Archivi categoria: Una finestra sul mondo

Dal caso Cucchi alla cronaca che macchia l’arma dei Carabinieri. Le ombre si contrappongono alle stellette sul cuore di molti Carabinieri

untitled 2Ha confessato, con relativa chiamata in correo dei colleghi, uno dei militari indagati per il pestaggio subito dal geometra romano, Stefano Cucchi. Era l’ottobre del 2009, Cucchi, moriva all’ospedale Sandro Pertini di Roma, sei giorni dopo essere stato arrestato per possesso di droga dai carabinieri, che secondo le ricostruzioni, lo avevano massacrato di botte. Sospetti, dubbi, interrogatori, hanno tempestato questi nove lunghi anni che hanno portato alla verità sulla morte del giovane romano. Ombre e dubbi si sono riversati sull’arma dei carabinieri in questi giorni, accentuati anche dalla condanna con rito abbreviato di uno dei due carabinieri accusati di aver violentato due studentesse statunitensi in periodo di studio a Firenze. Il collega, ha preferito il rito ordinario ed è stato rinviato a giudizio. Vertici indagati. Veleni tra ufficiali. Rapporti opachi con la politica. La Benemerita negli ultimi tempi vive un momento difficile. L’immagine dell’arma dei carabinieri è stata offuscata negli ultimi giorni da questi fatti di indubbia gravità. Episodi anche inquietanti: gli scandali dal tenore Consip, si consumano nell’interno ed hanno a che fare con l’integrità personale e militare del singolo, ma ci sono episodi che stabilire quale sia il più inquietante è difficile, al di là dell’eco mediatico creato, preoccupano le modalità. Infierire su un fermato, nonostante la gracilità della sua corporatura e le sue condizioni di astenia legate alla tossicodipendenza, è un comportamento inaccettabile, seppur comprensibile la pressione lavorativa e la fatica di uomini di Stato nella lotta allo spaccio, spesso insultati e sbeffeggiati dai delinquenti che sono riusciti faticosamente a cogliere in flagrante e che molto spesso ritornano in stato di libertà dopo qualche giorno. Và aggiunto, comunque, un aspetto: anche un carabiniere ha diritto alla presunzione d’innocenza, per cui sarà la magistratura nei vari gradi di giudizio ad accertare la dinamica dei fatti e l’effettivo rapporto di causa-effetto fra il condannabile pestaggio e la morte di Cucchi. Comportamenti, atteggiamenti, che vanno condannati, prevedendo anche la radiazione per chi non onora e rispetta la divisa, se non altro perché parafrasando una frase che ho sentito e faccio mia “l’uniforme non si porta mai sbottonata e  non serve per fare flanella.” Ne esce indebolita e sminuita l’arma dei carabinieri da questo tritacarne mediatico e sociale. Le inchieste, gli episodi di cronaca nera che macchiano l’onore della divisa non aiuta ad avvicinare le forze dell’ordine ai cittadini, non aiutano a rafforzare quel senso di integrità e sicurezza che da sempre e da generazioni si nutre verso gli uomini in divisa. Non so bene se pensare che sia l’uomo a fare la divisa o sia la divisa a fare l’uomo. Forse entrambi uniti, si compensano. Certo è che quando si indossa una divisa ci si aspetta integrità morale e pieno rispetto della divisa in primis e della legge in secundis. Ma ogni appartenente all’arma è prima di tutto un essere umano ed è un singolo che rappresenta la legge, ma è un soggetto che rischia di essere tentato dalla corruzione che dilaga nella società o da comportamenti che non rispecchiano l’integrità personale. E’ per questo che bisogna scindere gli accaduti dalla divisa e dall’appartenenza all’arma, condannare il singolo e non un’intera squadra di uomini e donne che con onore, rispetto ed impegno ogni giorno contribuiscono a garantire la sicurezza e la legalità nelle nostre zone, con non poche difficoltà: carenze d’organico, di mezzi, rischiando ogni giorno la loro vita. Ma la forza della Benemerita risiede proprio nel fatto che la stragrande maggioranza dei suoi uomini porta le stellette non solo sul bavero, ma nel cuore, considera indossare l’uniforme che fu di Salvo d’Acquisto un fatto etico prima che estetico. Uomini giusti che hanno fatto della divisa la loro vita, vi racconto di Marco Pittoni, giovane tenente dei carabinieri che nel 2008 per sventare una rapina in un gremito ufficio postale degli inizi di giugno, nel centro cittadino di Pagani (Salerno), pagò con la vita pur di preservare la vita di tanti, tra cui molti bambini. Era soprannominato il “tenente buono”, quel carabiniere che entrando in una casa per lavoro incontrò un bambino che desiderava una bicicletta, uscito acquistò quella bicicletta tanto desiderata dal piccolo. Dentro quella divisa c’era un uomo umano, giusto e buono. Lottò con impegno e con tutte le sue forze contro il terrorismo delle brigate rosse prima e dalla mafia poi, di cui ne resterà vittima: Carlo Alberto Dalla Chiesa, vice comandante dell’arma dei carabinieri. Uomo d’impegno e di integrità professionale. Uomini e donne che hanno sacrificato la loro vita in segno di un’ideale, uomini che hanno indossato con onore e rispetto la divisa, onorandola sino alla morte. La biografia che si scorre in “vittime del dovere”, banca dati che raccoglie storie di vita e di morte degli appartenenti alle forze dell’ordine, è lunga e tempestata di atti di eroismo in una società difficile e complessa, ma che ai loro occhi sono atti ordinari, perché come disse nella sua omelia in occasione del decennale della scomparsa del tenente Pittoni, il cappellano militare “i veri carabinieri firmano col sangue il loro contratto”. Quasi ogni giorno, chi come me fa l’assistente sociale o comunque lavora nel panorama sociale, interagisce e collabora con l’arma dei carabinieri, che spesso con umanità, con delicatezza, con rispetto umano, si approcciano a storie intrecciate e difficili, entrando anche nelle case della gente con rispetto, cercando di alleviare paure ed incertezze iniziali: perché le storie di vita non sono indifferenti ai carabinieri. Controllo del territorio e contrasto ad ogni forma di illegalità, uomini e donne pattugliano i territori italiani ogni giorno, diventando anche vittime del dovere pur di garantire sicurezza e rispetto delle regole. Non una delle poche istituzioni che sopravvive alla stima degli italiani, stima che non deve esser messa in discussione mai.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

Contrassegnato da tag , , , , , , , , ,

“L’uomo nero” fa paura. Cresce in Italia l’insofferenza per lo straniero

untitledBambini stranieri esclusi dalla mensa scolastica e dallo scuolabus, frutto di nuovi adempimenti burocratici introdotti dalla sindaca di Lodi, Sara Casanova, ora al vaglio del Tribunale per incostituzionalità. In un men che si dica la macchina della solidarietà si è messa in moto contro la fredda burocrazia, raccogliendo 60 mila euro in pochi giorni, consentendo ai bambini stranieri obbligati dal provvedimento a non potersi sedere a mensa con i compagni italiani, di potersi integrare anche durante il pasto ai loro compagni di scuola. Il paese è il subbuglio, scenderà in piazza, perché nonostante le rassicurazioni dei due vicepremier, il provvedimento non è stato ancora ritirato. Il provvedimento, richiede alle famiglie extracomunitarie un documento reddituale rilasciato dal loro paese d’origine, una sorta di dichiarazione dei redditi rilasciato dallo Stato di provenienza. Qualora si è impossibilitati al recupero in Patria, i genitori dei piccoli saranno costretti a pagare la mensa in fascia massima altrimenti per il pranzo dovranno riportare i figli a casa o optare per il pasto a sacco che i piccoli consumeranno in un’altra aula, lontano dai loro compagni. Per ottenere il contributo regionale sull’acquisto dei testi scolastici in Veneto, i cittadini non comunitari devono presentare, oltre alla certificazione Isee, un certificato sul possesso di immobili o percezione di redditi all’estero rilasciato dalle autorità del Paese di provenienza. E’ quanto riportato sulle “istruzioni per il richiedente” pubblicato sul sito della Regione. I certificati dovranno essere presentati entro questa settimana. Non una norma anti immigrati, ci tengono a sottolineare dalla regione Veneto, che precisa di applicare solo la legislazione nazionale in materia di erogazioni e contribuiti e chiede ai comuni di rispettarla. A Firenze, una circolare diramata della Prefettura dispone il rientro dei profughi nei centri di accoglienza entro le venti e l’apertura dei pacchi postali destinati agli ospiti immigrati alla presenza degli operatori. Insorgono le opposizioni, sui social spopola l’indignazione, ma nel frattempo cresce un clima di insofferenza verso lo straniero: dalle politiche più restrittive sino all’atteggiamento repressivo degli italiani. Secondo i più recenti rapporti dell’ Ecri (European Commission Against Racism and Intollerance), in tutta Europa aumentano gli episodi di razzismo. Ma cosa c’è alla base di questo risveglio di paura, odio e risentimento contro gli immigrati che arrivano nel nostro Paese? E’ solo insostenibilità dei bilanci economici e del welfare? Per rispondere alle domande si può ipotizzare che tale stato d’animo nasca da un difficile rapporto, di alcune fasce della popolazione, con l’alterità, e la crescente capacità di presa di discorsi pubblici che apparentemente riconoscono le differenze, ma che in realtà finiscono per gerarchizzarle e radicalizzarle. Si tratta di una nuova forma di razzismo che non ha più come bersaglio una “razza biologica connotata” ma le differenze in quanto tali e il diritto ad esercitarle nello stesso panorama sociale. L’immigrazione, in quanto generatrice di differenze, è diventata così il fulcro del discorso razzista del nostro tempo. Su tutto continua a pesare, probabilmente, l’incompleta elaborazione del passato recente dell’Italia ovvero delle esperienze coloniali, delle leggi razziali e della collaborazione col nazionalsocialismo. Pesa anche la distorsione con cui si parla oggi di immigrazione, ormai diventata un fatto prevalentemente mediatico. L’immigrato diventa così un facile bersaglio perché appartenente ad un’altra cultura, proviene da un’altra nazione, è portatore di una condizione economica povera, arriva da aree del mondo lontane e svantaggiate, è percepito come un “pericolo”, un “concorrente” anche quando lavora e svolge lavori dequalificati. Eppure in un passato non poco lontano anche gli italiani sono stati immigrati, forse la “colpa” dello straniero è quella di ricordare un passato che a lui accomuna e che si preferisce rimuovere perché costringerebbe a mettersi in discussione. Il percorso dell’Italia multiculturale non è facile ma è indispensabile iniziare a costruirlo rielaborando questi aspetti dell’immaginario collettivo e sostenendo una coraggiosa idea di convivenza civile che dovrà attuarsi in una società sempre più differenziata. L’immigrazione è un’opportunità, non è solo un problema. Ma va gestita. C’è da chiedersi se è più facile pianificare gli ingressi così da poter negoziare con l’Europa o è più facile rendersi insofferenti e individuare misure che rendano difficile l’integrazione e la pacifica convivenza in una società multiculturale. Che il tempo, ci dia una risposta.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

