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Duplice suicidio nel salernitano, gli aspetti sociali e psicologici della vicenda

untitled 2Trova la figlia morta e si lancia nel vuoto. La tragedia in un mattino di fine agosto sconvolge e lascia sotto shock la città di Pagani, in provincia di Salerno. Sono morte a distanza di poche ore mamma e figlia, unite da un dolore comune, legate anche dal dramma di un gesto estremo: all’alba di ieri un’ex infermiera della cittadina salernitana si è lanciata dal terzo piano della sua abitazione del centro storico della città, dopo aver rinvenuto il corpo della figlia, ventiseienne, priva di vita nel suo letto. Una storia familiare dolorosa, fatta di malesseri e stati depressivi, difficoltà che si acuivano mentre il malessere interiore logorava le loro vite, chiuse nell’estrema riservatezza. Pochi mesi fa, si racconta, c’era stato un altro episodio: atti di autolesionismo a cui fece seguito un intervento tempestivo. Madre e figlia, insieme, in un legame indissolubile, stessa strada nella cura come nella morte. Insieme nel viaggio tempestoso e problematico della vita ed insieme anche nella morte. I racconti umani delineano il profilo di due donne discrete, educate, composte, chiuse nella loro riservatezza e nel percorso di rinascita della vita che le ha viste unite anche nel tragico gesto , del fine vita. Oltre la cronaca, oggi però si punta il dito sui professionisti che da tempo seguivano le donne: erano in carico ai Servizi Sociali Comunali e al Dipartimento di Salute Mentale, professionisti che hanno fatto tutto quanto in loro potere per tentare di offrire soluzioni e sostegno. Non entrerò negli aspetti procedurali o nel singolo episodio, ma è giusto far chiarezza anche sotto gli aspetti professionali che vengono messi in discussione in queste ore e nell’immediato accaduto di episodi simili. Quando, gli organi di stampa, riportano la dicitura “erano seguiti dagli assistenti sociali”, si pensa a dei servizi latenti o assenteisti. L’immagine che si configura è quella di una lotta tra l’opinione pubblica e gli operatori sociali, nemici e rivali, il cui oggetto del contendere è una storia che merita rispetto ed una morte che merita la sua privacy anche nell’ultimo drammatico atto della vita. Voglio fare alcune riflessioni di carattere generale. La versione dei fatti che si mormora è ovviamente unilaterale, si ferma al chiacchiericcio di strada. Gli operatori sociali, gli esperti del settore socio-sanitario e i magistrati non possono replicare perché, altrimenti rivelerebbero notizie del fascicolo di soggetti in carico, notizie davvero delicate, talvolta drammatiche, e comunque destinate solo ai canali istituzionali. Per cui non aspettatevi l’assistente sociale nel salotto televisivo che replica o una smentita ad una notizia, perché sarebbe deontologicamente scorretto. Mentre, si racconta di aver fatto poco o di averlo fatto male, nessun operatore sociale potrà replicare, difendere il proprio operato, perché si tratta di un lavoro umanamente bello ma alquanto complesso e difficile, perché non è facile seguire le vite contorte, difficoltose, arrovelliate, di chi attraversa un momento di vita non facile, difficile è poi intraprendere un cammino con il proprio utente, che serba timori, paure, perplessità ed ha soprattutto i suoi tempi per fidarsi, aprirsi e vedere l’assistente sociale come “l’estraneo di fiducia”. Esiste poi una tutela legislativa alla riservatezza dei fatti, alla quale nessun operatore socio-sanitario può sottrarsi. Come si vede, i problemi sono molti e di notevole spessore, che restano in bilico con la tentazione di assecondare la curiosità e l’emotività dell’opinione pubblica. Non solo un aspetto sociale ma anche psicologico delinea la vicenda, è così che ho deciso, credendo fortemente e fermamente nell’integrazione professionale e nel lavoro d’equipe di consultare un’abilitanta in psicologia, laureata in psicologia cognitiva, con esperienze di tirocinio al Dipartimento di Salute Mentale di Nocera Inferiore, la dottoressa Verdiana Abitudine con la quale ho cercato di approfondire la tematica del suicidio e gli aspetti psicologici correlati.

1. Dottoressa il caso del duplice suicidio di Pagani ha scosso l’intera comunità che incredula si chiede come sia potuto succedere. Cosa scatta nella psiche umana, perché si arriva a pensare e a compiere il suicidio?

Il suicidio viene considerato dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) la seconda causa di morte in Italia dopo gli incidenti stradali, e nel mondo oltre 800.000 persone all’ anno muoiono per la medesima causa. Sono casi che destano sempre tanto sgomento e la prima domanda che ci si pone è : “perchè lo ha fatto?”. Ebbene è sempre un compito difficoltoso rispondere con esattezza a questa domanda, perchè ogni caso è a sè e dietro ognuno si celano le più svariate motivazioni: che sia la presenza di un nucleo depressivo, ansioso, un disturbo psicotico, una sofferenza che attanaglia la propria vita, un periodo di marcata vulnerabilità psicologica; insomma, anche se la motivazione è differente da caso a caso c’è comunque un fattore che accomuna tutte queste tristi vicende ovvero uno stato di “disperazione”, per cui il suicidio viene delineato come l’unica via di fuga da un’ insostenibile situazione dolorosa, un problema apparentemente irrisolvibile che chiude le finestre del futuro e non lascia entrare alcuno spiraglio di luce; infatti non è la situazione in sè ad essere così grave quanto l’importanza che gli si attribuisce. Per questo motivo il tentativo di effettuare a posteriori un’autopsia psicologica potrà fornirci un quadro solo parzialmente adeguato, salvo qualche minima percentuale di casi in cui al gesto siano precedute minacce o risultino pervenute le motivazioni del suicida stesso attraverso lettere o altri strumenti.

2. Sappiamo che le due donne erano seguite dal Dipartimento di Salute Mentale, l’opinione pubblica spesso si chiede come possa accadere un evento del genere quando si è seguiti da dei professionisti, ci può spiegare meglio lei?

Il gesto suicidario non è mai prevedibile e forse nei rari casi in cui ci si trova di fronte a palesi minacce di suicidio, si tratta di semplici “tentativi” inscenati sottoforma di richiesta di aiuto e ricerca di attenzioni, nei quali casi possiamo trovare ancora nell’individuo la speranza di un miglioramento, un voler vedere dopo cosa succede, cosa cambia. Nel caso specifico la ragazza era seguita dal DSM, ma non sempre le vittime hanno il coraggio di chiedere aiuto e rivolgersi a figure professionali con le quali intraprendere specifici percorsi. Molteplici, infatti, sono i casi di impensabili vittime, anche giovani, che non hanno dato pregressi allarmi di ritiro sociale, di richiesta di aiuto nemmeno in famiglia, di periodi difficili e che da un giorno all’altro lasciano oltre al dolore della loro perdita anche l’incredulità delle persone che “mai si sarebbero immaginati, proprio lui!”. Tutto questo per dire che il primo passo da compiere in assoluto è rivolgersi a psicologi e psicoterapeuti i quali, con appositi percorsi, sostengono i pazienti nelle loro vicissitudini quotidiane perchè, ci tengo a sottolinearlo, “NO, non è una vergogna rivolgersi ad uno psicologo”, non è sinonimo di debolezza e non si tratta di una stigmatizzazione! in terapia si può lavorare su sè stessi, eventualmente lottare contro istinti suicidi, mascherati e non, attraverso dei programmi di rafforzamento delle proprie risorse personali, delle proprie capacità di fronteggiare gli stressors della vita, di aumentare la propria resilienza ma si tratta di processi che richiedono tempo, costanza e determinazione oltre che un precoce intervento.
3. Normalmente qual è il percorso che segue una persona in carico al DSM?

