se viene agganciata da chi ogni giorno mostra il buono che è in loro, il finale da scrivere può essere tutt’altro e gli esempi ci sono: vite salvate dalla camorra. Il carcere che si coniuga con il reinserimento sociale. La privazione della libertà come punizione per i loro reati, ma anche recupero, grazie all’attività di educatori, assistenti sociali e psicologi, che operano per creare un ponte tra il giovane ed il mondo esterno, che sia lontano dal crimine, dal senso di onnipotenza. Si lavora in primis sul minore, sulle condizioni di vulnerabilità, sulle motivazioni che lo hanno spinto a compiere il reato, per poi provare ad inserirlo nel circuito sociale attraverso il lavoro, attraverso l’aggregazione giovanile, perché solo con l’impegno, facendo leva sulle loro attitudini, sulla loro curiosità è possibile ottenere il meglio della personalità di un giovane. In molti casi, si può arrivare persino a sperimentare la mediazione penale, mettendo di fronte l’agente al soggetto che ha subito il reato, per una maggiore consapevolezza del reato commesso, ma anche per vederlo nell’ottica di un punto di ripartenza di una vita fatta di opportunità ed occasioni che la società onestamente ogni giorno mostra anche nei quartieri dove il destino dei più giovani sembra scritto già alla nascita. Insomma, come si direbbe in alcune zone del sud “da una rosa nasce una spina, da una spina nasce una rosa”.

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La maturità che spaventa. Il sogno ricorrente: rifare l’esame di maturità

untitledCuriosi ma non troppo. Ansiosi ed impauriti. Maturandi alla riscossa e Giugno è proprio il loro mese. Infatti, l’estate si apre per molti studenti con il periodo dell’anno nel quale esplode il grande argomento degli esami di maturità, portando con sé angosce, paure, rimpianti e perfino un po’ di nostalgia. Quello che è certo è che, a distanza di anni, nonostante la carriera, la professione intrapresa, la laurea sudata e raggiunta, il ricordo dell’esame di maturità è dietro l’angolo. La maggior parte delle persone si ritroverà a dover affrontare lo stesso esame di maturità all’interno dei propri sogni. Perché, parafrasando Eduardo De Filippo, nella sua celebre commedia “Gli esami non finiscono mai” e quello della maturità non si dimentica certo facilmente. Spulciando Freud potremmo collocarlo nei “sogni tipici” ovvero nei sogni che contengono fantasie collettive, sogni che almeno una volta nella vita l’essere umano farà. Il sogno dell’esame di maturità in molti è ricorrente e si presenta sotto lo stesso “copione”: nella maggior parte dei casi scopriamo per un qualche motivo di dover ripetere l’esame di Stato, o ci troviamo già nel percorso che ci porta a scuola, domandandoci perché dovremmo mai rifarlo, spesso, invece, si sogna di dover organizzare lo studio per l’esame di maturità tra il lavoro o addirittura tra gli esami universitari, altri, invece, sognano di ritrovarsi dinanzi al compito di italiano o di latino e di farsi prendere dalla “sindrome del foglio bianco”. Difficilmente nel mondo dei sogni, superiamo l’ostacolo dell’esame facilmente e molti si risvegliano in preda all’angoscia di fronte ad una prova impossibile. E così il giorno dopo ci interroghiamo sul perché continuiamo a sognarlo o che significato possa avere. I sogni tipici, come teorizzava Freud, fanno emergere, fantasie universali, legate a tematiche che in ogni cultura e in ogni tempo l’umanità ha affrontato o deve affrontare. Dobbiamo però dire che il sogno di per sé si ricollega al passato, a qualcosa di vissuto già, che rispecchia il presente, qualcosa che in qualche modo stiamo vivendo o ci ricorda l’oggi. Quindi, per la psicologia, l’esame di maturità potrebbe corrispondere ad vissuto di inadeguatezza verso qualcosa legata alla nostra vita attuale: una nuova relazione, un nuovo lavoro, impegni scolastici o sentirsi immaturi in una determinata situazione. Ma, il sogno potrebbe svelare un messaggio più profondo, legato alla nostra crescita personale: abbiamo bisogno di coraggio, di uno slancio che ci permetta di andare oltre qualcosa che oggi ci frena, nascondendo un desiderio evolutivo, di cambiamento. Sognare per quanto possa spaventare o intimorire, fa bene in quanto fa riemergere paure e incertezze intime, sognare fa rievocare, e non sempre hanno bisogno di essere necessariamente interpretati, non va ricercato costantemente un significato, perché la vita va vissuta, seppur con molti impedimenti e prove difficili da superare, e forse per molti, la maturità è stata la prima vera prova di maturità, quel passo- slancio che ci ha concessi di entrare all’interno della società, di fare scelte di studio e lavorative personali, scelte che hanno disegnato il futuro e l’aspetto professionale di ognuno di noi, pur con errori e perplessità. Guardandolo con occhi diversi, il sogno della maturità, nasconde anche, un desiderio nostalgico, di spensieratezza e di gioventù, di sana incoscienza, di leggerezza, che -siamo sinceri – da adulti non c’è più. L’esame di maturità è il “rito di passaggio”, che  con le sue paure porta anche tanti rimpianti. Seppur l’adolescenza da sempre viene raccontata come una fase di crescita delicata e critica, è proprio in quegli anni che si vivono esperienze importanti: il primo amore, le prime prove scolastiche, le emozioni delle competizioni sportive, le prime amicizie profonde, le prime vere scelte sul proprio futuro: dal corso di studio a scuola, al lavoro dei sogni che si rincorre. Sono ricordi che appartengono alla vita di ognuno di noi che hanno novità e forza, e qualche volta la nostalgia la sente anche il nostro inconscio. Pur consapevoli che la “Notte prima degli esami” arriva per tutti, anzi, forse come racconta nella sua commedia De Filippi, gli esami non finiscono mai e di notti prima degli esami ne vivremmo molte, con la consapevolezza di Luca, uno dei protagonisti del film “Notte prima degli esami”: “E così è arrivata la notte prima degli esami. Non era come me l’aspettavo. Non c’erano più i miei amici non c’era più neanche Azzurra. Eravamo rimasti solo in due: io e la sfiga”.

