Strattonata e picchiata dal padre, bimba di due mesi in coma. Intervengono i Servizi Sociali

img_0217“Volevo solo farla giocare”, alla fine dopo ore di interrogatorio ha ceduto il padre della piccola poco più di tre mesi, in coma con un trauma cranico e alcune costole rotte. “Piangeva, non sapevo come farla smettere” ha detto al Pubblico Ministero. “Forse l’ho stretta in modo troppo energica”, ha raccontato il papà per giustificare le fratture alle costole della piccola. Ha confessato anche di averle fatto sbattere la testa contro il comodino, quando l’ha riposta nella culla. I genitori della piccola, poco più che trentenne lui, siciliano, con un lavoro saltuario come imbianchino, lei 28 anni piemontese, residenti a Stroppiana, in provincia di Vercelli, secondo quando si apprende hanno portato la piccola all’ospedale di Torino lo scorso venerdì. Ma non era la prima volta. Allora il padre aveva detto che era “caduta” mentre la teneva in braccio. La seconda volta invece la piccola aveva un’infiammazione. Al terzo ricovero la piccola si è presentata da subito ai medici in gravi condizioni, sono così scattate le indagini sulla famiglia: madre, padre e nonna. Non è chiara la dinamica, il papà non è stato in grado di ricostruirla, anche se ora è indagato a piede libero per lesioni aggravate, ma gli inquirenti continueranno ad indagare sul resto della famiglia. In quanto l’origine della condotta può risiedere non solo nello stato soggettivo di chi l’ha posta in essere, ma anche nelle condizioni di vita del nucleo familiare, particolarmente problematico. La conferma delle indagini estese all’intero nucleo familiare è arrivata anche dalla Questura di Vercelli. Secondo quanto si apprende la famiglia della bambina non è particolarmente “disagiata” ma era già finita nel mirino dei Servizi Sociali perché aveva dimostrato “atteggiamenti immaturi”. Non compravano il latte in polvere per la bambina ma andavano in giro con l’ultimo modello di cellulare. Ora la situazione è presa in esame dal Tribunale per i Minorenni. Ma il caso esula dalla sola cronaca nera e sfocia nel ruolo professionale, umano e civile dei medici e degli operatori ospedalieri definiti pubblici ufficiali e come tale hanno l’obbligo di denuncia, l’art. 361 del codice di procedura penale, che mira a far sì che la notizia di reato giunga a conoscenza dell’organo competente all’esercizio dell’azione penale. Allora ci si chiede: perché nelle due volte precedenti in cui la piccola è stata portata in ospedale nessuno abbia segnalato, violando così l’obbligo di segnalazione? Forse se la segnalazione del sospetto reato, così come riporta la norma che investe gli operatori sanitari dipendenti o convenzionati sarebbe arrivata prima evidentemente la famiglia sarebbe stata investita dalle indagini e supportata nella responsabilità genitoriale, che senza dubbio dai comportamenti che attuano, per loro è totalmente sconosciuta. I genitori avrebbero bisogno di un sostegno alla genitorialità che li aiuti a comprendere e migliorare la relazione con la bimba, gli stili educativi e comunicativi in famiglia per favorire una crescita migliore della piccola. Questo forse poteva essere un modo d’agire se le segnalazioni fossero arrivate in tempo e se si fosse agito immediatamente, oggi, lo scenario cambia: il Tribunale per i Minorenni potrebbe decidere per l’allontanamento della piccola dal nucleo familiare, anche se tutto dipenderà dalle indagini che gli inquirenti stanno svolgendo in queste ore e che investono l’intera famiglia, compresi i nonni, per cercare le origini del malessere familiare e dei comportamenti messi in atto. Insomma la vicenda è destinata a continuare e a spese di una bambina di soli tre mesi ricoverata in gravi condizioni, seppur le sue condizioni migliorano, che ha il solo “difetto” di chiedere amore e attenzioni, come tutti i neonati e tutti i figli.