I dipartimenti di salute mentale offrono percorsi di sostegno di vari approcci a seconda delle esigenze dell’utenza, con equipe multidisciplinare che si avvale dell’uso di strumenti testistici per l’inquadramento approfondito del paziente in modo da proporre interventi personalizzati presso psicoterapeuti o, eventualmente, terapie farmacologiche con psichiatri. Inoltre l’equipe infermieristica provvede alla continuità della terapia farmacologica sia in loco che domiciliare per garantire a coloro che sono impossibilitati le cure prescritte.

4. Nel caso specifico, la madre pare abbia rinvenuto il cadavere della figlia suicida, dopodiché ha deciso di togliersi anche lei la vita. Spesso i genitori si trovano dinanzi la morte di un figlio, come è possibile sopravvivere ad uno choc del genere ed in che modo posso essere aiutati nell’elaborare il loro lutto?

Quando un individuo attua un suicidio crea un sistema luttuoso con ripercussioni sull’intera società e sui conoscenti della vittima. I genitori, ovviamente, vivono una situazione traumatica incomparabile rispetto a quella comune e difficilmente elaborabile, al punto da persistere anche oltre 12 mesi configurandosi come “lutto complicato” con connotazioni patologiche. L’esperienza è devastante per il genitore che perde il senso della sua esistenza e pertanto andrebbe tempestivamente programmato un intervento di sostegno per consentire l’elaborazione del lutto. Dunque non è semplice ma non deve essere impossibile il superamento di un episodio traumatico di questo genere, anche se nel caso specifico non conosciamo ancora dettagliatamente le dinamiche, mi verrebbe da dire che si tratti di un gesto impulsivo di una madre che vede scomparire per sempre la sua, forse, unica ragione di vita.

5. Il lutto di un suicidio colpisce anche il professionista che ha in cura il paziente, quali sono le principali reazioni dei professionisti al suicidio di un paziente?

Purtroppo la notizia del suicidio di un paziente ha sempre un’alta risonanza per lo psicologo come per l’intera società e si accompagna spesso a sensi di colpa, tristezza, rabbia oltre che un senso di fallimento che va ad inficiare l’autostima. Nel 90% dei casi i pazienti suicidi compiono il gesto nel momento in cui non si trovano più in terapia perchè hanno interrotto o terminato, ciò non esclude che sia improbabile che accada anche a chi continua il percorso terapeutico. Di certo non va sottovalutata la possibilità di programmi di sostegno o prevenzione terziaria rivolta ai sopravvissuti e quindi anche al terapeuta qualora ne avesse esigenza.

6. Per chi ha rinvenuto il cadavere della madre o ha visto il corpo in terra senza vita è senza dubbio un’esperienza difficile, cosa consiglia per chi ha assistito a quell’immagine?

Anche in questo caso stiamo parlando di un episodio altamente stressante, per quanto ognuno abbia una soglia di impressionabilità differente dalle altre, rinvenire un cadavere e trovarsi di fronte a scenari così forti mette a dura prova gli operatori i quali potrebbero manifestare, a venire, diverse risposte sintomatiche che andrebbero ridimensionate affinchè non causino compromissione in ambito socio-lavorativo, e anche in questo caso la soluzione che consiglio è rivolgersi a psicologi e psicoterapeuti in modo da condividere l’esperienza traumatica e risponderle in modo efficace.

Con la collaborazione di Verdiana Abitudine, dottoressa laureata in psicologia clinica

(Pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)
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Orfani del mare, ai minori stranieri non accompagnati l’accoglienza dei tutori volontari

untitledLa nave “Diciotti” è diventata ormai una nave simbolo della guerra dell’accoglienza tra Italia e Unione Europea. Nel trattenere i migranti a bordo il governo italiano vuole far smuovere l’Unione Europea sul delicato tema dell’accoglienza. E’ così che dopo cinque giorni di navigazione e due di fermo nel porto di Catania, dopo le sollecitazioni della Procura di Agrigento e quella dei minori di Catania, in base a quanto previsto dalle convenzioni internazionali e dalla legge italiana, il Ministro degli Interni, Matteo Salvini, ha annunciato il “sì” allo sbarco dei 29 minori non accompagnati a bordo. Si tratta di ragazzi eritrei tra i 14 ed i 16 anni e di una bambina che sono stati trasferiti in due centri di accoglienza messi a disposizione dai servizi sociali del comune di Catania. Orfani delle onde del Mediterraneo, piccoli anonimi che arrivano in Italia. Schiavi invisibili, giovanissime vittime dello sfruttamento e della tratta dei migranti. Un fenomeno nascosto e difficile da tracciare che vede come protagonisti i minori stranieri giunti in Italia via mare e via terra, molti dei quali non accompagnati da genitori o parenti. Rappresentando un potenziale bacino di sfruttamento per coloro che cercano di trarre beneficio dal flusso migratorio, speculando in vari modi sulla vulnerabilità dei più piccoli: dallo sfruttamento nel mercato del lavoro nero, alla prostituzione, passando per lo spaccio di droga, sino ad attività criminali. Secondo un rapporto di “Save the Children” , tre minori su quattro che arrivano in Italia sono soli. E negli ultimi anni i numeri si sono addirittura quadruplicati. E negli ultimi anni i numeri si sono addirittura quadruplicati. Sono più di 16 mila i ragazzi arrivati in Italia da soli. Dal 2011 costituiscono il dieci percento di tutti i rifugiati. Rischiano di finire in un girone infernale delineato dallo sfruttamento e dal maltrattamento, ma l’opportunità di tutela è fornita dall’esercito di tutori volontari per minori stranieri soli. Assumere la rappresentanza giuridica di un minore straniero solo, farsi carico dei suoi problemi, capire e spiegare agli altri suoi bisogni e diventare portavoce dei suoi diritti fino alla maggiore età. Insomma, proteggerlo negli anni più fragili e difficili. E’ questo il ruolo più importante del tutore volontario, una nuova figura nata per dare un sostegno ai percorsi di accoglienza, educazione e integrazione nella nostra società, per i quasi 18 mila minori stranieri rimasti soli sul territorio italiano. Un numero forte ed in continua crescita che ha portato alla legge 47/2017, che prevede tra le altre cose l’istituzione presso i Tribunali per i minori di elenchi di tutori volontari disponibili ad assumere la tutela. Protezione e tutela, le parole d’ordine per i quasi 18 mila minori soli, di cui la maggioranza è al maschile, le ragazze sono un numero esiguo: 1.209, molti dei quali provengono dalla Nigeria, e necessitano di massima attenzione. E’ stata ribattezzata come “cittadinanza attiva” o “genitorialità sociale” dall’autorità garante per l’infanzia. Sono già oltre tremila le persone che hanno dato la loro disponibilità in questi mesi a diventare tutore volontario, decidendo di dedicare una parte del loro tempo per migliorare la vita di uno dei quasi diciannovemila minori stranieri non accompagnati presenti nel nostro paese. Impegni ed iniziative per il tutore. La nuova legge non prevede, infatti, la presa in carico domiciliare ed economica del minore. Il tutore svolge le pratiche amministrative, come ad esempio il permesso di soggiorno, valuta se presentare domanda di asilo o protezione internazionale, se sono necessarie prestazioni sanitarie urgenti, accompagna il giovane nella formazione, nell’istruzione scolastica e nell’apprendimento della lingua italiana. “Il tutore dovrà prendersi cura del minore e avrà la funzione di guida”, dicono dall’autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza. Alcune regioni hanno avviato anche corsi di formazione per i futuri tutori. La durata dell’impegno del tutore è legata all’età del minore. Le persone vengono inserite nell’elenco istituto presso il Tribunale per i minori da cui il giudice attinge per nominare i tutori. Ogni tutore volontario può  essere chiamato ad affiancare fino ad un massimo di tre minori stranieri  non accompagnati, salvo sussistano delle ragioni speciali, ad esempio un gruppo di quattro fratelli. Una persona smette di essere tutore per un ragazzo al compimento dei 18 anni e può diventare tutore di un altro minore. Si rende necessario però un’attività di raccordo tra i Tribunali per i minori dove sono istituti gli elenchi e il tribunale ordinario deputato alla nomina. Un istituto, quello del tutore, che la legge prevede nella sua gratuita dei compiti. Alcune regioni hanno previsto delle forme di sostegno su particolari questioni, come la stipula di una polizza assicurativa. Negli ultimi mesi sono stati pubblicati diversi bandi per tutori, le prime risposte sembrano essere più che nuove, ma non sufficienti secondo le autorità per i 18 mila ragazzi che hanno bisogno di una guida. Così si rafforzano le campagne pubblicitarie e web per rafforzare l’idea di una genitorialità sociale dando l’occasione ad un ragazzo di cambiare con l’aiuto di un tutore il suo presente e modellare il suo futuro.