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Da Instagram alla legge contro il cyberbullismo è lotta alla cattiveria 2.0

untitled 2Era il giugno dello scorso anno e la Camera approvava la legge che dà disposizioni sulla tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto al fenomeno del cyber bullismo, una legge che tutela i minori coinvolti in violenze per via telematica. Obiettivo della legge è quello di contrastare il fenomeno in tutte le sue manifestazioni, con azioni preventive e a tutela puntando all’educazione dei minori coinvolti. Questo sia per quello che riguarda le vittime sia i responsabili, assicurando inoltre l’attuazione degli interventi necessari. Il cyber bullismo è un fenomeno in crescita e senza freni, almeno una vittima ogni trenta bambini. Sono gli stessi genitori italiani a denunciarlo, tanti altri, rimangono in silenzio, soffocati dalla paura, dal timore delle conseguenze. Molti genitori non sanno riconoscere i segni di questo problema, inoltre, tanti bambini decidono di tacere gli episodi subiti, spesso per paura di perdere l’accesso ad internet oppure di azioni da parte degli adulti che potrebbero metterli in imbarazzo o in difficoltà con i loro coetanei. Gli strumenti di bit sono sempre più pervasivi, le minacce che si trascinano dietro, in evidente espansione. Ma i modi per stendere a tappeto i cyber bulli non tardano ad arrivare, cominciando proprio da Instagram il popolare social di fotografie, che nel nuovo aggiornamento aggiunge il filtro anti-haters. Il noto social network ha rilasciato un nuovo aggiornamento per combattere gli haters con un filtro che blocchi i commenti offensivi. Il filtro si muove per identificare commenti che contengano attacchi all’aspetto fisico o al carattere di una persona, nonché minacce alla sua sicurezza. Il filtro che tende di arginare il bullismo è stato rilasciato a livello globale e attivato in automatico. Convinzione e certezza della scelta fatta è arrivata proprio dal team di lavoro del popolare social che nella direzione di proteggere i membri più giovani della community scrive che: “è fondamentale per aiutarli a sentirsi a proprio agio per esprimere chi sono e cosa gli interessa”, volto ad un uso virtuoso del social network. Dai social che mirano ad arginare il fenomeno si arriva alla legge che tutela i minori coinvolti in violenza telematica. La legge ha introdotto delle novità, cominciando proprio dal significato di cyber bullismo, infatti, nel testo di legge è riportato che si intende: “qualunque forma di pressione, aggressione, molestia, ricatto, ingiuria, denigrazione, diffamazione, furto d’identità, alterazione, manipolazione, realizzata per via telematica, nonché la diffusione di contenuti on line aventi ad oggetto anche uno o più componenti della famiglia del minore o un gruppo di minori ponendo in atto un serio abuso, un attacco dannoso o la loro messa in ridicolo”. Un minore vittima di cyber bullismo o i responsabili del minore hanno il diritto di inoltrare, ai titolari dei siti web o dei social network interessati, un’istanza per la rimozione o il blocco di qualsiasi dato personale del minore. Se non si dovesse provvedere a tale rimozione entro le quarantotto ore, si avrà il diritto di rivolgersi al garante della privacy che interverrà entro le quarantotto ore successive. La legge, inoltre, estende per il cyber bullismo la procedura di ammonimento da parte del questore, già prevista in materia di stalking. In caso vi dovessero essere delle ingiurie, diffamazioni, minacce o trattamenti illeciti di dati personali commessi mediante internet da minori ultraquattordicenni nei confronti di altro minorenne, fino a quando non è proposta querela o non è presentata denuncia, è applicabile la procedura di ammonimento da parte del questore. Infine, si dispone che in ogni istituto scolastico sarà individuato tra il corpo docente un referente per le iniziative contro il bullismo e il cyber bullismo. Al preside spetta informare subito le famiglie dei minori coinvolti in atti di bullismo e stabilire eventuali azioni di carattere educativo e percorsi di recupero. In particolare, il Miur ha per effetto della legge, il compito di predisporre linee di orientamento di prevenzione e contrasto puntando anche sulla formazione del personale scolastico. Alle iniziative in ambito scolastico collaboreranno anche la polizia postale e le associazioni del territorio. Accanto ad un lavoro istituzionale e di prevenzione, occorre però la collaborazione dei genitori, che seppur spaventati dal fenomeno, sono pochi ancora i genitori che non filtrano in alcun modo l’accesso al web e nemmeno le applicazioni per lo smartphone. I genitori svolgono un ruolo fondamentale nell’educazione dei loro figli indicando i limiti da rispettare per un comportamento accettabile e sicuro. Un dialogo aperto sulle esperienze del web è il primo passo per proteggere i propri figli dal sistema online. Internet è una risorsa importante e preziosa per la crescita dei ragazzi, che tra l’altro non conoscono alcun mondo al di fuori del web. Ma, hanno bisogno di regole e queste devono fornigliele i genitori, stabilendo in famiglie delle regole. Se i pericoli sono all’esterno e nell’ovunque digitale, gli anticorpi si sviluppano sempre e da sempre tra le mura di casa.

