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Duplice suicidio nel salernitano, gli aspetti sociali e psicologici della vicenda

untitled 2Trova la figlia morta e si lancia nel vuoto. La tragedia in un mattino di fine agosto sconvolge e lascia sotto shock la città di Pagani, in provincia di Salerno. Sono morte a distanza di poche ore mamma e figlia, unite da un dolore comune, legate anche dal dramma di un gesto estremo: all’alba di ieri un’ex infermiera della cittadina salernitana si è lanciata dal terzo piano della sua abitazione del centro storico della città, dopo aver rinvenuto il corpo della figlia, ventiseienne, priva di vita nel suo letto. Una storia familiare dolorosa, fatta di malesseri e stati depressivi, difficoltà che si acuivano mentre il malessere interiore logorava le loro vite, chiuse nell’estrema riservatezza. Pochi mesi fa, si racconta, c’era stato un altro episodio: atti di autolesionismo a cui fece seguito un intervento tempestivo. Madre e figlia, insieme, in un legame indissolubile, stessa strada nella cura come nella morte. Insieme nel viaggio tempestoso e problematico della vita ed insieme anche nella morte. I racconti umani delineano il profilo di due donne discrete, educate, composte, chiuse nella loro riservatezza e nel percorso di rinascita della vita che le ha viste unite anche nel tragico gesto , del fine vita. Oltre la cronaca, oggi però si punta il dito sui professionisti che da tempo seguivano le donne: erano in carico ai Servizi Sociali Comunali e al Dipartimento di Salute Mentale, professionisti che hanno fatto tutto quanto in loro potere per tentare di offrire soluzioni e sostegno. Non entrerò negli aspetti procedurali o nel singolo episodio, ma è giusto far chiarezza anche sotto gli aspetti professionali che vengono messi in discussione in queste ore e nell’immediato accaduto di episodi simili. Quando, gli organi di stampa, riportano la dicitura “erano seguiti dagli assistenti sociali”, si pensa a dei servizi latenti o assenteisti. L’immagine che si configura è quella di una lotta tra l’opinione pubblica e gli operatori sociali, nemici e rivali, il cui oggetto del contendere è una storia che merita rispetto ed una morte che merita la sua privacy anche nell’ultimo drammatico atto della vita. Voglio fare alcune riflessioni di carattere generale. La versione dei fatti che si mormora è ovviamente unilaterale, si ferma al chiacchiericcio di strada. Gli operatori sociali, gli esperti del settore socio-sanitario e i magistrati non possono replicare perché, altrimenti rivelerebbero notizie del fascicolo di soggetti in carico, notizie davvero delicate, talvolta drammatiche, e comunque destinate solo ai canali istituzionali. Per cui non aspettatevi l’assistente sociale nel salotto televisivo che replica o una smentita ad una notizia, perché sarebbe deontologicamente scorretto. Mentre, si racconta di aver fatto poco o di averlo fatto male, nessun operatore sociale potrà replicare, difendere il proprio operato, perché si tratta di un lavoro umanamente bello ma alquanto complesso e difficile, perché non è facile seguire le vite contorte, difficoltose, arrovelliate, di chi attraversa un momento di vita non facile, difficile è poi intraprendere un cammino con il proprio utente, che serba timori, paure, perplessità ed ha soprattutto i suoi tempi per fidarsi, aprirsi e vedere l’assistente sociale come “l’estraneo di fiducia”. Esiste poi una tutela legislativa alla riservatezza dei fatti, alla quale nessun operatore socio-sanitario può sottrarsi. Come si vede, i problemi sono molti e di notevole spessore, che restano in bilico con la tentazione di assecondare la curiosità e l’emotività dell’opinione pubblica. Non solo un aspetto sociale ma anche psicologico delinea la vicenda, è così che ho deciso, credendo fortemente e fermamente nell’integrazione professionale e nel lavoro d’equipe di consultare un’abilitanta in psicologia, laureata in psicologia cognitiva, con esperienze di tirocinio al Dipartimento di Salute Mentale di Nocera Inferiore, la dottoressa Verdiana Abitudine con la quale ho cercato di approfondire la tematica del suicidio e gli aspetti psicologici correlati.

1. Dottoressa il caso del duplice suicidio di Pagani ha scosso l’intera comunità che incredula si chiede come sia potuto succedere. Cosa scatta nella psiche umana, perché si arriva a pensare e a compiere il suicidio?

Il suicidio viene considerato dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) la seconda causa di morte in Italia dopo gli incidenti stradali, e nel mondo oltre 800.000 persone all’ anno muoiono per la medesima causa. Sono casi che destano sempre tanto sgomento e la prima domanda che ci si pone è : “perchè lo ha fatto?”. Ebbene è sempre un compito difficoltoso rispondere con esattezza a questa domanda, perchè ogni caso è a sè e dietro ognuno si celano le più svariate motivazioni: che sia la presenza di un nucleo depressivo, ansioso, un disturbo psicotico, una sofferenza che attanaglia la propria vita, un periodo di marcata vulnerabilità psicologica; insomma, anche se la motivazione è differente da caso a caso c’è comunque un fattore che accomuna tutte queste tristi vicende ovvero uno stato di “disperazione”, per cui il suicidio viene delineato come l’unica via di fuga da un’ insostenibile situazione dolorosa, un problema apparentemente irrisolvibile che chiude le finestre del futuro e non lascia entrare alcuno spiraglio di luce; infatti non è la situazione in sè ad essere così grave quanto l’importanza che gli si attribuisce. Per questo motivo il tentativo di effettuare a posteriori un’autopsia psicologica potrà fornirci un quadro solo parzialmente adeguato, salvo qualche minima percentuale di casi in cui al gesto siano precedute minacce o risultino pervenute le motivazioni del suicida stesso attraverso lettere o altri strumenti.

2. Sappiamo che le due donne erano seguite dal Dipartimento di Salute Mentale, l’opinione pubblica spesso si chiede come possa accadere un evento del genere quando si è seguiti da dei professionisti, ci può spiegare meglio lei?

Il gesto suicidario non è mai prevedibile e forse nei rari casi in cui ci si trova di fronte a palesi minacce di suicidio, si tratta di semplici “tentativi” inscenati sottoforma di richiesta di aiuto e ricerca di attenzioni, nei quali casi possiamo trovare ancora nell’individuo la speranza di un miglioramento, un voler vedere dopo cosa succede, cosa cambia. Nel caso specifico la ragazza era seguita dal DSM, ma non sempre le vittime hanno il coraggio di chiedere aiuto e rivolgersi a figure professionali con le quali intraprendere specifici percorsi. Molteplici, infatti, sono i casi di impensabili vittime, anche giovani, che non hanno dato pregressi allarmi di ritiro sociale, di richiesta di aiuto nemmeno in famiglia, di periodi difficili e che da un giorno all’altro lasciano oltre al dolore della loro perdita anche l’incredulità delle persone che “mai si sarebbero immaginati, proprio lui!”. Tutto questo per dire che il primo passo da compiere in assoluto è rivolgersi a psicologi e psicoterapeuti i quali, con appositi percorsi, sostengono i pazienti nelle loro vicissitudini quotidiane perchè, ci tengo a sottolinearlo, “NO, non è una vergogna rivolgersi ad uno psicologo”, non è sinonimo di debolezza e non si tratta di una stigmatizzazione! in terapia si può lavorare su sè stessi, eventualmente lottare contro istinti suicidi, mascherati e non, attraverso dei programmi di rafforzamento delle proprie risorse personali, delle proprie capacità di fronteggiare gli stressors della vita, di aumentare la propria resilienza ma si tratta di processi che richiedono tempo, costanza e determinazione oltre che un precoce intervento.
3. Normalmente qual è il percorso che segue una persona in carico al DSM?