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Febbre da gioco. Adolescenti sempre più a rischio dipendenza

untitled 2Il gioco d’azzardo strega gli italiani. Business record da 95 miliardi di euro. GrattaeVinci, slot machine e videopoker: nel 2016 il giro d’affari è cresciuto del 7%. Un milione i ludopatici: da curare. In mezzo c’è un’area grigia di chi trascorre ore nei bar, nelle tabaccherie, tra slot, gratta e vinci e lotto istantaneo. Due milioni e mezzo di giocatori che, pur non compulsivi, investono cifre consistenti di denaro nella speranza del colpo di fortuna che possa cambiare la loro vita.  E’ di 95 miliardi di euro l’anno il giro d’affari del gioco d’azzardo legale, una delle prime industrie del paese che garantisce migliaia di posti di lavoro. Una “febbre” che ha  creato anche un’emergenza da gioco patologico per la prima volta inserita dallo Stato tra le nuove dipendenze. 7 mila le persone in cura ufficialmente in Italia, numerosi gli ambulatori che continuano ad aprire su e giù per il Paese. Tra loro un adolescente su due.  In un presente più instabile e nella ricerca di un futuro migliore, sempre più spesso i ragazzini finiscono per credere che per risolvere i problemi la classica botta di fortuna sia più valida ed efficace dell’impegno, dello studio e della fatica. Secondo una recente ricerca condotta dalla Caritas di Roma e presentata all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù, a 580.000 milioni è stata diagnosticata la dipendenza da gioco, una forma di dipendenza non meno pericolosa di quella da alcol e droghe. Una dipendenza silenziosa, difficile da notare in famiglia. I ragazzi, complici della tecnologia scommettono online, puntando denaro sullo sport, ma giocano anche a poker, slot machine o ruolette. L’assenza di autocontrollo fa crescere l’aspirale della dipendenza e così le scommesse vanno a rialzo e spesso è qualcosa di innato che parte già in famiglia, quando i genitori sfidano i figli con frasi: “scommetto che non riesci a finire quello che hai nel piatto”, oppure “scommetto che non hai sistemato ancora la tua camera”. Input che possono trasformarsi in un boomerang portando il ragazzo a ritenere la “scommessa” un qualcosa di normale e fonte di stimolo. Bisogna aiutare i ragazzi al personale autocontrollo, è uno dei primi elementi per evitare il tipo di dipendenza. L’autocontrollo nei ragazzini è un tratto caratteriale che di solito è scarsamente presente in quanto per crescere hanno bisogno di sfidare i propri limiti giocando sempre al rialzo. Da quanto si legge nel rapporto Caritas ci sono tre grandi categorie di fattori che predispongono alla dipendenza intrecciandosi tra loro: aspetti biologici di tipo neurofisiologico, socio ambientali relativi al contesto in cui si vive e si cresce, e quelli psicologici, che comprendono una propensione verso certi tratti di personalità. Da un punto di vista biologico, nei giocatori d’azzardo i circuiti celebrali guidano il comportamento e subiscono una sorta di “inganno”, iniziando a rispondere come se l’azione del gioco fosse necessaria alla sopravvivenza. L’aspetto psicologico innesca la scarsa capacità di autocontrollo, che poi si fondono col contesto socio-economico in cui i giovanissimi vivono: da eventi stressanti a familiarità con le dipendenze. Per aiutare i ragazzi che finiscono incastrati nel tunnel del gioco è fondamentale riconoscere i sintomi della dipendenza, si legge nel rapporto Caritas che vi sono quattro elementi che sono ricorrenti negli addicted da gioco: il craving, ovvero il desiderio improvviso e incontrollabile di giocare, l’astinenza, caratterizzata da nervosismo, atteggiamenti violenti e dalla necessità fisica di giocare, poi c’è l’assuefazione ed il gambling, cioè la tendenza a sovrastimare la propria abilità di calcolo delle probabilità e a sottostimare l’esborso economico che porterà ad una vincita. L’aspetto economico non è secondario per capire a cosa possa condurre la dipendenza da gioco nei minori. I ragazzi, infatti, non guadagnando denaro proprio e nelle fasi più acute, finiscono per sottrarre soldi ai genitori. Identificati i campanelli d’allarme e riconosciuta la presenza di un problema è importante che la famiglia chieda aiuto agli specialisti. Tra le terapie più efficaci vengono raccomandati i gruppi di auto aiuto che prevedono un percorso specifico per il superamento del problema. Molto utili sono anche i gruppi terapeutici per giocatori d’azzardo compulsivi, condotti da psicoterapeuti formati e che coinvolgono l’intera famiglia: importante è il dialogo e la collaborazione tra l’adolescente, il terapeuta e la sua famiglia. Bisogna ricordare, infine, che sviluppare una dipendenza è il sintomo di un problema, non il suo esito. Per risolvere una patologia, sottolineano gli esperti, bisogna capire qual è il vantaggio secondario che si cela dietro questo comportamento in maniera tale da evitare di sostituire dipendenza a dipendenza e garantire la correzione del comportamento disfunzionale nel ragazzo.
La febbre da gioco d’azzardo, dunque, è una malattia della nostra società, il governo giallo-verde, sembrerebbe voler mettere mano alla crescente foga del gioco, infatti, il decreto dignità, interviene sulla ludopatia, ponendosi un obiettivo importante: contrastare il grave fenomeno del gioco d’azzardo compulsivo, vietando la pubblicità di giochi o scommesse con vincite in denaro, comunque effettuata e su qualunque mezzo, incluse le manifestazioni sportive, culturali o artistiche, le trasmissioni televisive o radiofoniche, la stampa quotidiana e periodica, le pubblicazioni in genere, le affissioni ed internet. Previste sanzioni per chi trasgredisce le nuove norme, restando invariate le sanzioni già previste. Un passo giusto che servirà da deterrente e basterà da solo a fermare la voglia di giocarE? Sicuramente una prima azione che non può e non deve essere fine a se stessa, perché la ludopatia non è solo una pubblicità è ben altro.
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Paure e angosce post dramma. Ecco perché le tragedie ci fanno paura