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Marco Pittoni, un eroe contemporaneo silenzioso testimone di legalità

untitledGli eroi sono quegli uomini che ogni giorno in silenzio, con orgoglio e passione per la missione di vita che hanno scelto, scrivono pagine esemplari. Marco Pittoni, era uno di questi, che nel silenzio del proprio lavoro, dimostrò esempio, coraggio, rispetto e valore della divisa che aveva sempre con fierezza indossato, quando per sventare una rapina in un gremito ufficio postale del centro di Pagani, dove prestava servizio in qualità di tenente dei carabinieri, venne ucciso per mano criminale. Accadeva dieci anni fa. Era il 6 giugno 2008: il piombo e il sangue seminano il terrore nella città di Pagani, sotto gli occhi di adulti e bambini del centralissimo ufficio postale della cittadina salernitana, cade per effetto di due pallottole sparate a bruciapelo, il tenente Pittoni. L’omicidio segnò la città, la scosse, come un terremoto immane, segnando le coscienze e dimostrando l’urgenza di una risposta intransigente contro la criminalità organizzata, da parte delle istituzioni e della società civile. Pagani, una città listata a lutto, avvolta da un silenzio profondo, che scuoteva le coscienze, interrogava, scalfiva un ricordo doloroso, esempio e testimone di legalità, così furono segnati i giorni successivi all’assassinio di un uomo che non aveva “opposto l’arma, ma la dolcezza del suo sguardo libero”, come disse un monsignore durante la celebrazione dei funerali di Stato. Una lunga scia di sangue innocente che condusse gli inquirenti dopo notti insonni e giorni di ricerche, perquisizioni, in cui ogni pista veniva battuta, agli assassini dell’ufficiale che, a mani nude affrontò i banditi, ciò li costrinse a lasciare ovunque impronte e a commettere errori fatali. Una corsa contro il tempo, uno spiegamento eccezionale di forze e di impegno, hanno consentito ai carabinieri di mettere le mani sul commando. Poi, una dietro l´altra, sono arrivate le prove che incastravano gli indagati. Giovane, 33 enne, originario della Sardegna, era un brillante carabiniere, aveva un intuito investigativo, una visione ampia ed una determinazione assoluta. Quel giorno era all’interno dell’ufficio postale per mettere a punto un piano di sicurezza nei punti più strategici della città. Pittoni non esitò a bloccare i malviventi senza usare le armi, per proteggere i clienti e gli operatori presenti, i malviventi, spararono dei colpi d’arma da fuoco, uno dei quali lo raggiunse senza lasciargli scampo. Un sorriso che sapeva di lealtà, di bontà, di gentilezza, improntato all’altruismo ed ai più piccoli: “il tenente buono”, quando regalò in seguito ad un sopralluogo di lavoro, una bicicletta al bambino che tanto la desiderava. Marco Pittoni, aveva un limpido e profondo amore per la patria e il suo senso dello Stato, sentimenti imparati nel contesto familiare sin dall’infanzia e poi coltivati negli anni con i fatti, attraverso il lavoro, il rispetto dell’autorità, il rispetto per la divisa che indossava. Era un uomo dotato del senso del dovere e coraggio, conoscenza e integrità. Il nome, l’esempio di Marco Pittoni rimane forte, immagine migliore del nostro tempo, tesoro di valori per la formazione civica dei giovani e di ogni cittadino, motivo di orgoglio per un paese che ha sempre cercato il fresco profumo della legalità che si contrappone al puzzo del compromesso. Quello che resta è la voglia di ricordare un eroe e un martire per vocazione, di diffondere il principio di legalità, tenere a qualsiasi costo la schiena dritta di fronte al potere e alle sue fatali devianze. A nove anni di distanza il ricordo di Marco Pittoni, l’esempio del suo forte senso del dovere, del suo senso di giustizia restano indelebili e incancellabili, segnando i passi dei più giovani e non solo: il suo lavoro, il presente di tutto. I suoi sogni, il futuro della società civile e dieci anni dopo siamo chiamati a coltivarli ancora, con più vigore e forza, tramandandoli alle nuove generazioni, raccontando di un uomo che fece della sua divisa la sua vita, quella divisa che ha rispettato immensamente ed è per questo che uomini come Marco Pittoni non vanno dimenticati, ma ricordati nelle azioni di ogni giorno, nel lavoro quotidiano che ogni giorno conduciamo, nel rapporto coi più giovani, perché come avrebbe detto un altro grande eroe italiano: “gli uomini passano, le idee restano” e quelle idee vanno coltivate ogni singolo giorno, in ogni angolo di territorio italiano perché il sacrificio di uomini buoni e giusti non può e non deve essere vano.