Contrassegnato da tag , , , , , , , , , , ,

Maternity blues, quella sensazione di malessere che colpisce le neo mamme dopo il parto

untitledSenso di inadeguatezza, sensazione che la vita ti sfugga dalle mani, incapacità di organizzare il proprio tempo e il proprio spazio come prima dell’arrivo del bambino. Un mondo sommerso ed intimo, fatto di paure, angosce, mascherate dal sorriso e dalla felicità dell’arrivo di una nuova vita, ma non sempre la maternità è gioia. All’indomani del parto molte mamme provano sensazioni contrastanti e sconosciute per un momento così idilliaco e atteso. Il più delle volte dopo poche settimane questa sorta di ansia mista a depressione scompare da sola, ma talvolta resta e si può trasformare in depressione post partum, che tanto male fa alle mamme quanto ai bambini. Quello che le donne non dicono sulla maternità è un viaggio confidenziale che viaggia sui social spesso accompagnato dall’hastag “bastatacere”, madri che sfatano i tabù sulla gravidanza, denunciando mortificazioni subite durante i nove mesi o durante il parto. Racconti di coraggio e di verità che aiutano a salvare vite. Per anni il pensiero comune ed imposto parlava di dolore, di allattamento “solo” al seno e di paura a pronunciare la sola frase “depressione post partum”. Trattato poco e male. Molte neo mamme si sono sentite dire: “l’hanno fatto tutte”, “tutte abbiamo partorito con dolore. Tu perché richiedi l’epidurale?”, “allatta perché è un diritto, è un dovere di ogni madre. Fa bene al bambino e a te perché lo senti vicino”. Poco importa se il tuo corpo segnala un allarme, se la tua mente si sente stranamente stanca, sotto pressione, infondo le altre mamme sono felici, serene, in perfetta forma. La maternità è prima di tutto portatrice di vita e poi di esperienze soggettive. Le donne hanno bisogno di parlare, di raccontare e di raccontarsi anche nel post parto, del dolore, della stanchezza provata, non è sinonimo di debolezza o di “cattiva madre” ma è sinonimo di forza, perché raccontandosi e lasciandosi supportare si riesce a superare il terrore provato o che si prova, superando le ferite più intime. Le neo mamme in difficoltà non vanno sottovalutate e derise. Le madri vanno ascoltate. Ciò che fanno è un miracolo di cristallo. Delicatissimo. Come tale va trattato. Eppure ancora troppo spesso le mamme sono lasciate sole con le paure più intime, con le incertezze, con le difficoltà, con il buio psicologico. Una neo mamma su dieci in Italia soffre di depressione post partum nei primi tre mesi dalla nascita del figlio. A volte il dato sfiora il 15%. Una percentuale che si traduce tra le 50 e le 100mila donne ogni anno. Meno del 50% di chi è colpita da questo disturbo chiede aiuto e sostegno. Per tutelare il benessere psicofisico della mamma, della coppia e del bimbo nel periodo che va dalla gravidanza fino ai primi due anni di vita dei piccoli, Onda, Osservatorio nazionale per la salute della donna e di genere, ripropone la sua campagna “Un sorriso per le mamme”. Il fenomeno della depressione perinatale, che colpisce circa 90mila donne. Il 13% sperimenta già un disturbo dell’umore durante le prime settimane dopo il parto, un dato che sale al 14,5% nei primi tre mesi postnatali con episodi depressivi maggiori o minori ed al 20% nel primo anno dopo il parto. Si tratta di stime molto approssimative, dal momento che i sintomi sono frequentemente sottovalutati sia dalle pazienti sia dai clinici e che solo in circa la metà dei casi viene riconosciuto il disturbo e fornita la risposta adeguata. Un aiuto online. Attraverso il sito internet (www.depressionepostpartum.it) le future madri e le neomamme avranno la possibilità di cercare i nominativi e le attività dei centri di supporto per la depressione perinatale. Potranno infatti usufruire del servizio “L’esperto risponde” che permette di chiedere supporto a uno specialista. La depressione post partum è un problema di salute pubblica di notevole importanza, ma spesso sminuita o sottovalutata dalle donne, dalle famiglie e dalla società. Cerchiamo di conoscere gli aspetti psicologici ed il modo di approccio alla depressione post partum con la psicologa Verdiana Abitudine.

Dottoressa, la maternità dovrebbe essere il momento più idilliaco per una donna, eppure, spesso, è accompagnata dalla depressione post partum, cosa accade e cos’è la DPP?

Quando parliamo di depressione post partum indichiamo un disturbo a carico della sfera emotiva della puerpera, che si sviluppa entro 6 settimane dal parto per poi persistere nella peggiore delle ipotesi anche fino ad un anno e colpisce quasi il 15% della popolazione femminile anche se si tratta di un disturbo sotto diagnosticato. È pensiero comune che l’esperienza della maternità sia un evento così felice da essere immune da stati d’animo negativi, ma non è così. Voglio precisare che i disturbi cui può andare incontro una donna a seguito del parto possono essere tanti e di varia intensità, come un semplice stato melanconico dovuto ad uno squilibrio ormonale, che va incontro a spontanea remissione entro la prima settimana dal parto (maternity blues), oppure una vera e propria psicosi puerperale con problematiche più gravi che si spingono fino a dispercezioni e disturbi del pensiero. La DPP si colloca, in termini di gravità, a metà tra questi due poli per cui non va sottovalutata e va assolutamente trattata, poiché è a rischio cronicizzazione. La DPP è caratterizzata da tutti i sintomi tipici della normale depressione, quindi umore persistentemente triste con frequenti pianti e tendenze autocritiche, faticabilità e mancanza di energia, perdita di interesse per tutte le attività, disturbi del sonno e dell’alimentazione oltre che una vera e propria difficoltà di accudimento del neonato.

 

Perché alcune donne sono più soggette di altre a tale disturbo?

Il motivo per cui la DPP colpisce alcune donne piuttosto che altre esclude una più elementare ipotesi di squilibri ormonali a favore di altre più complesse che riguardano la vita passata della neo mamma, in primis il suo rapporto con la figura materna. È importante, infatti, che la donna durante il cambiamento dell’identità da figlia a madre non riattualizzi delle dinamiche relazionali del passato conflittuali e tumultuose con la sua stessa madre, bensì abbia un ricordo ed un vissuto felice e armonioso da riproporre poi nel rapporto col suo stesso bambino. Inoltre , La donna vive una relazione gestazionale con il bambino considerato parte di se stessa ma al momento del parto è costretta a separarsene, per cui anche questa “perdita” può innescare delle risposte depressive quasi come se stesse elaborando un lutto. Da non trascurare la componente socio-relazionale ossia la vicinanza degli affetti, primo fra tutti il partner, gli amici, la famiglia e l’inevitabile sostegno delle strutture ospitanti. Potremmo indicare un’ipotesi biologica per la diminuzione di noradrenalina e serotonina, neurotrasmettitori implicati nella regolazione delle interazioni e delle attività come lavarsi, dormire ecc. Altre concause possono essere di natura personale come il proprio livello di autostima, di natura economica o genetica come una certa familiarità nell’ambito dei disturbi psichiatrici. Dunque, da come si intuisce, le cause possono essere molteplici e soltanto al momento della valutazione psicologica della donna sarà possibile stabilire con certezza quella scatenante ed intervenire.