untitledRabbia, impotenza, senso dell’assurdo. Sono questi i sentimenti che si provano in questi giorni drammatici e tragici che l’Italia sta vivendo. Perché il terremoto lo puoi accettare. Anche se in queste ore in cui il Sud Italia è attraversato da uno sciame sismico, la paura tiene in allerta. Un ponte che cade davanti, addosso no, è impensabile. E’ qualcosa di difficile da elaborare, anche perché di strade e di ponti ogni giorno ne attraversiamo tanti, consapevoli di una scarsa manutenzione e coscienti di essere esposti a qualche rischio. Tutta Genova avrà bisogno di assistenza psicologica e tempo per sanare una ferita così profonda. Ma, non solo la città di Genova, tutti noi abbiamo bisogno di elaborare il senso di rabbia e di impotenza: è naturale e legittimo. Rabbia, impotenza e paura, che hanno radici profonde: prima, la morte di un uomo di successo, ricco e invidiato, che se ne va di colpo, lasciandosi tutto alle spalle. Ori e stracci: la ricchezza, il successo, l’invidia e l’adulazione. Il crollo, poi, improvviso di un ponte che inghiottisce sogni, passioni, amori e affetti. Infine, lo sciame sismico che smuove il Sud Italia e nella mente della gente riaffiora la paura del terremoto dell’Ottanta. Episodi di vita accentuati dalla fatalità che fanno scattare in tutti noi un sentimento quanto normale e comprensibile: la paura, che si accentua con le immagine dei media, con le ore che passano e sanciscono altre morti, con i social che lanciano paure e allarmismi: foto e commenti, la richiesta di non attraversare ponti a rischio. Per un attimo diventiamo ingegneri e giudici, alimentando l’ondata di fobia dei ponti, delle morti improvvise. Proteggersi dalla sovraesposizione di immagini e notizie, cercando di recuperare calma e tranquillità. E’ il primo passo per non farsi prendere dal panico e dalla paura comprensibili ma ingiustificati. La paura non può e non deve paralizzarci, ma diventare arma di reazione. Incidenti come quello di Genova, hanno un fortissimo impatto sull’opinione pubblica perché comportano un elevato numero di morti e feriti. Ma ciò non toglie che sono e rimangono eventi molto rari. In situazioni tragiche come queste, purtroppo, la rete, amplifica la paura e favorisce il dilagare del panico. E, invece, bisognerebbe considerare l’estrema rarità di questi eventi. Non è vero che la rete stradale è insicura, perché altrimenti avremmo disastri quotidiani, visto l’altro numero di viaggiatori quotidiani. Per cui, è bene non sovraesporsi ad immagini e notizie che di continuo in questi giorni sono trasmesse. Passare ore su internet a cercare informazioni non fa altro che aumentare il senso di insicurezza. Anche le storie dolorose che in questi momenti sono raccontate, facilitano il meccanismo di identificazione di milioni di persone, potenziali vittime di terzo livello di questo evento. Esiste, infatti, anche un traumatismo secondario legato proprio all’identificazione con le vicende delle vittime. Soprattutto, facciamo attenzione ai bambini, la cui sensibilità è molto accentuata. I genitori sono fondamentali, da loro devono sapere che avere paura è normale, è naturale, bisogna lasciarli esprimere le loro emozioni tenendo conto che dopo un simile trauma possono avere qualche regressione e magari fare pipì a letto. Davanti alle loro domande, ai mille perché di una tragedia bisogna cercare di dire la verità senza commenti: “il ponte è caduto perché era vecchio, fatto male”. Mentre tutti noi, nel nostro noi più intimo e profondo, dovremmo chiederci perché le morti di Genova, la morte di un uomo di successo come Marchionne, ci colpisce così tanto? Perché ci poniamo istintivamente una domanda: se è tutto così veloce e drastico, stiamo usando bene la nostra vita?

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

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August blue, la depressione di metà estate

untitled 2Tutti felici, pronti alle ultime ore di lavoro, tutti a chiederci: “quando vai in ferie tu?”, “dove andrai in vacanza?” Intorno a noi città semi vuote, negozi pronti ad affiggere il cartello “chiusi per ferie”, in molti sono già abbronzati e coperti da abiti leggeri e colorati. Ad Agosto e nel cuore dell’estate sembra che l’unica cosa a non essere concessa è essere tristi. Eppure nonostante il sole, le belle giornate, l’odore del mare e le vacanze che si respira nell’aria per molte persone, con il passare dei giorni di agosto, qualcuno avverte un’angoscia crescente e un’ansia che in alcuni casi più conclamati può persino trasformarsi in depressione. Una sindrome estiva, ribattezzata “August Blue” dallo psichiatra Stephen Ferrando, direttore di psichiatria al Westchester Medical Center che ha paragonata questa particolare forma di disordine affettivo al “Blue Monday”, la sensazione di disagio ed angoscia che si percepisce la domenica sera. Addirittura, secondo un algoritmo calcolato, esisterebbero il Blue del Blue, ovvero, il terzo lunedì di Gennaio. Quello che succede ad Agosto, ha spiegato uno studio pubblicato dal New York Magazine, è simile a ciò che accade la domenica sera, ma in scala maggiore. Una tipologia di depressione che si colloca con il disordine affettivo stagionale, cioè quel disturbo dell’umore che colpisce alcune persone col cambio di stagione. Agosto infatti è il “mese di mezzo”: da un lato la vacanza desiderata, frutto di mesi di lavoro e di stress; dall’altro è anche il punto a capo nei confronti dell’anno che da lì a poco va a ricominciare. Secondo alcuni studiosi, per molti il vero Capodanno non è il primo gennaio, ma il primo settembre, quando si rientra  lavoro, riaprono le scuole e si ricomincia: una routine dalla quale si vorrebbe fuggire nei mesi successivi. L’August Blue, però non è solo una generica sindrome di malcontento, ma un’autentica patologia. I sintomi, secondo anche il dottor Ferrando, sarebbero angoscia e panico persistenti, per almeno due settimane, con prospettive confuse sul futuro e instabilità emotiva al solo pensiero dell’arrivo dell’autunno. August Blue, sembrerebbe essere, una nota amare e scura nei giorni di vacanza, momenti preziosi da trascorrere in solitudine, in famiglia o con amici, che rischia di rovinare momenti che potrebbero essere belli. I rimedi però ci sono. Per non incappa cere nel “Blue August”, la prima regola è quella di cercare di allentare la tensione, cercando soprattutto di disintossicarsi dai social, fonte primaria di stress. Il continuo condividere dove si è, cosa si fa, ci mette in competizione con gli altri. E’ importante concedersi una pausa detox permettendosi di concentrarsi su se stessi, senza sentirsi in dovere di dimostrare nulla a nessuno. Divertirsi per se stessi non per gli altri. Allentare i ritmi e magari assaporare anche un po’ di noia aiuta invece a rigenerarsi e a godersi maggiormente il mese di Agosto e in genere i giorni dedicati al riposo e al relax. Al rientro, l’ideale, sarebbe cercare di rimandare questa sindrome da rientro a ferie finite con la consapevolezza che tutte le paure e le angosce si smaltiranno da sole con il tempo, quando le tessere della routine andranno al loro posto e un giorno dopo l’altro si tornerà a ripercorrere la strada verso un’altra estate.
Insomma, qualunque siano le vostre vacanze: in città, al mare, in compagnia o semplicemente da soli, che siano giorni o poche ore, fatene tesoro, lasciate il cellulare e la corsa allo scatto social, dedicatevi alla sana noia, al mondo intorno, alla natura, a voi stessi, agli affetti e perché no, al divertimento. Lasciate paure ed angosce che solitamente affliggono.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Storico ma attuale al via il Servizio Civile. Consigli e spunti per partecipare