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Matrimoni gay, gli Stati non possono ostacolare il soggiorno del coniuge. Lo sentenza la Corte Ue

untitled 2Gli Stati non possono ostacolare il soggiorno del coniuge, che rimane tale anche se appartiene ad uno Stato che non riconosce i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Lo ha stabilito con una sentenza la Corte di giustizia dell’Unione Europea che ha di fatto riconosciuto i matrimoni tra persone dello stesso sesso “ai sensi delle regole – si legge- sulla libera circolazione delle persone”. La decisione arriva in seguito ad un ricorso presentato alcuni mesi fa da un cittadino romeno e dal suo consorte americano. I giudici di Lussemburgo hanno deciso che la nozione di “coniuge”, ai sensi delle disposizioni del diritto dell’UE sulla libertà di soggiorno dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari, comprende i coniugi dello stesso sesso. Per cui, gli Stati membri sono liberi di autorizzare o meno il matrimonio omosessuale, ma non possono ostacolare il soggiorno di un coniuge seppur dello stesso sesso, anche se è si tratta di un cittadino di un paese non appartenente all’Unione Europea, ha pienamente diritto al soggiorno sul loro territorio. Tuttavia i giudici di Lussemburgo hanno stabilito che il rifiuto da parte di uno Stato membro di riconoscere ai fini del diritto di soggiorno derivato il matrimonio tra persone dello stesso sesso, legalmente contratto in un altro Stato membro, è atto ad ostacolare l’esercizio del diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio dell’Ue. La libertà di circolazione, infatti, varierebbe da uno Stato membro all’altro in funzione delle disposizioni di diritto nazionale che disciplinano il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Una sentenza che mostra un lato matrimonialista ugualitario per persone dello stesso sesso. Seppur l’Italia sia l’unico paese fondatore dell’Ue a non riconoscere il matrimonio omosessuale, il diritto riconosciuto oggi dalla Corte Europea, da noi è già realtà dal 2012. Fu il tribunale di Reggio Emilia a riconoscere il permesso di soggiorno a un giovane urugayano sposato con un italiano in Spagna, proprio appellandosi alla libera circolazione dei cittadini europei e dei loro familiari. Sentenza a cui fece seguito una circolare del ministero dell’Interno. Ma, la sentenza dei giudici di Lussemburgo sancisce che la nozione di “coniuge” riguarda anche i matrimoni contratti da persone dello stesso sesso, a prescindere, se lo Stato membro autorizzi il matrimonio omosessuale. Una sentenza storica, che abbatte gli ultimi ostacoli legislativi e forse anche mentali e abbraccia sempre più l’amore e le coppie arcobaleno, equiparandole alle coppie eterosessuali. Perché è una sentenza che ci ricorda ancora una volta che il diritto dell’UE non fa distinzione tra coppie omosessuali e etero regolarmente sposate. Uno “schiaffo” al neo ministro Fontana, alla guida del neo dicastero “famiglia e disabilità”, che nei giorni scorsi, è stato autore della teoria “il nostro popolo è sotto attacco” a causa delle unioni omosessuali e delle migrazioni. Per questo, bisogna, secondo lui, difenderlo con la battaglia di vita. La speranza è che il ministro si ricreda, alla luce anche dell’ultima sentenza dell’Unione Europea, che abbatte quelle poche ultime barriere limitatorie, magari dovremmo guardare più all’interno di una realtà fatta ancora di discriminazioni quotidiani ai danni degli omosessuali, di violenze e diritti umani e culturali sempre più ristretti. Come ha ricordato, Monica Cirinnà, autrice della legge sulle unioni civili, le famiglie arcobaleno sono una realtà nel nostro paese ed in due anni dall’approvazione della legge, che segnò ultima l’Italia in Europa sul tema, sono oltre ottomila le famiglie arcobaleno. Ultima unione in ordine di tempo un 93 enne ed il suo compagno 87 enne, che erano uniti dall’amore dal 1960. In questo lasso di tempo, due anni, sono oltre 17 mila le persone dello stesso sesso che si sono presentate davanti ai sindaci italiani per sancire ufficialmente la loro unione. Secondo i dati calcolati dal ministero degli Interni, aggiorni al 31 dicembre scorso, sono state 8.506 le coppie lgbt che si sono unite in matrimonio, di cui 6073 nel solo 2017. Numeri ai quali si aggiungono le coppie unitesi nel 2018. I dati registrano più unioni civili al nord rispetto al sud, dove il timore è ancora forte, ed è per questo che i timori non vanno alimentati ma placati, perché c’è famiglia dove c’è amore e questo va riconosciuto e non ostacolato, partendo dai diritti civili e sociali.

