Uccisa e rinchiusa in due valigie. E’ l’orribile scoperta fatta pochi giorni fa da un’automobilista nel maceratese. I carabinieri quando le hanno aperte si sono trovati dinanzi ad una macabra scoperta: il cadavere smembrato di Pamela Mastropietro, 18 enne, scomparsa da giorni da una comunità di recupero per persone che soffrono di disagi e dipendenze della zona. Gli esami e le indagini continuano per ricostruire le ultime ore di vita della giovane che poi è stata ritrovata cadavere. La terribile morte di Pamela Mastropietro impone di accendere un faro sulla politica relativa alla cura e la prevenzione dei disturbi da uso di sostanze, tema ormai sparito dall’agenda della politica. Eppure in questi anni l’aumento dei consumi da parte delle teeneger è uno dei campanelli d’allarme sollevati dagli esperti. In una relazione annuale al Parlamento sullo stato delle tossicodipendente in Italia, dello scorso 2017, emerge come sia fortemente aumentata la percentuale di studentesse delle scuole secondarie superiori che ha sperimentato almeno una sostanza psicoattiva illegale con un incremento del numero di ragazze che ha un consumo di sostanze definibile “ad alto rischio”, come la poli assunzione o l’uso quotidiano. Nel 2016 vi è stato inoltre un incremento dei minori in carico ai Servizi Sociali della Giustizia Minorile per reati correlati alla droga. Si sente, dunque, la necessità di iniziare a favorire regole che promuovano l’aggancio precoce e la presa in carico, cercando di mettere mano, con una rivisitazione dell’offerta complessiva regionale considerato il contesto di sviluppo del fenomeno della dipendenza patologica. E’ importante che si punti sulla prevenzione ed il trattamento precoce dei disturbi da uso di sostanze e comportamenti compulsivi secondo idonee progettualità definite, rivedendo anche la possibilità di optare per una struttura residenziale per l’accoglienza ed il trattamento della popolazione giovanile in modo da evitare pericolose cronicizzazioni. Il lavoro degli operatori dell’aiuto: psicologici, assistenti sociali, educatori, medici non è facile si gioca tra il Ser.D conosciuti anche con Sert, che hanno il compito della prevenzione primaria, della cura, della prevenzione delle patologie correlate, della riabilitazione e reinserimento sociale e lavorativo. Tutto ciò in collaborazione ed in sinergia con le comunità terapeutiche, le amministrazioni comunali ed il volontariato. I SerD si ritrovano all’interno dei dipartimenti delle dipendenze delle Asl. In generale attuano interventi di primo sostegno ed orientamento per i tossicodipendenti e le loro famiglie, specialmente nei confronti delle fasce giovanili della popolazione. In particolare operano accertamenti sullo stato di salute del soggetto da trattare e definiscono programmi terapeutici individuali da portare avanti nella propria sede operativa o in collaborazione con una comunità terapeutica accreditata (mediante programmi residenziali o semi residenziali variamente articolati). La legge e la deontologia vincolano gli operatori del SerD al segreto professionale, che viene meno se si tratta di un minorenne, in quanto è necessario far riferimento a chi esercita la potestà genitoriale. La sinergia tra il SerD e le comunità terapeutiche risulta fondamentale ed indispensabile per creare un sistema territoriale realmente in grado di fornire risposte efficaci alla cittadinanza in stato di bisogno. E’ bene ricordare che in Italia le persone tossicodipendenti possono accedere gratuitamente a tutti i servizi per le dipendenze che abbiano ottenuto l’accreditamento o, almeno quello provvisorio. Inoltre, l’ingresso e la permanenza è sempre volontaria. Non esiste, infatti, nel nostro ordinamento alcun obbligo di cura. A tal proposito è ormai acclarato che il primo periodo di permanenza in comunità terapeutica sia quello più problematico per l’ospite. L’accettazione della vita in gruppo, la condivisione degli spazi e dei tempi, l’accettazione di regole nuove, rappresentano solo alcuni fattori che possono infliggere colpi alla motivazione e al cambiamento della persona ospitata. Ed è questa la fase più delicata in cui si rischia l’allontanamento momentaneo o definitivo. Il lavoro, infatti, è proprio sull’ansia, sulle paure, sulla reiterazione di alcuni comportamenti. Accogliere, rielaborare, restituire il senso della difficoltà con e al soggetto, deve diventare il perno centrale della terapeuticità. Per cui spingere sul solo pedale della medicalizzazione, non serve, bisogna che sia accompagnato da un supporto psicologico e sociale. Si dovrà lavorare con l’altro con un percorso personale e una continua rivisitazione di sé e del bagaglio culturale, inteso nell’accezione di sensibilità al vissuto e operativo. L’équipe dovrà supportare in modo continuo, con una supervisione costante, incontrando la persona nella sua patologia, nel suo vissuto, emotività, affettività e complessità. Solo così si potrà poi pensare ad un programma personalizzato, che volterà soprattutto a favorire l’empowerment, quale processo dell’azione sociale attraverso il quale le persone, le organizzazioni e le comunità acquisiscono competenza sulle proprie vite, al fine di cambiare il proprio ambiente sociale e politico per migliorare l’equità e la qualità di vita. Di chiunque. Un lavoro per niente semplice, che incontrerà ostacoli ed intoppi, fallimenti ed obiettivi che verranno meno, ma non bisognerà mai smettere di credere che oltre all’approccio medico, c’è un approccio umano, sociale, che tenderà di evitare che la sostanza diventi quel filo rosso che vinca sul soggetto.