I dipartimenti di salute mentale offrono percorsi di sostegno di vari approcci a seconda delle esigenze dell’utenza, con equipe multidisciplinare che si avvale dell’uso di strumenti testistici per l’inquadramento approfondito del paziente in modo da proporre interventi personalizzati presso psicoterapeuti o, eventualmente, terapie farmacologiche con psichiatri. Inoltre l’equipe infermieristica provvede alla continuità della terapia farmacologica sia in loco che domiciliare per garantire a coloro che sono impossibilitati le cure prescritte.

4. Nel caso specifico, la madre pare abbia rinvenuto il cadavere della figlia suicida, dopodiché ha deciso di togliersi anche lei la vita. Spesso i genitori si trovano dinanzi la morte di un figlio, come è possibile sopravvivere ad uno choc del genere ed in che modo posso essere aiutati nell’elaborare il loro lutto?

Quando un individuo attua un suicidio crea un sistema luttuoso con ripercussioni sull’intera società e sui conoscenti della vittima. I genitori, ovviamente, vivono una situazione traumatica incomparabile rispetto a quella comune e difficilmente elaborabile, al punto da persistere anche oltre 12 mesi configurandosi come “lutto complicato” con connotazioni patologiche. L’esperienza è devastante per il genitore che perde il senso della sua esistenza e pertanto andrebbe tempestivamente programmato un intervento di sostegno per consentire l’elaborazione del lutto. Dunque non è semplice ma non deve essere impossibile il superamento di un episodio traumatico di questo genere, anche se nel caso specifico non conosciamo ancora dettagliatamente le dinamiche, mi verrebbe da dire che si tratti di un gesto impulsivo di una madre che vede scomparire per sempre la sua, forse, unica ragione di vita.

5. Il lutto di un suicidio colpisce anche il professionista che ha in cura il paziente, quali sono le principali reazioni dei professionisti al suicidio di un paziente?

Purtroppo la notizia del suicidio di un paziente ha sempre un’alta risonanza per lo psicologo come per l’intera società e si accompagna spesso a sensi di colpa, tristezza, rabbia oltre che un senso di fallimento che va ad inficiare l’autostima. Nel 90% dei casi i pazienti suicidi compiono il gesto nel momento in cui non si trovano più in terapia perchè hanno interrotto o terminato, ciò non esclude che sia improbabile che accada anche a chi continua il percorso terapeutico. Di certo non va sottovalutata la possibilità di programmi di sostegno o prevenzione terziaria rivolta ai sopravvissuti e quindi anche al terapeuta qualora ne avesse esigenza.

6. Per chi ha rinvenuto il cadavere della madre o ha visto il corpo in terra senza vita è senza dubbio un’esperienza difficile, cosa consiglia per chi ha assistito a quell’immagine?

Anche in questo caso stiamo parlando di un episodio altamente stressante, per quanto ognuno abbia una soglia di impressionabilità differente dalle altre, rinvenire un cadavere e trovarsi di fronte a scenari così forti mette a dura prova gli operatori i quali potrebbero manifestare, a venire, diverse risposte sintomatiche che andrebbero ridimensionate affinchè non causino compromissione in ambito socio-lavorativo, e anche in questo caso la soluzione che consiglio è rivolgersi a psicologi e psicoterapeuti in modo da condividere l’esperienza traumatica e risponderle in modo efficace.

Con la collaborazione di Verdiana Abitudine, dottoressa laureata in psicologia clinica

(Pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)
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Orfani del mare, ai minori stranieri non accompagnati l’accoglienza dei tutori volontari

untitledLa nave “Diciotti” è diventata ormai una nave simbolo della guerra dell’accoglienza tra Italia e Unione Europea. Nel trattenere i migranti a bordo il governo italiano vuole far smuovere l’Unione Europea sul delicato tema dell’accoglienza. E’ così che dopo cinque giorni di navigazione e due di fermo nel porto di Catania, dopo le sollecitazioni della Procura di Agrigento e quella dei minori di Catania, in base a quanto previsto dalle convenzioni internazionali e dalla legge italiana, il Ministro degli Interni, Matteo Salvini, ha annunciato il “sì” allo sbarco dei 29 minori non accompagnati a bordo. Si tratta di ragazzi eritrei tra i 14 ed i 16 anni e di una bambina che sono stati trasferiti in due centri di accoglienza messi a disposizione dai servizi sociali del comune di Catania. Orfani delle onde del Mediterraneo, piccoli anonimi che arrivano in Italia. Schiavi invisibili, giovanissime vittime dello sfruttamento e della tratta dei migranti. Un fenomeno nascosto e difficile da tracciare che vede come protagonisti i minori stranieri giunti in Italia via mare e via terra, molti dei quali non accompagnati da genitori o parenti. Rappresentando un potenziale bacino di sfruttamento per coloro che cercano di trarre beneficio dal flusso migratorio, speculando in vari modi sulla vulnerabilità dei più piccoli: dallo sfruttamento nel mercato del lavoro nero, alla prostituzione, passando per lo spaccio di droga, sino ad attività criminali. Secondo un rapporto di “Save the Children” , tre minori su quattro che arrivano in Italia sono soli. E negli ultimi anni i numeri si sono addirittura quadruplicati. E negli ultimi anni i numeri si sono addirittura quadruplicati. Sono più di 16 mila i ragazzi arrivati in Italia da soli. Dal 2011 costituiscono il dieci percento di tutti i rifugiati. Rischiano di finire in un girone infernale delineato dallo sfruttamento e dal maltrattamento, ma l’opportunità di tutela è fornita dall’esercito di tutori volontari per minori stranieri soli. Assumere la rappresentanza giuridica di un minore straniero solo, farsi carico dei suoi problemi, capire e spiegare agli altri suoi bisogni e diventare portavoce dei suoi diritti fino alla maggiore età. Insomma, proteggerlo negli anni più fragili e difficili. E’ questo il ruolo più importante del tutore volontario, una nuova figura nata per dare un sostegno ai percorsi di accoglienza, educazione e integrazione nella nostra società, per i quasi 18 mila minori stranieri rimasti soli sul territorio italiano. Un numero forte ed in continua crescita che ha portato alla legge 47/2017, che prevede tra le altre cose l’istituzione presso i Tribunali per i minori di elenchi di tutori volontari disponibili ad assumere la tutela. Protezione e tutela, le parole d’ordine per i quasi 18 mila minori soli, di cui la maggioranza è al maschile, le ragazze sono un numero esiguo: 1.209, molti dei quali provengono dalla Nigeria, e necessitano di massima attenzione. E’ stata ribattezzata come “cittadinanza attiva” o “genitorialità sociale” dall’autorità garante per l’infanzia. Sono già oltre tremila le persone che hanno dato la loro disponibilità in questi mesi a diventare tutore volontario, decidendo di dedicare una parte del loro tempo per migliorare la vita di uno dei quasi diciannovemila minori stranieri non accompagnati presenti nel nostro paese. Impegni ed iniziative per il tutore. La nuova legge non prevede, infatti, la presa in carico domiciliare ed economica del minore. Il tutore svolge le pratiche amministrative, come ad esempio il permesso di soggiorno, valuta se presentare domanda di asilo o protezione internazionale, se sono necessarie prestazioni sanitarie urgenti, accompagna il giovane nella formazione, nell’istruzione scolastica e nell’apprendimento della lingua italiana. “Il tutore dovrà prendersi cura del minore e avrà la funzione di guida”, dicono dall’autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. Alcune regioni hanno avviato anche corsi di formazione per i futuri tutori. La durata dell’impegno del tutore è legata all’età del minore. Le persone vengono inserite nell’elenco istituto presso il Tribunale per i minori da cui il giudice attinge per nominare i tutori. Ogni tutore volontario può  essere chiamato ad affiancare fino ad un massimo di tre minori stranieri  non accompagnati, salvo sussistano delle ragioni speciali, ad esempio un gruppo di quattro fratelli. Una persona smette di essere tutore per un ragazzo al compimento dei 18 anni e può diventare tutore di un altro minore. Si rende necessario però un’attività di raccordo tra i Tribunali per i minori dove sono istituti gli elenchi e il tribunale ordinario deputato alla nomina. Un istituto, quello del tutore, che la legge prevede nella sua gratuita dei compiti. Alcune regioni hanno previsto delle forme di sostegno su particolari questioni, come la stipula di una polizza assicurativa. Negli ultimi mesi sono stati pubblicati diversi bandi per tutori, le prime risposte sembrano essere più che nuove, ma non sufficienti secondo le autorità per i 18 mila ragazzi che hanno bisogno di una guida. Così si rafforzano le campagne pubblicitarie e web per rafforzare l’idea di una genitorialità sociale dando l’occasione ad un ragazzo di cambiare con l’aiuto di un tutore il suo presente e modellare il suo futuro.