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Mamma “stalker” nell’educazione della figlia, il Tar l’ammonisce

untitledSi è “conclusa” in un’aula di Tribunale, del Tar in particolare, una controversia educativa che ha messo sul banco degli imputati una mamma salernitana, accusata di stalking dalla propria figlia. Il Tar nella sua pronuncia ha dato ragione alla giovane. Per la donna, un’insegnante dell’agro nocerino sarnese, è stato disposto un decreto di ammonimento: non dovrà proseguire con molestie nei confronti della figlia.   L’insegnate era stata “ripresa” dal questore, che a metà dicembre scorso, le aveva notificato un “ammonimento orale” con l’invito “a non porre in essere atti o comportamenti che potessero ingenerare nella figlia timori, stati di ansia, tensione o che potessero alterare le normali abitudini di vita. La docente però non ha incassato il colpo, visto anche il suo ruolo educativo nella scuola, così si è rivolta al Tar di Salerno, per difendere il suo operato genitoriale e anche l’onore di insegnante, ma senza alcun successo. Ancor prima di ricorrere a querela di parte alla magistratura ordinaria, che avrebbe avviato poi un procedimento penale contro la madre, la giovane che, secondo i racconti della madre, sin da piccola si era sottratta ai controlli materni fin dalla giovane età, ha preferito esporre le sue ragioni ai carabinieri, che dopo l’istruttoria, hanno chiesto che fosse avanzata richiesta di ammonimento al questore nei confronti della madre. In ultima battuta la sentenza dei giudici amministrativi che ribadiscono l’ammonimento voluto dal questore, restando in piedi e scoraggiando ogni persecuzione da parte della madre. Insolito modo per risolvere una controversia familiare, educativa, ma anche per mettere mano a qualsiasi malessere ed incomprensione in un rapporto da sempre sacro e sano, quello tra madre e figlia. Sul caso è intervenuto anche Paolo Crepet, psichiatra, sociologo e scrittore, che ha parlato di giudici invadenti, ora anche nell’educazione. I “no” che sono diventati sempre più “si”, i paletti che sono crollati, le regole inesistenti, così le nuove generazioni crescono senza cultura, senza rispetto e seguendo il principio folle che tutto puoi pretendere e niente devi dare. Crepet, guardando,  alla generazione di oggi ne parla come di una classe dirigente del domani fallita. Genitori assenti o troppo ossessivi, opposti e mai vie di mezzo. Con sempre meno fermezza. Il provvedimento fa discutere tra i genitori, ma se dall’esterno e da professionisti guardiamo il provvedimento, frutto di stati di timore, stati d’ansia e tensione nella figlia, e ci sia davvero una condotta ossessiva e scriteriata, allora è giusto tutelare i minori dagli eccessi. Se, invece, la mamma voleva solo fissare delle regole, allora il provvedimento risulterebbe eccessivo. Un genitore deve conoscere con chi il proprio figlio esce, con chi ritornerà a casa, preferirebbe ricevere un messaggio se il proprio figlio tarda nel rientrare a casa, se un genitore impone un orario di rientro, và rispetto, un genitore in quel caso non fa nulla di male, è semplicemente giusto e anche ovvio. Stiamo di fronte ad uno sgretolamento delle regole che sembra coincidere con un’evaporazione dei modelli tradizionali, il pensiero và subito alla scuola e a quanto sta accadendo. Bisogna avere il coraggio di educare, di bocciare, di dire di no. Se un professore mette un brutto voto e il giorno seguente un genitore si sente in diritto di aggredire il docente, è una società allo sbando, che non indirizza sulla strada dell’educazione, e stiamo creando adulti privi di desideri, di aspirazioni, di sogni, di regole e di tempo che serve per formarsi, per incoraggiare i loro obiettivi, ma soprattutto si sentiranno privi di consapevolezza della vita reale e delle sue difficoltà. Le colpe sono senza indugio degli adulti, che nel benessere hanno trovato l’ancora di riscatto: “non farò mancare nulla ai miei figli”, lo hanno ripetuto i miei genitori e decine di genitori che spesso mi sono trovata di fronte nella mia professione. Male, perché educare non significa sempre dare, ma anche togliere, non deve prevalere “lo fanno gli altri”, “ce l’hanno anche gli altri”, non significa sentirsi diverso, significa incoraggiare nei figli senso di responsabilizzazione, significa capire che esistono delle regole, che saranno anche quelle che la società ti chiederà per il vivere comune nella società. Significa insegnare ai figli che non si delega agli altri i principi ed i valori. Solo perché lo fanno gli altri non è detto che debbano farlo anche loro. Sono cresciuta ed oggi nella mia professione di assistente sociale, nell’incontrare i genitori, gli chiedo di ricordarsi che la vita è fatta di tappe: a 15 anni non puoi fare una cosa che dovresti fare a 25 anni, è un percorso fisiologico, di crescita, di maturità che si sviluppa in relazione agli eventi, agli anni che passano e a tutto ciò che si vive, proporzionato anche ai propri anni. In questo caso si ritroveranno poco più che venticinquenni magari su un divano annoiati e stanchi, perché non hanno null’altro da fare. In Italia, secondo i dati, tre milioni di ragazzi non studiano e non lavorano e non è solo colpa della crisi. Sono disorientati, hanno prosciugato la sete di conoscenza, di curiosità, non sanno neanche quali sono le loro attinenze, i loro sogni. Molti non sanno “da grande” cosa vogliono fare. Per affermarti devi avere delle basi e le basi si costruiscono con il sacrificio. Non puoi pensare di arrivare direttamente al vertice. E’ una lezione che conosco a memoria dai miei genitori. Ma adesso, con il senno di poi, non li cambierei con nessuno e soprattutto lo consiglio ai tanti genitori che spesso incontro impauriti e disorientati nel cammino genitoriale.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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Quarant’anni fa nasceva la legge 194: l’aborto non era più reato. Cosa è cambiato ad oggi?