(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)
Shock in un mattino qualunque in una scuola di Santa Maria a Vico, in provincia di Caserta, un alunno 17 enne in un raptus di follia ha accoltellato alla guancia l’insegnante di italiano, sotto gli occhi terrorizzati dei suoi compagni di scuola. La sfregia con un fendente. Tra lo sconcerto ed il terrore dei compagni. Il ragazzo avrebbe reagito a una nota messa dalla professoressa di italiano sul registro di classe per scarso rendimento. Il giovane si era presentato a scuola con un coltello a serramanico, potrebbe quindi aver progettato l’aggressione alla docente che probabilmente cercava solo di stimolarlo a impegnarsi di più nello studio. Ora è in stato di fermo, per volere del Pm del Tribunale per i Minorenni, Ugo Miraglia del Giudice, che lo ritiene responsabile di lesioni aggravate e porto illegale di oggetti atti ad offendere e si ritrova presso un Centro di Prima Accoglienza minorile di Napoli Colli Aminei. Studenti contro professori, così le classi diventano un ring. Da Nord a Sud, un’escalation di aggressioni ai docenti. Umiliazioni, fucine di bulli minorenni, studenti che iniziano i loro show irridenti mentre l’insegnante spiega: pernacchie, rumori, applausi. Ragazzi che fanno gruppo, sghignazzano e incitano, e spesso si protrae per giorni. “Il ruolo sociale degli insegnati” lo evocano ad ogni cambio di ministro dell’Istruzione all’atto dell’insediamento. Quel “ruolo sociale” calpestato, oggi, si fa spesso una semplice questione di sicurezza. Settimane di insulti, in alcuni casi scherzi di cattivo gusto. Episodi violenti crescenti in classe, in palestra, al portone. Ragazzini che picchiano in branco insegnanti over, genitori che assalgono professori perché stavano educando i loro figli al vivere in comunità. In una scuola di Reggio Calabria qualche tempo fa, è arrivata la polizia a sedare la rissa tra ragazzine. La professoressa di turno non c’era riuscita: aveva rimediato uno schiaffone ed era finita al pronto soccorso. Insegnanti che ogni mattino entrano in classe ma si sentono come su un ring o in un campo da guerra, bersagliati, in un clima di tensione e in alcuni casi di paura. Un fenomeno, quello del bullismo, che spesso non risparmia neppure i professori in veste di vittime. La scuola che diventa luogo di derisione, di minacce, di paura, di tensione perenne per gli studenti più fragili e per i docenti, che nel tempo hanno perso il loro ruolo determinante, privi anche di tutele, spesso le denunce e le segnalazioni cadono le dimenticatoio. Ma, bisogna agire e reagire, passando da un legame scuola-famiglia, che và ritrovato, sono le prime due agenzie educative, che devono viaggiare all’unisono e sulla stessa strada: fatta di valori, fatta di sacrificio e di “no”, che sani, devono ritornare, di note che non vanno aggredite dai genitori, ma spalleggiate, magari anche con una sana punizione ai danni dei figli. Vanno riposti nei cassetti per molte ore cellulari e playstation, troppa violenza viaggia sui social e nei videogiochi, distraendoli. Serve che ci siano pene per questi ragazzini, fatti di rieducazione sociale, come ad esempio ore di volontariato o di lavori socialmente utili. Serve, il teatro, per far gettare la maschera alle persone e attribuire ruoli nuovi a chi non riesce ad averne di positivi. Serve la musica e un microfono per far esprimere al meglio chi non riesce a farlo in modo diverso. Serve incoraggiare chi non ce la fa, lodare davanti a tutti chi sbaglia spesso quando invece fa una cosa giusta. Tornare alle materie d’aiuto come la storia, la letteratura, la filosofia che hanno l’obbligo di insegnare il rispetto per sé e per gli altri, il coraggio di difendersi, l’autostima e la lotta all’omertà. E anche la debolezza che sta dietro a chi commette dei soprusi. Bisogna raccontare ai giovani storie di persone vere, lotte contro le ingiustizie, di Peppino Impastato, di Nelson Mandela, di Gandhi. Solo così, da grandi, i tacchi a spillo non sfileranno prepotenti sulle fragilità di un collega di lavoro. Insomma, la scuola ha soprattutto un compito: insegnare agli uomini di domani l’umanità. Questo è possibile anche se si ritorna su strada: educatori di strada, sacerdoti che aggancino i più giovani e li portino nel mondo dell’associazionismo e del sociale, che si ritorni ai gruppi scout o all’azione cattolica, che unisce e non divide, che esalta le diversità e le rende omogenee. C’è bisogno che la scuola torni al suo essere “severa”: una nota, un richiamo, certo con un fondamento di paura, visti i recenti casi di cronaca nera, ma non vanno lasciati soli gli insegnanti che fanno il loro dovere, anzi, bisogna che intervenga l’assistente sociale, che ne segnali l’accaduto se non è stato già fatto al Tribunale per i Minorenni, e c’è bisogno che si agisca in un’ottica globale, con una presa in carico di tutto il nucleo familiare: spesso si tratta di famiglie disgregate, in cui cova la violenza in varie manifestazioni, a volte i genitori sono in carcere per qualche reato, o vivono in contesi disagiati ed isolati. Vanno sempre cercate anche le cause nel bullo che và aiutato oltre ogni sua ragionevole o irragionevole spiegazione al gesto compiuto, ma per farlo c’è bisogno che le figure professionali siano vere e tutelate tutte prima ancora che gli episodi accadano.