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L’opinione. Caso Gambirasio, Bossetti assassino. Perché il DNA dice la verità…

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messUn verdetto prevedibile ed una sentenza che va oltre ogni dubbio. Massimo Bossetti è l’assassino di Yara Gambirasio, a dirlo è anche la corte d’Appello, che ieri sera ha emesso il suo verdetto. La vicenda è destinata ancora ad essere argomento dei media, dei commenti, anche perchè resta l’ultimo grado di giudizio: la Cassazione, ma questa ormai è una pietra tombale sulla vicenda processuale. La Cassazione non riuscirà a trovare vizi procedimentali tali da far riaprire il procedimento.
Non esistano perizie sul Dna che tengano, nonostante le continue richieste della difesa. La richiesta era irricevibile, non esistono criticità al dna, altrimenti sarebbero emerse in primo grado.
Il muratore di Mapello è l’assassino della piccola Yara, in una vicenda rievocata dai servizi televisi centiania di volte, in un uomo e padre che apparentemente sembrava un lavoratore dedito al suo lavoro e alla famiglia, ma che ha mostrato una personalità doppia, tenendosi per quattro anni il peso della morte della piccola ginnasta, pensando -sicuramente- ad un errore nella rivelazione del dna quando veniva attribuito a Guerinoni, senza sapere che il suo albero genialogico diceva bene altro. Un uomo dalla personalità contorta e falsa, giurando ancora di non essere l’assassino e invocando la verità, quella verità che le carte processuali riportano ben chiaro.
Un caso ormai chiuso. E’ tempo che la piccola Yara riposi in pace ed abbia giustizia, senza deja vu televisivi, senza la continua cronaca che rievoca un caso scabroso.

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L’opinione. La terra va in fumo

img_0217La terra brucia in Campania.
Quei fazzoletti di verde polmone d’aria e segno delle braccia e della fatica dell’uomo, che dà lavoro e frutti, va in fumo. L’aria è irrespirabile, il cielo assume un colore giallastro misto al nero. Il vento forte aggrava il soffocamento. L’aria è calda, bollente, il fuoco si mischia all’aria. I mezzi di soccorso sono insufficienti, nel napoletano ospedali, negozi e case sono stati evacuati.
Sembra un bollettino da guerra col risultato che si resta fermi a guardare la lenta morte della natura ormai persa, come perso il lavoro, la bellezza paesaggistica e anche l’aria che respiriamo: tra un pò leggeremo di nuovi casi di tumori, di come ci si ammala facilmente al Sud: la seconda terra dei fuochi. Eppure, anche questi criminali respirano la nostra stessa aria, non avvelenano solo noi ma si avvelenano anche loro.
Qualcuno lo dica. Se ne parli.

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“Se l’è andata a cercare”, l’opinione pubblica volta le spalle alle vittime di violenza