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Febbre da gioco. Adolescenti sempre più a rischio dipendenza

untitled 2Il gioco d’azzardo strega gli italiani. Business record da 95 miliardi di euro. GrattaeVinci, slot machine e videopoker: nel 2016 il giro d’affari è cresciuto del 7%. Un milione i ludopatici: da curare. In mezzo c’è un’area grigia di chi trascorre ore nei bar, nelle tabaccherie, tra slot, gratta e vinci e lotto istantaneo. Due milioni e mezzo di giocatori che, pur non compulsivi, investono cifre consistenti di denaro nella speranza del colpo di fortuna che possa cambiare la loro vita.  E’ di 95 miliardi di euro l’anno il giro d’affari del gioco d’azzardo legale, una delle prime industrie del paese che garantisce migliaia di posti di lavoro. Una “febbre” che ha  creato anche un’emergenza da gioco patologico per la prima volta inserita dallo Stato tra le nuove dipendenze. 7 mila le persone in cura ufficialmente in Italia, numerosi gli ambulatori che continuano ad aprire su e giù per il Paese. Tra loro un adolescente su due.  In un presente più instabile e nella ricerca di un futuro migliore, sempre più spesso i ragazzini finiscono per credere che per risolvere i problemi la classica botta di fortuna sia più valida ed efficace dell’impegno, dello studio e della fatica. Secondo una recente ricerca condotta dalla Caritas di Roma e presentata all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù, a 580.000 milioni è stata diagnosticata la dipendenza da gioco, una forma di dipendenza non meno pericolosa di quella da alcol e droghe. Una dipendenza silenziosa, difficile da notare in famiglia. I ragazzi, complici della tecnologia scommettono online, puntando denaro sullo sport, ma giocano anche a poker, slot machine o ruolette. L’assenza di autocontrollo fa crescere l’aspirale della dipendenza e così le scommesse vanno a rialzo e spesso è qualcosa di innato che parte già in famiglia, quando i genitori sfidano i figli con frasi: “scommetto che non riesci a finire quello che hai nel piatto”, oppure “scommetto che non hai sistemato ancora la tua camera”. Input che possono trasformarsi in un boomerang portando il ragazzo a ritenere la “scommessa” un qualcosa di normale e fonte di stimolo. Bisogna aiutare i ragazzi al personale autocontrollo, è uno dei primi elementi per evitare il tipo di dipendenza. L’autocontrollo nei ragazzini è un tratto caratteriale che di solito è scarsamente presente in quanto per crescere hanno bisogno di sfidare i propri limiti giocando sempre al rialzo. Da quanto si legge nel rapporto Caritas ci sono tre grandi categorie di fattori che predispongono alla dipendenza intrecciandosi tra loro: aspetti biologici di tipo neurofisiologico, socio ambientali relativi al contesto in cui si vive e si cresce, e quelli psicologici, che comprendono una propensione verso certi tratti di personalità. Da un punto di vista biologico, nei giocatori d’azzardo i circuiti celebrali guidano il comportamento e subiscono una sorta di “inganno”, iniziando a rispondere come se l’azione del gioco fosse necessaria alla sopravvivenza. L’aspetto psicologico innesca la scarsa capacità di autocontrollo, che poi si fondono col contesto socio-economico in cui i giovanissimi vivono: da eventi stressanti a familiarità con le dipendenze. Per aiutare i ragazzi che finiscono incastrati nel tunnel del gioco è fondamentale riconoscere i sintomi della dipendenza, si legge nel rapporto Caritas che vi sono quattro elementi che sono ricorrenti negli addicted da gioco: il craving, ovvero il desiderio improvviso e incontrollabile di giocare, l’astinenza, caratterizzata da nervosismo, atteggiamenti violenti e dalla necessità fisica di giocare, poi c’è l’assuefazione ed il gambling, cioè la tendenza a sovrastimare la propria abilità di calcolo delle probabilità e a sottostimare l’esborso economico che porterà ad una vincita. L’aspetto economico non è secondario per capire a cosa possa condurre la dipendenza da gioco nei minori. I ragazzi, infatti, non guadagnando denaro proprio e nelle fasi più acute, finiscono per sottrarre soldi ai genitori. Identificati i campanelli d’allarme e riconosciuta la presenza di un problema è importante che la famiglia chieda aiuto agli specialisti. Tra le terapie più efficaci vengono raccomandati i gruppi di auto aiuto che prevedono un percorso specifico per il superamento del problema. Molto utili sono anche i gruppi terapeutici per giocatori d’azzardo compulsivi, condotti da psicoterapeuti formati e che coinvolgono l’intera famiglia: importante è il dialogo e la collaborazione tra l’adolescente, il terapeuta e la sua famiglia. Bisogna ricordare, infine, che sviluppare una dipendenza è il sintomo di un problema, non il suo esito. Per risolvere una patologia, sottolineano gli esperti, bisogna capire qual è il vantaggio secondario che si cela dietro questo comportamento in maniera tale da evitare di sostituire dipendenza a dipendenza e garantire la correzione del comportamento disfunzionale nel ragazzo.
La febbre da gioco d’azzardo, dunque, è una malattia della nostra società, il governo giallo-verde, sembrerebbe voler mettere mano alla crescente foga del gioco, infatti, il decreto dignità, interviene sulla ludopatia, ponendosi un obiettivo importante: contrastare il grave fenomeno del gioco d’azzardo compulsivo, vietando la pubblicità di giochi o scommesse con vincite in denaro, comunque effettuata e su qualunque mezzo, incluse le manifestazioni sportive, culturali o artistiche, le trasmissioni televisive o radiofoniche, la stampa quotidiana e periodica, le pubblicazioni in genere, le affissioni ed internet. Previste sanzioni per chi trasgredisce le nuove norme, restando invariate le sanzioni già previste. Un passo giusto che servirà da deterrente e basterà da solo a fermare la voglia di giocarE? Sicuramente una prima azione che non può e non deve essere fine a se stessa, perché la ludopatia non è solo una pubblicità è ben altro.
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Paure e angosce post dramma. Ecco perché le tragedie ci fanno paura