“So tutt frat sti guaglion ‘e miezz ‘a vij” mi accolgono con questa frase i “uagluine ‘e mezz ‘a vij” come si dice nel linguaggio dialettale, ovvero, i ragazzi che la strada la vivono, che di quella strada ne sono cresciuti. “Signori si nasce”, era il refrain di Totò. Ma principi, nei quartieri “bassi” di alcune zone, lo si può diventare. L’ascesa nei rioni “della diversità” diventa un valore aggiunto e non è una questione di galloni. Contano di più il cuore, i sogni e le capacità di guardare il mondo con gli occhi di un innamorato. Su un terreno di questo tipo, lancio il messaggio, che possono sbocciare i fiori più belli. Come? Avendo il coraggio di cambiare le cose dal di dentro o partendo dai ragazzi stessi. Sant’Agostino diceva che il viaggio è il libro più importante della vita. E molti ragazzi dei “quartieri” o dei “rioni” dopo aver visto il resto d’Italia e le capitali europee, hanno capito che la loro città non aveva nulla di meno. “uagliella a ro’ vic’” mi definiscono così e mi immergo tra le vie e le storie dei ragazzi del rione “palazzine” di Pagani, in provincia di Salerno, dove ogni giorno nascono idee ed attività per contrastare il disagio sociale, pur consapevoli che Pagani è quel fazzoletto di terra cerniera tra Napoli e Salerno, con una linea storica “75” Napoli-Pagani, definita asse delle droga, arresti per droga e spaccio che quotidianamente popolano la cronaca nera, a questo si aggiunge quel “marchio” che la città ed i giovani nella loro onestà devono contrastare: terra di camorra. La scia di episodi criminosi che di piombo e sangue hanno macchiato la città è lunga ma c’è anche un profumo di rinnovamento, di nuovo che avanza, di giovani “dei quartieri” che dalla strada non hanno imparato il crimine e la violenza, ma ben altro e questo articolo nasce proprio da questo spirito e viene scritto di pancia e di cuore. Quello che emerge nella nostra conversazione, sono rapporti di amicizia intimi che prosperano in situazioni caratterizzate spesso di disagio, ma pure da grande ricchezza d’animo. Si inseriscono nella società in punta di piedi, con rispetto di tutti, anche dei pregiudizi che qualcuno nutre nei loro confronti, perché figli della strada, ed in molti albeggia la convinzione che a questi ragazzi è stata instillata l’idea del crimine e della “vita facile”, invece, loro mi conducono in un mondo parallelo che vive nelle nostre città, ragazzi che dalla strada hanno imparato il rispetto dell’altro e della difesa, che si pongono dall’altra parte dell’idea criminale, e mi spiegano che la violenza non li attrae, ma si pongono in prima linea per l’amico in difficoltà, e se si ritrovano coinvolti in qualche rissa spesso è proprio contro il loro volere. Mi conducono a spasso tra gli avamposti culturali del quartiere: la storia di Sant’Alfonso, l’arte del territorio, l’amore per il calcio, il tifo spensierato e sano, tra le chiese che spuntano quasi ad ogni angolo, gli ipogei. Tra loro e in questo patrimonio storico culturale che conoscono meglio di un critico d’arte cittadino, spunta un ragazzo, apparentemente “figlio borghese”, con un’identità forte e fiera: “sono cresciuto in strada- dice-, anche se vivo nel centro storico della città.” Figlio di professionisti cittadini, abbigliamento impeccabile, sguardo da professionista anche lui, di quella strada ne và orgoglioso, perché dice: “la strada mi ha insegnato il buono ed il male, scansato i pericoli, affrontato situazioni che alcuni ragazzi non hanno affrontato, ma questo mi ha insegnato a crescere, affrontando la vita in modo diverso.” La strada, mi racconta, gli ha insegnato le amicizie vere, ad un usare un “nostro” anziché il “mio”, a condividere, ma anche ad aiutarsi, confrontandosi, e non lo ha etichettato come “figlio borghese” nonostante abbia una buona dizione, raramente cade in qualche forma dialettale e sia un ragazzo prossimo alla laurea in ingegneria e lui stesso non rinnega la strada né tantomeno accetta il marchio dispregiativo che molti danno ai ragazzi di strada. L’inclusione sociale, a queste latitudini, è un piacere e lo si riscopre tra loro. Sono ultimi, per molti, ma non si sentono inferiori e proprio da questo è partito l’input di scegliere un diverso tra i diversi per il ruolo di aviatore. Perché da loro sono nati i centri di aggregazione giovanile, che in silenzio ed in sordina opera sul territorio di Pagani, ben cinque sono i punti d’aggregazione, sconosciuti a molti, ma non a chi ne ha bisogno, creando un’aspirale di solidarietà infinita: ragazzi di strada che aiutano altri ragazzi di strada, perché si sa non sempre la strada innesta pensieri positivi, valori saldi, e proprio ai ragazzi più fragili si avvicinano, per agganciarli e per mostrargli l’altro volto della strada, per organizzare momenti di confronto e di volontariato: organizzando banchi alimentari per i più bisognosi, gruppi di volontariato, perché ci sia inclusione e non esclusione. E se gli si chiede cosa pensano della camorra sono netti e ne parlano come di strade senza uscita, strade che non bisogna assolutamente prendere, perché non portano a nulla e non hanno futuro. Mi ritrovo dinanzi a ragazzi equilibrati, ponderati, con valori saldi, legati alla famiglia, con un profondo amore che rappresenta la leva più forte con cui cambiare il mondo. La realtà, passeggiando tra i vicoli ed i quartieri delle città, non è poi così diversa, certo, come mi dicono anche loro “il buono ed il male esiste ovunque”. Ma, c’è un orgoglio: principi cresciuti tra i vicoli. In un tempo di scorribande di ragazzini che in molte città italiane, in particolar modo a Napoli, seminano il panico ed il terrore, in un fenomeno che sa di nuovo alle istituzioni, al mondo del sociale e ai suoi professionisti, ho voluto cercare di abbattere il muro di pregiudizi, di stereotipi, che un po’ tutti abbiamo sempre avuto sui ragazzi cresciuti “con le regole della strada”, ma scopro un mondo che è fatto di altro, che supera la convinzione dei codici, del male e della violenza, seppur siamo tutti consapevoli, io per prima, che tra loro può esserci la serpe in seno, più fragile che dalla strada incontra la criminalità o la violenza, ma questi ragazzi ci danno una lezione di vita, a me per prima, perché ci raccontano una strada che non è solo figlia del male, ma è una piccola società di giovanissimi che si tengono per mano per seguire una nuova strada ed aiutare altri ragazzi.