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messStupri e violenze, maltrattamenti e soprusi quotidiani, vengono “giustificati” dall’opinione pubblica con “se l’è cercata”, “li stava provocando”. Paesi in difesa del branco o del carnefice. Anche i sindaci. Le vittime diventano carnefici, costrette a scappare via, perché la gente del paese gli volta le spalle e la loro denuncia diventa arma per uno stupro quotidiano. E’ una violenza continuata, insistita, resa beffarda dall’impotenza di chi la subisce. Una violenza che ha il tipico carattere del maltrattamento, con tutte le conseguenti ricadute psicologiche per chi tale stupro lo ha subito. Non solo Pimonte. A San Valentino Torio una storia simile. E non solo. Da Nord a Sud le comunità difendono il branco e isolano le vittime stuprate: è colpa loro. Lo ha definito “una bambinata” uno stupro di gruppo ai danni di una dodicenne, il sindaco di Pimonte, in provincia di Napoli. Ha così “assolto” il branco di una decina di ragazzini che ha ripetutamente stuprato un’adolescente, costringendola a scappare lontano, in Germania, insieme alla famiglia. La vittima è diventata per tutti la carnefice. Colpevole di aver rovinato l’esistenza dei ragazzi, quasi tutti minorenni. Colpevole di aver denunciato quello che le è accaduto. Che poi sottintende “li ha provocati”. Poco importa se era stata ricattata, se è stata usata come oggetto. Umiliata e ripresa con i telefonini. Storia simile anche a San Valentino Torio: una ragazzina e il solito branco. Anche lì armati di telefonino, anche qui la comunità ha fatto muro, difendendo il branco: “lei andava in giro in minigonna”. Stessa storia a Taurianova nel tavoliere pugliese, dove una ragazzina anni fa dove violenze e soprusi ha trovato il coraggio di denunciare i suoi aguzzini. Il giudice crede alla sua versione e condanna i carnefici, ma lei ha osato parlare, ha osato sconfiggere l’omertà, così viene minacciata di morte, denuncia nuovamente e viene protetta dallo Stato, oggi vive sotto scorta. Paesi che emettono sentenze diverse rispetto a quelle della giustizia, additando e criticando la scelta di aver denunciato, arrivando a spingere le vittime e le loro famiglie a rimodulare e spesso a cambiare la loro vita. E’ una dinamica tipica dei piccoli centri. C’è una vittima e tanti presunti colpevoli, con una fitta rete di amicizie e parentele. Quando i media spengono i riflettori su questi casi resta il paese e i loro ragazzi accusati di un crimine: violenza carnale, o presunta tale. E comincia così il circolo della gogna senza fine. Che viaggia anche sul web, senza lasciare alcuno scampo. L’eventuale processo è un altro supplizio, i media locali ci marciano, riportano frasi, intercettazioni, riprendono dettagli che danno adito a commenti e battutine da bar. Un’altra violenza. Così capita che tante violenze simili neppure vengono denunciate. Le vittime non hanno il coraggio. O non vogliono darsi e dare un doppio dolore alle loro famiglie. O sono convinte che subiranno ritorsioni e verranno messe alla gogna. E non sono casi isolati ma storie vissute e sentite in ogni angolo di paese. E non solo al Sud. Vittime colpevoli di essere donne o di essere belle, o semplicemente di esistere, ma di un’esistenza ormai deturpata e rubata. Vittime due volte, di una duplice violenza. Vittime dell’omertà e della cattiveria umana.