Giovani volontari cercasi. Il Dipartimento della Gioventù e del Servizio Civile Nazionale, ha pubblicato i bandi per il 2018 sul sito http://www.gioventuserviziocivilenazionale.gov.it con una novità reduce dello scorso anno: i progetti del servizio civile nazionale si potranno svolgere sia in Italia che all’estero. I ragazzi potranno scegliere dove andare a fare volontariato. Numerosi i progetti, di cui molti all’estero, presentati dagli Enti inseriti nell’Albo nazionale e tra altri offerti dagli Enti iscritti negli Albi regionali e delle Provincie autonome. Quasi tutti sono finanziati, dunque saranno retribuiti, anche se con somme non elevate, circa 433 euro al mese, ma esentasse e senza contribuzione. E sembrerebbe proprio che il servizio civile piaccia. Secondo un report pubblicato dal Dipartimento della Gioventù e del Servizio civile nazionale sono 43 mila i volontari attivi sul territorio, si arriva a 50 mila se si considera l’ultimo scaglione che è partito il 10 gennaio 2018. Non si tratta di un contratto di lavoro ma di un rapporto che vede insieme lo Stato, il giovane e l’ente pubblico o privato che lo ha selezionato, formato e preso in servizio. Un tempo era un modo per aggirare la “noia” ma da quando non è più obbligatorio, la prospettiva è cambiata. Storico ma attuale: il servizio civile è stato istituito quando è stata abolita la leva militare, ma conserva un forte legame con l’articolo 52 della Costituzione, che parla di difesa della patria. In questo caso si tratta di una difesa non armata con mezzi non violenti. Una difesa che oggi è a tutto tondo: delle molte ingiustizie, dalle diseguaglianze, dalle esclusioni, dagli sfregi al nostro patrimonio ambientale e culturale. Tutto quello che contrasta con i valori di equità, solidarietà, integrazione ed inclusione. Giovani ambasciatori di certi valori, ma non in astratto ma attraverso esperienze concrete. Chi vi scrive è anch’essa una volontaria del servizio civile, ormai da sei mesi. Sono in quel limbo che oscilla tra sei mesi già trascorsi e sei che verranno. Ho scelto la pubblica amministrazione, che sarà controcorrente, piena di problemi, ma è un perfetto ingranaggio che tiene insieme le istituzioni ed i servizi. Conoscerla da vicino, è entusiasmante quanto faticoso, costruttivo quanto professionale. Sinonimo di esperienza di vita e professionale. Ritmi di lavoro serrati, scadenze, burocrazia, ma anche volti e visi, storie umane, giornate lunghe ma che lasciano una morale. Il servizio civile è un modo per i giovani di mettersi alla prova, aprendo i propri orizzonti, in alcuni casi cambiando la propria visione sulla realtà dei problemi, contemplando nuove difficoltà mai contemplate prima. Un’occasione – e non da poco- di acquisire un senso di impegno civico, di appartenenza ad una comunità avendo la possibilità di sapere che il proprio impegno può essere d’aiuto, aprendosi nuovi orizzonti professionali e lavorativi in una catena che dà agli altri ma anche a se stessi. Un anno costruttivo, utile, formativo, un’esperienza che nasconde in sé una triplice valenza. La prima come servizio di utilità alla comunità a cui si è iscritti, realizzando il progetto scelto; la seconda è di formazione personale all’impegno civico, alla dimensione volontaria e anche all’acquisizione di competenze, capacità anche di tipo non scolastico. La terza è la positività di un’esperienza, sia per la propria vita che per qualche opportunità in più nel proprio itinerario professionale. Per molti giovani, il servizio civile diventa un “anno sabbatico”, per molti quello subito dopo la laurea o il diploma, che anziché risolversi in un nulla di fatto diventa, spesso, la chiave per capire davvero ciò che si vorrebbe fare un giorno come lavoro. Da volontaria che unisce il suo sapere professionale ed esperienziale, credo sia un’opportunità straordinaria, seppur dipende come viene percepita e vissuta da chi decide di intraprendere un anno – che dopo regalerà sempre incertezza- ma si possono sviluppare attività professionali e costruire una rete di contatti utili per il futuro lavorativo e professionale. D’altra parte per i Comuni, e questa è una certezza dell’oggi, i volontari del servizio civile diventano una risorsa preziosa che colma la carenza d’organico per un famoso turn-over ormai fermo per gli enti locali, ed i giovani del servizio civile freschi diplomati o laureati diventano una vera e propria boccata d’ossigeno. Non un lavoro, dunque, ma il servizio civile è l’occasione per calarsi in un perfetto scenario lavorativo: orari di lavoro da rispettare, obblighi e responsabilità in capo al volontario, rapporti tra colleghi e qui nasce lo spirito di condivisione e di gruppo, che a volte si annulla per lasciare posto ad ostilità e conflitti, ma un perfetto disegno di ciò che è l’ambiente di lavoro e prima un giovane imparerà a calarsi dentro e prima riuscirà a farsi le ossa in situazioni e climi lavorativi non sempre sereni e distesi. Perché tra colleghi non sempre la convivenza è facile. Tra i più giovani, secondo i dati, piace anche la possibilità di viaggiare con progetti sperimentali come quello dei Corpi Civili di Pace che, si pongono come obiettivo la promozione della pace e della cooperazione tra i popoli. I volontari operano in situazioni e aree già monitorate da organizzazioni del territorio, per affiancare chi lavora da anni in contesti difficili. Partecipare diventa un’occasione che lo Stato fornisce ai più giovani in un tempo di precarietà ed incertezza. Il bando è strutturato come un normalissimo bando concorsuale, il futuro volontario dovrà scegliere il progetto che è in linea con le proprie attinenze o semplicemente il progetto che più lo coinvolge. Inviata la richiesta di partecipazione con i documenti richiesti, dovrà attendere la pubblicazione delle date dei colloqui. Un vero e proprio colloquio conoscitivo/professionale. Al volontario sarà richiesta una breve presentazione, gli saranno fatte delle domande: dalla storia del servizio civile, alle motivazioni personali che lo hanno spinto a partecipare. Vivetevela come un normale colloquio, ma con carattere e decisione, dimostrate competenza, pacatezza, compostezza. Al termine del colloquio, l’esaminatore darà un punteggio che si sommerà alla valutazione dei titoli fatta in sede di richiesta, dopo qualche settimana saranno pubblicati i risultati con annessa graduatoria dei ammessi e non ammessi. Non sempre si riesce ad essere ammessi, almeno non sempre la prima volta e chi vi scrive ci ha provato più di una volta, ma se la ritenete un occasione che proprio non volete perdere per il vostro backgroud personale e professionale, non perdetela di vista.