untitledRabbia, impotenza, senso dell’assurdo. Sono questi i sentimenti che si provano in questi giorni drammatici e tragici che l’Italia sta vivendo. Perché il terremoto lo puoi accettare. Anche se in queste ore in cui il Sud Italia è attraversato da uno sciame sismico, la paura tiene in allerta. Un ponte che cade davanti, addosso no, è impensabile. E’ qualcosa di difficile da elaborare, anche perché di strade e di ponti ogni giorno ne attraversiamo tanti, consapevoli di una scarsa manutenzione e coscienti di essere esposti a qualche rischio. Tutta Genova avrà bisogno di assistenza psicologica e tempo per sanare una ferita così profonda. Ma, non solo la città di Genova, tutti noi abbiamo bisogno di elaborare il senso di rabbia e di impotenza: è naturale e legittimo. Rabbia, impotenza e paura, che hanno radici profonde: prima, la morte di un uomo di successo, ricco e invidiato, che se ne va di colpo, lasciandosi tutto alle spalle. Ori e stracci: la ricchezza, il successo, l’invidia e l’adulazione. Il crollo, poi, improvviso di un ponte che inghiottisce sogni, passioni, amori e affetti. Infine, lo sciame sismico che smuove il Sud Italia e nella mente della gente riaffiora la paura del terremoto dell’Ottanta. Episodi di vita accentuati dalla fatalità che fanno scattare in tutti noi un sentimento quanto normale e comprensibile: la paura, che si accentua con le immagine dei media, con le ore che passano e sanciscono altre morti, con i social che lanciano paure e allarmismi: foto e commenti, la richiesta di non attraversare ponti a rischio. Per un attimo diventiamo ingegneri e giudici, alimentando l’ondata di fobia dei ponti, delle morti improvvise. Proteggersi dalla sovraesposizione di immagini e notizie, cercando di recuperare calma e tranquillità. E’ il primo passo per non farsi prendere dal panico e dalla paura comprensibili ma ingiustificati. La paura non può e non deve paralizzarci, ma diventare arma di reazione. Incidenti come quello di Genova, hanno un fortissimo impatto sull’opinione pubblica perché comportano un elevato numero di morti e feriti. Ma ciò non toglie che sono e rimangono eventi molto rari. In situazioni tragiche come queste, purtroppo, la rete, amplifica la paura e favorisce il dilagare del panico. E, invece, bisognerebbe considerare l’estrema rarità di questi eventi. Non è vero che la rete stradale è insicura, perché altrimenti avremmo disastri quotidiani, visto l’altro numero di viaggiatori quotidiani. Per cui, è bene non sovraesporsi ad immagini e notizie che di continuo in questi giorni sono trasmesse. Passare ore su internet a cercare informazioni non fa altro che aumentare il senso di insicurezza. Anche le storie dolorose che in questi momenti sono raccontate, facilitano il meccanismo di identificazione di milioni di persone, potenziali vittime di terzo livello di questo evento. Esiste, infatti, anche un traumatismo secondario legato proprio all’identificazione con le vicende delle vittime. Soprattutto, facciamo attenzione ai bambini, la cui sensibilità è molto accentuata. I genitori sono fondamentali, da loro devono sapere che avere paura è normale, è naturale, bisogna lasciarli esprimere le loro emozioni tenendo conto che dopo un simile trauma possono avere qualche regressione e magari fare pipì a letto. Davanti alle loro domande, ai mille perché di una tragedia bisogna cercare di dire la verità senza commenti: “il ponte è caduto perché era vecchio, fatto male”. Mentre tutti noi, nel nostro noi più intimo e profondo, dovremmo chiederci perché le morti di Genova, la morte di un uomo di successo come Marchionne, ci colpisce così tanto? Perché ci poniamo istintivamente una domanda: se è tutto così veloce e drastico, stiamo usando bene la nostra vita?

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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August blue, la depressione di metà estate