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Figli senza privacy in balia del narcisismo dei genitori

img_0217Figli di oggi e senza privacy, con le foto postate, senza uno straccio di dignità e di diritto all’oblio. Che poi l’adolescenza di per sé porta la curiosità dei social e la voglia di condivisione, pubblicando anche cose che in eterno imbarazzeranno, ma fino ad allora ci pensano i genitori a pubblicare e a parlare dei propri figli sui social. Foto delle feste, della comunione, di Halloween, foto dei temi che hanno preso il voto migliore della classe, foto delle pagelle, foto delle feste di compleanno, foto di classe, considerazioni sui propri figli, domande imbarazzanti ed intime: “ma il tuo a che età si è masturbato?” Oppure “è diventata signorina”, peggio del lenzuolo esposto dopo la prima notte di nozze. Intimità, idee, sogni e foto di figli esposti in bacheca e giù i commenti, le considerazioni, i consigli e talvolta anche le cattiverie che si giocano a suon di commenti tra i genitori. I social si trasformano così in una piazza che accoglie il narcisismo dei genitori, azzerando la privacy dei figli, per di più minori. Libertà e sicurezza, il confine è sottile ed i social sono pronti ad azzerarlo del tutto. Infatti, se un genitore è libero di pubblicare tutto ciò che vuole condividendolo con gli amici virtuali, non può però sentirsi del tutto sicuro: la rete rischia di diventare una ragnatela dalla quale si rimane intrappolati, sia per il gioco psicologico di continuare a pubblicare e a condividere, ancor di più se ci si sente in competizione con altri genitori, quindi, si cercano filtri e aneddoti migliori per “gareggiare” contro altri genitori ed altri figli, ma si rischia anche di cadere nella trappola della pedopornografica. “Genitori, non mettete le foto dei vostri figli sui social: è allarme pedopornografia”, così si è espresso qualche settimana fa il garante della Privacy, Antonello Soro, in una relazione al Parlamento, parlando di “un grande fratello che governa il web”. Stando ai recenti dati, la pedopornografia in rete e in particolare nel dark desk, sarebbe in crescita vertiginosa. Nel 2016, due milioni le immagine censite, quasi il doppio rispetto all’anno precedente. Foto involontarie, ha sottolineato Soro, tutte provenienti dai social network dove i genitori postano le immagini dei loro figli. Social che sono diventati per i genitori un giudizio unico e talvolta insindacabile, tanto che l’ecosistema dei social network ha sostituito quello tradizionale (genitori, amici, parenti prossimi) nel giudizio che le neogenitrici sentono ricadere su se stesse. Al punto di sostituire la propria identità con quella del piccolo. O tentare di bilanciarla nel modo migliore. Così, secondo la psicologia, postare di frequente, specie nelle fasi iniziali può offrire sostegno e supporto ma nel lungo periodo può amplificare le ansie della maternità. Dunque, le madri che postano di più sono quelle che rimane di capire il nesso causa-effetto, sentono di più la pressione sociale a essere madri perfette e considerano la maternità ingrediente essenziale per la loro identità. Tanto da arrivare a piazzare l’immagine del proprio bimbo nella foto profilo. Quelle, in definitiva, che vogliono apparire mamme modello. Insomma, ben oltre la volontà di aggiornare gli amici o condividere bei momenti, al fondo degli atteggiamenti più martellanti c’è il vecchio meccanismo della conferma esterna. Che, riversa i suoi effetti anche sulle conseguenze emotive, positive o negative, ai commenti o ai like. Tradotto: un altro campanello d’allarme che siete troppo coinvolte dal giudizio degli altri sul modo in cui accudite il vostro bambino sta, banalmente, nel peso che date a ciò che gli “amici digitali” dicono o cliccano. una sorta di contrappunto della società ricco di insidie. Così i social si trasformano: da una parte è un mezzo per procurarsi sostegno e conforto, dall’altra un severo giudice a cui abbiamo tuttavia assegnato quel ruolo in modo deliberato. Tanto da trasformarlo in uno specchio deformato.