untitled 2Sono trascorsi quarant’anni da quando il Parlamento italiano votava una delle leggi più discusse e contestate nella storia repubblicana, la 194, che depenalizzava l’interruzione volontaria di gravidanza e metteva fine alla piaga dilagante -per quel tempo- dell’aborto clandestino. Un traguardo frutto di battaglie e di anni sanciti dal femminismo sotto lo slogan “l’utero è mio e lo gestisco io” , di scontri ideologici che mostravano un’Italia profondamente divisa in netto disaccordo con il pensiero della Chiesa cattolica. Si scrive 194/78 ma si legge legalità all’aborto, o meglio all’interruzione volontaria di gravidanza, riconoscendo l’assistenza ospedaliera pubblica in caso di interruzione. Una legge che tutelava le donne e le loro intime e personali scelte, ma che non si poneva come un mezzo di controllo delle nascite, tanto che potenziava nell’intento legislativo e finanziario la creazione di consultori territoriali nati già nel 1975, e all’epoca non ancora del tutto andati a regime, mentre, oggi difficilmente riescono, specie nella realtà del Sud Italia, a porsi come luogo privilegiato dove attuare interventi preventivi. Un lungo cammino portò a regolamentare l’aborto nel nostro Paese, fu solcato da sit-in, auto denunce, proteste, assemblee, donne che si sottoponevano ad aborti clandestini morendone. Nonostante la decisa condanna del mondo cattolico, le incertezze politiche, le critiche, nel giugno del 1978, la legge venne varata e da quel giorno anche negli ospedali italiani fu praticabile l’interruzione di gravidanza. Una legge contestatissima, oltre al referendum del 1981 sono stati 35 i ricorsi per incostituzionalità della 194. Un dato che ne fa una delle norme più contestate del paese. Una legge che sancì il passaggio dalla criminalità alla legalità. L’ultima relazione del Ministero della Salute sull’attuazione della legge, conferma che in Italia il ricorso all’interruzione di gravidanza è in continua diminuzione. Oggi, le IGV, come vengono denominate, si sono più che dimezzate dalle 87.639 del 2015, mentre nel 2016 sono state 84.926 le donne che vi hanno fatto ricorso. Da quarant’anni in Italia qualsiasi donna, entro i primi novanta giorni di gestazione, può richiedere l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) per motivi di salute, economici, sociali o familiari. La realtà di quarant’anni dopo, seppur caratterizzata da una riduzione di interventi d’aborto, il percorso è ancora lungo, una delle emergenze da affrontare è quello dell’obiezione di coscienza che specie al Sud coinvolge l’83,5% dei ginecologi. Sarebbe necessario, come sollevano da tempo diversi movimenti, favorire la pillola al posto dell’intervento chirurgico, privilegiando il Day Hospital ed evitando così un ricovero di tre giorni, risparmiando risorse da investire ai consultori, in campagne di contraccezione e nella promozione di una corretta informazione per tutti. Mentre, altre associazioni, come rileva la Coscioni, bisognerebbe favorire come priorità la pillola “RU 486” al posto dell’intervento chirurgico. Senza dubbio molto resta da fare in materia di prevenzione. Secondo i numeri forniti dalle regioni, risulta che le giovanissime, tra i 15 e i 20 anni, hanno scarsa informazione sui metodi contraccettivi e nella fase adolescenziale sono pochissimi i ragazzi che hanno rapporti sessuali consapevoli e protetti. Oltre agli ostacoli oggettivi all’esercizio di questo diritto, vi è poi il pesante fardello del giudizio di quanti non sono d’accordo con quello che la legge consente e ritengono che la vita dell’embrione valga quanto quella della donna. Il dissenso sull’argomento è anche cronaca di polemiche come i manifesti anti aborto, uno schiaffo alla libertà delle donne. Non solo manifesti, perché la campagna anticipata dall’hastag “#stopaborto” viaggia anche in rete, con l’intento di scuotere le coscienze ma senza dubbio in modo diretto e a gamba certo non tesa nell’ideologia della 194 del 78. Una diffusione di false informazioni, basandosi su assunti completamente infondati, accostare, il diritto delle donne a una violenza come il femminicidio è quanto di più grave possa essere fatto. Insomma, un conto è dire che si è contro l’aborto, un conto è sostenere che tutte le donne che interrompono la gravidanza sono colpevoli di femminicidio.  Si gettano al vento campagne, propagande, lavoro sul campo che gli operatori del sociale fanno per supportare, aiutare le donne che intendono intraprendere un percorso di interruzione, perché decidere di interrompere una gravidanza non è una passeggiata, un modo facile per liberarsi velocemente di un fastidio. Al contrario rimane una scelta difficile a volte dolorosa, certo mai fatta in maniera avventata. È necessario che, su temi così delicati e dolorosi, nessuno spazio venga concesso alla mistificazione.