 

In passato non si soffriva di depressione post partum? Il problema di tutti i mali che affliggono la nostra società oggi non è quello di essere piombati all’improvviso nelle nostre vite bensì quello di aver assunto nel tempo dei tratti sempre più marcati ed intensi; è biologicamente prevedibile che una donna sperimenti un’alterazione del proprio umore dopo il parto, per cui anche nell’antichità le donne ne erano soggette ma sicuramente oggi tale alterazione è più rumorosa poiché la donna, sempre più emancipata a livello sociale, diventa sempre più vulnerabile a livello psicologico, ragion per cui fronteggia difficoltà aggiuntive a quella del semplice accudimento del bambino. La donna di oggi non ha l’esclusivo compito di procreare e allevare i figli. La donna di Oggi è una donna in carriera, combattuta dal desiderio di coronare la propria femminilità e dalla paura di perdere il lavoro durante la maternità; la donna di oggi convive con lo stress di procurarsi i mezzi necessari per crescere i propri figli poiché le precarie condizioni economiche fungono da ostacolo ; insomma sono aumentati gli agenti stressanti divenendo fertilizzanti di un eventuale malessere post partum.

 

Come si può aiutare una donna in depressione post partum e quali sono i consigli per ridurre DPP?

Il mio consiglio non è volto mai alla cura del sintomo quanto più alla sua prevenzione. Una donna che vive in un contesto di vita stressante e insoddisfacente deve, per il suo benessere personale in primis, imparare ad utilizzare al meglio le proprie risorse così da evitare eventuali declini in situazioni come il parto .come prevenzione risultano molto utili programmi di accoglienza delle future mamme per l’intera durata della gravidanza, dove la donna ha modo di esprimere ed elaborare le sue preoccupazioni e i suoi problemi. In caso invece di DPP conclamata, Il percorso più adeguato per una neo mamma è quello psicoterapeutico, a causa dell’impossibilità dell’assunzione di farmaci antidepressivi, che risulterebbero nocivi per il bambino in fase di allattamento. D’aiuto possono essere anche lo sport e i contatti sociali in modo da ridurre l’isolamento.

  Scritto in collaborazione con la psicologa dottoressa Verdiana Abitudine

(Pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

 

Contrassegnato da tag , , , , , , , , , ,

Minori, una carta per figli con genitori separati: ecco 10 diritti

untitled 2Gli amori naufragano, le storie vedono la parola fine, ma un legame resta per la vita: essere genitori. I genitori si lasciano spesso tra litigi e discussioni e a pagare per l’incapacità di mediare degli adulti sono i figli. I conflitti con i figli al centro non sono mai vantaggiosi per nessuno. Meglio rinunciarci. C’è una strada da percorrere prima del divorzio: trasformare un fallimento in una nuova prospettiva. Le separazioni se ben gestite, possono diventare un momento di snodo positivo nella vita di genitori e figli. Questa volta i figli anziché trovarsi sul terreno di scontro e ricatti, hanno potuto dire la loro in un decalogo di desideri. Ai grandi hanno chiesto attenzioni e ascolto, affetti mantenuti e rispetto. Le loro parole, le esperienze ed i timori, storie e sogni sono finiti nella “carta dei diritti dei figli nella separazione dei genitori”, presentata qualche giorno da dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza Filomena Albano. Un decalogo che pone al centro di tutto gli interessi dei più piccoli. In Italia sono quasi 100mila i bambini con genitori separati. Piccole regole perché non siano travolti e stravolti nelle “guerre” degli adulti, affinché possano mantenere la continuità affettiva costruita negli anni, relazioni solide, rapporti distesi in un clima di serenità. La carta nasce sul volere del Garante che nei mesi scorsi ha creato un’apposita commissione di giovani che si è integrata al parere degli esperti: legali, psicologi, assistenti sociali sentiti in diverse audizioni. Dieci punti brevi ma decisi, ispirati alla convenzione di New York, ai quali i genitori dovranno cercare di aderire anche col supporto degli avvocati, delle varie figure professionali e della agenzie educative.

La carta si apre con il diritto dei figli di continuare ad amare ed essere amati da entrambi i genitori. Mantenendo i loro affetti con i fratelli ed i nonni. Perché non è detto che i figli dei separati debbano essere bambini sofferenti. Tra gli altri diritti individuati nel decalogo vi è quello di continuare ad essere figli e vivere la loro età, di essere informati e aiutati a comprendere la separazione. Ancora, i piccoli anche nella separazione hanno diritto ad essere ascoltati e ad esprimere i propri sentimenti, a non subire pressioni, condividendo le loro scelte con i loro genitori. Hanno diritto a non essere coinvolti nei conflitti, vanno rispettati i loro tempi, preservati dalle questioni economiche e meritano delle spiegazioni. Preziosi consigli che mirano a trasformare un momento doloroso in una svolta senza traumi.

LA CARTA DEI DIRITTI DEI FIGLI NELLA SEPARAZIONE DEI GENITORI

I figli hanno il diritto di continuare ad amare ed essere amati da entrambi i genitori e di mantenere i loro affetti

I figli hanno il diritto di essere liberi di continuare a voler bene ad entrambi i genitori, hanno il diritto di manifestare il loro amore senza paura di ferire o di offendere l’uno o l’altro. I figli hanno il diritto di conservare intatti i loro affetti, di restare uniti ai fratelli, di mantenere inalterata la relazione con i nonni, di continuare a frequentare i parenti di entrambi i rami genitoriali e gli amici.
L’amore non si misura con il tempo ma con la cura e l’attenzione.

I figli hanno il diritto di continuare ad essere figli e di vivere la loro età

I figli hanno il diritto alla spensieratezza e alla leggerezza, hanno il diritto di non essere travolti dalla sofferenza degli adulti. I figli hanno il diritto di non essere trattati come adulti, di non diventare i confidenti o gli amici dei loro genitori, di non doverli sostenere o consolare. I figli hanno il diritto di sentirsi protetti e rassicurati, confortati e sostenuti dai loro genitori nell’affrontare i cambiamenti della separazione.
I figli hanno il diritto di essere informati e aiutati a comprendere la separazione dei genitori

I figli hanno il diritto di non essere coinvolti nella decisione della separazione e di essere informati da entrambi i genitori, in modo adeguato alla loro età e maturità, senza essere caricati di responsabilità o colpe, senza essere messi a conoscenza di informazioni che possano influenzare negativamente il rapporto con uno o entrambi i genitori. Hanno il diritto di non subire la separazione come un fulmine, né di essere inondati dalle incertezze e dalle emozioni dei genitori. Hanno il diritto di essere accompagnati dai genitori a comprendere e a vivere il passaggio ad una nuova fase familiare.

I figli hanno il diritto di essere ascoltati e di esprimere i loro sentimenti

I figli hanno il diritto di essere ascoltati prima di tutto dai genitori, insieme, in famiglia. I figli hanno il diritto di poter parlare sentendosi accolti e rispettati, senza essere giudicati. I figli hanno il diritto di essere arrabbiati, tristi, di stare male, di avere paura e di avere incertezze, senza sentirsi dire che “va tutto bene”. Anche nelle separazioni più serene i figli possono provare questi sentimenti e hanno il diritto di esprimerli.

I figli hanno il diritto di non subire pressioni da parte dei genitori e dei parenti

 

I figli hanno il diritto di non essere strumentalizzati, di non essere messaggeri di comunicazioni e richieste esplicite o implicite rivolte all’altro genitore. I figli hanno il diritto di non essere indotti a mentire e di non essere coinvolti nelle menzogne.

I figli hanno il diritto che le scelte che li riguardano siano condivise da entrambi i genitori

I figli hanno il diritto che le scelte più importanti su residenza, educazione, istruzione e salute continuino ad essere prese da entrambi i genitori di comune accordo, nel rispetto della continuità delle loro abitudini. I figli hanno il diritto che eventuali cambiamenti tengano conto delle loro esigenze affettive e relazionali.

I figli hanno il diritto di non essere coinvolti nei conflitti tra genitori

I figli hanno il diritto di non assistere e di non subire i conflitti tra genitori, di non essere costretti a prendere le parti dell’uno o dell’altro, di non dover scegliere tra loro. I figli hanno il diritto di non essere costretti a schierarsi con uno o con l’altro genitore e con le rispettive famiglie.
I figli hanno il diritto al rispetto dei loro tempi

I figli hanno bisogno di tempo per elaborare la separazione, per comprendere la nuova situazione, per adattarsi a vivere nel diverso equilibrio familiare. I figli hanno bisogno di tempo per abituarsi ai cambiamenti, per accettare i nuovi fratelli, i nuovi partner e le loro famiglie. Hanno il diritto di essere rassicurati rispetto alla paura di perdere l’affetto di uno o di entrambi i genitori, o di essere posti in secondo piano rispetto ai nuovi legami dei genitori.