untitled 2Tutti felici, pronti alle ultime ore di lavoro, tutti a chiederci: “quando vai in ferie tu?”, “dove andrai in vacanza?” Intorno a noi città semi vuote, negozi pronti ad affiggere il cartello “chiusi per ferie”, in molti sono già abbronzati e coperti da abiti leggeri e colorati. Ad Agosto e nel cuore dell’estate sembra che l’unica cosa a non essere concessa è essere tristi. Eppure nonostante il sole, le belle giornate, l’odore del mare e le vacanze che si respira nell’aria per molte persone, con il passare dei giorni di agosto, qualcuno avverte un’angoscia crescente e un’ansia che in alcuni casi più conclamati può persino trasformarsi in depressione. Una sindrome estiva, ribattezzata “August Blue” dallo psichiatra Stephen Ferrando, direttore di psichiatria al Westchester Medical Center che ha paragonata questa particolare forma di disordine affettivo al “Blue Monday”, la sensazione di disagio ed angoscia che si percepisce la domenica sera. Addirittura, secondo un algoritmo calcolato, esisterebbero il Blue del Blue, ovvero, il terzo lunedì di Gennaio. Quello che succede ad Agosto, ha spiegato uno studio pubblicato dal New York Magazine, è simile a ciò che accade la domenica sera, ma in scala maggiore. Una tipologia di depressione che si colloca con il disordine affettivo stagionale, cioè quel disturbo dell’umore che colpisce alcune persone col cambio di stagione. Agosto infatti è il “mese di mezzo”: da un lato la vacanza desiderata, frutto di mesi di lavoro e di stress; dall’altro è anche il punto a capo nei confronti dell’anno che da lì a poco va a ricominciare. Secondo alcuni studiosi, per molti il vero Capodanno non è il primo gennaio, ma il primo settembre, quando si rientra  lavoro, riaprono le scuole e si ricomincia: una routine dalla quale si vorrebbe fuggire nei mesi successivi. L’August Blue, però non è solo una generica sindrome di malcontento, ma un’autentica patologia. I sintomi, secondo anche il dottor Ferrando, sarebbero angoscia e panico persistenti, per almeno due settimane, con prospettive confuse sul futuro e instabilità emotiva al solo pensiero dell’arrivo dell’autunno. August Blue, sembrerebbe essere, una nota amare e scura nei giorni di vacanza, momenti preziosi da trascorrere in solitudine, in famiglia o con amici, che rischia di rovinare momenti che potrebbero essere belli. I rimedi però ci sono. Per non incappa cere nel “Blue August”, la prima regola è quella di cercare di allentare la tensione, cercando soprattutto di disintossicarsi dai social, fonte primaria di stress. Il continuo condividere dove si è, cosa si fa, ci mette in competizione con gli altri. E’ importante concedersi una pausa detox permettendosi di concentrarsi su se stessi, senza sentirsi in dovere di dimostrare nulla a nessuno. Divertirsi per se stessi non per gli altri. Allentare i ritmi e magari assaporare anche un po’ di noia aiuta invece a rigenerarsi e a godersi maggiormente il mese di Agosto e in genere i giorni dedicati al riposo e al relax. Al rientro, l’ideale, sarebbe cercare di rimandare questa sindrome da rientro a ferie finite con la consapevolezza che tutte le paure e le angosce si smaltiranno da sole con il tempo, quando le tessere della routine andranno al loro posto e un giorno dopo l’altro si tornerà a ripercorrere la strada verso un’altra estate.
Insomma, qualunque siano le vostre vacanze: in città, al mare, in compagnia o semplicemente da soli, che siano giorni o poche ore, fatene tesoro, lasciate il cellulare e la corsa allo scatto social, dedicatevi alla sana noia, al mondo intorno, alla natura, a voi stessi, agli affetti e perché no, al divertimento. Lasciate paure ed angosce che solitamente affliggono.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Caporalato: Braccianti morti sotto il sole del lavoro

untitledDi lavoro e di caldo si muore davvero. La cronaca di questa estate ci restituisce sedici morti. Migranti stipati in furgone, morti nella tratta dai campi alle loro baracche. Ieri nuovo schianto nel Foggiano, morti dodici braccianti. Sabato un altro incidente in cui hanno perso la vita quattro vittime. Si indaga per verificare se fossero nelle mani dei caporali. Ombre e sospetti che riportano alla cronaca le morti sul lavoro che a causa delle temperature altissime portano i braccianti ad accasciarsi nei campi, nei cantieri e anche sui camion. Lo chiamano caporalato, ma si legge sfruttamento umano, che non conosce limiti e va combattuto, tutelando i diritti dei lavoratori, qualunque essi siano, qualsiasi sia la loro nazionalità, oltre ogni colore della pelle. Lavoratori, che prima di tutto sono esseri umani. Sono lavoratori invisibili per la legge che però assicurano manodopera nelle condizioni più disagiate e con paghe da fame. Secondo alcune stime sarebbero 400 mila in tutta Italia e la conta delle vittime dello sfruttamento rischia di rimanere parziale: le loro morti a volte passano in silenzio, altre volte rischiano di essere catalogate come incidenti stradali, perché spesso si ribaltano i pulmini carichi di lavoratori. Viaggiano in venti su mezzi omologati per nove e finiscono per essere contate come vittime della strada. Un fenomeno che non nasce oggi, ma si radica di anno in anno, anche perché le norme, sancite dalla legge 199/2016, che sanzionano il caporalato sono di difficile applicazione. Le aziende trattano direttamente con i caporali il prezzo della manodopera, i lavoratori vengono caricati su dei pulmini all’alba, per arrivare in campi di periferia, durante il viaggio qualcuno si addormenta e quando arriva a destinazione, scendendo i gradini del pulmino non sa neppure dove si trova. Uno o due euro per ogni cassetta di prodotti della terra, che vuol dire ore ed ore con la schiena piegata sotto il sole cocente. Così il sole del Sud per molti è sinonimo di vacanza ben riuscita, per altri si trasforma in una condanna quotidiana. Un’emergenza e le morti ci invitano a reagire ed in tempi brevi. Nell’estate del decreto dignità che vuole restituire, stando alle parole del suo ideatore il Ministro dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, dignità ai lavoratori, non possiamo e non dobbiamo girarci dall’altra parte dinanzi ad una realtà vera e disumana. Impegno ed intensità, proprio come si combatte da anni nel nostro paese la battaglia contro la criminalità organizzata, perché i caporali sono delinquenti. Nel frattempo in una delle estati più calde uomini e donne continuano a spaccarsi la schiena per pochi euro al giorno, rischiando ogni giorno di morire di caldo e di lavoro, una realtà che ci circonda: molti dei prodotti che acquistiamo al supermercato provengono da una filiera sporca, fatta di sfruttamento nei campi e grandi guadagni per le multinazionali dell’agricoltura. Eppure gli strumenti ci sono, basterebbe solo accoglierli in un’ottica di rispetto ed umanità. Il rispetto dei diritti umani, specialmente in campo lavorativo, permette il progresso economico, sociale e culturale. Il lavoro dignitoso, dunque, è proprio la chiave di volta, l’elemento essenziale capace di implementare uno sviluppo equo e sostenibile nel tempo. C’è bisogno di uno sforzo condiviso: da parte del lavoratore che deve superare le paure ed i timori e denunciare lo sfruttamento lavorativo, perché il silenzio di tutti rafforza ciò che puzza di illegale e disumano. Di recente è nata una campagna nazionale di Fai-Cisl, denominata “Sos caporalato”, un numero verde e spazi social dedicati a raccogliere le segnalazioni e le denunce di quanti lavorano in condizioni di sfruttamento e illegalità nell’agroalimentare. Le segnalazioni al numero verde 800-199-100 serviranno per un monitoraggio sull’evoluzione del fenomeno e consentiranno anche a dare voce a tante lavoratrici e tanti lavoratori vittime di caporalato. D’altra parte c’è bisogno di uno sforzo legislativo che garantisca dignità ai lavoratori, punendo il fenomeno con la certezza della pena. Puntando a creare una filiera agroalimentare controllata, tracciata e seguita.
Riusciremo a rendere dignitoso ed umano il lavoro?

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Sal Da Vinci, “il cantante” che unisce le generazioni. L’intervista esclusiva video

Sorriso spontaneo, umiltà e professionalità, ritratto di un’artista a tutto tondo: Sal da Vinci, che partito da Napoli ha conquistato i palcoscenici internazionali. Dal cinema al teatro, passando per la musica. Dopo gli impegni televisivi che lo hanno visto protagonista musicale su Rai1 nel corso dell’ultima edizione di “Domenica In”, Sal da Vinci, torna sul palco con un nuovo progetto che porterà questa estate in tourneè. Si intitola “il cantante”. Un mix perfetto tra divertimento, vita e musica.