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Maltrattamento e abuso sui minori: un mondo sommerso che non emerge

img_0217Violenze, abusi, insulti. Ma, anche denutrizione, disabilità, danni psicologi permanenti: è il calvario delle piccole vittime dei casi di maltrattamento o abuso che ogni giorno, in silenzio si consuma nel nostro paese. Secondo una recente indagine realizzata da Telefono Azzurro in collaborazione con Doxa Kids, le violenze sui bambini e gli adolescenti sono sempre più diffuse. Accentuate dai rischi legati all’uso delle nuove tecnologie e dalla crisi economica, non vengono quasi mai denunciate. Nel 70% dei casi l’abuso si consuma fra le mura domestiche. Secondo l’OMS, l’Italia ha un indice di prevalenza di abusi e maltrattamenti del 9,5 per mille. Sono centomila i casi veri, presi in carico dai Servizi sociali. Non stime. Come prendere una grande città e riempirla di piccoli, e d’orrore. I casi maggiori al Sud Italia dove si registrano circa 273 casi di maltrattamento ogni mille minori, sui 155 del Nord. E dove, per via della difficoltà economica delle amministrazioni, i servizi sociali garantiscono sostegno alla metà dei bambini presi in carico dalle regioni settentrionali. Tra le violenze che colpiscono i piccoli la più frequente e all’apparenza la più innocua è la “trascuratezza”. È l’Organizzazione mondiale della sanità ad avere chiamato così l’assoluta incapacità da parte dei genitori di prendersi cura, materialmente e affettivamente, dei propri figli. E la trascuratezza è il mostro che nel 47% dei casi, nel nostro Paese, fa arrivare davanti ai giudici dei tribunali dei minori, e agli psicologi delle comunità protette, bimbi denutriti, con disabilità o ritardi acquisiti (fisici, linguistici, emotivi), incapaci di relazionarsi con gli altri. Scabroso quanto deprimente,  il fenomeno del maltrattamento o dell’abuso sui più piccoli ha radici storiche,  in passato i bambini venivano sacrificati agli dei, o vi era l’uccisione di bambini deformi o non desiderati ed era una pratica comunemente accettata e praticata. E’ nel ‘900 che si sviluppa la “cultura dell’infanzia” e si guarda alle violenze e negligenze ai danni dai minori. Si pose così attenzione alla famiglia maltrattante e abusante, alle sue caratteristiche e ai fattori di rischio, come ai fattori di protezione, al danno psicologico e fisico del bambino ed il modo meno traumatico per poterlo denunciare. E’ così che in ambito giudiziario vie ne accettata come prova il disegno, da sempre attività preferita dal bambino, ed è l’unico modo per far sì che il bambino esterni la violenza subita senza riviverla una seconda volta, evitando ulteriori traumi. Così viene introdotto in ambito giudiziario il reato di maltrattamento e abuso. Il codice penale italiano riconosce con la legge 66/1996 le “norme contro la violenza sessuale”, con tre ipotesi di reato: violenza sessuale, atti sessuali con minorenni, corruzione di minorenne. Un fenomeno in crescita, che spaventa, che dilaga. Un mondo sommerso che purtroppo non emerge, lo ha definito così il Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza della Regione Campania, Cesare Romano, qualche giorno fa, nell’ambito di una tavola rotonda dedicata al tema del maltrattamento e abuso sui minori. Il Garante ha esposto i dati di una ricerca condotta in vari comuni dalla Campania, Asl e ambiti territoriali, dove è emerso che ci sono duecento casi conclamati di abuso – “ma che in una proiezione statistica visto che era soltanto il 12% del campione arrivano facilmente a 300” – ha aggiunto. La tavola rotonda ha visto la partecipazione del pediatra, figura chiave e di congiunzione con le famiglie e Romano ha sottolineato l’importanza della formazione sui nuovi studenti di medicina ma anche la creazione di una rete di professionisti. Aspetto importante per Romano è quello sociale: “la formazione – ha detto -si fa nelle zone dove maggiormente emerge questo fenomeno, sicuramente si fa con un sostegno alla famiglia, si fa con interventi per i bambini e per le famiglie disagiate e nelle zone degradate”.  Secondo la legge 184/83 tutti i Pubblici Ufficiali e gli operatori incaricati di Pubblico Servizio, sono tenuti a segnalare all’Autorità giudiziaria minorile le situazioni di pregiudizio, di disagio e di abbandono morale o materiale a carico dei minori. Assumono la qualifica di pubblici ufficiali: gli assistenti sociali, i medici, gli insegnati, gli psicologici, i quali, nel caso di ritardo od omissione di segnalazione o di denuncia all’autorità giudiziaria, si renderebbero responsabili, dei reati di “omissione di denuncia”. Ma in una logica di tutela del minore bisognerebbe andare oltre la denuncia, bisognerebbe attivare sin da subito tutte le misure atte alla protezione del bambino, già dalla presa in carico dai Servizi Sociale, spesso ciò non avviene, sia perché l’intervento degli assistenti sociali avviene dopo molto tempo dalla segnalazione, causato di assistenti sociali che non riescono a fronteggiare le segnalazioni ed il lavoro quotidiano, sia perché i comuni spesso non hanno la possibilità economica di collocare al di fuori della famiglia dove avvengono gli episodi di maltrattamento e abuso, i bambini. Per cui il fenomeno si scontra con la mancanza di personale e di servizi, questo non fa nascere attorno al minore vittima una rete di persone familiari e professionali ma anche di servizi atti a supportarlo e ad aiutarlo a rielaborare quanto subito per creare un adulto più sereno e meno problematico.

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Bambini in auto e genitori dissociati dalla realtà