(Articolo pubblicato per il mio blog Pagine Sociali per ildenaro.it)

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Malato di videogiochi il Tribunale dispone l’affido ad una comunità

untitled 2A 15 anni affidato ad una comunità di tutela perché ossessionato dai videogiochi. La vicenda riguarda una famiglia del cremonese già da tempo seguita dai servizi sociali. Un contesto difficile: genitori separati, mamma con problemi giudiziari, una sorella già affidata ad una comunità. La via crucis per il quindicenne, con difficoltà nell’apprendimento, è iniziata diversi mesi fa quando venne riconosciuto “schiavo” della playstation, vittima di una dipendenza dai videogiochi da cui non è riuscito a liberarsi. Da qui la decisione dei giudici di affidarlo ad una comunità. Nelle scorse ore il ragazzino ha scritto un’accorata lettera ai giudici chiedendo di restare con la mamma, “le prometto che faccio il bravo” – si legge- lettera a cui i giudici bresciani non hanno però dato seguito e ascolto. La vicenda era arrivata all’attenzione della magistratura bresciana due anni fa, quando la madre dell’adolescente, si rivolse ai servizi sociali per ricevere un aiuto nella gestione delle paranoie e delle ossessioni del figlio, eccessivamente legato ai videogiochi e alle console. Seguito in un primo momento dal reparto di neuropsichiatria infantile, il ragazzino alla fine dell’anno scolastico ha iniziato a non frequentare più la scuola sempre più risucchiato dai colori e dai giochi della playstation. Sembrerebbe, dalle relazioni degli assistenti sociali, che la madre abbia dimostrato di non sapersi prendere cura del figlio, da qui l’intenzione di affidarlo ad una comunità, dove fino ad un attimo primo è stato trovato in casa intento a giocare con la consolle sulle gambe. Ora sarà sottoposto ad un percorso riabilitativo finalizzato a dargli equilibrio. In un mondo iperconnesso, bambini e adolescenti trascorrono la maggior parte della giornata tra smartphone, computer e videogiochi. Rischiando una dipendenza da tecnologia che può sconfinare in diversi disturbi: dall’isolamento all’aggressività, fino all’ansia e alla depressione. Con conseguenze negative su attenzione, controllo degli impulsi, tolleranza alla frustrazione, dimenticando l’importanza del gioco, della socialità e della compagnia. Se da un lato una ricerca della Readboud University in Olanda documenta i benefici sperimentati da bambini e adolescenti utilizzatori di giochi interattivi sul piano cognitivo, emotivo e mentale. Ma la preoccupazione si concentra sulle possibilità di dipendenza e sull’esposizione alla violenza. Non mancano poi correlazioni con disturbi del sonno, isolamento, aggressività, obesità e ansia. E conseguenze negative su attenzione, controllo degli impulsi, tolleranza alla frustrazione. Ciò di cui si parla meno forse è che giocare su uno schermo: cellulare, tablet o consolle è da considerarsi fattore di stress psicologico con effetti fisiologici di una certa entità come variazioni della frequenza cardiaca, della pressione, dei livelli di noradrenalina e cortisolo: ormone dello stress, alterazioni dello zucchero nel sangue, ritardo nella digestione. È correlato anche a una maggiore assunzione di cibo negli adolescenti, a una diminuzione della precisione, alla sindrome metabolica: ipertensione, obesità negli adolescenti indipendentemente da inattività fisica. Le raccomandazioni da parte delle organizzazioni scientifiche di pediatri sono di limitare la quantità di tempo totale dell’intrattenimento con gli schermi a meno di due ore al giorno, evitare le esposizioni ai bambini sotto ai due anni, e controllarne i contenuti, spesso inadatti all’età dei giocatori. Ma comunemente il tempo dello schermo per i bambini e ragazzi è ben altro. Tv, smartphone, computer, tablet, social media e videogiochi hanno invaso la loro giornata. Più di qualunque altra attività. Forse è proprio questo l’aspetto sul quale concentrarsi. Sullo spazio, il coinvolgimento, la pervasività di questa esperienza nella loro vita. E nella nostra, perché siamo noi adulti i primi a dare esempio. Non sono i videogiochi in sé ad essere buoni o cattivi. Però quando i bambini trovano noiose le attività senza schermo è un segnale di allarme: probabilmente si sono abituati a un livello innaturale di stimolazione. Così come quando preferiscono il video in solitaria alla compagnia di coetanei. Il gioco o qualunque altra attività sullo schermo è un tempo sottratto a esperienze reali, a interazioni sociali, al gioco libero e spontaneo, alla possibilità di muoversi, esprimersi secondo modalità non programmate. Numerosi studi condotti negli Usa dimostrano che gli adolescenti che nell’infanzia non hanno avuto modo di sperimentare liberamente giochi di gruppo e di movimento con i coetanei sono più ansiosi, depressi e meno autonomi. Offrire esperienze ai nostri figli, allargarle ma non approfondirle, sta diventando la norma nel nostro vivere iperconnesso. Nel mondo cibernetico di oggi, i bambini sono esposti a messaggi che insegnano apatia, non empatia. La connessione intima, autentica sta diventando sempre più difficile. Instaurano rapporti numerosi, estesi, fatti di rapidi e brevi scambi a scapito di profondità e intensità. Sono sedotti da una miriade di semplificazioni, gratificazioni immediate con click dispensatori di dopamina, ma rischiano di privarsi della possibilità di costruire legami attraverso i quali imparare a essere pienamente presenti all’altro, acquisire fiducia, comprensione, profondo senso di connessione. A impegnarsi. Giocare guardandosi negli occhi. Per questo il tempo dei videogiochi per i bambini andrebbe confinato tra esperienze creative reali. Gli esseri umani sono programmati per la socialità e la compagnia, l’affetto e l’attaccamento. Come adulti ed educatori, dobbiamo lavorare per mostrare ai nostri figli il valore di queste risorse.

(Articolo pubblicato sul mio blog Pagine sociali per ildenaro.it)

 

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Minori, testimoni silenziosi della violenza domestica. Vittime di “stress post- traumatico”