I figli hanno il diritto di essere preservati dalle questioni economiche

I figli hanno il diritto di non essere coinvolti nelle decisioni economiche e che entrambi i genitori contribuiscano adeguatamente alle loro necessità. I figli hanno il diritto di non sentire il peso del disagio economico del nuovo equilibrio familiare, e di non subire ingiustificati cambiamenti del tenore e dello stile di vita familiare, di non vivere forme di violenza economica da parte di un genitore.

I figli hanno il diritto di ricevere spiegazioni sulle decisioni che li riguardano

I figli hanno il diritto di essere ascoltati, ma le decisioni devono essere assunte dai genitori o, in caso di disaccordo, dal giudice. I figli hanno il diritto di ricevere spiegazioni sulle decisioni prese, in particolare quando divergenti rispetto alle loro richieste e ai desideri manifestati. Il figlio ha il diritto di ricevere spiegazioni non contrastanti da parte dei genitori.

(Pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

 

Contrassegnato da tag , , , , , , , , ,

Non solo carcere: la giustizia può essere anche riparativa con la mediazione penale. Conosciamola meglio

untitled“L’uomo non è il suo reato e il carcere non è l’unico modo per scontare la pena”, sussurra qualche prete che concilia la fede ed il reato, avvicinando i modi spicci al silenzio sornione dei barbarici. Anzi in alcuni casi il carcere potrebbe addirittura non rispondere in modo adeguato alle indicazioni del dettato costituzionale : tra coloro che vivono l’espiazione della pena solo con la misura detentiva tendono a ricadere nella recidiva, i dati parlano del 70%. In un sistema penale perfetto ma controverso, si fa largo il tema della “giustizia riparativa”, nel frattempo molte cooperative lavorano ogni giorno per l’accoglienza dei familiari detenuti, organizza i permessi premio dei detenuti, gli inserimenti lavorativi di ex detenuti presso aziende agricole e commerciali, con la formula delle borse lavoro e della messa alla prova. Una società di tentazioni, che condanna chi vi cade. La giustizia riparativa è una tesi indigeribile per chi alla tentazione ha saputo resistere. C’è un lungo percorso da fare e servono gli strumenti idonei. Occorre provvedere alla formazione dei mediatori, che hanno un ruolo fondamentale quando si parla di mediazione penale, non sempre facile. Si trovano di fronte a persone che devono recuperare integralmente la loro vita e hanno bisogno di accompagnatori professionalmente preparati. Solo se si investe in questo processo innovativo, penale, processuale e culturale, c’è la possibilità di facilitare l’incontro tra la vittima e il reo. La giustizia riparativa, su cui c’è grande fermento, è un cammino in salita e troppo spesso frainteso dalla società. La convinzione errata è che la giustizia riparativa serva a convincere il magistrato di sorveglianza ad essere di manica larga nell’attribuzione dei permessi. E’ tutta un’altra cosa, un percorso lungo e laborioso, doloroso, che porta il detenuto a rimettersi in discussione e che ha bisogno della disponibilità della vittima o della famiglia della vittima, ma non condiziona il decorso della pena. Una prima applicazione di giustizia riparativa si è avuta tra le famiglie delle vittime ed i terroristi degli anni di piombo. Le famiglie avvertivano una sensazione di insufficienza, nonostante la condanna inflitta ai terroristi. In quel caso fu applicata una “giustizia orizzontale” che è quella di reggere lo sguardo dell’altro, di chi sta di fronte e lasciarsi interrogare. Attraverso un mediatore il reo deve “riparare” ciò che ha rotto: lo chiede l’Europa e anche la legge italiana. Un modello che cresce attraverso la riflessione, la pratica e soprattutto il dialogo con gli operatori di giustizia ed i Procuratori della Repubblica. La riparazione è un modello duro e occorre che le parti lo scelgano volontariamente. La mediazione non è negoziazione e l’utilizzo di misure alternative aiuterebbe la macchina della giustizia a diminuire i tempi dei processi e a umanizzare la riabilitazione durante l’espiazione della pena. La “giustizia riparativa” è innanzitutto un prodotto culturale, capace di promuovere percorsi di riconciliazione senza dimenticare le esigenze della giustizia “retributiva” –incentrata sul rapporto tra il reato e la pena- e la giustizia “riabilitativa” –più attenta al recupero del detenuto. Riannodare i fili spezzati con l’atto criminoso non è semplice né scontato, anche se è provato che la società ci guadagnerebbe, se è vero che scontare la pena con misure alternative abbatte la recidiva al 5%. Il crimine, dal punto di vista della giustizia riparativa, viene visto anche come qualcosa che provoca la rottura di aspettative e legami sociali, e per questo ci si può attivare per tentare di ricomporre questa frattura.

Non solo aspetti culturali e sociali che sono poi la vera sfida affinché si possa guardare e accettare la giustizia riparativa, ma ci sono aspetti normativi, giuridici, aspetti professionali intrinsechi, così ne ho voluto parlare con l’avvocato penalista ed assistente presso la cattedra di diritto penale all’Università degli Studi di Salerno, Stanislao Sessa, a cui ho posto delle domande per capire meglio e dal piglio giurisprudenziale la mediazione penale.

Avvocato in questi giorni è al vaglio della Commissione Giustizia lo schema del decreto recante le disposizioni in materia di giustizia riparativa e mediazione     reo-vittima. Ci vuole illustrare in cosa consiste e come dovrebbe svolgersi la mediazione in ambito penale?

Anzitutto vi è da rimarcare che, sostanzialmente, la commissione di un reato apre un conflitto — purtroppo spesse volte insanabile — tra l’autore e la persona offesa, comportando una lacerazione di legami sociali che spesso richiede di vagliare istanze non delegabili di riparazione e di responsabilizzazione, essenziali ai fini di una corretta tutela del patto sociale. La peculiarità di questo processo riparativo e responsabilizzante, consiste nel contatto diretto (o anche indiretto) tra vittima ed autore del reato, prendendo in considerazione gli aspetti comunicativi e relazionali tra le parti e affrontando, se del caso, le conseguenze civili del reato in termini riparativi. Ovviamente per avviare e svolgere una proficua mediazione penale, è necessario il consenso delle parti al fine di far evolvere la loro interazione conflittuale verso un accordo soddisfacente per entrambe. Si è — nel caso della mediazione — in presenza di una forma di Giustizia che definirei “atipica”, in quanto non avente il consueto carattere retributivo che, per sua natura, assume quale oggetto dell’azione giudiziaria il reato e quale finalità l’accertamento della colpevolezza e la giusta punizione del reo con la garanzia, per quest’ultimo, dell’applicazione di una pena proporzionata alla gravità del reato. Siamo, a contrario, dinanzi ad una forma di Giustizia riparativa, totalmente antitetica rispetto a quella “ordinaria”, in grado di offrire al reo la possibilità di porre rimedio al danno cagionato alla vittima e favorirne la reintegrazione, nella comunità, attraverso un processo in cui l’obiettivo primario sarà la ricostruzione del legame sociale, prima facie compromesso dalle conseguenze dannose derivanti dal reato. Ordunque, la Giustizia riparativa ha come oggetto i danni provocati alla vittima, in quanto diretta conseguenza del reato, ed ha come obiettivo l’eliminazione di tali conseguenze attraverso l’attività riparatrice intrapresa dall’autore del reato. All’interno di tale modello, particolare valore assumono le parti — reo e vittima —, mentre un ruolo centrale ed operativo sarà assunto da una figura terza ed imparziale: il Mediatore.

Avvocato la giustizia riparativa richiama il ruolo di varie figure professionali, come si inserisce il ruolo del legale, ed invece, quali competenze e capacità dovrebbe avere un Mediatore penale?

Per riallacciarmi compiutamente a quanto testè affermato, più che la centralità della figura dell’Avvocato — che, essenzialmente, assume il ruolo di portavoce delle istanze di una parte privata — rimarcherei e sposterei il focus sul binomio Giudice-Mediatore. Infatti, su invito del Giudice, le parti potranno avvalersi dell’operato di un Mediatore-Conciliatore professionista che le guiderà verso una soluzione condivisa della controversia. Dunque non sarà più una sentenza a decidere il giudizio — come avviene nell’odierna realtà processuale — ma saranno le parti, con l’ausilio del Mediatore a raggiungere un’intesa, senza subire gli strascichi di una decisione giudiziale, di talché affidarsi ad un programma di mediazione penale significa diventare artefici dell’andamento del proprio processo. In questi casi, come detto, centralità assoluta riveste la figura del Mediatore, nella misura in cui deve assumere una posizione decisamente neutrale ed equidistante dalle parti in causa. Il suo ruolo è quello di facilitare la comunicazione e garantire il rispetto reciproco, senza imporsi in alcuna decisione che vittima e reo assumono congiuntamente e disgiuntamente, in piena autonomia e con l’assistenza del Mediatore. Particolare attenzione dovrà essere dedicata alla formazione dei Mediatori penali, ovvero coloro che realizzano i programmi di giustizia riparativa. Dovrà trattarsi, quindi, di figure professionali, particolarmente qualificate per esercitare il ruolo, in possesso di almeno una laurea universitaria triennale in vari settori e materie disparate (ad esempio quelle giuridiche, pedagogiche, psicologiche o socio-umanistiche) ovvero iscritti a un ordine o un albo professionale con specifica esperienza in relazione alle predette materie.