6834932-strumenti-moderni-giornalista-computer-portatile-bianco-taccuino-e-una-penna-profondit-di-campo-messUna mamma dimentica la figlia di diciotto mesi in auto e va a lavorare. Dopo ore in macchina, sotto al sole, la piccola è morta. La tragedia si è consumata ieri a Castelfranco nell’Arentino. La donna, impiegata al Comune è stata ascoltata dai Carabinieri e dal magistrato, ha raccontato di essere partita di casa come ogni giorno per accompagnare la figlia all’asilo e poi andare a lavoro. Probabilmente la piccola si era addormentata ed è rimasta sotto al sole coi finestrini chiusi. Intrappolata nell’abitacolo rovente. Un passante accortosi della bimba in auto ha chiamato i soccorsi ma ormai la piccola era già in arresto cardiaco. Purtroppo è lunga la catena di precedenti: Giulia, Jacopo, e tanti altri vittime della dimenticanza dei loro genitori. Parcheggiare e andare via convinti in buona fede di aver già lasciato i figli a scuola. E’ una parte della mente che tende a distaccarsi dalla realtà, gli esperti lo chiamano “blackout mentale” che può essere causato dallo stress, l’affaticamento, le pressioni emotive, la mancanza di sonno: sono diversi i fattori che possono incidere. Di fatti, c’è un dissociarsi da una serie di gesti, sempre gli stessi che si ripetono ogni giorno credendo di averli già compiuti. L’abbandono in auto è indipendente dallo sviluppo intellettivo, ma è da attribuire a cause come lo stress, che determina un’alterazione acuta della capacità di riflettere. Secondo gli esperti è possibile dimenticarsi il proprio figlio in auto. Ed è così che nascono proposte per evitare queste morti tutte uguali tra loro, come una legge che preveda l’obbligo di sistemi di allarme anti abbandono in auto. Alcuni esperti, suggeriscono, un metodo classico e non tecnologico per non dimenticare il figlio in auto, come quello di mettere sotto il seggiolino del bimbo il portafoglio o le chiavi di casa. Non è un metodo attendibile, perché la persona deve ricordarsi di prendere questi oggetti. Ma esistono applicazioni che grazie ad uno specifico algoritmo danno la sicurezza di aver consegnato il bambino. Resta però il miglior dispositivo il baby car alert, che quando si spegne il motore dell’auto ma il bimbo è sul seggiolino avverte con segnali sonori. Quando vi è il supporto sociale, affettivo, familiare che è presente, tangibile, il disagio emotivo dei genitori si attenua. Morti e storie sconcertati che danno però una chiave per comprenderle: ritualità,  fretta, giornate incastrate al minuto, gesti ripetuti centinaia di volte l’anno che diventano naturali come l’ultimo gesto che si fa prima di andare a dormire, diventando spesso automatismi. Gesti meccanici. Ci sono momenti in cui siamo fisicamente con i nostri figli, ma con la testa ci troviamo già al passaggio successivo, quando li lasceremo a calcio come tutti i mercoledì, quando li lasceremo dalla nonna come tutti i giorni alle sei. Momenti in cui diciamo sì a loro domande che non abbiamo ascoltato, in cui controlliamo la posta sul cellulare mentre ci raccontano cosa hanno fatto a scuola. E poi ci sono momenti in cui siamo lì, attenti e con la testa sgombra, ma solo stanchi. Umani e fallibili. Vittime , tutti, di piccoli corto circuiti: una banale dimenticanza, il quaderno non comprato, il libro lasciato a casa, la tuta non lavata proprio il giorno in cui ha ginnastica a scuola. E poi ci sono i corto circuiti spaventosi. Ci sono i bambini dimenticati in macchina. La pioggia di insulti sul web diretti alla mamma, la domanda di tanti: “come ha fatto?” mentre il sospetto terribile cova pauroso nel cuore di ogni genitore, di poter dimenticare per qualche minuto, le uniche persone che un genitore per tutta la vita non dimentica: i propri figli.

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Cosa c’è dietro una lite tra adolescenti che finisce in tragedia