untitledAlmeno 400 mila bambini sono vittime silenziose e sofferenti di violenza assistita. Testimoni diretti o indiretti dei maltrattamenti in casa nei confronti delle loro mamme, quasi sempre per mano dell’uomo, sono i numeri contenuti nel dossier di “Save the Children”, più di 1,4 milioni le madri vittime di violenza domestica nella loro vita. Testimoni innocenti e silenziosi dinanzi alla violenza ingiustificata ed inaudita che gli uomini scaricano contro le donne. Il femminicidio non significa solo donne uccise. Purtroppo. Per ogni donna uccisa, spesso c’è anche un bambino che non può più chiamarla mamma. Negli ultimi decenni dal 2007 al 2017, l’Istat ha calcolato in 1.600 il numero degli orfani di femminicidio, 417 solo dal 2014. Molti di loro testimoni della violenza subita dalla madre o addirittura spettatori dell’uccisione da parte del compagno. Bambini che devono riuscire a fronteggiare e convivere con quelle profonde cicatrici che scenari del genere lasciano, ma soprattutto al trauma continuo della violenza nei confronti della loro mamma, restando paralizzati ed inermi dinanzi alle botte, alle urla, ai pianti delle loro mamme. Secondo i dati, forniti qualche giorno fa da “Save the Children”, tra le donne che hanno subito una qualche forma di violenza più di una su dieci ha temuto per la propria vita o quella dei propri figli e in quasi la metà dei casi i loro bambini hanno assistito ai maltrattamenti. Il dossier sottolinea l’urgenza di una strategia per contrastare questo tipo di violenza. Infatti, Save the Children, ha fatto partire nei giorni scorsi, un’iniziativa di sensibilizzazione denominata “abbattiamo il muro del silenzio” per accendere i riflettori su quella che possiamo definire una piaga invisibile che ha conseguenze devastanti sulla vita dei minori. Così a Roma, a Palazzo Merulana, è stata esposta un’installazione “immersiva”: “la stanza di Alessandro” per provare in prima persona il dramma che tanti bambini quotidianamente vivono. Lo sguardo di un figlio non è mai indifferente a quello che succede tra i genitori dentro casa. Ma il sistema giuridico italiano lo contempla di striscio, infatti, la violenza in presenza dei minorenni non costituisce reato. Al massimo è un’aggravante, come stabilisce la nuova legge sul femminicidio. Eppure un genitore violento sotto lo sguardo innocente dei propri figli provoca danni alla loro crescita psichica ed emotiva. Crescono covando rabbia, hanno disturbi psicosomatici: dal mal di testa al mal di pancia, ansia, spesso sono aggressivi con i loro coetanei e diffidenti con gli adulti, vivono con la paura addosso. Tutte reazioni ansiose, generate dallo stress post-traumatico. Il rischio che si corre è che da adulti riproducano lo stesso modello familiare, passando così da vittime ad autori di molestie. Ecco perché nel momento in cui si aiuta la madre vittima di gesti violenti, bisogna supportare anche il bambino che ha assistito al vissuto traumatico attraverso un nuovo percorso relazionale. Un impegno non scontato. Spesso, i tribunali per i minori, dispongono il sostegno psicologico ai figli solo se hanno ricevuto in prima persona violenze. Ciò significa che ancora non sono riconosciuti i danni gravi subiti come spettatori di aggressioni fisiche o anche di molestie psicologiche. Il quadro, dunque, peggiora. I servizi sociali, hanno il compito di garantire un legame genitoriale con il minore, ma quando il bambino è terrorizzato dal padre, si rischia solo una forzatura contro il suo volere. E’ importante, dunque, che il silenzio innocente dei bambini, diventi voce che guidi a percorsi ludo pedagogici attraverso attività ricreative, come la produzione di oggetti, scrittura di una storia mettendola in scena, cineforum, accudimento di un animale e la coltivazione di un orto insieme alle madri. Lo scopo è spezzare le catene del passato, guardando la futuro, istaurando un nuovo legame tra madre e figlio. Madri che impareranno a prendersi cura dei figli, prima erano impegnate a sopravvivere, garantendo loro le cure primarie, trascurando tutto il resto. Mentre, i bambini impareranno ad esprimere il loro mondo interiore, con le parole riporteranno i sentimento e chiederanno aiuto non più con la forza ma con la gentilezza ed il rispetto verso gli adulti. Un percorso che necessita anche del supporto e del sostegno psicoterapico, che tra l’altro necessita anche dell’autorizzazione del padre e spesso non si ottiene, nonostante si intraprenda un percorso di mediazione con lui. Progetti ludico pedagogici, sono stati attuati già in Italia e con ottimi risultati, ma si scontrano con la carenza di fondi e di strutture idonee, perché in Italia non c’è solo un vuoto normativo, ma una totale assenza di ascolto al fenomeno. Che questi nuovi dati che sottolineano un quadro di emergenza siano la molla per potenziare politiche sociali che guardino al fenomeno e ascoltino l’innocenza dei più piccoli? La speranza, quella c’è!

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“La paranza dei bimbi”, baby boss alla conquista delle piazze criminali. Come aiutarli?

untitled 2Spietati. Sfacciati. Arroganti. Parlano di soldi, di prostituzione, di armi e si impongono sulle piazze di spaccio e della criminalità organizzata. Sono i baby boss, la paranza dei bimbi, che hanno preso in ostaggio il cuore storico della città di Napoli, ma è un fenomeno che ormai coinvolge molte città d’Italia. Sono poco più che adolescenti, ventenni e controllano i quartieri della città. Vivono senza freni, pronti a tutto. Vivono di Gomorra e Scarface. Di droga e serate in discoteca fino all’alba. Guadagnano e spendono. In foto e sui social si mostrano armati e spavaldi, con una notevole fede, si tatuano santi e calciatori. Per loro, il potere si esaurisce in questi gesti ostentati. Si contrappongo alla vecchia guardia che creava imperi da proteggere da polizia e magistratura. Le nuove generazioni della criminalità non si fanno scrupoli a farsi notare. Si susseguono indagini ed inchieste che hanno l’obiettivo di puntare ad azzerare i fermenti criminali. Effervescenza che ha portato a parecchi omicidi e numerose “stese”: colpi di pistola in aria e minacciosi cortei di moto per le strade dei quartieri. Spesso impongono il loro “potere” ai commercianti della zona, arrivando a controllare i traffici di stupefacenti attraverso il sistematico rifornimento delle numerose piazze di spaccio presenti nei quartieri. Veri e propri clan di ragazzini o poco più che si occupano di agguati, violenze, le progettano, le eseguono, sino a gestire le attività di acquisto, preparazione, confezionamento e distribuzione di stupefacenti del nuovo cartello di camorra. Nei clan ognuno ha un ruolo definito, c’è il promotore e l’organizzatore dei ruoli di comando, ci sono i partecipanti, comuni affiliati, con compiti di appoggio logistico, poi i ragazzi che preparano e smistano la droga. Il guadagno è a cifre di tre zero, un vero e proprio business che li allontana sempre di più dal lavoro onesto, da una società fatta di istituzioni, diritti, doveri ed obblighi. Il guadagno facile, la sete di potere, l’essere osannati e temuti, li spinge a rifiutare una società fatta di controlli e regole, di istituzioni da rispettare, che per loro diventano solo da sfidare. Tra loro si creano patti e giuramenti. Una sorta di rito ufficiale li introduce all’interno del clan. Tra chi ha giurato fedeltà eterna ci sono le donne dei baby boss. Diventando le ragazze della paranza ed assistono l’organizzazione. C’è chi spedisce i messaggi, chi maneggia droga, chi si occupa del rifornimento delle piazze. In ogni caso condividono in pieno le scelte criminali dei compagni. Li assecondano. C’è chi cala il “paniere” dal balcone di casa per consegnare le dosi richieste, l’uomo raccomanda solo. Quando ci sono indagini che li investono si affidano all’omertà e all’indifferenza. Gravità e continuità di questi fenomeni connota una gravità sociale e culturale. Si tratta di ragazzi che crescono nel vuoto. Un vuoto sociale, culturale e morale. Al posto della cultura del valore c’è la cultura della strada, c’è la legge del branco. Una battaglia da combattere come tutte le altre. A Napoli, il cardinale Sepe, ha chiamato a raccolta un tavolo permanente, cercando di individuare percorsi e proposte. A rispondere per primo è stato il prefetto, che si è già attivato, ma al tavolo dovranno sedersi magistrati, il mondo della cultura, dell’università, forze dell’ordine, Regione, Comune e associazioni di genitori. L’origine è proprio nella famiglia, nel vuoto di valori, nella mancanza di senso del bene comune. Dall’ambiente giuridico viene proposta l’idea di una legge che sottragga la responsabilità genitoriale ai camorristi, seppur si tratterebbe di una soluzione estrema. Il fenomeno spesso si amplifica perché è accompagnato dalla povertà, che fa nascere l’incuria e l’abbandono a se stessi dei figli, l’evasione e la dispersione scolastica. Ma, oggi, si coniuga una povertà materiale con una povertà morale. Oltre però alle preoccupazioni e alle proposte, c’è un lavoro che è su strada, fatto di cooperative e associazioni che lavoro in campo educativo, volto ad allontanare dal potere e dalla violenza le giovani leve, per inserirli in una società che è fatta di attività, di gestione dell’immenso patrimonio artistico, o prendendosi cura dei territori agricoli oggi abbandonati, coltivandoli. E’ un popolo sociale che batte ed esiste, fatto di volontari, maestri e preti di strada che vanno a cercare i giovanissimi in difficoltà. Una vita che inizia nel solco del crimine e della violenza, ma se viene agganciata da chi ogni giorno mostra il buono che è in loro, il finale da scrivere può essere tutt’altro e gli esempi ci sono: vite salvate dalla camorra. Il carcere che si coniuga con il reinserimento sociale. La privazione della libertà come punizione per i loro reati, ma anche recupero, grazie all’attività di educatori, assistenti sociali e psicologi, che operano per creare un ponte tra il giovane ed il mondo esterno, che sia lontano dal crimine, dal senso di onnipotenza. Si lavora in primis sul minore, sulle condizioni di vulnerabilità, sulle motivazioni che lo hanno spinto a compiere il reato, per poi provare ad inserirlo nel circuito sociale attraverso il lavoro, attraverso l’aggregazione giovanile, perché solo con l’impegno, facendo leva sulle loro attitudini, sulla loro curiosità è possibile ottenere il meglio della personalità di un giovane. In molti casi, si può arrivare persino a sperimentare la mediazione penale, mettendo di fronte l’agente al soggetto che ha subito il reato, per una maggiore consapevolezza del reato commesso, ma anche per vederlo nell’ottica di un punto di ripartenza di una vita fatta di opportunità ed occasioni che la società onestamente ogni giorno mostra anche nei quartieri dove il destino dei più giovani sembra scritto già alla nascita. Insomma, come si direbbe in alcune zone del sud “da una rosa nasce una spina, da una spina nasce una rosa”.