Domina il palco, balla e fa ballare, unisce le generazioni, ripercorre i successi della sua carriera musicale, riporta in scena alcuni brani del fortunato “Scugnizzi”, regala monologhi di vita veri e sinceri, che incollano alle sue labbra e fanno riflettere nel profondo di ognuno. Così la serata si trasforma in un piacevole incontro con un’artista a tutto tondo in grado di emozionare profondamente.

Ieri sera, in una delle sue prime tappe del tuor estivo “il cantante” a Pagani (Salerno), abbiamo incontrato in esclusiva Sal da Vinci, nell’intervista video percorreremo con lui la nascita de “il cantante”, la carriera, le emozioni che provano i più giovani nel mondo del teatro e della musica, i consigli di Sal da Vinci ai più giovani e poi i sogni di Sal da Vinci.

(Intervista pubblicata per il mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

 

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“L’africano”, Giffoni Film Festival lascia ai giovani il testimone delle tradizioni locali

20180725_111256.jpgL’hanno ribattezzata “Pagani città di Santi, Artisti e Mercanti”, nel suo ventre, il piccolo comune del salernitano, conserva storia, tradizioni, riti e miti che il tempo non ha cancellato bensì scalfito. I vicoli, intatti, sanno di storia e di unione: “o vicino è ‘mmiezo parente”, rapporti umani e fedeli che si tramandano. Fede che và a braccetto con tradizione, giovani che nascono nel solco di antiche tradizioni, una su tutte la festa della Madonna delle Galline, un vero rito che abbraccia tra fede e momenti civili un’intera comunità la prima domenica in albis, per tre giorni Pagani sa di tagliolino al sugo e carciofi arrostiti, di preghiere ed incenso, di vie che si affollano, si riempiono di vita e di devozione. Alla tavola del paganese c’è sempre un posto, per chiunque, per vivere insieme una festa sentita, vera, mai banale, che si rinnova. Identità scolpita e scalfita da lui, Franco Tiano. Nei toselli, c’è la vera anima della festa e lui ne è l’ideatore e l’anima che nonostante la sua scomparsa, si ricorda con cuore colmo di affetto ed una mancanza che si percepisce e si sente. Una festa che non perde l’anima sacra e viscerale, lasciata anche da Franco Tiano e trasformata in una cosa ancor più grande. Si intitola “L’Africano” il tratto umano, personale, storico, emozionante dedicato a Franco Tiano, nato dalla regia di Laura Mandolesi Ferrini, giornalista Rai e regista appassionata, che firma il mediometraggio, un film documentario, proiettato fuori concorso al Giffoni Film Festival, la grande astronave del cinema giovanile. Occhi puntati sullo schermo, assorti, rapiti, incuriositi, ero in sala e guardandomi in torno vedevo una generazioni di ragazzini provenienti da ogni parte d’Italia abbandonare il cellulare, i post, i like per immergersi nei vicoli della storia paganese, cercando di capire questo uomo che ha segnato una festa. Il tratto di un uomo di comunità, che da questo centro del salernitano è partito ed è stato compagno di tournè e di avventure è raccontato dalla voce di Isa Danieli, Peppe Barra, Teresa De Sio assieme a Marcello Colasurdo, Eugenio Bennato, Pietra Montecorvino e Cristina Donadio, tratteggiano la personalità umana ed artistica di Franco Tiano, che dal palco alla vita reale era vero, originale, sincero, non perdeva occasione per ricordare, raccontare la “sua Pagani”. Uomo che credeva nei rapporti, al giornalista Alfonso Tramontano Guerritore, che nel post visione del docu-film, racconta che Tiano gli disse che qualsiasi conflitto d’amore o d’amicizia, di odio o di bene si risolve danzando. Occhi negli occhi. Confronto fisico di movenze. Lo chiamavano “L’Africano”, per la carnagione olivastra, artista poliedrico, uomo mistico e pittoresco, persona influente della comunità paganese e più in generale della cultura popolare meridionale del secolo scorso, Franco Tiano ha lasciato un’impronta fortissima della sua figura sulla popolazione locale e su altri rappresentanti del panorama culturale partenopeo moderno, perfettamente descritta nel documentario che racconta la figura complessa ed articolata di Franco Tiano. Un excursus dagli anni settanta ai primi anni 2000, ricoprendo gli studi antropologici ed etnografi realizzati sul mondo delle tradizioni e culture popolari. Immagini di repertorio, tratteggiano il ricordo di Tiano. “Il sangue cammina, non è acqua. Le tradizioni, i patrimoni vanno trasmessi”, racconta una delle voci che tratteggia Tiano e la festa paganese, e non posso che condividere. Ognuno di noi ha bisogno di capire, di trovare le proprie origini e quando nasci nei fazzoletti di terra del Sud, che hanno bellezza, storia, tradizioni, non puoi fare altro che capirle dal di dentro, perché raccontano l’identità delle tue origini. I giovani hanno bisogno di testimoni e se uno di questi si chiama Franco Tiano, lì potranno attingere umanità, ironia, vero legame alle proprie origini, alla propria storia, che si vive e si trasmette anche grazie alle feste popolari, che vanno oltre i social, perché restano così vere anche attualizzandole ai moderni canali sociali, perché la festa “signora del Carmelo” ha tutti gli elementi di educativi . La conoscenza delle proprie radici culturali e del proprio territorio è fondamentale per il processo formativo, perché amplia le conoscenze e gli stimoli per confronti culturali e sociali oggi più che mai attuali. . I festeggiamenti in onore della Vergine del Carmelo è una delle più alte rappresentazioni della cultura popolare, la festa può essere vissuta e raccontata in molti elementi naturali e antropologici, che coinvolgono i cinque sensi, con sensazioni e stati d’animo in continuo mutamento. I profumi del cibo accompagnano per ore ed i più piccoli si affascinano ai nuovi sapori, che conserveranno il ricordo dell’associazione odori-sapori sino all’anno successivo. Un insieme di colori: dal rosso del pomodoro, al giallo dei tagliolini, passando per il verde dei carciofi, che i bambini mescolano ed associano alla festa. La tammurriata, ballo popolare paganese viene tramandato da generazioni, accompagnato dal suono della tammorra, delle nacchere, del patipù e del triccheballacche. Il ritmo musicale è importante nella crescita di un individuo. Con la danza si ha una cooperazione organizzata delle facoltà mentali, emotivi e corporee che si traduce in azioni, la cui esperienza è della massima importanza per lo sviluppo della coordinazione, dell’armonia e anche della personalità. Il canto popolare si sviluppa in una melodia inizialmente imparata: passando di bocca in bocca questa può cambiare, mutando parole e anche melodia. Avvicinare i più piccoli ed i ragazzi al linguaggio poetico popolare favorisce il confronto con il vissuto interiore e con le potenziali capacità fantastiche e creative che ogni persona possiede. Dal cibo alla musica, tutto è magia in onore della Vergine del Carmelo ed attrae i bambini che ne usciranno arricchiti ed entusiasti. Non resta che vivere questa festa con i più piccoli per rivivere insieme a loro la magia dell’incontro con il passato, che rivive nel presente ed è destinato al futuro donandogli un’aurea di gioiosa sacralità nel solco tracciato da Franco Tiano.