L’ultima vittima ha sedici anni, si chiama Ciro, è uno studente liceale, domenica sera una baby gang, gli ha rotto il naso davanti ad una fermata della metropolitana di Napoli. Insulti e poi pesanti aggressioni ai danni del sedicenne. La polizia cerca gli aggressori di Ciro nei filmati delle telecamere della stazione. Il nome di Ciro si aggiunge a quello di tanti altri ragazzini napoletani: sei quelli aggrediti soltanto negli ultimi cinquanta giorni, feriti nel fisico e nell’animo dalla rabbia ceca di altri coetanei, molti di questi girano armati con coltelli in tasca e catene, mentre l’aspirale della violenza giovanile in città cresce e preoccupa. Questa mattina un vertice in Prefettura a Napoli ha riunito attorno ad un tavolo il ministro dell’Interno, Marco Minniti e le forze dell’ordine, per cercare insieme misure per contrastare l’escalation di episodi di violenza giovanile ad opera di babygang che da settimane terrorizzano gli adolescenti napoletani. Un’emergenza. Di “baby” hanno solo l’appellativo. Le gang di minori, che paralizzano la città, sono infatti, fenomeni criminali che hanno assunto proporzioni inquietanti tanto da lanciare un allarme sociale al pari della camorra. Facce ribelli, atteggiamenti da adulti, forti del branco ma bambini alla stregua delle vittime, odio e rabbia che si riversano in persecuzioni e violenze: sono gli orde di giovanissimi, cresciuti nel mito di “Gomorra”, hanno ambizioni di malavita uguali a quelli degli adulti. Lo scrivono sui social e lo dimostrano coi fatti. I profili di molti giovanissimi sono pieni di foto in cui impugnano coltelli, tirapugni appuntiti, pistole. Mentre si muovono in branco, come i lupi o le iene. Hanno un loro slang, si vestono tutti allo stesso modo. La guerra ai baby criminali a Napoli è appena all’inizio, caratterizzata da babygang che ormai si mostrano apertamente con rappresaglie e con l’auto celebrazione tramite l’uso dei social network. Gruppi composti da decine di giovanissimi, tra i 10 e i 12 anni, che entrano nel vortice della violenza con scorribande e dimostrazioni di potenza sia contro i loro coetanei sia nei confronti delle bande rivali che continuano a spuntare in giro per i quartieri popolari della città. Spinelli tra le labbra e pistole, i giovani emulatori di “Gomorra” imitano i grandi e lanciano messaggi ai nemici. In alcuni profili si possono notare le esaltazioni dei seguaci che commentano le esternazioni “da grandi” della futura generazione di camorristi. Dopo “Gomorra” le stese a Napoli sono aumentate. Violenza delle babygang, dei criminali di nuova generazione, contro tutto e tutti, randomiche, senza un senso preciso. Un prodotto di finzione che nasceva con l’idea di smantellare un sistema: quello della camorra, radicato come un cancro nel sistema napoletano, che si è trasformato per molti giovanissimi in idoli da ammirare ed emulare: affascinati dall’odio e dalla rabbia, dal brivido del gruppo, scaricando la violenza sui loro coetanei che ricevono del male senza una ragione apparente, facendo i conti col dolore fisico e quello dell’anima, che solo con un lento e lungo percorso di riabilitazione potrà essere accantonato. “Gomorra” è stata la ricchezza di Napoli, comparse, società di catering, un indotto economico per il territorio, le migliorie, dirette o indirette, nella vita di centinai di professionisti, ma il dubbio sorge. Se Gomorra, la serie, ha influenzato così negativamente i giovani, portandoli al crimine, perché Gomorra, nella persona della produzione, non riesce a influenzare chi governa e fa politica, e a investire su cose che servono effettivamente alla comunità, come ad esempio centri di aggregazione giovanile? Sarà forse che una è finzione e l’altra è realtà? E perché una è una società privata e l’altra, ben più costosa e lenta, è un’amministrazione pubblica? Domande che forse non trovano una risposta in una città che oggi si confronta con una violenza inaudita che rischia di generare potenti criminali del domani. Il successo ha trasformato Gomorra in una pseudo griffe culturale per le nuovissime generazioni, complice anche l’incapacità istituzionale, proponendo il solo modello culturale sbagliato senza esempi positivi, senza alternative ai giovani, abbandonati alla loro rabbia, alla strada e ai suoi richiami. Portare in tv Gomorra, assume effetti devastanti sui “figli di nessuno” che vedono nei clan e nella violenza l’unica “impresa” pronta ad “investire” su di loro. Questi giovanissimi hanno bisogno di seminare ed investire nel bene e nella cultura non sulla violenza, ma se non hanno esempi, indirizzi, spazi per loro si apriranno solo le porte del carcere minorile oggi e quello che ospita gli adulti domani, ritrovandoci adulti dediti al crimine e alla violenza, rischiando la morte, proprio come alcuni protagonisti di Gomorra nelle loro guerre di bande.