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La maturità che spaventa. Il sogno ricorrente: rifare l’esame di maturità

untitledCuriosi ma non troppo. Ansiosi ed impauriti. Maturandi alla riscossa e Giugno è proprio il loro mese. Infatti, l’estate si apre per molti studenti con il periodo dell’anno nel quale esplode il grande argomento degli esami di maturità, portando con sé angosce, paure, rimpianti e perfino un po’ di nostalgia. Quello che è certo è che, a distanza di anni, nonostante la carriera, la professione intrapresa, la laurea sudata e raggiunta, il ricordo dell’esame di maturità è dietro l’angolo. La maggior parte delle persone si ritroverà a dover affrontare lo stesso esame di maturità all’interno dei propri sogni. Perché, parafrasando Eduardo De Filippo, nella sua celebre commedia “Gli esami non finiscono mai” e quello della maturità non si dimentica certo facilmente. Spulciando Freud potremmo collocarlo nei “sogni tipici” ovvero nei sogni che contengono fantasie collettive, sogni che almeno una volta nella vita l’essere umano farà. Il sogno dell’esame di maturità in molti è ricorrente e si presenta sotto lo stesso “copione”: nella maggior parte dei casi scopriamo per un qualche motivo di dover ripetere l’esame di Stato, o ci troviamo già nel percorso che ci porta a scuola, domandandoci perché dovremmo mai rifarlo, spesso, invece, si sogna di dover organizzare lo studio per l’esame di maturità tra il lavoro o addirittura tra gli esami universitari, altri, invece, sognano di ritrovarsi dinanzi al compito di italiano o di latino e di farsi prendere dalla “sindrome del foglio bianco”. Difficilmente nel mondo dei sogni, superiamo l’ostacolo dell’esame facilmente e molti si risvegliano in preda all’angoscia di fronte ad una prova impossibile. E così il giorno dopo ci interroghiamo sul perché continuiamo a sognarlo o che significato possa avere. I sogni tipici, come teorizzava Freud, fanno emergere, fantasie universali, legate a tematiche che in ogni cultura e in ogni tempo l’umanità ha affrontato o deve affrontare. Dobbiamo però dire che il sogno di per sé si ricollega al passato, a qualcosa di vissuto già, che rispecchia il presente, qualcosa che in qualche modo stiamo vivendo o ci ricorda l’oggi. Quindi, per la psicologia, l’esame di maturità potrebbe corrispondere ad vissuto di inadeguatezza verso qualcosa legata alla nostra vita attuale: una nuova relazione, un nuovo lavoro, impegni scolastici o sentirsi immaturi in una determinata situazione. Ma, il sogno potrebbe svelare un messaggio più profondo, legato alla nostra crescita personale: abbiamo bisogno di coraggio, di uno slancio che ci permetta di andare oltre qualcosa che oggi ci frena, nascondendo un desiderio evolutivo, di cambiamento. Sognare per quanto possa spaventare o intimorire, fa bene in quanto fa riemergere paure e incertezze intime, sognare fa rievocare, e non sempre hanno bisogno di essere necessariamente interpretati, non va ricercato costantemente un significato, perché la vita va vissuta, seppur con molti impedimenti e prove difficili da superare, e forse per molti, la maturità è stata la prima vera prova di maturità, quel passo- slancio che ci ha concessi di entrare all’interno della società, di fare scelte di studio e lavorative personali, scelte che hanno disegnato il futuro e l’aspetto professionale di ognuno di noi, pur con errori e perplessità. Guardandolo con occhi diversi, il sogno della maturità, nasconde anche, un desiderio nostalgico, di spensieratezza e di gioventù, di sana incoscienza, di leggerezza, che -siamo sinceri – da adulti non c’è più. L’esame di maturità è il “rito di passaggio”, che  con le sue paure porta anche tanti rimpianti. Seppur l’adolescenza da sempre viene raccontata come una fase di crescita delicata e critica, è proprio in quegli anni che si vivono esperienze importanti: il primo amore, le prime prove scolastiche, le emozioni delle competizioni sportive, le prime amicizie profonde, le prime vere scelte sul proprio futuro: dal corso di studio a scuola, al lavoro dei sogni che si rincorre. Sono ricordi che appartengono alla vita di ognuno di noi che hanno novità e forza, e qualche volta la nostalgia la sente anche il nostro inconscio. Pur consapevoli che la “Notte prima degli esami” arriva per tutti, anzi, forse come racconta nella sua commedia De Filippi, gli esami non finiscono mai e di notti prima degli esami ne vivremmo molte, con la consapevolezza di Luca, uno dei protagonisti del film “Notte prima degli esami”: “E così è arrivata la notte prima degli esami. Non era come me l’aspettavo. Non c’erano più i miei amici non c’era più neanche Azzurra. Eravamo rimasti solo in due: io e la sfiga”.

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