E sono certa che dopo la visione del docu-film in molti emozionati ed entusiasti vivranno e si avvicineranno alla festa con più affetto, mentre, più giovani dopo Giffoni Film Festival arriveranno a Pagani per viverla dal di dentro la festa per riscoprire il piacere di qualcosa che tramanda storia e veridicità.

Le radici non vanno perse, non perdiamole, nel frattempo non le hanno perse il giornalista, firma de “Il Mattino” Aldo Padovano, Luca Tiano, l’associazione “Ambress….Am..press” di Santino Desiderio che tra l’altro ha curato le musiche, da Brigida Civale e Gerardo Ferraioli. La regista Laura Mandolesi Ferrini, il fotografo Gaetano Del Mauro che insieme a Emiliano Checchero, helene Schelfout ed Eva Stanzione, firmano le riprese; il montaggio di Roberto Mencherini; il mixaggio audio di Alessandro D’Aniello; le musiche di Giuseppe Desiderio, Sharon Viola e Alessandro D’Aniello. Una squadra che ha dato vita alla memoria che appartiene a tutti noi.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Storico ma attuale al via il Servizio Civile. Consigli e spunti per partecipare

Giovani volontari cercasi. Il Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale, ha pubblicato i bandi per il 2018 sul sito http://www.gioventuserviziocivilenazionale.gov.it con una novità reduce dello scorso anno: i progetti del servizio civile nazionale si potranno svolgere sia in Italia che all’estero. I ragazzi potranno scegliere dove andare a fare volontariato. Numerosi i progetti, di cui molti all’estero, presentati dagli Enti inseriti nell’Albo nazionale e tra altri offerti dagli Enti iscritti negli Albi regionali e delle Provincie autonome. Quasi tutti sono finanziati, dunque saranno retribuiti, anche se con somme non elevate, circa 433 euro al mese, ma esentasse e senza contribuzione. E sembrerebbe proprio che il servizio civile piaccia. Secondo un report pubblicato dal Dipartimento della Gioventù e del Servizio civile nazionale sono 43 mila i volontari attivi sul territorio, si arriva a 50 mila se si considera l’ultimo scaglione che è partito il 10 gennaio 2018. Non si tratta di un contratto di lavoro ma di un rapporto che vede insieme lo Stato, il giovane e l’ente pubblico o privato che lo ha selezionato, formato e preso in servizio. Un tempo era un modo per aggirare la “noia” ma da quando non è più obbligatorio, la prospettiva è cambiata. Storico ma attuale: il servizio civile è stato istituito quando è stata abolita la leva militare, ma conserva un forte legame con l’articolo 52 della Costituzione, che parla di difesa della patria. In questo caso si tratta di una difesa non armata con mezzi non violenti. Una difesa che oggi è a tutto tondo: delle molte ingiustizie, dalle diseguaglianze, dalle esclusioni, dagli sfregi al nostro patrimonio ambientale e culturale. Tutto quello che contrasta con i valori di equità, solidarietà, integrazione ed inclusione. Giovani ambasciatori di certi valori, ma non in astratto ma attraverso esperienze concrete. Chi vi scrive è anch’essa una volontaria del servizio civile, ormai da sei mesi. Sono in quel limbo che oscilla tra sei mesi già trascorsi e sei che verranno. Ho scelto la pubblica amministrazione, che sarà controcorrente, piena di problemi, ma è un perfetto ingranaggio che tiene insieme le istituzioni ed i servizi. Conoscerla da vicino, è entusiasmante quanto faticoso, costruttivo quanto professionale. Sinonimo di esperienza di vita e professionale. Ritmi di lavoro serrati, scadenze, burocrazia, ma anche volti e visi, storie umane, giornate lunghe ma che lasciano una morale. Il servizio civile è un modo per i giovani di mettersi alla prova, aprendo i propri orizzonti, in alcuni casi cambiando la propria visione sulla realtà dei problemi, contemplando nuove difficoltà mai contemplate prima. Un’occasione – e non da poco- di acquisire un senso di impegno civico, di appartenenza ad una comunità avendo la possibilità di sapere che il proprio impegno può essere d’aiuto, aprendosi nuovi orizzonti professionali e lavorativi in una catena che dà agli altri ma anche a se stessi. Un anno costruttivo, utile, formativo, un’esperienza che nasconde in sé una triplice valenza. La prima come servizio di utilità alla comunità a cui si è iscritti, realizzando il progetto scelto; la seconda è di formazione personale all’impegno civico, alla dimensione volontaria e anche all’acquisizione di competenze, capacità anche di tipo non scolastico. La terza è la positività di un’esperienza, sia per la propria vita che per qualche opportunità in più nel proprio itinerario professionale. Per molti giovani, il servizio civile diventa un “anno sabbatico”, per molti quello subito dopo la laurea o il diploma, che anziché risolversi in un nulla di fatto diventa, spesso, la chiave per capire davvero ciò che si vorrebbe fare un giorno come lavoro. Da volontaria che unisce il suo sapere professionale ed esperienziale, credo sia un’opportunità straordinaria, seppur dipende come viene percepita e vissuta da chi decide di intraprendere un anno – che dopo regalerà sempre incertezza- ma si possono sviluppare attività professionali e costruire una rete di contatti utili per il futuro lavorativo e professionale. D’altra parte per i Comuni, e questa è una certezza dell’oggi, i volontari del servizio civile diventano una risorsa preziosa che colma la carenza d’organico per un famoso turn-over ormai fermo per gli enti locali, ed i giovani del servizio civile freschi diplomati o laureati diventano una vera e propria boccata d’ossigeno. Non un lavoro, dunque, ma il servizio civile è l’occasione per calarsi in un perfetto scenario lavorativo: orari di lavoro da rispettare, obblighi e responsabilità in capo al volontario, rapporti tra colleghi e qui nasce lo spirito di condivisione e di gruppo, che a volte si annulla per lasciare posto ad ostilità e conflitti, ma un perfetto disegno di ciò che è l’ambiente di lavoro e prima un giovane imparerà a calarsi dentro e prima riuscirà a farsi le ossa in situazioni e climi lavorativi non sempre sereni e distesi. Perché tra colleghi non sempre la convivenza è facile. Tra i più giovani, secondo i dati, piace anche la possibilità di viaggiare con progetti sperimentali come quello dei Corpi Civili di Pace che, si pongono come obiettivo la promozione della pace e della cooperazione tra i popoli. I volontari operano in situazioni e aree già monitorate da organizzazioni del territorio, per affiancare chi lavora da anni in contesti difficili. Partecipare diventa un’occasione che lo Stato fornisce ai più giovani in un tempo di precarietà ed incertezza. Il bando è strutturato come un normalissimo bando concorsuale, il futuro volontario dovrà scegliere il progetto che è in linea con le proprie attinenze o semplicemente il progetto che più lo coinvolge. Inviata la richiesta di partecipazione con i documenti richiesti, dovrà attendere la pubblicazione delle date dei colloqui. Un vero e proprio colloquio conoscitivo/professionale. Al volontario sarà richiesta una breve presentazione, gli saranno fatte delle domande: dalla storia del servizio civile, alle motivazioni personali che lo hanno spinto a partecipare. Vivetevela come un normale colloquio, ma con carattere e decisione, dimostrate competenza, pacatezza, compostezza. Al termine del colloquio, l’esaminatore darà un punteggio che si sommerà alla valutazione dei titoli fatta in sede di richiesta, dopo qualche settimana saranno pubblicati i risultati con annessa graduatoria dei ammessi e non ammessi. Non sempre si riesce ad essere ammessi, almeno non sempre la prima volta e chi vi scrive ci ha provato più di una volta, ma se la ritenete un occasione che proprio non volete perdere per il vostro backgroud personale e professionale, non perdetela di vista.