Avvocato crede che possa risultare utile ed efficace alla giustizia penale la figura di un Mediatore?

Ritengo sia ancora prematuro poter rispondere in maniera esaustiva a questo quesito. In via preliminare posso affermare, però, che il linguaggio del Giudice è essenzialmente quello di chi deve decidere quando il conflitto non può essere sanato, poiché egli decide ed ha l’ultima parola, sulla scorta del dettato normativo. Invece, al contrario, la mediazione, per essere tale, deve parlare un altro linguaggio, quello “del potrebbe essere diversamente”, che non è certo il linguaggio del Giudice. Dunque il linguaggio del Mediatore — che è quello della “possibilità alternativa” — è lontano oltre che da quello del Giudice anche da quello dell’Avvocato poiché, rispettivamente, l’uno è “chi deve decidere”, l’altro “chi deve difendere e rappresentare”. Pertanto, quando come molto spesso accade il Giudice o l’Avvocato s’improvvisano mediatori, se non acuiscono ulteriormente i sentimenti negativi provocati dall’evento reato, riescono ad ottenere un “effimero falso accordo” dettato e finalizzato alla convenienza, giacché collegata a una determinata situazione. Penso anche, però, che la notoria “litigiosità” degli italiani possa in qualche modo minare la buona riuscita ed il buon andamento dell’istituto, atteso che sia quantomeno una strada in salita, anche effettuando un raffronto, non proprio esaltante, con la mediazione in ambito civile. Ed infatti proprio in ambito civile, il processo di mediazione (sotto forma di tentativo di conciliazione obbligatoria, esperito presso l’organo di conciliazione istituito presso ogni Consiglio dell’Ordine) ha fallito le aspettative, nella misura in cui un numero ristrettissimo di procedimenti termina in questa fase, per così dire “preliminare”.

Mi permetta Avvocato, nonostante lavori nell’ambito sociale e creda nel reinserimento del reo, faccio un po’ fatica — ed ipotizzo anche l’opinione     pubblica — ad immaginare che in vicende complesse e delicate, dove essenzialmente si ha “sete” di giustizia, vi possa essere un “incontro” tra il reo e la persona offesa. Dal Suo osservatorio, in questi casi come si può innestare il fenomeno della mediazione?

Sicuramente la mediazione penale — che contempla programmi tra vittime e autori di reato — va al di là della negoziazione e della conciliazione. Nella mediazione penale, dove l’asimmetria delle parti costituisce un fattore specifico, lo scopo è quello di far avvicinare ciò che di regola è considerato inavvicinabile, ossia la vittima e il reo, e di accogliere ciò che  non trova accoglienza nella nostra società, ossia la sofferenza e il disordine. In questo ambito nacque e si perfezionò il “metodo” della “mediazione umanistica” della sociologa J. Morineau, che consente ai protagonisti di comprendere lo svolgersi degli eventi, la loro responsabilità e scoprire la propria capacità di cambiare atteggiamento. Tale trasformazione avviene quando viene toccata la parte più elevata dell’uomo, quella spirituale. La mediazione penale è, dunque, un percorso di incontro, confronto e dialogo tra il reo e la vittima del reato, per permettere il passaggio dalla violenza al riconoscimento della sofferenza, dal disordine alla costruzione di un nuovo ordine. Quale procedura, volontaria, informale e flessibile, permette, ove possibile, di evitare la pena e, in certi casi, anche il processo “cercando di superare la logica del castigo”. In conclusione, vedo con favore tale novella legislativa, nel convincimento che trattasi di ulteriore tentativo di ridurre il malcontento delle vittime dei reati nei confronti di una giustizia lenta ed inadeguata a rispondere, in tempi civili, alla richiesta di giustizia, che troppo spesso s’infrange contro lo scoglio della prescrizione. Si è voluto così decongestionare il carico di lavoro gravante sugli uffici giudiziari penali, nei reati ove vi siano dei danni risarcibili, creando un canale che dia ad entrambe le parti contrapposte un beneficio: al reo indiscutibili benefici che dovrà “guadagnare” risarcendo il danno arrecato con la commissione del reato.

In collaborazione con l’avvocato penalista e assistente alla cattedra di diritto penale dell’Università di Fisciano, avvocato Stanislao Sessa.

(Pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

 

Contrassegnato da tag , , , , , , , ,

Decreto sicurezza, le proposte di Salvini e le sfide delle Ong e dei contrari

untitled 2Ha incassato il voto all’unanimità il decreto che porta la firma del vicepremier Matteo Salvini, che ha visto il “suo” decreto approvato, introducendo importanti novità in tema di sicurezza, immigrazione, gestione dei beni confiscati alla mafia e protezione internazionale. Ora il decreto passerà al vaglio del Quirinale per il parere del Presidente della Repubblica che se lo firmerà diventerà atto avente forza di legge, che avrà bisogno di essere ratificato entro sessanta giorni da entrambe le aule parlamentari, altrimenti il suo valore sarà nullo. “Disposizioni urgenti –titola l’atto- in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’Interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la gestione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata.” La dicitura serve a giustificare l’atto che è stato direttamente emanato dal Governo in quanto atto urgente avente forza di legge senza passare per il Parlamento. Quello cui punta la nuova legge è ridurre il numero di concessioni del diritto d’asilo eliminando il permesso di soggiorno per motivi umanitari, introducendo una tipizzazione dei casi di tutela complementare, con precisi requisiti per i soggetti interessati. La protezione umanitaria viene sostituita da “sei permessi speciali”: vittime di grave sfruttamento, motivi di salute, violenza domestica, calamità nel Paese d’origine, cure mediche e atti di particolare valore civile. Inoltre, il decreto, propone la revoca del diritto d’asilo per chi delinque, la revoca dalla cittadinanza per chi viene condannato per terrorismo e il raddoppiamento del periodo in cui è possibile che un immigrato possa essere tenuto nei centri per il rimpatrio (CPR) in modo da poter contrastare la clandestinità evitando la dispersione di irregolari sul territorio nazionale. Si parla poi dei casi specifici in cui il permesso di soggiorno e la cittadinanza possono essere revocati e gli stranieri espulsi. La protezione internazionale viene negata o sospesa dopo una condanna in primo grado per i reati di violenza sessuale, lesioni gravi e rapina, violenza a pubblico ufficiale, mutilazioni sessuali, furto aggravato e traffico di droga. Previsti provvedimenti analoghi anche in caso di pericolosità sociale seppure l’immigrato non sia ancora stato condannato. Per chi subisce una condanna in via definitiva per reati di terrorismo è prevista la revoca della cittadinanza acquisita e l’espulsione immediata. In tema di rimpatri, almeno sulla carta, cambia tutto. Nei centri di permanenza per il rimpatrio gli stranieri potranno ora stare fino a 180 giorni, prima era di 90 giorni, affinché in quel periodo di tempo, possa essere organizzata l’effettiva esecuzione della misura ed è prevista la costruzione di nuovi centri, gli attuali possono ospitare sino ad un massimo di quattrocento persone. Prima del decreto al trascorrere dei novanta giorni, se il migrante non era ancora stato rimpatriato non poteva essere più tenuto nel centro e, seppur privo di permesso di soggiorno, veniva lasciato andare. Il decreto prevede la riduzione dei progetti di inclusione sociale e integrazione. Solo i titolari di protezione internazionale ed i minori stranieri non accompagnati hanno diritto a seguire i progetti di integrazione ed inclusione sociale previsti dal sistema. Inoltre, i richiedenti asilo, potranno essere accolti solo nei “Centri di accoglienza secondaria” e nei “Centri di accoglienza per richiedenti asilo”. Oltre al pacchetto immigrazione il decreto introduce novità in fatto di sicurezza urbana. Il cosiddetto braccialetto elettronico potrebbe essere introdotto per reati quali stalking e maltrattamenti; i vigili urbani delle grandi città verranno dotati di taser, pistola elettronica in vi di sperimentazione in queste settimane, il Daspo, sarà esteso anche a chi è indiziato per reati di terrorismo. Il Daspo diventerà anche urbano col divieto di avvicinarsi ad ospedali, scuole, aree dove si svolgono mercati o fiere per tutti gli indiziati di terrorismo. Chiude il pacchetto l’idea di inasprire le pene per chi occupa abusivamente gli immobili e nuove norme che permettono il miglioramento della gestione dei beni confiscati alla mafia. Contrastato, discusso e “inequilibrato” per molti, che ritengano che il decreto sicurezza avrà effetti opposti a quelli che vorrebbe ottenere sulla carta. Scettici anche i sindaci che temono un abbandono delle periferie e una totale mancanza sul territorio di progetti d’inclusione. In disaccordo anche “medici senza frontiere” che parla di un decreto orientato a smantellare ulteriormente il sistema di accoglienza italiano, già fragile e precario, a prolungare la detenzione amministrativa di persone che non hanno commesso alcun crimine, e a ridurre le protezioni attualmente disponibili per persone vulnerabili. “Un ulteriore passo nelle politiche migratorie repressive del governo italiano, volte a un indiscriminato arresto dei flussi e alla criminalizzazione della migrazione, in mare e in terra, e senza alcun interesse per la vita, la salute e la dignità di migliaia di uomini, donne e bambini” – ha dichiarato il capomissione MSF in Italia. Sembra proprio che lasci discutere molto questo nuovo decreto che in realtà abbandona il lato umano e solidale, tratto caratteristico dell’Italia. Il problema immigrazione và affrontato e con i paesi dell’Unione Europea, perché si tratta di vite umane che necessitano di protezione ed assistenza, non di repressione, che è giusta nel momento in cui c’è da punire la commissione di un reato. C’è da chiedersi se un decreto che rivede la sicurezza e le misure di integrazione riesca a gestire e ad operare in un’altra ottica l’immigrazione. A posteri ardua sentenza.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