L’hanno ritrovata a terra senza vita in un’abitazione di Polignano a Mare nel barese, nel giorno dell’Epifania. E’ la mamma a raccontare la fine della figlia in modo quasi sbrigativo ai media, raccontando di un leggero malore e dell’arrivo dei soccorsi che non hanno potuto che costarne un arresto cardiaco. Erano stati i genitori, vedendo la figlia, 31 enne disabile, in difficoltà a chiedere aiuto. Troppo tardi, secondo la Procura di Bari, quegli stessi genitori ora sono sotto inchiesta per abbandono di incapace. Il sospetto dei magistrati è che la giovane possa essere morta di stenti, che la mamma e il papà possano avere delle responsabilità per non aver nutrito e curato adeguatamente la ragazza che non era in grado di badare a se stessa. Una situazione di degrado che era stata segnalata ai Servizi Sociali, la famiglia avrebbe in passato rifiutato l’assistenza dei servizi sociali. Anche i vicini avevano segnalato condizioni igieniche precarie. Al momento la mamma respinge ogni accusa. Sarà l’autopsia a rivelare se la ragazza fosse denutrita e a chiarire le cause esatte del decesso. Un’immagine a tinte fosche: la giovane viveva da anni chiusa in casa, denutrita e in condizioni degradate dal punto di vista igienico e sanitario. Con lei gli anziani genitori e un fratello. Una pensione sociale di 500 euro al mese e nessun supporto e contatto con la rete familiare e amicale. Nessun contatto neanche coi conoscenti del quartiere. Lo scenario di fronte al quale, pare si siano trovati gli inquirenti era di assoluto degrado, fra insetti, feci e residui di cibo in decomposizione. Stando a quanto accertato finora, la famiglia per anni si sarebbe rifiutata di ottenere assistenza dai servizi sociali ed è anche per questa ragione che la magistratura barese ipotizza che potrebbero avere responsabilità connesse al degrado della ragazza. Famiglie in difficoltà ma timorose nei confronti del sostegno e del supporto degli assistenti sociali, orchi per molti e la paura la fa da padrone. Un problema che sta diventando sempre più serio, che emerge con molta preoccupazione in chi ogni giorno lavora nel complesso e difficile mondo dell’aiuto. Sempre più famiglie in stato di bisogno, con figli a carico, hanno il timore a rivolgersi agli assistenti sociali, timorosi di far emergere le loro condizioni di difficoltà economiche, perché hanno timore che possano allontanare i minori dai loro genitori, o che un “estraneo” possa entrare nelle loro dinamiche familiari. Un vero e proprio spauracchio che rischia di allontanare molti nuclei che potrebbero ricevere aiuto dal luogo deputato all’assistenza, che è l’ufficio di servizio sociale, e che fa il paio con una tendenza ormai consolidata e purtroppo risaputa, di tanti soggetti e nuclei familiari che rifiutano quella che ritengono “elemosina” dell’ente pubblico e che, pur trovandosi nel novero delle difficoltà, non si affacciano ai servizi sociali per una forma di orgoglio personale. Ma, l’assistente sociale è “l’estraneo di fiducia” che con discrezione e segreto professionale è pronta a sostenere psicologicamente e socialmente le famiglie oltre la povertà, ma anche nell’assistenza e nell’accudimento delle persone con disabilità. Essere caregiver, ovvero, un familiare che si prende cura di una persona con disabilità non è facile, c’è bisogno di energie fisiche, psicologiche e di sostegno attraverso figure professionali a domicilio, ciò è possibile solo affidandosi all’assistente sociale, superando timori e paure. Forse se questi genitori avessero avuto meno timori e più forza di affidarsi ai servizi sociali del comune e alla rete familiare e amicale, avrebbero condiviso fatiche, paure, difficoltà ed oggi forse la giovane 31 enne sarebbe ancora viva, magari incentivata nella sua creatività e nelle sue abilità, avendo modo di socializzare e di vivere in una società che era pronta ad accoglierla, e ad aiutare i suoi genitori, che oggi portano forse sulla coscienza un’accusa di abbandono di persona incapace, regolamentata dall’art. 591 del codice penale, che si pone di tutelare il bene della vita e dell’incolumità pubblica dei cosiddetti soggetti deboli, e la norma è legata anche all’inosservanza di obblighi umani e assistenziali.