(Articolo pubblicato per il mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Malato di videogiochi il Tribunale dispone l’affido ad una comunità

untitled 2A 15 anni affidato ad una comunità di tutela perché ossessionato dai videogiochi. La vicenda riguarda una famiglia del cremonese già da tempo seguita dai servizi sociali. Un contesto difficile: genitori separati, mamma con problemi giudiziari, una sorella già affidata ad una comunità. La via crucis per il quindicenne, con difficoltà nell’apprendimento, è iniziata diversi mesi fa quando venne riconosciuto “schiavo” della playstation, vittima di una dipendenza dai videogiochi da cui non è riuscito a liberarsi. Da qui la decisione dei giudici di affidarlo ad una comunità. Nelle scorse ore il ragazzino ha scritto un’accorata lettera ai giudici chiedendo di restare con la mamma, “le prometto che faccio il bravo” – si legge- lettera a cui i giudici bresciani non hanno però dato seguito e ascolto. La vicenda era arrivata all’attenzione della magistratura bresciana due anni fa, quando la madre dell’adolescente, si rivolse ai servizi sociali per ricevere un aiuto nella gestione delle paranoie e delle ossessioni del figlio, eccessivamente legato ai videogiochi e alle console. Seguito in un primo momento dal reparto di neuropsichiatria infantile, il ragazzino alla fine dell’anno scolastico ha iniziato a non frequentare più la scuola sempre più risucchiato dai colori e dai giochi della playstation. Sembrerebbe, dalle relazioni degli assistenti sociali, che la madre abbia dimostrato di non sapersi prendere cura del figlio, da qui l’intenzione di affidarlo ad una comunità, dove fino ad un attimo primo è stato trovato in casa intento a giocare con la consolle sulle gambe. Ora sarà sottoposto ad un percorso riabilitativo finalizzato a dargli equilibrio. In un mondo iperconnesso, bambini e adolescenti trascorrono la maggior parte della giornata tra smartphone, computer e videogiochi. Rischiando una dipendenza da tecnologia che può sconfinare in diversi disturbi: dall’isolamento all’aggressività, fino all’ansia e alla depressione. Con conseguenze negative su attenzione, controllo degli impulsi, tolleranza alla frustrazione, dimenticando l’importanza del gioco, della socialità e della compagnia. Se da un lato una ricerca della Readboud University in Olanda documenta i benefici sperimentati da bambini e adolescenti utilizzatori di giochi interattivi sul piano cognitivo, emotivo e mentale. Ma la preoccupazione si concentra sulle possibilità di dipendenza e sull’esposizione alla violenza. Non mancano poi correlazioni con disturbi del sonno, isolamento, aggressività, obesità e ansia. E conseguenze negative su attenzione, controllo degli impulsi, tolleranza alla frustrazione. Ciò di cui si parla meno forse è che giocare su uno schermo: cellulare, tablet o consolle è da considerarsi fattore di stress psicologico con effetti fisiologici di una certa entità come variazioni della frequenza cardiaca, della pressione, dei livelli di noradrenalina e cortisolo: ormone dello stress, alterazioni dello zucchero nel sangue, ritardo nella digestione. È correlato anche a una maggiore assunzione di cibo negli adolescenti, a una diminuzione della precisione, alla sindrome metabolica: ipertensione, obesità negli adolescenti indipendentemente da inattività fisica. Le raccomandazioni da parte delle organizzazioni scientifiche di pediatri sono di limitare la quantità di tempo totale dell’intrattenimento con gli schermi a meno di due ore al giorno, evitare le esposizioni ai bambini sotto ai due anni, e controllarne i contenuti, spesso inadatti all’età dei giocatori. Ma comunemente il tempo dello schermo per i bambini e ragazzi è ben altro. Tv, smartphone, computer, tablet, social media e videogiochi hanno invaso la loro giornata. Più di qualunque altra attività. Forse è proprio questo l’aspetto sul quale concentrarsi. Sullo spazio, il coinvolgimento, la pervasività di questa esperienza nella loro vita. E nella nostra, perché siamo noi adulti i primi a dare esempio. Non sono i videogiochi in sé ad essere buoni o cattivi. Però quando i bambini trovano noiose le attività senza schermo è un segnale di allarme: probabilmente si sono abituati a un livello innaturale di stimolazione. Così come quando preferiscono il video in solitaria alla compagnia di coetanei. Il gioco o qualunque altra attività sullo schermo è un tempo sottratto a esperienze reali, a interazioni sociali, al gioco libero e spontaneo, alla possibilità di muoversi, esprimersi secondo modalità non programmate. Numerosi studi condotti negli Usa dimostrano che gli adolescenti che nell’infanzia non hanno avuto modo di sperimentare liberamente giochi di gruppo e di movimento con i coetanei sono più ansiosi, depressi e meno autonomi. Offrire esperienze ai nostri figli, allargarle ma non approfondirle, sta diventando la norma nel nostro vivere iperconnesso. Nel mondo cibernetico di oggi, i bambini sono esposti a messaggi che insegnano apatia, non empatia. La connessione intima, autentica sta diventando sempre più difficile. Instaurano rapporti numerosi, estesi, fatti di rapidi e brevi scambi a scapito di profondità e intensità. Sono sedotti da una miriade di semplificazioni, gratificazioni immediate con click dispensatori di dopamina, ma rischiano di privarsi della possibilità di costruire legami attraverso i quali imparare a essere pienamente presenti all’altro, acquisire fiducia, comprensione, profondo senso di connessione. A impegnarsi. Giocare guardandosi negli occhi. Per questo il tempo dei videogiochi per i bambini andrebbe confinato tra esperienze creative reali. Gli esseri umani sono programmati per la socialità e la compagnia, l’affetto e l’attaccamento. Come adulti ed educatori, dobbiamo lavorare per mostrare ai nostri figli il valore di queste risorse.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

 

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