Contrassegnato da tag , , , , , , , , , , , ,

Bambini dietro le sbarre, l’infanzia con mamma reclusa tra le mura di un penitenziario

untitled 2E’ morta sul colpo la piccola Divine di quattro mesi, lanciata dalla mamma dalle scale del nido del carcere di Rebibbia, avviato l’iter per la morte cerebrale per il fratello di due anni. Sulla mamma, 33 enne di origini tedesche pende ora l’accusa di duplice infanticidio, è piantonata all’ospedale Pertini di Roma, pare abbia dichiarato al suo legale “i miei bambini adesso sono liberi,” apparendo consapevole del gesto compiuto; nel frattempo, il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, ha sospeso i vertici del carcere. La cronaca riporta alla luce il tema dei bambini reclusi insieme alle loro mamme nei penitenziari italiani. Sono 62 i bimbi, con 52 mamme, attualmente presenti nelle carceri italiane. Dal 2007 sono stati creati in Italia cinque Icam (istituti di custodia attenuata per detenute madri), più vicini ad un asilo che ad una prigione, per ridurre al minimo i traumi dei più piccoli. Poche per troppi bambini reclusi. Nascere e crescere chiusi dietro le sbarre: sono i figli neonati delle detenute nei carceri femminili italiani, a cui la legge permette di vivere coi propri figli all’interno della struttura fino al compimento dei tre anni. Non è un modo di dire, poiché il giorno stesso del compleanno il bambino viene prelevato dalla struttura dove vive con la madre e affidato ad altre cure, nella migliore delle ipotesi alla famiglia d’origine. Una vita, quella dei piccoli, modulata sulle dinamiche della detenzione adulta, con le stesse sbarre, gli stessi colori, i pochi spazi e il problema del superaffollamento. E così capita che un bambino debba crescere dietro le sbarre, scontando una pena che non ha commesso, a volte anche da solo, senza altri bambini. A questi piccoli si aggiungono quelli che ogni giorno entrano in carcere per far visita al genitore detenuto: 100 mila ogni anno in Italia, sottoposti a perquisizione prima di entrare, proprio come gli adulti, e spesso sono costretti a incontrare il genitore in spazi grigi e chiusi. Tutto previsto dall’ordinamento penitenziario del 1975, mentre una legge che dispone diversamente esiste, ed è la legge 62 dell’aprile 2011 che introduce due alternative alla detenzione per questi bambini. La prima di queste opzioni sono gli Icam (Istituti a custodia attenuata per detenute madri con prole fino a tre/sei anni) che sebbene siano carceri, a livello edilizio sono comunque più simili a una casa normale, anche se la donna vive la propria quotidianità da detenuta. La seconda alternativa al carcere vero e proprio sarebbero, invece, le famose case famiglia protette, che dovrebbero essere destinate a donne che non hanno la possibilità di ripristinare la normale convivenza con il figlio per mancanza di un domicilio. Eppure la legge del 2011 urla con le sue misure alternative che i bambini in carcere non devono starci. Chi nasce e cresce in detenzione soffre di gravi deprivazioni sensoriali. La vita di un minore in carcere è uno schiaffo ai suoi diritti, il mondo è visto dalle sbarre di un penitenziario tra urla, sofferenze, storie di vita non facili, colori spenti, giochi monotoni e in luoghi chiusi e angusti, a volte in stanze piccole, per motivi di spazi, mentre fuori c’è il sole, la vita, i parchi giochi e poco oltre il mare. Il carcere non è il luogo dove poter essere madri, non è possibile gestire i propri figli, crescerli secondo criterio. I tempi, i modi, le compatibilità sono decisi altrove. E anche le esperienze significative, l’esplorazione del mondo, avvengono con altri. Come i volontari che operano in molti penitenziari, che nel fine settimana portano fuori dalle mura carcerarie i piccoli, che aspettano con gioia queste giornate. Ma arrivano poi le angosce, la paura di non tornare più dalla mamma o quella di non uscire più. Le madri sbagliano ma i bambini ne pagano le conseguenze in ambienti inidonei all’infanzia e alla possibilità di essere madri. La legge c’è ed è quella del 2011 che pensa a luoghi senza sbarre, armi o divise. Possibili soluzioni che ad oggi sono ancora utopia in un paese che non guarda ai diritti dei più piccoli, negandogli un’infanzia serena, spensierata, ma fatta di celle, di ambienti piccoli, di spazi verdi inesistenti, con un impatto psicologico non indifferente: a questi bambini vengono negati gli affetti, l’amore dei familiari, la possibilità di socializzazione, ma ancora la possibilità di conoscere il mondo, la curiosità e la scoperta tipici dei primi anni di vita. La vita tra le sbarre per un bambino si traduce anche in difficoltà di linguaggio, a volte imparano parole, gesti, atteggiamenti da adulti. Possono riscontrare difficoltà di inserimento in classi di bambini, possono essere iperattivi, sviluppare aggressività. Inoltre, l’istituto di pena spesso è l’elemento ostacolativo tra il bambino ed il genitore. L’istituto penitenziario non è il luogo adatto per un incontro, spesso sono gli assistenti sociali o anche il giudice a non concedere l’autorizzazione per un incontro ravvicinato tra madre e figlio, quando viene concesso, i bambini subiscono l’impatto con la realtà e vengono trattati dagli agenti come adulti, ritrovandosi nelle grandi stanze del parlatorio ad incontrare i loro genitori, senza privacy, senza possibilità di gioco. Bambini che vivono da piccoli realtà che solo un adulto può accettare e comprendere, fanciulli a cui l’infanzia viene concessa sotto reclusione, perché mamma sconta la pena e per riflesso anche suo figlio. C’è bisogno di avvicinarsi alla pena degli adulti con gli occhi di un bambino, perché le colpe degli adulti non possono ricadere sui più piccoli e l’infanzia non può e non deve essere negata o filtrata. Bambini a cui lo Stato deve garantire un’infanzia oltre le sbarre.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

Contrassegnato da tag , , , , , , , , ,

Gli alunni si allontano dalla scuola. Italia maglia nera della dispersione scolastica