Non sono casi isolati né quelli dei genitori che postano sui social le foto dei figli minorenni né quelli dei giudici che li condanno a rimuovere le immagini da internet, ma per la prima volta, lo scorso dicembre, il tribunale di Roma, ha stabilito anche una sanzione pecuniaria per una mamma. Dietro la condanna, le lamentele del figlio sedicenne esasperato dal materiale che lei, tra l’altro coinvolta in una causa di separazione dal marito, pubblicava in rete. Non solo fotografie ma anche dettagli della storia famigliare. Il giudice ha stabilito il divieto per la donna di diffondere sui social notizie, dati e immagini del ragazzo. Nel caso in cui non rispettasse la sentenza dovrà risarcirlo con dieci mila euro. La legge sul diritto d’autore, stabilisce che il ritratto di una persona non può essere diffuso senza il suo consenso e a rafforzare la legge ci pensa la Convenzione Onu. I figli sono persone, per di più di minore età ed autonome, che hanno diritto a vedersi tutelata, riservata la propria sfera anche rispetto alle intenzioni dei genitori, lo ribadisce la Convenzione delle Nazioni Unite sull’Infanzia, che sottolinea come anche le persone minori d’età hanno diritto alla tutela della loro vita privata, della propria immagine e la propria riservatezza. E’ la prima volta che in Italia, viene stabilita, oltre che la rimozione del materiale foto e video, anche una multa per il genitori. Così il nostro Paese si inserisce nel solco già segnato da alcuni paesi europei dove le punizioni sono molto più severe, qui, è prevista una sanzione di 45 mila euro e la reclusione fino ad un anno, nei confronti dei genitori che violano la privacy dei loro figli. Ma sulla sentenza di Roma ha giocato un ruolo determinante anche il precedente dello scorso autunno, dove il tribunale di Mantova aveva stabilito che non si possono postare sui social network le foto dei propri figli minorenni se l’altro genitori non è d’accordo. Genitori social e figli senza privacy in balia del narcisismo dei genitori: foto delle feste, della comunione, di Halloween, foto dei temi che hanno preso il vito migliore della classe, considerazioni sui propri figli ed i social diventano una piazza di genitori narcisisti che azzerano la privacy dei loro figli, per di più minorenni. Ma se fino ad ieri era solo un invito a non pubblicare le foto dei minori per non rischiare di cadere nella trappola della pedopornografia, in un web sempre più spietato e grande fratello dei più piccoli, oggi, ci pensa la giurisprudenza a richiamare i genitori a foto che catturino il momento ma che restino private, dopo il giudice di Mantova che ha chiesto un’opinione comune e condivisa sulla pubblicazione delle foto in rete da parte di entrambi i genitori, il giudice di Roma, ha tutelato un minore di sedici anni, sentitosi schiacciato dalle foto in rete e dal racconto di una vicenda famigliare a suon di rancore a causa della separazione che si giocava sulla piazza social. Il giovane aveva persino chiesto al giudice di potersi trasferire in America e ricominciare lì una nuova vita. Genitori social che rimangono affascinati dagli scatti social che ritraggono i loro figli e catturano i commenti di decine di persone, che a volte serve ad avere conferme, perché per la psicologia postare specie nella fase della nascita, serve ad avere ottenere sostegno e supporto ma nel lungo periodo può amplificare le ansie. Si rischia di cadere nel tranello di voler mostrare a tutti i costi di essere genitori perfetti, considerando la genitorialità l’ingrediente essenziale della propria identità. Insomma, ben oltre la volontà di aggiornare gli amici o condividere bei momenti, al fondo degli atteggiamenti più martellanti c’è il vecchio meccanismo della conferma esterna. Che, riversa i suoi effetti anche sulle conseguenze emotive, positive o negative, ai commenti o ai like. E così i social si trasformano in uno specchio deformato: da una parte metto di sostegno e conforto, dall’altro severo giudice a cui abbiamo tuttavia assegnato un ruolo deliberatario. Oltre la psicologia ora c’è l’avvertimento dal tribunale: i genitori che pubblicano le fotografie dei figli minorenni sui social commettono un illecito che piò portare alla rimozione delle immagini e anche ad una somma di denaro a titolo risarcitorio a favore dei figli.
Vite lungimiranti e coraggiose, con storie particolari, vicende umane forti che scavalcano ogni forma di buonismo, le vite di chi ogni giorno della propria disabilità ne fa un punto di forza insegnando ad una società “Invisibile” la straordinarietà di una vita apparentemente limitata che parla di sentimenti e tematiche universali come l’amore, l’amicizia, il lavoro, l’innovazione e l’arte. Mondi apparentemente lontani ma vicini ad ognuno di noi, mondi nuovi, complessi, a volte duri e faticosi, altre volte belli e commoventi, ma comunque ricchi di umanità e abilità diverse. “Invisibili” perché i pregiudizi e la paura ci lasciano immobili dinanzi alla disabilità, ma “Invisibili” è l’etichetta che spesso chi ha una disabilità si dà, per denunciare una condizione nella quale troppo spesso vive chi ha a che fare con una disabilità. Allora cambiamo questa situazione: innanzitutto parlandone, nel modo più chiaro e sereno possibile. Leggendo questo articolo lasciate la compassione o peggio la pietà fuori dal vostro animo. Sono atteggiamenti inutili in un Paese che dovrebbe sforzarsi di eliminare qualsiasi tipo di discriminazione. Stigmatizziamo i comportamenti sbagliati e lasciamo spazio a soluzioni dettate dal rispetto dell’individuo ma anche dal buon senso. Invalido a chi? La disabilità ha delle parole corrette. Basta con diversamente abile, invalido, disabile. Le parole sono importanti. Di più, le