cropped-cropped-foto-per-copertina-blog.jpg16 anni uno, 15 anni l’altro, Alex e Francesco frequentavano la stesa scuola ed erano anche amici su Facebook. L’altra sera, Alex al culmine di un litigio ha preso la pistola del nonno e ha ucciso Francesco, dopo l’omicidio il quindicenne si è recato alla caserma dei Carabinieri di Mileto, in Calabria per costituirsi. Dai Carabinieri e dalla Procura dei Minori di Catanzaro, che indagano emergono pochi dettagli. Testimoni avrebbero raccontato di un litigio tra i due ragazzi, qualche spintone, parolacce, forse per una fidanzatina contesa, poi i due si sarebbero dati appuntamento per chiarire il litigio in aperta campagna, qui Alex ha esploso all’indirizzo di Francesco tre colpi di pistola. L’assassino è figlio di un noto pregiudicato della zona. Il padre e il fratello pochi mesi fa erano stati arrestati con l’accusa di traffico internazionale di stupefacenti. La vittima, invece, viene raccontata come un ragazzo mite e buono. Un delitto brutale che riporta alla luce la violenza e la cattiveria che i giovani d’oggi covano dentro sino ad esplodere in atti eclatanti. Adolescenti o poco più che si sentono già adulti, offesi nel loro onore che và difeso, anche con un’arma da fuoco. Giovani violenti e pericolosi. Alex e Francesco due ragazzi diversi nella personalità e nel carattere, supportati anche da famiglie diverse. Alex è cresciuto nella guerra di mafia, in un clima in cui ha normalizzato nel tempo la violenza quale mezzo di risoluzione delle diatribe anche più futili. Un esempio che spesso è preso anche dalla società moderna e non solo da famiglie mafiose. Ciò che sconvolge in questa vicenda è la facilità a reperire e ad utilizzare un’arma da fuoco, oggetto facile nelle famiglie criminali, ciò assume contorni gravi e preoccupanti. I minori vanno tutelati e protetti, non è infatti difficile pensare all’allontanamento dei minori da contesti familiari mafiosi come rimedio preventivo e la Calabria ne è un esempio, grazie anche alla collaborazione e alle richieste di madri coraggiose che vogliono porre in salvo i propri figli, preservandoli da un futuro già scritto che inneggia alla cultura della morte e non della vita. Alex ora sarà affidato ad un carcere minorile, che accoglie ragazzi dai quattordici anni in su che devono essere custoditi in istituti di pena, se condannati alla reclusione per aver compiuto un reato. Si tratta di una prigione speciale, in quanto non si ha contatti con detenuti adulti e si tratta di condizioni meno severe e programmi specifici per i ragazzi. Sono controllati dai Centri di Giustizia Minorile. Il filo conduttore del procedimento minorile, dunque, è rappresentato dalla finalità educativa del minore: in quest’ottica, infatti, sono predisposti gli accertamenti sulla personalità del minore, finalizzati ad una idonea risposta alla condotta deviante dello stesso, comprensiva della valutazione della sua personalità e del contesto di provenienza. Minori e reati costituiscono oggi un’emergenza educativa. Dal punto di vista del Tribunale, il giovane dev’essere messo senz’altro nelle condizioni di comprendere cosa e perché ha sbagliato e di riflettere su quali conseguenze comporta il reato commesso, sia per lui che per la vittima. La “filosofia” dell’intervento prevede la messa in campo di validi strumenti per tentare un recupero del minore cosiddetto deviante, agevolando invece la possibilità di una rapida fuoriuscita dal circuito penale per coloro che non presentano gravi deviazioni nel percorso di crescita e socializzazione. Importante è anche la rieducazione che passa attraverso una buona cooperazione ed un ottimo lavoro di rete. Una misura largamente utilizzata in tema di rieducazione è la messa alla prova, che comporta una sospensione del processo, che, quando hanno un esito positivo, portano all’estinzione del reato. Si tratta dell’istituto più innovativo ed originale previsto dal codice processuale minorile e rientra tra quelli diretti ad evitare la condanna e, di conseguenza, l’esecuzione della pena detentiva. In altri casi è possibile che gli assistenti sociali coadiuvati anche dagli psicologi che seguono il ragazzo detenuto, delineano un progetto di rieducazione personalizzato che tenga conto delle sue attitudini, della sua curiosità, passando anche attraverso “cosa voglio fare da grande”. Ai giovani detenuti và data la speranza di una vita sì segnata ma anche di un cambiamento possibile solo con l’impegno e con le alternative della nostra società.

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Marco Pittoni, un eroe contemporaneo che ha lasciato un’impronta di legalità