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Bambini dimenticati in auto, il cervello dei genitori va in black out

untitledAvrebbe dovuto portarla all’asilo nido, ieri mattina, invece è andato direttamente a lavoro, in un’azienda a San Piero a Grato nel pisano, sua figlia nemmeno un anno è morta in auto su quel seggiolino dove il papà l’aveva sistemata. Gesti di routine, dettati  forse dalla quotidianità, comportamenti ripetuti sempre allo stesso modo, a provocare questa ennesima tragedia. Un genitore che non si accorge della sua bambina sul sedile posteriore, l’auto che si trasforma in una trappola incandescente. In questo caso, la prima a lanciare l’allarme è stata la madre, che come ogni pomeriggio era andata al nido a riprendere la piccola ma lei non c’era. Subito il peggio che si materializza: sono da poco passate le tre, quando arrivano i soccorsi ma è tutto inutile. Casi che si somigliano, l’anno scorso è accaduto ad Arezzo ad una mamma che dimenticò in auto la piccola di diciotto mesi. Purtroppo è lunga la catena di precedenti: Giulia, Jacopo, e tanti altri vittime della dimenticanza dei loro genitori. Parcheggiare e andare via convinti in buona fede di aver già lasciato i figli a scuola. E’ una parte della mente che tende a distaccarsi dalla realtà, gli esperti lo chiamano “blackout mentale” che può essere causato dallo stress, l’affaticamento, le pressioni emotive, la mancanza di sonno: sono diversi i fattori che possono incidere. Di fatti, c’è un dissociarsi da una serie di gesti, sempre gli stessi che si ripetono ogni giorno credendo di averli già compiuti. L’abbandono in auto è indipendente dallo sviluppo intellettivo, ma è da attribuire a cause come lo stress, che determina un’alterazione acuta della capacità di riflettere. Secondo gli esperti è possibile dimenticarsi il proprio figlio in auto. Ed è così che nascono proposte per evitare queste morti tutte uguali tra loro, come una legge che preveda l’obbligo di sistemi di allarme anti abbandono in auto. Alcuni esperti, suggeriscono, un metodo classico e non tecnologico per non dimenticare il figlio in auto, come quello di mettere sotto il seggiolino del bimbo il portafoglio o le chiavi di casa. Non è un metodo attendibile, perché la persona deve ricordarsi di prendere questi oggetti. Ma esistono applicazioni che grazie ad uno specifico algoritmo danno la sicurezza di aver consegnato il bambino. Resta però il miglior dispositivo il baby car alert, che quando si spegne il motore dell’auto ma il bimbo è sul seggiolino avverte con segnali sonori. Quando vi è il supporto sociale, affettivo, familiare che è presente, tangibile, il disagio emotivo dei genitori si attenua. Morti e storie sconcertati che danno però una chiave per comprenderle: ritualità, fretta, giornate incastrate al minuto, gesti ripetuti centinaia di volte l’anno che diventano naturali come l’ultimo gesto che si fa prima di andare a dormire, diventando spesso automatismi. Gesti meccanici. Ci sono momenti in cui siamo fisicamente con i nostri figli, ma con la testa ci troviamo già al passaggio successivo, quando li lasceremo a calcio come tutti i mercoledì, quando li lasceremo dalla nonna come tutti i giorni alle sei. Momenti in cui diciamo sì a loro domande che non abbiamo ascoltato, in cui controlliamo la posta sul cellulare mentre ci raccontano cosa hanno fatto a scuola. E poi ci sono momenti in cui siamo lì, attenti e con la testa sgombra, ma solo stanchi. Umani e fallibili. Vittime , tutti, di piccoli corto circuiti: una banale dimenticanza, il quaderno non comprato, il libro lasciato a casa, la tuta non lavata proprio il giorno in cui ha ginnastica a scuola.  E poi ci sono i corto circuiti spaventosi. Ci sono i bambini dimenticati in macchina. La pioggia di insulti sul web diretti alla mamma, la domanda di tanti: “come ha fatto?” mentre il sospetto terribile cova pauroso nel cuore di ogni genitore, di poter dimenticare per qualche minuto, le uniche persone che un genitore per tutta la vita non dimentica: i propri figli.