parole mostrano la cultura, il grado di civiltà, il modo di pensare, il livello di attenzione verso i più deboli. Cambiamo il linguaggio e cambieremo il mondo. Semplicemente: persona con disabilità. L’attenzione sta lì sulla persona. La sua condizione, se proprio serve esprimerla, viene dopo. La persona al primo posta. Questa indicazione è contenuta come indicazione fondamentale dalla “Convenzione Internazionale sui diritti delle persone con disabilità”. Oltre al linguaggio c’è una scuola di pensiero, disabilità per molti è sinonimo di diversità, quando invece è una condizione di vita. Disabilità è anche sinonimo di molte altre abilità che spesso ci insegna chi ogni giorno ne fa un suo punto di forza: dagli atleti paralimpici, alla storia dello scultore non vedente Felice Tagliferri, che ha riprodotto il “Cristo Velato” ribattezzandolo “Cristo Svelato”, perché a Napoli non gli permisero di toccarlo, ma la sua fedele riproduzione raccontatagli nei dettagli dalle guide del museo hanno permesso a molti altri non vedenti di toccarlo. Ma ci sono anche i primi passi dell’esoscheletro del medico tetraplegico, Giambattista Tshiombo. Ma c’è anche l’atleta per tutti oggi ballerino non vedente che ha trionfato a “ballando con le stelle”, Oney Tapia, bello e con passi spettacolari. Eppure avvicinarci ad una persona con una disabilità ci spaventa, ci terrorizza, si inciampa in battutine infelici, in parole fuori luogo e non sappiamo rapportarci a chi ha una disabilità. Ma prendiamo in mano il coraggio e impariamo a rapportaci ad una persona con disabilità. Speso, quando incontriamo una persona non vedente abbiamo un tabù: la paura di usare la parola “vedere”, e facciamo difficoltà ad usare dei verbi e magari quando la si incontra abbiamo il “problema” di stringerla la mano, ma i tabù vanno eliminati. La cosa più sensibile quando vediamo una persona non vedente e vogliamo salutarla, ci presentiamo, gli diciamo chi siamo e gli diciamo apertamente che vogliamo stringergli la mano. Non bisogna avere paura di usare la parola “vedere” davanti ad un non vedente perché sono parole spontanee essendo noi esseri umani, senza cadere in scuse che seguono la parola pronunciata, ci si può scusare qualora la persona che abbiamo di fronte non abbia reagito bene, ma nella stragrande maggioranza dei casi sono i primi a usare questi termini o a scherzare sulle loro abilità ed i loro sensi. Da chi ha una disabilità dobbiamo attingere, vederli come una risorsa, un arricchimento fatto di coraggio, che si traduce in coraggio di vivere ma anche di farcela da soli, si muovono da soli, oltre gli ostacoli e le barriere, perché nonostante nel nostro Paese sia previsto l’abbattimento delle barriere architettoniche ancora oggi non vi sono attrezzature e software moderni che permettano alle persone con disabilità di orientarsi, spostarsi e viaggiare in piena autonomia senza incontrare intoppi. Eppure in Italia sono 4,5 milioni le persone con disabilità, che si scontrano con pochi servizi e poca integrazione. Solo il 18% ha un lavoro. I dati sono stati forniti lo scorso Dicembre dall’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane. Ma la vita delle persone diversamente abili và avanti con immensi successi, con doti incredibili, ed infiniti insegnamenti che oltrepassano le difficoltà e le barriere mentali ed architettoniche, invitandoci ad aprirci a quello che è restato per troppo tempo nascosto o meglio “Invisibile”.
La bambina deve essere vaccinata anche se la madre non dà il consenso. A sancirlo la sentenza del giudice del Tribunale civile di Modena, che ha dato ragione al papà della piccola. Quando la bimba è nata, oggi ha sette anni, i suoi genitori erano entrambi contrari alla vaccinazione, tanto da aver firmato una lettera “di obiezione di coscienza” all’obbligo vaccinale, poi si sono separati e lui con il tempo ha cambiato idea ed ha cominciato a temere per la salute della piccola ma la moglie è sempre rimasta irremovibile e non trovando un accordo, l’uomo si è rivolto ai giudici. Sono passati tre anni, nel frattempo è stata introdotta la legge che estende il numero delle vaccinazioni obbligatorie necessarie ad iscrivere i figli al nido, alla materna e alla scuola dell’obbligo, una ragione in più per accogliere la richiesta del padre. Una sentenza in cui il giudice non si è trovato davanti a due legittime opinioni, ma si è trovato da un lato davanti ad una superstizione pericolosa e senza senso: le pericolosità e l’inutilità dei vaccini; dall’altra a tutto ciò che dicono i pediatri: i vaccini sono sicuri, indispensabili alla salute dei bambini. Eppure in aula lo scontro non è mancato, perché la madre della piccola si è fatta assistere dal consulente Stefano Montanari, uno dei punti di riferimento del mondo no-vax, il quale sostiene che i vaccini siano pieni di pericolose nanoparticelle. Decisivo nella decisione è stato il perito nominato dal tribunale: nella sua relazione ha spiegato che la bambina è in condizioni tali da non aver problemi con le vaccinazioni. Il Tribunale è intervenuto anche sull’obiezione di coscienza espressa a suo tempo anche dal padre, questa è sempre revocabile, si dice nel testo depositato. Infatti, il papà si era rivolto oltre che al giudice di Modena anche al Ministero della Salute, ma oggi al suo fianco c’è una sentenza che obbliga la madre a vaccinare la propria figlia oltre le proprie ideologie e le proprie opinioni. Una sentenza che mostra come lo Stato è dalla parte della scienza, della medicina, a difesa dei più deboli. La bambina di Modena, dunque, anche se un po’ in ritardo rispetto ai tempi stabiliti sarà sottoposta alle vaccinazioni previste dal piano vaccinale. La sentenza riporta all’attualità il tema dei