untitledLa crisi arriva tra i 16 ed i 17 anni: ci si sente grandi e le regole vanno strette, la scuola appare pesante e faticosa, noiosa, distaccata dalla realtà, i professori, degli adulti che guadagnano poco e si sgolano in classe per ore, e il lavoro poi, per un giovane è un miraggio, una chimera, i pomeriggi a studiare o non studiare è infondo lo stesso. E’ l’esercito di quei sedicenni che un giorno hanno detto “no” alla scuola. Quei ragazzi che una mattina hanno deciso di non entrare più in classe, di buttare alle ortiche libri, quaderni, interrogazioni, compiti in classi e giudizi. Ma anche le cose belle della scuola: gite, amici, sport. Un numero enorme di giovani lascia la scuola, oltre 3 milioni di studenti, in vent’anni, una fila lunga da Domodossola a Canicattì, causando quello che viene chiamata “dispersione scolastica” o più comunemente “evasione scolastica”. Secondo uno studio di “Tuttoscuola”, l’Italia è maglia nera della dispersione scolastica. Il numero più elevato in Sardegna con il 33%, seguita dalla Campania col 29,2%. Il Nord Ovest ha la stessa dispersione del Sud (25%). Eppure studiare conviene: i disoccupati con la licenza media sono il doppio dei diplomati ed in quadruplo dei laureati, inoltre, lo studio incide sulla salute, riducendo i costi per la sanità, comporta meno criminalità e meno costi per la sicurezza. Le cause dell’abbandono possono essere molteplici, e soprattutto una scelta degli studi superiori poco orientata e seguita, che spesso favorisce il verificarsi di tale fenomeno. L’evasione scolastica è un fenomeno complesso che comprende in sé aspetti diversi e che intessa l’intero contesto scolastico-formativo. Il fenomeno, intreccia due problemi: il soggetto che tende a disperdersi nella società, a trascorrere più ore in strada, diventando un facile bersaglio della criminalità organizzata; e quello relativo al sistema che produce la dispersione. Aspetti soggettivi: si preferisce il lavoro già alla tenera età alla scuola ed aspetti macro-sociali: non è facile convincere le famiglie ed i ragazzi che a scuola vale la pena andarci, che a scuola si cresce, si cambia, si diventa cittadini. Da Nord a Sud, dai quartieri alle città si susseguono le segnalazioni di presidi ai servizi sociali, centinaia di genitori vengono denunciati, specie al Sud, connotando una vera fuga dai banchi di scuola, che a vent’anni, nell’età adulta si ritrova spaesato e senza un titolo di studio. Perché se è vero che i titoli valgono a ben poco non averli significa esserne fuori, diventare invisibili, pronti ad entrare nell’esercito dei “Neet”, quegli oltre due milioni di giovani italiani tra i 15 ed i 29 anni, che non lavorano, non studiano e non hanno formazione. Sono gli esiliati. Gli inoccupati. Gli sfiduciati. C’è chi si aliena davanti al computer oltre 134 mila giovani in più espulsi o autoespulsi dal mondo produttivo.
C´è chi trascorre ore davanti al computer, nello stile degli hikikomori, adolescenti che decidono che il mondo è nella loro camera da letto e nei rapporti virtuali della rete. Oppure ci sono quei giovani che incontri al centro commerciale: passano il tempo guardando le cose, le merci, gli oggetti, ma non spendono, perché i soldi non li hanno, e i pochi a disposizione servono per il cellulare. Non solo i potenziali “neet” tra coloro che abbandonano la scuola, perché il fenomeno interessa anche il nord Italia, regioni da sempre più ricche, dove il lavoro c’è ancora. I teeneger del Nord Est lasciano la scuola per andare in bottega. Vengono ribattezzati come i “fuggitivi più fortunati”, perché chi lascia la scuola senza un paracadute, senza un’ideale del domani rischia la deriva, il branco, rischia di deprimersi, chiudersi, isolarsi. La dispersione scolastica è un urlo straziante e silenzioso al tempo stesso di tanti giovanissimi abituati agli agi e ai comodi, o semplicemente poco stimolati, confinati in una creatività fatta di social network e di tecnologia, ma una creatività non loro, che giorno dopo giorno spegne il loro potenziale, le loro idee personali che si omologano agli altri. Bisogna saper intercettare i segnali prima che sia troppo tardi. La scuola ha bisogno di fondi ma anche di adattarsi alle esigenze dei ragazzi. In alcuni quartieri di Napoli per combattere la dispersione scolastica, gli insegnanti da tempo concordano con i ragazzi programmi di studio più adatti, per stimolarli, per avvicinarli alla scuola. E’ fondamentale ascoltare i ragazzi e coinvolgere i genitori. La scuola deve creare iniziative e progetti: corsi musicali, teatrali, laboratori, rendiamo la scuola un contenitore di vita e non soltanto di nozioni. Bisogna però rafforzare l’impegno contro la dispersione scolastica replicando le azioni positive già avviate e migliorando il rapporto tra le istituzione scolastiche e i servizi sociali, cercando di costruire percorsi comuni con tutti i soggetti esterni che lavorano con la scuola: terzo settore, associazioni, singoli volontari e che passano anche per il coinvolgimento dei genitori e per l’apertura della scuola al territorio circostante. Non è difficile creare una scuola per tutti, c’è bisogno di fare rete, unendo le energie, le forze e le risorse umane e finanziarie.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

Contrassegnato da tag , , , , , , ,

Scuola, il diritto allo studio non vale per gli studenti disabili

untitled 2“Mio figlio per andare a scuola dovrà attendere l’arrivo del sostegno”. “Le ore di sostegno sono state ridotte”, sono alcune delle storie che mi scrivono o mi raccontano i genitori di ragazzi con disabilità. Le storie che raccolgo dimostrano che il diritto a frequentare la scuola in Italia non vale per tutti. Sono migliaia gli alunni e studenti con disabilità fisica o psichica, che a poche ore dall’inizio dell’anno scolastico non possono ancora partecipare alle lezioni insieme ai loro compagni di classe. L’assenza di assistenza personale in classe e di un trasporto adeguato purtroppo non è una sorpresa. L’Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare segnala criticità e problemi: assistenza carente e barriere architettoniche, specialmente nelle regioni del Sud. Criticità e problemi che mettono a rischio il diritto allo studio degli alunni con disabilità, sancito in primis dalla Costituzione italiana e in secundis dalla Convenzione Onu sui Diritti delle Persone con Disabilità. Molte le carenze: dagli insegnanti di sostegno specializzati, alla mancanza di piani didattici personalizzati. Secondo i dati sono oltre 250 mila gli alunni con disabilità, un numero in crescita che mostra un elemento positivo in vista di una piena inclusione scolastica di tutti i giovani con disabilità, ma la mancanza di investimenti che assicurino personale qualificato ed un giusto trasporto, rischia di peggiorare la situazione e danneggiare chi non ha colpa. I disagi si estendono su tutto il territorio nazionale, con criticità diverse sia a livello geografico, sia dei singoli istituti scolastici. L’orario di frequenza in teoria è uguale per tutti, ma per i tanti alunni e studenti con disabilità si devono poi tener conto anche delle ore necessarie per il sostegno, delle ore che effettivamente vengono assegnate e che possono essere “coperte” da insegnanti specializzati e da educatori personali. 139 mila insegnanti di sostegno accoglieranno gli studenti con disabilità, 13 mila i recenti stabilizzati, ma secondo i recenti dati di Fish, mancano ancora all’appello circa 40 mila posti di ruolo di docenti specializzati. Le stabilizzazioni sono senza dubbio un intervento positivo ma non sufficienti a garantire la continuità didattica e a fare in modo che tutti i bambini e i ragazzi con disabilità possano seguire le lezioni ogni giorno. Stando ai dai di Fish, circa l’80% degli alunni ha cambiato due insegnati di sostegno nel corso dello scorso anno scolastico e il 48% ne ha cambiati persino tre. Secondo la normativa vigente l’insegnante di sostegno è a pieno titolo docente di tutta la classe: ciò significa che la sua presenza è un valore per tutta la classe e non solo per lo studente con disabilità. In molti casi la sola insegnante di sostegno non basta, alcuni alunni non sono autonomi nella mobilità, nel mangiare o nell’andare in bagno, deve poter contare sul supporto fornito da un’altra figura professionale: l’assistente all’autonomia e alla comunicazione o assistente ad personam, figura professionale specifica e riconosciuta e finanziata dagli enti locali. Secondo i dati Istati, in stima questi alunni possono contare su circa 12.5 ore settimanali di assistente ad personam nelle scuole primarie e circa 11.5 ore in quelle secondarie. Nel Mezzogiorno tale aiuto si riduce drasticamente con un gap di oltre tre ore rispetto alle scuole del Nord. Un capitolo alquanto reale sono le ancora troppe barriere architettoniche nelle scuole. Secondo la Corte dei Conti, nello scorso anno scolastico su un totale di 39.847 edifici attivi, più di 10 mila non risultano in regola con la normativa sulle barriere architettoniche. In particolare, non risultano a norma, le scale e i servizi igienici specie nel Mezzogiorno, si riscontra anche la scarsa presenza di segnali visivi, acustici e tattili nelle scuole di tutta Italia. Alunni e genitori che si ritrovano a scontrarsi con la lenta burocrazia che lascia l’amaro in bocca, carenza di servizi e strutture non adeguate ai loro figli. Ci sono genitori che mi raccontano di banchi inadeguati per le disabilità dei loro figli, dopo i pellegrinaggi tra uffici comunali, Asl, dirigente scolastico, estenuati arrivano a reperirlo o a farselo costruire pur di garantire un’esperienza unica al proprio figlio, perché la scuola favorisce la relazione, l’autonomia, la conoscenza di cose nuove, la socializzazione con figure nuove e con i compagni, che offrono la possibilità di progredire, di acquisire nuove conoscenze. Genitori che si trovano sempre più in difficoltà a gestire situazioni che richiedono spesso di assentarsi dal lavoro per ottenere ciò che è di diritto, sentendosi abbandonati invece che accolti da un sistema che fatica a funzionare come dovrebbe. Sembra proprio che le istituzioni continuino a parlare di inclusione scolastica e di diritto allo studio, ma nei fatti restano solo parole. Sembra quasi che sia un favore elargire i diritti dovuti ai nostri ragazzi, come il sostegno a scuola, e sembra quasi che ciò che a loro è dovuto sia un privilegio concesso. È necessario costruire un impianto strutturale solido in cui le istituzioni si prendano cura degli studenti e collaborino con le associazioni del territorio per la realizzazione del diritto allo studio. E’ importante creare collaborazioni, fare rete, partendo dal dialogo con i docenti ed i genitori per trovare insieme soluzioni che permettano agli studenti di scegliere liberamente e di vivere l’esperienza scolastica oltre la loro disabilità, che non può e non deve essere un limite ma un valore aggiunto che permette la piena integrazione scolastica. Non smettono di crederci gli alunni e nemmeno i genitori che non si arrendono di fronte ad una fredda burocrazia.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