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Generatori di speranza: il ruolo e le sfide sociali degli oratori di oggi

cropped-foto-per-copertina-blog.jpgPonti tra la Chiesa e la strada” è la metafora di un’affermazione di Giovanni Paolo II, utilizzata per definire gli oratori, generatori di speranza e di sociale, luogo della socializzazione, del gioco e dello svago, negli anni di generazioni ne sono passate per gli oratori. Giovani di un tempo che intorno ai 13-14 anni trascorrevano i pomeriggi in oratorio ad ascoltare il curato che faceva lezioni di buona politica, insegnava ad osservare il quartiere e a farsi carico dei problemi degli altri, educando alla partecipazione. E’ quella che don Bosco definiva come la formazione “dell’onesto cittadino e del buon cristiano”. Oratori generatori di valori socio-educativi che insieme alle altre agenzie educative del territorio contribuisce a creare la rete educativa a favore delle giovani generazioni lì presenti. Un ruolo accantonato e dimenticato per troppo tempo, quello degli oratori, che in rete con le agenzie educative diventa risorsa per tanti giovani, ma è in atto una rinascita in un’ottica di contrasto alla povertà educativa degli oratori italiani: sono poco più di 8.000 gli oratori censiti in Italia, in una tradizione che si tramanda in Italia da oltre 450 anni, dai tempi di San Filippo Neri nella Roma del ‘500.. In questi secoli l’oratorio ha saputo adattarsi alle esigenze dei tempi restando sempre nell’alveo dell’educazione oltre che della formazione cristiana dei giovani. Come tutte le realtà, anche quella degli oratori risente fortemente dei cambiamenti che sta vivendo la società italiana. Due i caratteri di novità: la presenza di molti ragazzi, figli di famiglie immigrate, che provengono da altre culture, da altre confessioni cristiane e da altre religioni, che sono accolti all’interno di una stessa precisa identità: i giovani che crescono all’interno dell’oratorio, trovano un luogo che educa ad abitare. Un altro aspetto è legato all’attuale crisi. L’oratorio in sé non è legato all’attività economica, per cui non risente direttamente della crisi, ma la domanda da parte della famiglia è fortissima. L’economia fiorente ha spinto negli anni le famiglie ad uscire dai confini dell’oratorio per le attività di sport, musica, potendo garantire ai loro figli proposte più ampie, ma ciò che mancava era un’educazione integrale. Oggi, invece, i genitori si sono accorti che i loro figli sanno fare tante cose, ma fanno fatica a vivere. Da qui lo sguardo verso l’oratorio, dove ci sono attività nuove, ristrutturate, ma c’è soprattutto l’attenzione alla persona, alla sua creatività, alla sua libera espressività. Cresce, dunque, nelle famiglie l’esigenza di uno spazio a misura di una crescita integrale dei ragazzi. E così a nuova vita nasce l’oratorio che si propone a contrasto alla povertà educativa, una delle attività offerte è quella del doposcuola, secondo i dati la media nazionale è dell’ 83%, più al nord e meno al Sud col 74%. Un servizio che si fonda molto sui volontari. Giovani che aiutano altri giovani. Un doposcuola che si modella alle esigenze: dalla semplice spiegazione dei compiti alla formula dell’integrazione che si unisce alla socializzazione, alle attività sportive e al disegno, cercando di far esprimere tutte le arti espressive: teatro, danza, canto, musica. In alcuni oratori si organizzano corsi di cucina e tra farina che vola e biscotti da fare nella semplicità nascono legami d’affetto e d’amicizia, conoscendo la normalità e la semplicità dei gesti e dello stare insieme. Ma, l’oratorio offre anche per gli adolescenti e i giovani l’occasione di mettersi al servizio in attività di animazione ludica e formativa per i più piccoli, i cui momenti di maggiore attrazione è l’estate con gli immancabile campeggi. Vanno anche considerate le gite in cui si fonde l’aspetto ricreativo, culturale ed ecologico-ambientale, un insieme di elementi che aiutano il giovane a crescere in una dimensione culturale che non aveva mai conosciuto né considerato. Inoltre, l’oratorio organizza fiere o piccole vendite, che coinvolge i più giovani verso le attività caritatevoli e di volontariato, facendogli conoscere il valore dell’aiuto all’altro. L’oratorio è stanze, biliardino, cortili e campi da gioco, dove correre e sorridere agli altri, ma non è solo struttura è anche e soprattutto persone, generazioni diverse che si incontrano, ragazzini ed animatori poco più grandi loro, gli educatori, i genitori che vanno coinvolti nelle attività e nel dialogo educativo, perché l’oratorio non è un luogo ad ore per i genitori che lasciano i figli con la certezza che siano al sicuro, ma l’oratorio è il luogo educativo aperto alla collaborazione e al confronto con tutti. “La più grande palestra di umanità e di relazioni umane che si possa immaginare”, la definisce Don Michele Falabretti, responsabile nazionale pastorale giovanile della Chiesa Italiana. Relazioni umane vere, sincere, che uniscono e non dividono, che si fondono nell’ascolto e nell’empatia dell’altro, incontrando il dialogo e la diversità culturale, fisica, morale, educativa, che si realizza in ricchezza per i più giovani. E poi l’adulto che come tale deve insegnare ed il minore che deve crescere assumendosi le responsabilità delle sue azioni consapevole che è l’erede del futuro e di una comunità educante che sarà tramanda di generazione in generazione. Che l’oratorio possa diventare generatore di speranza e di futuro per i più giovani?

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