vaccini, un tempo scudo di malattie per la quale si rischiava la morte, oggi, temuti e portano allo scontro genitori ma anche sostenitori no-vax e convinti sostenitori dei vaccini. “La storia del mondo senza vaccini è realmente tragica. E la storia di quello post-vaccinale nel caso in cui si rifiutassero le vaccinazioni, potrebbe esserlo molto di più”, è l’opinione del paleopatografo, Francesco Galassi, tra gli under 30 più influenti nel campo della medicina. Paura e scetticismo con bambini al centro della decisione, perché le notizie viaggiano in rete. La presenza di informazioni fallace in rete, ha portato allo scetticismo di molti genitori nei confronti delle vaccinazioni sia da attribuire al deficit di conoscenza storica, ossia occorre una riscoperta dell’effetto devastante delle malattie infettive nel mondo pre-vaccinale. Informazione, conoscenza, superando scetticismo, paura ma anche il dolore, che a volte spinge a mettere in dubbio il valore delle vaccinazioni che non risolve la questione. Informazione e conoscenza in tema, che dovrebbe pervenire anche dal Ministero. Intorno al mondo dei vaccini girano notizie, voci, teorie, si parla di complotto, di egoismo, di un giro d’affari ma da parte del Ministero non ci sono opuscoli, linee guida, storia che racconti di un mondo senza vaccini e dell’enorme pericolo alla quali ci esponiamo senza copertura vaccinale. Il mondo dei vaccini sembra un mondo a sé, fatto di teorie e ideologie, eppure i casi aumentano: bambini sono morti perché privi della copertura vaccinale ed i genitori sono diventati sostenitori del progresso scientifico, sentendosi gli assassini dei propri figli; ma i casi, le epidemie a poco servono, se non c’è informazione, consulenza da parte del Ministero ed è ciò che ha chiesto la giornalista Francesca Barra, in una lettera senza risposta al Ministro Lorenzin, ammalatasi a Milano, lei e due dei suoi tre figli, di epatite A, che si trasmette per via oro-fecale da cibi crudi o dal poco igiene con gli alimenti. In realtà a Milano i casi di epatite A sono quadruplicati e nonostante da settimane la stampa ne parli di profilassi o di vaccini non se ne parla. Eppure il virus rischia di contagiare altre persone, in quanto dai ristoranti ai bar il cibo la fa da padrone. E la società civile resta a guardare, ad informarsi sul web che alimenta solo egoismo e complotto, perché non vaccinare i propri figli non solo li mette in pericolo, ma contesta anche la norma elementare per cui il comportamento individuale non debba nuocere agli altri. Così rifiutare i vaccini diventa l’espressione di un individualismo senza limiti, l’estremo rifiuto della società di massa.
Lasciare un caffè pagato per chi non può permetterselo. E’ la tradizione del cosiddetto caffè sospeso, nata a Napoli ma ora diventata pratica solidale in molti Paesi del mondo. Un’usanza nata durante la guerra, quando il caffè era oro, padre dell’idea Napoli, per ricordare agli avventori di lasciare un caffè pagato: la moka messa sul bancone. La moka è sempre quella, gli aneddoti si accumulano negli anni: da Aurelio De Laurentiis, presidente del Napoli, che molto spesso lascia una decina di caffè sospesi, ai professionisti che ogni giorno decidono di lasciare un caffè pagato. La crisi ha fatto il resto e la tazzina solidale esce da Napoli, sale lungo lo stivale e arriva fino a Pordenone contagiando persino Lampedusa. Nascono siti internet e diventa “la rete del caffè sospeso”, viaggia sui social network con oltre duecentosessantamila followers. La tazzulella cambia volto a Roma e diventa forno sociale, dove la gente inforna pane, lasagne, biscotti: tutto ciò che portano da casa ed è gratuito, mentre, l’aroma del caffè solidale si sparge in tutto il mondo: Spagna, Francia, Belgio, Svezia, e a Parigi il caffè sospeso diventa la baguette sospesa, in Tailandia è un pasto completo che resta sospeso per chi ne ha bisogno. A Torino si pensa al pane sospeso, un’idea al vaglio della commissione Servizi Sociali del Comune che potrebbe raccogliere e pubblicare sul sito dell’amministrazione le adesioni dei panificatori, tramite l’AssoPanificatori, disposti a partecipare e a consegnare il pane sospeso a chi ne ha bisogno. Pane acquistato dai clienti che desiderano donarne una parte. I destinatari sarebbero le famiglie in difficoltà con priorità verso le persone anziane, le famiglie in stato di disagio sociale, inoccupati. E se a Torino è solo un’idea al vaglio, a Salerno, da tre anni un panificio collabora al “pane sospeso”, ogni giorno, infatti, il panificio garantisce 15Kg di pane alle famiglie salernitane indigenti. A Messina, da anni i panifici espongono un salvadanaio destinato a piccole offerte che potranno aiutare famiglie in difficoltà, si potrà lasciare il resto o fare una donazione spontanea, anche di pochi centesimi. Le donazioni verranno poi convertite in “buoni acquisto” che verranno consegnati alle famiglie che fanno parte della “Rete Cibo Condiviso”, da spendere presso i panifici aderenti. Modi semplici per aiutare tante famiglie in difficoltà. Passi e prassi che mostrano lo specchio di un paese solidale e generoso. Ed il gesto semplice quanto umano e solidale di lasciare “sospeso” qualcosa è volato oltre oceano, dove Corby Kummer, uno dei più famosi food writer degli Stati Uniti, ha ripreso il concetto ed ha addirittura lanciato una sfida alle grandi catene americane: le aziende, secondo lui, dovrebbero aggiungere una nuova voce ai registratori di cassa, per permettere ai clienti di pagare una certa somma per gli altri. Magari in prossimità del Natale, potremmo imparare ad usare parole nuove, che non avremmo mai pensato di usare, il cui significato però ci piace, come per esempio: “pago anche un caffè sospeso”.