Contrassegnato da tag , , , , , , , , , ,

Riforma del diritto di famiglia: tutte le novità e l’introduzione della mediazione familiare. Conosciamola meglio

untitledA leggere commi e idee di separazione, sembra d’essere lontani anni luce della sfera dei sentimenti. Seppur nella visione romantica cantata da Venditti “certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano”, altri approdano direttamente in tribunale. Pronto a rivoluzionare la giurisprudenza in tema di separazione è il decreto legge del senatore Pillon in discussione a Settembre, ma già in dibattito sociale. Tra le novità, via l’assegno per i figli e l’assegnazione della casa, ma tempi paritetici da spendere insieme. Introdotta poi la mediazione familiare obbligatoria. La fine di una storia d’amore quando ci si è giurati amore eterno non è mai una fine indolore, specie quando ci sono dei figli, inoltre la separazione non incide solo sui sentimenti ma anche sulle questioni materiali. Le nuove norme prevedono che chi vorrà separarsi dovrà obbligatoriamente rivolgersi ad un “mediatore familiare”, figura già in auge da qualche anno, le coppie fino ad oggi si rivolgono spontaneamente o su indicazioni di esperti o del giudice al mediatore familiare, con l’obiettivo di ritrovare l’equilibrio e la comprensione umana e genitoriale anche dopo la separazione. Con la riforma, diventa obbligatoria e a carico di chi si separa, con la clausola di invarianza finanziaria. Un incontro di mediazione costa all’incirca cinquanta euro, ma può arrivare anche al doppio, a cui si aggiunge il costo degli avvocati, che secondo un recente decreto del ministero della giustizia, ricevono per la mediazione un corrispettivo ad hoc. Il ddl poi prevede, salvo in rari casi, l’eliminazione dell’assegno di mantenimento a favore del genitore meno capace economicamente, senza tenere conto di coloro che non hanno un lavoro o che magari vi hanno rinunciato. Ma non è tutto: il progetto di legge prevede che chi non ha la possibilità di ospitare il figlio in spazi adeguati non ha diritto di tenerlo con sé secondo i tempi “paritetici”. Un corto circuito normativo: il genitore più povero rischia di perdere anche la possibilità di vedere il figlio. Il disegno di legge, mette mano anche alle norme sulla casa: se l’abitazione familiare viene, in via del tutto eccezionale, assegnata a uno dei due genitori, costui deve versare all’altro un’indennità di occupazione che sarà soggetta a tassazione. Sino a oggi la legge prevedeva che il giudice dovesse tenere conto del valore dell’assegnazione nella regolamentazione dei rapporti tra i genitori, con la riforma invece ci sarà un passaggio di denaro e la creazione di nuove tasse. Una riforma che presenta qualche stortura, rischiando di discriminare i figli di coppie separate, trattati diversamente rispetto agli altri. Con buona pace del tanto declamato “best interest of the child” –migliore interesse del fanciullo- che ricorre spesso in allegato alla relazione che accompagna il disegno di legge. Sembrerebbe leggendo il nuovo ddl che si voglia riscrivere diversamente la bi-genitorialità: uguaglianza e parità materiale a annullando il significato di pari responsabilità nella gestione di due ruoli diversi e complementari. Gli aspetti sociali e normativi del nuovo decreto legge introducono però una novità, che se vedrà la luce, sarà obbligatoria: la mediazione familiare, introducendo a pieno titolo nell’integrazione professionale anche il mediatore familiare. Così ho deciso di conoscere questo istituto da vicino, parlandone con la dottoressa Mariella Romano, laureata in giurisprudenza e dal 2013 mediatrice familiare, dopo un master in mediazione familiare e pedagogia familiare, iscritta ad una delle associazione più rappresentative della mediazione in Italia: A.I.Me.F, in quanto non esiste ancora un albo professionale per i mediatori familiari, e mi spiega nella nostra chiacchierata che l’istituzione di un vero e proprio albo professionale è uno degli aspetti presi in considerazione dal ddl Pillon.

1. Chi è e cosa fa il mediatore familiare?

-Il mediatore familiare è un professionista altamente qualificato che ha competenze di tipo sia giuridico che psicologico ed è inoltre esperto nelle tecniche di negoziazione. Normalmente si tratta di un avvocato, di uno psicologo, di un pedagogista o di un operatore del sociale che si è poi ulteriormente specializzato attraverso appositi corsi post laurea.
-Il mediatore familiare accoglie le persone ed il loro disagio; ascolta i bisogni e le esigenze di ciascuno; tiene conto del punto di vista di tutti e ne valorizza le risorse; aiuta le parti a comunicare in maniera rispettosa e stimola le persone a trasformare il conflitto in qualcosa di costruttivo nell’interesse di entrambi e degli eventuali figli.

2. Come Mediatore Familiare qual è l’approccio utile per stimolare la costruzione di un dialogo complice e progettuale nella coppia?

-Sicuramente quello di far capire ai mediandi cosa vuol dire “separarsi bene”, dando voce alla multidisciplinarietà delle tematiche legate alla famiglia, per comprendere disagi e possibili sviluppi sani e cercando di spiegare le dinamiche connesse alla mediazione familiare, come relazione di aiuto che si inserisce nel vissuto emotivo della famiglia.

3. Nella maggior parte dei casi la coppia separata non riesce ad arrivare ad un divorzio consensuale e così ricorre al parere del giudice per la decisione sulle modalità, oneri compresi, del divorzio. Perché sente di consigliare la via della Mediazione Familiare? L’approccio verso il conflitto e verso le parti coinvolte è diverso?

-La mediazione familiare è quello strumento che consente alla coppia genitoriale di giungere ad un’elaborazione consapevole della fine della propria unione. Essa garantisce una paritetica applicazione del principio di bigenitorialità , prevenendo quegli effetti psicologici ed emotivi che potrebbero ripercuotersi sulla crescita dei figli.
-La mediazione familiare sottolinea l’importanza di decidere il proprio futuro in prima persona ponendo al centro dell’accordo il superiore interesse dei figli. L’aspetto piu’ caratterizzante della mediazione familiare è quello della responsabilità genitoriale. Quella responsabilità e competenza genitoriale che senza sconti o deleghe vengono poste al centro della riorganizzazione della famiglia dopo la rottura del legame coniugale.

4. Il ddl Pillon che intende riformare il diritto di famiglia introduce tra le novità la mediazione familiare obbligatoria, cosa ne pensa lei?

– Non posso che essere fiduciosa, se si tiene conto del fatto che l’U.E. ha già da anni espressamente indicato i principi a cui ogni Stato membro dovrebbe ispirarsi nel promuovere la mediazione familiare i quali sono stati recepiti da molti di essi con una concreta applicazione della procedura di mediazione. Inoltre è anche opportuno sottolineare che la mediazione familiare non è solo uno degli aspetti salienti previsti dalle politiche sociali dell’Unione Europea , ma è anche lo strumento con cui un Paese civicamente evoluto avrebbe il dovere di risolvere le proprie controversie endofamiliari.

5. Quella postilla “obbligatoria” ritiene possa spaventare la coppia che dovrebbe intraprendere il percorso di mediazione?

-Potrebbe…, per questo motivo risulta fondamentale che durante il primo incontro informativo la coppia genitoriale riesca a comprendere modalità , tempi , ruoli e finalità della procedura mediativa di cui saranno esclusivi protagonisti.

6. Il percorso di mediazione si può interrompere in qualsiasi momento, se dovesse divenire obbligatoria ed una coppia per assecondare l’obbligatorietà intraprende il percorso di mediazione ma lo interrompe ben presto, non si rischia di incorrere in un cane che si morde la coda?

-Il ddl è ancora in fase di elaborazione pertanto credo che lo stesso sarà soggetto ad altre ulteriori modifiche…ad ogni buon conto posso solo appellarmi al buon senso di coloro che intraprenderanno tale percorso. Genitori in grado di capire che negli affari di famiglia si vince solo se si vince tutti e che pertanto la mediazione familiare rappresenta lo strumento piu’ idoneo a conseguire tale risultato.

Con la collaborazione della dottoressa Mariella Romano, mediatrice familiare

(Articolo pubblicato per il mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)
Contrassegnato da tag , , , , , , , , , , ,