img_02176 giugno 2008: il piombo e il sangue segnano il terrore nella città di Pagani. Due pallottole sparate a bruciapelo, mentre tentava di sventare una rapina all’ufficio postale del centro di Pagani, colpiscono il tenente dei Carabinieri, Marco Pittoni. L’omicidio scosse la città, come un terremoto immane, segnando le coscienze e dimostrando l’urgenza di una risposta intransigente contro la criminalità organizzata, da parte delle istituzioni e della società civile. Pagani, una città listata a lutto, così furono segnati i giorni successivi all’assassinio di un uomo che non aveva “opposto l’arma, ma la dolcezza del suo sguardo libero”, come disse un monsignore durante la celebrazione dei funerali di Stato. Nel giorno del saluto straziante, dell’abbraccio commosso di temila persone alla salma di Marco Pittoni, la lunga scia di sangue condusse definitivamente gli inquirenti agli assassini del loro compagno. Trentasei ore dopo, finirono in manette i responsabili dell’esecuzione del tenente Pittoni, tra loro anche un minorenne, accusato di avere esploso il colpo fatale. È bastato seguire quelle tracce per onorare il gesto di Marco: seguire il sangue innocente versato dall´ufficiale che, per difendere l´incolumità di trenta persone, ha affrontato i banditi a mani nude in quell´ufficio e li ha costretti a lasciare ovunque impronte e a commettere errori fatali; e poi il sangue di quel criminale in corsa, l´unico dei quattro ad essere stato colpito di striscio da uno dei proiettili sparati dagli altri due marescialli, intervenuti un secondo più tardi sul luogo del delitto. Una corsa contro il tempo, uno spiegamento eccezionale di forze e di impegno, hanno consentito ai carabinieri di mettere le mani sul commando. Poi, una dietro l´altra, sono arrivate le prove che incastravano gli indagati. Il giovanissimo tenente venuto dalla Sardegna, appena 33 enne, aveva un intuito investigativo, una visione ampia ed una determinazione assoluta. Il tenente si trovava già all’interno dell’istituto postale impegnato in una riunione con il direttore della filiare proprio per mettere a punto un piano di sicurezza dei punti critici della città. Pitto­ni cercò di bloccare i malvi­venti senza usare le armi, per proteggere i clienti e gli opera­tori presenti, ma la colluttazio­ne che ne scaturì terminò con l’esplosione di alcuni proietti­li, uno dei quali lo raggiunse senza lasciargli scampo. Marco Pittoni, aveva un limpido e profondo amore per la patria e il suo senso dello Stato, sentimenti imparati nel contesto familiare sin dall’infanzia e poi coltivati negli anni con i fatti, attraverso il lavoro, il rispetto dell’autorità, il rispetto per la divisa che indossava. Pittoni era un uomo dotato del senso del dovere e coraggio, conoscenza e integrità. Il nome, l’esempio di Marco Pittoni rimane forte come l’immagine migliore del nostro tempo, tesoro di valori per la formazione civica dei giovani e di ogni cittadino, motivo di orgoglio per un paese che ha sempre cercato il fresco profumo della legalità che si contrappone al puzzo del compromesso. Quello che resta è la voglia di ricordare un eroe e un martire per vocazione, di diffondere il principio di legalità, tenere a qualsiasi costo la schiena dritta di fronte al potere e alle sue fatali devianze. A nove anni di distanza il ricordo di Marco Pittoni, l’esempio del suo forte senso del dovere, del suo senso di giustizia restano indelebili e incancellabili, segnando i passi dei più giovani e non solo: il suo lavoro, il presente di tutti. I suoi sogni, il futuro della società civile.

(Articolo pubblicato su “ildenaro.it”)

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L’opinione. Il mondo nella morsa del terrore 

Un filo sottilissimo, quasi invisibile unisce Torino a Londra, si chiama paura, si legge terrore, panico, paura e si sigilla con la morte di innocenti. A Torino una piazza che voleva gioire, urlare ha incontrato la fuga, il terrore di un falso allarme. La colpa è tanto di chi insinua false notizie quanto anche di chi in un clima di terrore europeo ha portato in quella piazza bambini piccoli. I cori da stadio, il tifo, gli eventuali festeggiamenti coi bambini forse vanno fatti a casa. Io da zia mio nipote in mezzo ad una piazza gremita, col terrore che condiziona le nostre vite e l’Europa non lo avrei portato.

Londra sapeva che ben presto sarebbe stata colpita e di nuovo, ben presto un furgone ha seminato il panico di nuovo, riaccendendo la paura ma anche l’impotenza che anche chi governa ha sui terroristi. Ahimè, ahinoi, non esistono misure così forti tali da poter cercare di arginare o evitare attacchi terroristici.

Così siamo paralizzati, se andiamo in una città più grande ci guardiamo intorno, ci guardiamo le spalle, ma sappiamo che viviamo in tensione continua e costante perché qualcuno ha interpretato la sua religione in odio e morte.

Quando finirà? Quando potremmo ritornare a viaggiare, a vivere, a visitare o a lavorare e vivere in capitali come Londra, o a festeggiare in piazza senza la paura di saltare in aria? Quando ogni religione sarà vissuta con amore e Fede autentici senza interpretazioni distorte?

Sta forse cambiando l’Europa e il mondo? Siamo destinati a vivere così per il futuro moderno?

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